Il
caso esplose per un’affermazione fatta da @ferrarailgrasso nel corso di una
trasmissione diretta da @ementana: «La mafia – aveva detto – è l’essenza della
Sicilia». Il primo fu subito fatto oggetto di commenti assai risentiti, e
qualcuno arrivò agli insulti, che in breve piovvero anche sul secondo, per
averglielo lasciato dire, e per aver preso le sue difese. Mentre @ferrarailgrasso prendeva a gongolare, @ementana lamentava: «Il numero di tizi che si esaltano a
offendere su Twitter è in continua crescita». E aggiungeva: «Calmi, tra poco ce
ne andremo, così v’insulterete tra di voi». E così fu, perché nel rapido
volgere di una mezz’ora decise di dare «un saluto finale a tutti», e qualche
giorno dopo chiuse l’account. Una perdita che lasciò un vuoto enorme, ci sono follower che ancora non sanno darsi pace.
Non
mi era chiaro chi fosse il «noi» di quel «ce ne andremo», avevo solo una mezza
idea. Non era un plurale majestatis, innanzitutto. E non significava «io e
@ferrarailgrasso», d’altronde sarebbe stato fuori luogo esprimersi anche a suo
nome per una decisione tutto sommato impegnativa sul piano personale. No,
il «noi» significava «noi vip», «noi che, pur avendo occasioni privilegiate per
esprimere opinioni e potendo fare a meno di porci il problema se e quanto siano
condivise, non ci sottraiamo al confronto con chi vuole interloquire, fosse
pure per sollevare obiezioni». Era solo un’ipotesi, ripeto, e non avevo
elementi significativi per supportarla. E tuttavia quel «ce ne andremo» non
suggeriva un dolente ritrarsi come per la cocente delusione data da una dura prova
di immeritata ingratitudine? Mi sembrava di sentirci dentro un «così
ingenerosamente ci ripaghi, o volgo, della confidenza che ti abbiamo concesso?».
Il
volgo, si sa, è carogna e oggi potrebbe chiedergli coerenza: «Dopo la camionata
di merda che ieri sera Giuliano Ferrara ti ha scaricato addosso, lascerai pure
la tv? O ti limiterai a non condurre più talk show? O almeno eviterai di
invitare Giuliano Ferrara nelle trasmissioni che condurrai di qui in poi?».
Sarà carogna, il volgo, ma ha pure poco sale in zucca. D’altronde, in tutte le
occasioni che poco più di un mese fa gli furono offerte per spiegare le ragioni
della decisione di abbandonare Twitter, Enrico Mentana non disse che non erano stati
gli insulti in sé a ferirlo, ma il fatto che in gran parte fossero anonimi? Non
era vero, perché la gran parte dei follower che lo avevano fatto oggetto di
insolenze e di offese non avevano twittato celandosi dietro un nickname, e
comunque già allora non sembrava affatto una spiegazione convincente, perché
per risalire al nome e al cognome di chi ti insulta sul web, vere o false che
siano le generalità dichiarate, ci vuole poco o niente, basta volerlo. Basta
volerlo e puoi bloccarlo.
Adesso,
però, nella certezza che quanto è accaduto ieri sera non lo spingerà ad alcuna
decisione fatale come quella di un mese fa, è finalmente chiaro cosa intendesse,
allora, per anonimato e quale linea marcasse rispetto al volgo: l’anonimo, per
Enrico Mentana, non è il tizio del quale non puoi sapere nome e cognome, ma il
tizio il cui nome e cognome non hanno alcuna notorietà, il tizio qualsiasi.
Concludendo,
quel «tra poco ce ne andremo, così v’insulterete tra di voi», sottintendeva: «ce
ne andremo dove gli insulti sono tollerabili perché scambiati tra pari».
L’intollerabile è che lo stesso insulto che ti rivolge Giuliano Ferrara ti sia rivolto da uno qualsiasi. E qui,
allora, occorre sollevare una questione un po’ più generale.
Ma
un vip che twitta (che ha un blog aperto a commenti, che apre una pagina su Facebook, ecc.) – esattamente – cosa vuole? Che cerca? In altri termini: cosa
muove uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un cantante ad
offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione sul web?
Andiamo per esclusione. Un vip non dovrebbe essere
affetto dalla smania che consuma il volgo alla disperata ricerca di
un’occasione per affiorare con la punta del naso dall’anonimato – chissà
perché, poi, così spesso dietro un nickname – e per dar sfogo in questo modo a frustrazioni
di ogni sorta. Tanto meno mancano occasioni di socializzare, al vip, anzi,
quasi sempre ne ha di eccezionali, quantitativamente e qualitativamente.
Insomma, non twitta per vincere la solitudine. Né lo fa perché gli mancano
opportunità di comunicare: a differenza di chi ha solo il web per aprir
bocca, a uno scrittore, a un attore, a un politico, a un giornalista, a un
cantante sono offerte di continuo mille occasioni per esprimere opinioni e giudizi.
E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi pubblicamente, oltre che in cambio di un compenso, anche a gratis? Dalla
prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato – ogni dichiarazione
di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di ammirazione o di affetto – si
potrebbe supporre sia per vanità, ipotesi che non vacilla neppure al constatare
che spesso i vip retwittano anche gli insulti ricevuti, perché si sa che i meccanismi
della vanità spesso sono perversi.
Ma la conferma che il vip frequenta i social
network per mera ingordigia di attenzioni, travestita però da quel bisogno di
contatto col pubblico che fa tanto democratico e alla mano, e che perciò è un
efficace strumento di autopromozione professionale, oltre che di fidelizzazione
dei fan, la troviamo proprio in Enrico Mentana (Corriere della Sera,
12.5.2013). «Leggersi e scriversi tra amici e colleghi» non gli bastava.
Comunicare a «sconosciuti senza volto» gli dava un senso di «solitudine». In Twitter
trovava «uno strumento efficace di confronto, di ascolto, di informazione», che
gli ha dato modo di incontrare «tanta gente che ha voglia e argomenti, che vuol
sapere, capire, comunicare». Poi, all’improvviso, ha scoperto che ci sono pure
quelli che «lo usano per attaccar briga o insultare o sfogarsi col primo che
capita a tiro», vili che si nascondono dietro «lo pseudonimo col quale firmano
le loro ribalderie», «minoranza rumorosa, impegnata nella diffusione di una
regressiva volgarità e nelle scorribande alla ricerca del bersaglio di turno da
demolire», che quasi sempre è un vip, perché, «come ha scritto ieri Roberto
Saviano su la Repubblica, “in realtà l’insultatore vuole vivere della luce
riflessa dell’insultato”».
Tutto vero, probabilmente. Anzi, diciamo che è tutto
vero e basta, senza il probabilmente. Diciamo pure che è tutto vero e non è affatto bello. Aggiungiamo pure che chiunque si senta offeso può denunciare
l’offesa. Ma il vittimismo, come di chi lamenti un torto che non ferisce la dignità di una persona ma l’autorevolezza di un personaggio, anzi, più la seconda che la prima, ritengo sia altrettanto intollerabile. Chi ha una torre d’avorio vi stia rintanato e si limiti a sguinzagliare i mastini se qualche scostumato lancia i sassi contro le finestre. Se decide di uscire per fare due passi, sappia che a tutela delle offese alla sua persona non ha, né può pretendere, nient’altro che la legge uguale per tutti.