sabato 10 agosto 2013

Mario Rossi? Giuseppe Verdi?


Tommaso Labate ci offre l’occasione di affrontare una questione assai delicata sul piano morale, per certi versi affine a quella che si pone quando muore un pezzo di merda: rimane il pezzo di merda che era o si deve chiudere un occhio, cioè una narice? Se in quel caso pare debba prevalere il «nisi bonum de mortuis», qui Labate sembra voglia consigliarci la solidarietà umana nei confronti del condannato, anche quando la condanna sia per reati abietti. E non si limita a dissuaderci dal maramaldeggiare, sia chiaro, ci suggerisce proprio la solidarietà umana o, in subordine, un po’ d’indulgenza alla sua solidarietà umana nei confronti del pezzo di merda.
«Dalle parti mie – scrive – c’era tanti anni fa un uomo molto potente e in odore di massoneria. Un uomo perennemente circondato da un inimmaginabile codazzo di gente, gente povera e gente ricchissima, a cui verosimilmente elargiva nel primo caso elemosine, nel secondo favori un po’ più consistenti». Qui è opportuno fermarci un attimo per cercare di dare contorni più netti a questo personaggio. Labate è nato nel 1979 a Marina di Gioiosa Jonica, un paesino di poco più di 6.000 anime, in provincia di Reggio Calabria, che da almeno 40 anni è in mano a due ’ndrine, quella dei Mazzaferro e quella degli Aquino, che si contendono da sempre, a suon di morti ammazzati, un imponente giro di malaffare (estorsione, usura e traffico di stupefacenti) con tentacoli ben radicati in Lombardia, in Liguria, in Germania e in Belgio. Che tipo di profilo assume, in un contesto del genere, un personaggio descritto come «un uomo molto potente»? È azzardato dedurre che si trattasse di Vincenzo Mazzaferro o di Salvatore Aquino? E perché Labate dice che era «in odore di massoneria» e non fa alcun cenno alla ’ndrangheta? Una mezza idea ce l’ho, ma la esporrò alla fine, d’intanto chiariamo che tra esponenti della famiglia Mazzaferro e la massoneria deviata sono documentati legami tra gli ultimi anni ’80 e gran parte degli anni ’90.
«Ero bambino – prosegue Labate – ma ricordo come se fosse oggi il disprezzo, il distacco umano e la profonda antipatia che mio padre nutriva nei confronti di questa persona. Come a dire, “neanche un caffè”. Una volta, però, questo signore finì in una clamorosa inchiesta della magistratura che ne azzerò in un colpo solo la mastodontica corte di leccapiedi e pure il potere». Si tratta dell’operazione «Leopardo» (1992) o dell’operazione «Fiori della notte di San Vito» (1994)? Non ha importanza, in fondo. Proseguiamo nel racconto di Labate: «La sera della prima vigilia di Natale da quel tracollo, ma questo l’avrei saputo dopo, mio papà – che con lui, prima, “neanche un caffè” – comprò una bottiglia di champagne e andò a trovarlo per gli auguri. Immaginava una scena, mio papà. E infatti se la ritrovò davanti proprio come l’aveva pensata. Di fronte a quel portone in cui nelle precedenti vigilie di Natale la gente s’accalcava, non c’era più nessuno. Manco un’anima. Nessuno. Solo mio papà. E la sua bottiglia di champagne. Su quella persona mio papà non ha mai cambiato il suo giudizio precedente. E penso che, dopo quella volta, non si rividero più».
Qui, alla luce di ciò che Labate ha omesso, è superfluo ogni commento. «Non c’era più nessuno», ma in causa si deve chiamare solo l’umana ingratitudine? Nessuna attenuante per l’«inimmaginabile codazzo di gente» che prima circondava l’«uomo molto potente»? Diamo per scontato che tutti sapessero da sempre chi fosse, che genere di affari trattasse, e che solo «mio papà» fosse da sempre riuscito ad avere nei suoi confronti un atteggiamento moralmente ineccepibile: ma fu solo l’umana ingratitudine a fare il deserto «di fronte a quel portone»? Sul piano morale possiamo condannare un cliens che abbia paura di essere considerato socius dalle forze dell’ordine che sorvegliano l’abitazione dell’indagato? Chi può permettersi di andare a stappare una bottiglia di champagne con lui? Solo chi non è mai stato cliens, è evidente. Rimane tuttavia da stabilire se un tal gesto di solidarietà con chi sia caduto in disgrazia possa essere giustificato di là dai motivi che hanno provocato la caduta. «In odore di massoneria», forse. Ma reo di crimini odiosi?
Labate scrive: «Io so che a tutti quelli che certe volte sbarrano gli occhi e mi chiedono “come c...o sei fatto?” e “che cos’hai nella testa?” vorrei raccontare questa storia. Quest’insegnamento che ho preso e che non dimenticherò mai. Questa cosa di mio padre che avrei fatto nello stesso identico modo. E che rifarei di fronte a un portone deserto davanti a cui prima si accalcavano le masse, che rifarei alla vigilia di Natale, che rifarei comprando una bottiglia di champagne, che rifarei pur conservando intatto il giudizio precedente sul Re corrotto e osannato, poi caduto e abbandonato. Che rifarei si chiami esso Mario Rossi, Giuseppe Verdi o Silvio Berlusconi».
Non avevate immaginato dove volesse andare a parare? Siete degli ingenui, bastava sentire come montava il climax. Via, tutti a Palazzo Grazioli, a Natale. Tutti con una bottiglia di champagne. In cambio, poi, Labate ci fa il favore di dirci nome e cognome del tizio col quale brindò suo papà. Era Mario Rossi? Era Giuseppe Verdi? 

venerdì 9 agosto 2013

Antonio Esposito, napoletano

La bassezza morale e intellettuale dei servi di Berlusconi ci offre orrori sempre nuovi. Li abbiamo visti darsi a crisi isteriche ogni volta che veniva resa pubblica una telefonata del loro padrone a questa o a quella mignotta, a questo o a quel magnaccia: si trattava di intercettazioni ordinate dalla magistratura e rese pubbliche dopo essere state messe agli atti, ma il vulnus alla privacy li faceva andare in convulsioni. Fanculo alla privacy, ora. Ora, hanno la registrazione della telefonata intercorsa tra un cronista de Il Mattino e il presidente della sezione della Corte di Cassazione che ha condannato in via definitiva il loro padrone, ed è gara a chi sa spremerne di più.
Registrazione effettuata dal primo ad insaputa del secondo, e della quale è stata resa pubblica solo una parte, quella che avrebbe dovuto dimostrare la fedeltà al testo pubblicato dal giornale di Caltagirone, e che invece ha dimostrato quasi da subito che si era in presenza di una palese manipolazione. Un trappolone nel quale il giudice è caduto assai ingenuamente, niente di più, niente di meno. Ed essendoci davvero poco, praticamente niente, per inficiare la sentenza del 1° agosto, eccoli affannarsi, i servi, sul dialetto di Antonio Esposito, come sul colore dei calzini di Raimondo Mesiano: il giudice e il giornalista si conoscono da oltre trent’anni, sono entrambi di Napoli, ma il fatto che la telefonata sia in napoletano è occasione di un vero e proprio processo pubblico.
«Non badiamo ai contenuti, teniamoci alla forma», scrive Annalisa Chirico in una lettera a Il Foglio, con ciò palesando che la telefonata può al massimo tornare utile per una character assassination. «La forma è francamente imbarazzante», scrive la Chirico. Scrive che «quella cadenza va ben olre l’elegante e sanguigna inflessione del fior fiore dell’intellighenzia campana» e che «in quel goffo e involuto eloquio non vi è traccia dell’accento di un non meno partenopeo Gaetano Filangieri o Giambattista Vico». Chissà come può esserne così sicura, visto il Filangieri e il Vico non ci hanno lasciato neanche un file audio. Ma è che stigmatizzare l’uso del dialetto senza salvare il dialetto in sé le avrebbe fatto correre il rischio di sembrare un tantinello razzista, e non sia mai, meglio arrampicarsi sul ridicolo: la signorina ha prova che il Filangieri e il Vico avevano tuttaltro accento, informatene lAccademia di Glottologia.
Il dialetto di Antonio Esposito, al parere della improvvisata linguista (sia detto senza doppio senso), somiglia piuttosto a quello di Felice Caccamo, la celebre maschera napoletana interpretata da Teo Teocoli. È chiaro che a condannare in via definitiva il datore di lavoro della Chirico, che per inciso lavora per Panorama ed è stata la starlette dell’happening fogliante «Siamo tutti puttane», non è stato un giudice, ma una macchietta.
Sedicente liberale, la Chirico, ma Gaetano Salvemini ci ha avvisati: «A chiamarvi liberale correte il rischio di vedervi confuso con certa gente con cui non vorreste avere nulla da fare neanche se il loro aiuto dovesse scamparvi dalla morte» (Italia scombinata, Einaudi 1959). 

martedì 6 agosto 2013

[...]

La Corte di Cassazione si pronuncia sulla legittimità e non sul merito di una sentenza. Silvio Berlusconi «sapeva» o «non poteva non sapere»? È questione che attiene al merito e le motivazioni della sentenza di primo grado, del tutto recepite da quelle della condanna in appello, dicono: «Sapeva». Pag. 91, 2° capoverso: «Vi è la piena prova, orale e documentale, che Berlusconi abbia direttamente gestito, ecc.». Stessa pagina, dal 6° all’8° capoverso: «Berlusconi rimane al vertice della gestione dei diritti, posto che, come ha dichiarato il teste Tatò, Bernasconi rispondeva a Berlusconi senza nemmeno passare per il C.d.A. e nessuno ha riferito che tra Bernasconi e Berlusconi vi fosse un altro soggetto con poteri decisionali nel settore dei diritti, neppure dopo la quotazione in borsa e la c.d. “discesa in campo” di Berlusconi. Lo stesso ha dichiarato il teste Tronconi. Inoltre Berlusconi aveva rapporti diretti con Lorenzano, che operava a fianco di Agrama e Cuomo, come risulta dalla deposizione di vari testi che hanno riferito di incontri tra i due che non potevano che riguardare questioni attinenti ai diritti». Tizio, Caio, Sempronio… Ben più che prova logica, dunque. Ma tutto questo, dicevamo, attiene al merito.
È del tutto pacifico, dunque, che, quando il presidente della sezione della Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso presentato dai difensori di Berlusconi si intrattiene al telefono col giornalista de Il Mattino sul merito, non sta parlando della sentenza che ha pronunciato il 1° agosto, ma delle due che l’hanno preceduta in primo e in secondo grado: in pratica, non c’è neppure la possibilità che in qualche modo la infici palesando un qualche vizio di pregiudiziale parzialità. Probabilmente avrebbe fatto meglio a non concedere l’intervista per non prestarsi alle polemiche, che non era difficile prevedere sarebbero esplose comunque, qualunque cosa avesse detto, ma il tono colloquiale e assai poco formale col quale si intrattiene con chi lo intervista è prova che sul punto sia stato guidato con malizia.  


La supercazzola del katechon

Krisis, Dallo Steinhof, Feuerbach contro Agostino d’Ippona, Icone della legge, L’Angelo necessario, Dell’Inizio, L’Arcipelago, Della cosa ultima… Ho letto una dozzina di volumi di Massimo Cacciari, senza però mai trovarci niente di speciale, null’altro che glosse di glosse, ma questo probabilmente è dovuto solo ai miei limiti, e mi sono fermato a Tre icone, che è del 2007, abbandonato ogni volta che provavo a riaprirlo, ogni volta dopo poche pagine: non riuscivo a concentrarmi sul filosofo, mi era impossibile prescindere dalle sue comparsate televisive, di regola degeneranti in risse. Leggevo, ma mi tornava in mente «quella volta che a Ottoemezzo…», «quella volta che a Servizio pubblico…», e mi veniva da ridere, e non riuscivo a proseguire: mi sembrava più serio il Massimo Cacciari di Maurizio Blondet che quello originale. È così che qualche mese fa, in un momento di uggia, ho deciso di comprare il suo ultimo volume, Il potere che frena (Adelphi 2013), giusto per tirarmi un po’ su. Sarà che l’uggia era leggera, ma ho cominciato a ridere da subito, appena ho letto il titolo del primo capitolo: Il problema della teologia politica.
Ora, se il mio lettore è del tutto a digiuno sulla questione, converrà dire che di teologia politica si parla da un bel po’ di tempo, ma senza che si sia mai trovato accordo su cosa sia esattamente. Politica della teologia? Teologia della politica? Né l’una, né l’altra cosa, né entrambe. Cioè, per meglio dire, entrambe, forse sì, ma in misura anche sensibilmente diversa da autore ad autore: una storia semasiologica, quella della teologia politica, che sembra fatta apposta per tenderci tranelli ad ogni passo. Parliamo della possibilità di trattare razionalmente il fondamento trascendente della relazione che in senso lato chiameremmo politica, e senza il quale la relazione stessa è persa? O piuttosto parliamo della cogenza che fa del numinoso un evento necessariamente immanente, sennò insignificante per pletora di significati? Non si sa. Koselleck non si sbilancia, Ritter dice e non dice, Metz non nega e non afferma. Certo, per teologia politica non è da intendersi la theologia politike di cui parla Agostino nel De Civitate Dei, e tuttavia è proprio da lì che prende inizio la discussione intorno al katechon, che sembra stare al centro della questione, almeno per come è stata riformulata ai nostri giorni, meno di cent’anni fa, da Carl Schmitt (Nomos der Erde).
Nell’illustrarla torna utile Roberto Esposito: sei o sette paginette (Due, Einaudi 2013 – pagg. 83-89) che valgono assai più delle 217 di Massimo Cacciari, 70 delle quali, però, sono preziose, perché raccolgono i commenti, da Ireneo a Calvino, sull’enigmatico riferimento di Paolo (2 Ts 2, 1-12) al «potere che frena». Rovello di titani, non è per dire, ma in tutti viene meno la più banale delle considerazioni: le lettere di Paolo erano indirizzate a illetterati, erano bollettini propagandistici nei quali un termine oscuro o ambiguo poteva tornare buono proprio perché oscuro o ambiguo. La comunità cristiana di Tessalonica smaniava perché sentiva prossima la fine dei tempi, che ovviamente era destinata a farsi attendere, e voilà, da genio, Paolo se ne esce con la supercazzola della dilazione che verrà meno «a suo tempo», e che accadrà ognun lo dice, ma cosa sia nessun lo sa. Si dirà che è l’impero romano, che poi cade, ma l’Anticristo non arriva. E allora unaltra supercazzola: il katechon è la Chiesa. Ma poi la secolarizzazione fa alla Chiesa più di quanto Odoacre riesca a fare all’impero romano, e allora c’è bisogno di un’altra supercazzola: il katechon è l’amministrazione corrente, lo Stato laico. Sempre katechon rimane, ma con scappellamento a destra.    

«Guerra civile»



«Ne cherchez jamais à faire autre chose que l’opéra buffa, ce serait forcer votre destinée que de voulir réussir dans un autre genre… L’opéra seria, cela n’est pas la nature des Italiens». Non è certo che Beethoven abbia detto proprio così a Rossini (pare che le memorie di Edmond Michotte siano un po’ romanzate), ma ogni volta che sento parlare di «guerra civile» in Italia – e ultimamente se ne riparla, anche con qualche compiaciuta insistenza – penso che le cose stiano proprio a questo modo: il dramma non è categoria che si attaglia a les Italiens, siamo plebe che dà il meglio di sé quasi esclusivamente nella farsa.
Sarà che hanno tutte carattere esogeno, le «guerre civili» che si sono combattute in Italia, almeno così dice Virgilio Ilari (Guerra civile, Ideazione editrice 2001), e argomenta in modo convincente. D’altra parte non è fine darne una ragione appellandosi al «carattere nazionale», o comunque non è scientifico (se vogliamo difendere la dignità di scienza che in tanti negano alla storia), peggio ancora tirare in ballo la «destinée» (il revival spengleriano si è esaurito già da anni).
Niente, siamo costretti a sentirci dire che c’è in atto una «guerra civile» – la recrudescenza di una antica «guerra civile», per meglio dire – e in scena sfilano solo maschere grottesche, caricature belliche, grugni feroci che vorrei vederli a tentare quello che minacciano: un ceffone, e Brunetta comincia a strepitare «mamma, mammina, m’han fatto la bua!»; alla prima raffica di mitra al polpastrello della Santanché viene la vescichetta, se non si spezza l’unghia o l’intonaco del soffito non la seppellisce; Verdini e Capezzone si arrendono al primo attacco; Schifani sviene prima; Cicchitto somatizza e corre al cesso; finisce che il vero eroe sarà il barboncino, che abbaierà fino alla fine (sull’elicottero non c’era posto, e pure la Pascale l’ha trovato a stento, ché come fidanzata del satiro che è riuscito a mettere la testa a posto già non serviva più da mesi).
Non che nel campo avverso spicchi un Cuordileone. Ma ve lo immaginate Civati sulle barricate? E Scalfarotto? Roba di carta, la «guerra civile».

[...]    

«Non è un addio», ho scritto al cosiddetto «passo indietro» che Berlusconi fece il 25 ottobre dell’anno scorso. «Non è un addio e non è neppure una rinuncia alla leadership, ma solo l’annuncio che la eserciterà in modo obliquo, perciò ancor più spregiudicatamente, se possibile»; e concludevo: «Rimango dell’idea che ho ripetutamente espresso su queste pagine: era necessaria la sua eliminazione fisica, ora è troppo tardi». Nel caso ci fosse stato un rischio reale di «guerra civile», ovviamente, ma non c’è mai stato, dunque non è mai stato necessario toglierlo di mezzo. Un treppiede, una statuina del Duomo di Milano, ma in fondo erano gesti di affetto. Era in programma la farsa, l’opera buffa che va in scena in questi giorni, non potevamo perdere un protagonista, il protagonista. Ma dobbiamo crederci: dobbiamo credere che questa sia davvero una cruenta faida fratricida, sennò ci scapperebbe da ridere.  

mercoledì 31 luglio 2013

venerdì 26 luglio 2013

«Mi pare che in Beethoven manchi il ritmo»

Albert Willem de Groot ha segnalato una cinquantina di significati diversi del termine «ritmo» (Der Rhythmus) ed Edgar Willems è arrivato a contarne ben quattrocento (Le rythme musical). E dunque a cosa fa riferimento, Giovanni Allevi, quando afferma: «Mi pare che in Beethoven manchi il ritmo»? Parla della strutturazione, dello sviluppo o della periodicità? Fa forse riferimento al «metro», che però è solo uno degli elementi dell’organizzazione della durata? «Il ritmo non è un concetto univoco, ma un termine generico – scrive Paul Fraisse (Le structures rythmiques) – sicché solo l’analisi del testo musicale può individuarne le componenti dando ad esse unità gerarchica», e Allevi non cita una composizione in particolare, dice «in Beethoven», come se la mancanza di «ritmo» sia una caratteristica di tutta la sua produzione: forse vuol dire che in lui non riesce ad individuare equivalenza di durata tra le parti che confluiscono nella linea melodica? Può darsi, perché aggiunge che «il ritmo è elemento che manca [anche] nella tradizione classica [complessivamente presa in considerazione(?)]» e che ha pienamente afferrato cosa sia, il «ritmo», solo dopo aver lavorato con Jovanotti. L’avesse detto Guia Soncini, la questione non si porrebbe, ma Allevi ha studiato in conservatorio e dovrebbe sapere che quel dum-dum che amplifica il tic-tac del metronomo è peculiarità di certa musica – volendola considerare tale – ma che ce n’è altra che il battito, il respiro, l’onda di vita che l’attraversa e la muove, l’ha dentro, e da lì dentro le dà forma e andamento, anche facendo a meno di una linea di bass & drum. E allora che cazzo significa – esattamente – «mi pare che in Beethoven manchi il ritmo»? Domande che nessuno gli ha rivolto. D’altronde la sua uscita fa il paio con le reazioni che ha suscitato in chi di Beethoven conosce tutt’al più le prime cinque battute della V Sinfonia, l’An die Freude della IX nell’arrangiamento di Wendy Carlos per Clockwork Orange (Stanley Kubrick, 1971) e forse – dico forse – l’attacco di Für Elise e qualche passaggio della Mondscheinsonate. Il tutto s’incastona a meraviglia in un’Italia in cui solo l’analfabetismo musicale è più diffuso della propensione a polemizzare senza argomentare: solo in Italia un compositore come Giovanni Allevi poteva essere dapprima salutato come un genio, e poi trattato peggio di un cane rognoso, per essere eventualmente riconsiderato un genio dopo la morte, se mai morisse presto, meglio se per leucemia o per overdose; e solo in Italia l’ignoranza riesce a farsi così bene scudo dei luoghi comuni, dichiarandoli territori sacri, intangibili e dunque impenetrabili, perciò da rispettare, ma tenendosene alla larga. Avesse detto che in Hummel manchi il ritmo, affermazione assai più temeraria di quella analoga che Allevi ha fatto per Beethoven, chi lo avrebbe contestato? Ma Beethoven è Beethoven: per la plebe cui da almeno vent’anni la scuola d’obbligo non dà più alcun rudimento di educazione musicale, Beethoven è intoccabile. Nessuno che abbia chiesto ad Allevi di spiegare cosa intendesse per ritmo, visto che si tratta di uno dei concetti più controversi e dibattuti nella storia della musica: tutti a saltargli addosso come furie, come se di Beethoven fossero consumatori a colazione, a pranzo e a cena. Peggio, come se fossero sentinelle di guardia al suo mausoleo. Il punto più basso, poi, si è toccato col video che il maestro Giuseppe Maiorca ha dedicato, in mutandoni da combattimento, «a tutti quei cretini che pensano che Beethoven non abbia ritmo»: un’esecuzione del quarto movimento della Sonata n. 18 che per svergognare Allevi sembrava suonata da Jovanotti. Roba che avrebbe fatto esclamare a Richter: «Basta! Questo Beethoven ha troppo ritmo!».  

giovedì 25 luglio 2013

[...]

Perdenti, dunque vincitori



Vent’anni fa veniva dato alle stampe The Culture of Complaint, che l’anno dopo arrivava in Italia, per i tipi di Adelphi, con un titolo che già dava un’idea del tipo di fortuna che cercava qui da noi, e che in sostanza prefigurava la differenza di stile tra la polemica mossa al «politicamente corretto» di qua e di là dall’Atlantico. Non che «piagnisteo» tradisse il senso di «compliant», infatti, ma dava una connotazione caricaturale a «lamentela», cercando – per trovarla con facilità – una legittimità alla «scorrettezza» come arma polemica.
I risultati sono nei fatti: mentre negli Stati Uniti la critica al «politicamente corretto» ha prodotto una riflessione seria anche laddove si limitasse a usare i mezzi della satira di costume, qui da noi è diventato un esercizio coatto, spesso becero, anche quando ad applicarvisi erano nomi d’un qualche peso. In tal senso potremmo dire che con la morte di Giorgio Gaber, che d’altronde aveva anticipato di almeno due o tre lustri le riflessioni di Robert Hughes, peraltro con intuizioni che restano folgoranti anche a così lunga distanza, l’Italia ha perso il solo critico del «politicamente corretto» che abbia mai avuto, per lasciare il campo a incursioni squalliducce, velleitariamente provocatorie, quasi sempre volgari, che si sono pressoché esaurite nel dare del «frocio» a un omosessuale, nel mugugnare per l’odore di kebab nei nostri centri storici e nel dichiararsi felicemente incompetenti dinanzi all’arte contemporanea.
Se la critica al «politicamente corretto», insomma, era una buona occasione per il pensiero conservatore, in Italia è stata sprecata riducendola ad una forma intrattenimento che tradiva perfino il movente liberatorio per insterilirsi in tic nevrotico. Questo, quando si trattava de Il Foglio, per buttare un occhio alla stampa, perché con il Giornale o con Libero, si riusciva a scendere anche più in basso. D’altra parte accade sempre così con quello che arriva dall’altra sponda dell’oceano: si copia, ma male. E basta rileggere La cultura del piagnisteo vent’anni dopo per fare una scoperta che tutto sommato è sconvolgente: se «la nuova sensibilità decreta che i nostri eroi saranno solo le vittime» (pag. 23), il ruolo spetta di diritto agli eroicomici disadattati alla modernità, che dopo aver tentato invano la via del politically uncorrect come momento di resistenza e di ribellione, possono dichiararsi perdenti, dunque vincitori.       

venerdì 19 luglio 2013

Consigli a Pippo


«Ti vergogni se ti chiamo Pippo?»
Massimo Troisi

Per avere un’idea plastica del degrado in cui versa la politica in Italia basta pensare al fatto che il meno peggio sulla piazza è quello schifo del Pd nel quale quello che fa meno schifo è Pippo Civati. Dico: Pippo Civati. Ecco, dunque, che a voler chiacchierare di politica senza essere aggrediti dalla nausea mi tocca parlare di lui.
A pelle mi è simpatico, Pippo, molto simpatico. Anzi, direi di più, ha quasi un che di familiare, sarà che mi rammenta quel fessacchione di Mimmo Miragliuolo al quale in prima media avevamo fatto credere che normalmente il cazzo avesse l’unghia, godendo come pazzi a vederlo seriamente preoccupato che il suo non l’avesse, ma a millantarne una bella grossa, quasi un artiglio. Bene, oggi su Sette c’era un’intervista a Pippo, e su quella mi intratterrò. Non per fargli le pulci, però, piuttosto per dargli dei consigli. Come a prenderlo in disparte per dirgli: «Stai tranquillo, Mimmo, si scherzava: normalmente il cazzo non ha l’unghia».
In primis, dire sì a Vittorio Zincone: grosso errore, Pippo, Zincone è cattivo come un ragazzino delle medie. E infatti, non so se te ne sei accorto, l’intervista aveva il chiaro scopo di ridurti a macchietta. C’è riuscito solo a metà, perché tu hai tirato fuori l’artiglio, ma «i suoi miti giovanili?», «il film preferito?», «il libro?», «la canzone?» - non ti sei accorto che ti trattava da adolescente al quale si chiede: «Mi fai sfogliare la tua Smemoranda?». Mai più, Pippo, sennò ti veltronizzeranno per l’eternità.
In secondo luogo, la foto che corredava l’intervista. Cazzarola, Pippo, non sei di primo pelo, dovresti sapere che, quando il fotografo si china per scattare una foto dal basso verso l’alto, sorridere e incrociare le braccia fa salumiere sulla soglia del negozio.
Il sorriso, poi. Non che un politico non debba sorridere, per carità di Dio, ma c’è sorriso e sorriso. Hai labbro inferiore carnoso e commissure labiali accentuate: stira di più quel cazzo di orbicolare, quando sorridi, altrimenti sembri Winni the Pooh.
La frangetta, poi, vogliamo finalmente parlare di quella stracazzo di frangetta? A parte il fatto che ti si confonde con la Serracchiani, ma hai l’arcata sovraorbitaria molto accentuata e  le sopracciglia chiare, non ti accorgi che il tutto ti dà facies da microcefalo? Via la frangetta, Pippo, fronte libera, taglio severo e basetta alta.
Per finire: le camicie a righini sono d’un triste…     

giovedì 18 luglio 2013

Varie


Non so se sia ancora in catalogo, ad ogni buon modo ve lo consiglio perché si tratta di un libro eccezionale. Parlo de Il cono d’ombra di Franco Bandini (SugarCo, 1990), una minuziosa disamina dell’intricatissimo groviglio dei servizi segreti italiani, sovietici, tedeschi, inglesi e francesi nel quale venne a incastrarsi l’assassinio dei fratelli Rosselli, nel 1937. Per chi ha letto Vita di Carlo Rosselli di Aldo Garosci (Vallecchi, 1973) sarà un duro colpo sollevare il velo della leggenda e Il conformista di Moravia sembrerà d’un tratto un manualetto di disinformazione sul fascismo.

Un’altra lettura che consiglio è quella di un libricino che raccoglie i contributi di Donatella Di Cesare, Fabio Milazzo, Laura Cervellione, Corrado Ocone, Lorenzo Magnani e Simone Regazzoni sul Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris: Il nuovo realismo è un populismo (il melangolo, 2013). Una stroncatura senza possibilità di appello. Bene, fanculo a Ferraris.

La rivolta del vescovo Lefebvre di Ugo Ronfani (Pan Ed., 1977) contiene in versione pressoché integrale il discorso che l’«antipapa di Ecône» tenne l’anno prima nel Palazzo dello Sport di Lilla e che segnò la rottura con Roma. È un riandare alla fonte primigenia di una querelle che si è trascinata per decenni e che ora pare segnare una rottura definitiva tra la Santa Sede e la Comunità Sacerdotale S. Pio X. Ho più volte scritto su queste pagine che le basi del dissenso fossero insanabili e che il tentativo di ricomposizione dello scisma voluto da Joseph Ratzinger fosse disperato: il discorso di Lefebvre, che fin qui conoscevo solo in stralci, avrebbe dovuto scoraggiare chiunque. 

Dopo aver chiuso un post nel quale ho espresso un’opinione divergente dal comune sentire, per quanto possa essere sereno riguardo a ciò che ho scritto, torno spesso ad approfondire. Così è stato per ciò che ho scritto riguardo alla Liberazione di San Pietro di Raffaello e così sono arrivato alla monografia di Luigi Serra (Utet, 1941), che, anche se non tocca il punto relativo alla velatura in calce sulla quale mi sono intrattenuto, conferma l’impressione irriverente da me confessata: l’arte di Raffaello è innanzitutto artigianato. Serra non si è esprime proprio in questi termini, ma – come per il Caravaggio di Bernard Berenson – fa piacere accostarsi a un critico che guarda l’opera senza farsi accecare dalla fama dell’autore.

Mi scrive monsignor *** chiedendomi la rimozione di un post del 2007. Senza arroganza, senza neppure un’ombra di minaccia. Sua Eccellenza si era dichiarato gay ai microfoni di un cronista de La7, per fare repentina marcia indietro: «Sono stato un grande ingenuo – disse allora – forse ho peccato di superficialità. Il ragazzo di La7 è veramente entrato nel mio studio, il personaggio ripreso sono io. Non contesto le riprese e le evidenze, è tutto vero. Ma io non sono gay, volevo scrivere un libro, una ricerca sul problema dell’omosessualità tra i preti, dunque mi sono messo su Internet e ho cercato siti gay, ho contattato quel ragazzo ed è venuto da me. Fatto sta che la televisione ha carpito la mia buona fede: in sostanza era solo un esperimento, uno studio sul tema, e io sono caduto, ma spiegherò tutto ai miei superiori». Non dev’esserci riuscito e ora cerca di cancellare sul web le tracce di quella vicenda. Mi ha fatto una così struggente tenerezza che l’ho accontentato.

Come tutti i bimbi della sua età, anche il mio Michele adora l’effetto che fa una cosa che cadendo si rompe. Ovviamente gli si fa presente che «non si fa», ma non ha trovato difficoltà ad escogitare uno stratagemma che a me pare si offra come un esemplare filogenesi della morale. Aspetta che ti volti, si assicura che non stai guardando, getta a terra la cosa e, appena ti rigiri per constatare il danno, si mette le mani in testa e cominciare a camminare avanti e indietro lamentando: «Oooooh!». Come a dire: che peccato, che disgrazia, che guaio, che sventura. Lui non c’entra, tutta fatalità.

Ho sentito Roberto Calderoli al Senato. Di gran lunga più dignitoso di chi ne ha preso le difese. 

Prezioso volumetto, quello di Gennaro Cesaro (Benedetto Croce in pace, in guerra e in amore - Bastogi, 2012). Raccoglie testimonianze coeve e postume, anche prossime al pettegolezzo, che illustrano a meraviglia la personalità del «Padre Pio di Palazzo Filomarino» e dicono del crocianesimo più di quanto ne dica l’opera di Croce.     

sabato 13 luglio 2013

La cosuccia («Strumento di democrazia diretta» / 2)

In uno dei miei ultimi post («Strumento di democrazia diretta» - Malvino, 2.7.2013) ho illustrato l’opinione decisamente scettica del socialista Arturo Labriola (1873-1959) sul referendum, strumento di democrazia diretta – sosteneva – che vuol essere un «correttivo» della democrazia rappresentativa, ma che in pratica si rileva sempre «inutile» o «impotente». In parte ho fatto miei i suoi argomenti, che mi sono parsi convincenti, e ho invitato il lettore a esaminare i risultati dei referendum tenutisi in Italia negli ultimi quattro o cinque decenni liberandoli dalla retorica celebrativa: quello sul divorzio e quello sull’aborto, solitamente citati per rappresentare l’istituto referendario come il più alto momento di partecipazione del cittadino alla gestione della cosa pubblica, si limitarono a ratificare due leggi varate dal Parlamento, mentre la volontà espressa nell’esito di molti altri – due per tutti, quello sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e quello sulla responsabilità civile dei magistrati – fu tradita senza troppa difficoltà.
Mi è stato fatto notare che l’esempio italiano non è il migliore per saggiare potenzialità e limiti dell’istituto referendario, invitandomi a considerare quello svizzero. È obiezione che fu sollevata anche alla tesi espressa da Arturo Labriola, che la rigettò portando a esempio i risultati dei 128 referendum tenutisi nel cantone di Zurigo tra il 1874 e il 1893, e concludendo – sennatamente, a mio modesto avviso – che si era votato su questioni sostanzialmente irrilevanti. E tuttavia il modello svizzero veniva da lui contestato nellimpianto: «Il corpo elettorale deve deliberare intorno a questi punti e deve adottare una decisione. Ogni giudizio di insieme sfugge e deve evitarsi. La mozione presentata si giudica per ciò che appare. Essa è quella che è. L’elettore, deponendo nell’urna il suo bollettino, afferma soltanto che intorno a quel punto determinato la sua volontà è questa o quest’altra. Non esamina i motivi che hanno determinato la proposta, non questiona intorno al modo pratico come verrà eseguita, non giudica degli uomini chiamati all’ufficio delicato di applicare e, meglio ancora, di interpretare la legge: dà un avviso intorno alla “cosa” e nulla più. Questa è ritenuta una manifestazione di radicale democrazia, eppure è soltanto una pericolosa illusione […] Carezzando la vanità popolare col pregiudizio che gli uomini in fondo contino nulla in regime apparentemente democratico, cioè soggetto alla volontà popolare, e che a nulla riducasi il potere dei governanti dove essi siano semplici ministri e strumenti di altrui volere, si sollevano effettivamente questi uomini al di sopra del comune livello e si dà loro una strana supremazia».
Quand’anche sia di solo impiego «correttivo» della democrazia rappresentativa, per Arturo Labriola, il referendum ha in sé il pericolo che sta nella democrazia diretta: parcellizzare la gestione della cosa pubblica in istanze disarticolate da un progetto di società, che con ciò non è smarrito nelle contraddizioni del plebiscitarismo, ma trasferito in modo più o meno occulto nelle mani del demagogo di turno. «Vi furono forse democrazie più dirette e radicali di quella di Atene? Quale corruzione vi si esercitasse è roba che si apprende nelle prime scuole. E, a dirla come sta, e in modo che non ci si senta troppo, è stato sempre più facile corbellare le masse e corromperle in tutte le forme, che acquistarne i corifei. […] Trasferire la responsabilità di un fatto dagli uomini alle masse è già un modo facile di eliminare ogni responsabilità. […] Il concetto della responsabilità è un concetto esclusivamente personale. Più oblitera questo carattere e più si oblitera esso stesso».

Non si scandalizzi, il lettore, ma questa voleva essere solo la premessa a riflettere su una cosuccia tanto piccina che sotto tutto quanto fin qui detto rischia addirittura di rimanere schiacciata per la sua irrilevanza: qualche giorno fa Beppe Grillo ha espresso il suo favore ai referendum di cui si sono fatti promotori i radicali di Marco Pannella e oggi Silvio Berlusconi ha annunciato il suo appoggio alla raccolta di firme per alcuni dei quesiti. Due cosucce, dunque? No, una sola. Infatti, a sostenere un’iniziativa referendaria chi nel promuoverla, chi nell’appoggiarla in modo generico, chi nella dichiarazione dimpegno attivo (sebbene limitato ad uno solo dei due pacchetti di quesiti, quello sui temi di natura giudiziaria) – troviamo tre leader politici che tra i molti tratti in comune hanno leadership di tipo carismatico, proprietà di fatto del movimento che guidano e gravi disturbi della personalità. Si tratta della triade che Kets De Vries individua nella figura del demagogo (Leaders, fools and impostors, 1993). Ci troviamo, in sostanza, di fronte al paradigma del momento di democrazia diretta che si fa strumento di quella che per Labriola è «una pericolosa illusione»
A scanso di equivoci, però, occorre qualche chiarimento. Quasi tutti i referendum di cui si sono fatti promotori i radicali pongono questioni di rilievo e in buona sostanza propongono l’abrogazione di leggi che a mio modesto avviso sarebbe giusto abrogare. Non entrerò nel merito delle questioni poste dai dodici quesiti, mi limiterò a segnalare che su due – l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e la responsabilità civile dei magistrati – abbiamo già votato e con esito che Labriola definirebbe «inutile» o «impotente». Tentar non nuoce, e forse neppure ritentare, ma – dicevamo – qui ci interessa solo la cosuccia, perché sul fatto che gli uomini che hanno in mano le leve dello Stato, «se vogliono, possono accettare il voto popolare, ma, se non vogliono, possono vittoriosamente resistervi», abbiamo già discusso nel post che ho citato all’inizio.
Un altro chiarimento necessario è relativo alle ragioni che portano a questa singolare congiunzione di astri nel firmamento della politica italiana. Ellittiche diverse, naturalmente, quelle di Pannella, di Grillo e di Berlusconi. Il primo è da almeno due decenni alla disperata ricerca di uscire dall’isolamento che peraltro ha ostinatamente cercato. Non è il caso di dilungarci troppo, su queste pagine la «cosa radicale» è stata oggetto di analisi in più occasioni. In breve, qui, possiamo limitarci a dire che lo strumento referendario era stato un po messo da parte dai radicali: costava energie sempre maggiori e dava risultati sempre minori. E tuttavia per Radicali Italiani, il soggetto della cosiddetta «galassia radicale» che negli ultimi anni è venuto a dar segni di sempre più manifesta insofferenza al settarismo di Pannella, il referendum è parso il solo tentativo possibile per rompere l’isolamento, e la scelta di sei temi sui quali i sondaggi danno da tempo il favore di larga parte dellopinione pubblica nazionale è parsa la via più sicura. Non era quello che Pannella voleva. Trovandosi a dover accettare il fatto compiuto, ha aggiunto al pacchetto dei sei referendum promossi da Radicali Italiani quello suo, con altri sei referendum, su temi riguardanti la giustizia. Difficile capire se l’abbia fatto per riprendere il controllo dell’iniziativa politica della «galassia» neutralizzando le velleità di autonomia montanti in seno allarea, di fatto sta che i dodici quesiti referendari per i quali i radicali si stanno spendendo a raccogliere le firme si rivolgono a sensibilità che trovano congruità solo in un liberale: nella realtà italiana, che di liberale ha poco o niente, i primi sei chiamano a raccolta la sinistra e i secondi sei la destra.
Per Grillo il discorso è completamente diverso. Innanzitutto non è affatto certo che sapesse di cosa si trattasse quando il giornalista di Radio Radicale gli ha posto la questione. Attestato da sempre su posizioni giustizialiste, il M5S appoggia il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati o quello che pone maggiori limiti alla custodia cautelare? Bah, può darsi, di certo c’è soltanto che alla dichiarazione molto estemporanea, molto vaga e per nulla impegnativa non è seguito altro, al momento. Forte è il sospetto che Grillo fosse a conoscenza solo del primo pacchetto di quesiti referendari (abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, libertà di scelta nella destinazione dell8xmille, introduzione del divorzio breve, abolizione della carcerazione per fatti di lieve entità relativi alle vigenti norme sugli stupefacenti, ecc.).
Diametricamente opposto il discorso per lappoggio attivo, in questo caso – annunciato da Berlusconi: è altamente improbabile che i suoi si impegneranno nella raccolta di firme per toccare i punti sensibili della Bossi-Fini o della Fini-Giovanardi, altamente improbabile che facciano uno sgarbo alla Cei su questioni come il divorzio breve e l8xmille. Inutile sottolineare, inoltre, il senso strumentale che assume il suo appoggio alla campagna referendaria radicale  per la «giustizia giusta» nel frangente che lo vede impegnato come mai prima nella difesa delle sue sorti di indagato e di condannato in attesa di sentenze definitive.

Se il lettore ha avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto, potrà essere indulgente con chi ha voluto solo tratteggiare per sommi capi le vie che portano i tre a questo assai malfermo accordo su gambe entrambe zoppe: l’intenzione non era quella di delineare lo scenario politico italiano dinanzi alle variabili poste dai referendum radicali, se mai si terranno, ma di tornare come daltronde era annunciato dal sottotitolo del post alla critica sollevata da Labriola.
«Strumento di democrazia diretta», il referendum. Anche quando si dà come «correttivo» di una democrazia rappresentativa, tuttavia, non perde i caratteri che rendono pericolosa la democrazia diretta fatta sistema.  Strumento, dunque, non solo «inutile» o «impotente», ma anche rischioso. E il rischio se a questo punto non è superfluo aggiungerlo – è tutto a carico dei cittadini che, illudendosi di farsi legislatori in prima persona, non fanno altro che offrirsi, più o meno coscientemente, ai disegni di chi non si fa alcuno scrupolo nel «corbellare le masse».  


Aggiornamento (15.7.2013) «Forte è il sospetto che Grillo...», dicevo. Sospetto ben fondatofa sapere che non sapeva di cosa parlava e ritira il suo appoggio 

mercoledì 3 luglio 2013

«Legge Proust, dice che la politica non è affar suo»

Ho già fatto un breve cenno al discorso che Giorgio Napolitano ha tenuto in occasione del 60° della morte di Benedetto Croce (qui), oggi ne propongo alcuni stralci, premettendo che l’approccio alla figura del filosofo è nel suo insieme (qui) assai parziale: nulla sul suo pensiero, nulla sulla sua opera, e meno male, sennò sarebbe stato inevitabile qualche imbarazzo. No, tutto il discorso è centrato sull’arco temporale che segue alla fuga di Croce da una Napoli martoriata dai bombardamenti per riparare a Sorrento, e l’unica fonte alla quale attinge Napolitano sono i diari vergati in quei mesi, prima che anche Sorrento si rivelasse poco sicura e gli Alleati gli offrissero riparo a Capri. Chi ha letto quelle pagine non ha potuto fare a meno di pensare che fossero scritte per diventare pubbliche, e il malpensante avrà avuto il sospetto che servissero a nutrire ulteriormente l’automitobiografia di uno che fu sempre molto attento a curare la propria immagine, un po’ per vanità, un po’ per lasciarla in eredità alle figlie perché ne lucrassero. Ma forse qui sarà il caso di lasciare la parola a Napolitano per valutare l’efficacia di quelle pagine sul lettore ingenuo o – piacere – sul commemorante che si specchia nel commemorando.


Sarà. A me pare che bastino poche righe del diario di Leo Longanesi a far collassare tutta questa schiuma retorica (Parliamo dell’elefante – Longanesi & C. 1947 – pag. 180).



martedì 2 luglio 2013

«Strumento di democrazia diretta»

1. «Quale estensione intendono dare gli antiparlamentaristi al principio di legislazione diretta ed in che modo intendono intrecciarla al funzionamento degli istituti sociali, posto che l’organizzazione del governo, anche ridotto ad una macchina che applichi le deliberazioni del popolo, non possa abbandonarsi al criterio personale di alcuni uomini, sottratti ad ogni contatto popolare, per non far essi parte di un’assemblea deliberante?». A porsi la domanda è Arturo Labriola nel primo di tre articoli che uscirono su Critica Sociale nel 1897, in polemica con «quanti propongono una organizzazione tale della legislazione diretta, per mezzo della quale ogni traccia di governo parlamentare sia completamente tolta via», al fine di eliminarne i guasti, «i quali, in verità, se si ammettono tanto gravi e così rivoltanti, non possono eliminarsi se non con la più radicale distruzione del sistema che vi dà organicamente origine». Polemica che in generale era rivolta ai fautori della democrazia diretta, ma che nello specifico aveva per oggetto uno dei suoi strumenti, quello della pratica referendaria: Arturo Labriola vede nel referendum, laddove esso diventi uno strumento di legislazione corrente, gli stessi pericoli che nella democrazia diretta sono stati segnalati fin da Tucidide, e che in buona sostanza sono relativi al rischio di imboccare quella che per Kant è «la via che porta al dispotismo». Dopo aver brevemente descritto il modello di democrazia diretta proposto da uno dei suoi più convinti sostenitori, il quale teorizza un sistema legislativo basato su un assemblearismo permanente che proprio nella pratica referendaria trova il suo motore deliberativo, Labriola chiede: «Tralasciando obbiezioni che faremo in seguito ed ammesso ciò che non sarà mai [...], sarebbe questo un modo serio di far funzionare la macchina politica di un grande Stato? [...] Qui occorrerebbe pensare ad una nazione la quale, anziché preoccuparsi della sua vita materiale, stesse tutto il santo giorno nel foro ad ascoltare i novellissimi Ciceroni pronti ad imbrogliarla non diversamente dagli antichi. Ora, se tutto ciò era possibile nelle vecchie democrazie, che erano organizzazioni di liberi divisi in classi fra loro egualmente sfruttanti il lavoro degli schiavi [...], non lo è punto nelle democrazie moderne, fra le quali si suppone che ciascuno abbia da procurarsi da sé stesso il proprio sostentamento».

2. Volessimo portare i motivi della polemica di Labriola ai nostri giorni, segnati da una rimontante infatuazione per la chimera della democrazia diretta, potremmo chiederci: ma uno può stare tutto il santo giorno a studiare ogni più minuto aspetto riguardante ogni più minuta questione relativa ai problemi che esigono in fase deliberativa un parere adeguatamente informato? Conosciamo la risposta di Gianroberto Casaleggio: la Rete darà vita ad una «realtà aumentata» nella quale il «cittadino» sarà trasformato in «istituzione» acquisendo una «conoscenza superiore su qualunque aspetto». Risposta che non convince: anche digitalizzato, il foro pullulerà sempre di Ciceroni. Volessimo, poi, portare la polemica di Labriola ai nostri giorni per ciò che attiene alla pratica referendaria, potremmo servirci di un esempio. Tra i dodici quesiti referendari sui quali i radicali vanno raccogliendo le firme da qualche settimana vi è quello che propone l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici. Il testo del quesito (qui) è lungo 15.922 battute spazi inclusi. Ho provato a dare una rappresentazione grafica alla scheda referendaria relativa a questo quesito e la riproduco qui sotto.


Data  l’esperienza dei radicali in ordine alla presentazione di referendum alla Corte Costituzionale, non vi è alcun dubbio che il quesito sia formulato in modo ineccepibile. Di più: tenuto conto di tutti i referendum proposti dai radicali e rigettati dalla Corte Costituzionale, direi che il quesito non potesse essere formulato diversamente. Ma la questione che esso pone mi pare sia evidente: quanti elettori lo leggeranno prima di sbarrare la casella di preferenza? Meglio ancora: pur leggendolo integralmente, quanti riuscirebbero a comprenderne «qualunque aspetto»? E tuttavia sulla lenzuolata si legge il titolo che riassume il senso del quesito: Abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici, sì o no? Non vi è alcun dubbio che lo riassuma fedelmente, ma perché il dubbio sia fugato senza alcuna possibilità di riproporsi è indispensabile un minimo - anche solo un minimo - di fiducia in chi ha steso il quesito. Fiducia, si badi bene, che non è solo relativa alla sostanziale aderenza del testo al suo titolo, ma anche alla ineccepibilità formale indispensabile a rendere efficace la volontà espressa dal risultato della consultazione referendaria. Fiducia che fu riposta, in situazione del tutto analoga, col referendum sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici che si tenne nel 1993, dove il sì ottenne il 90,1%. Sappiamo che della volontà popolare non si tenne alcun conto e possiamo imputare questo vero e proprio crimine alla capacità della casta partitocratica di aggirare  l’ostacolo posto dall’esito di quel referendum. Ma il punto è questo: il modo in cui era posto quel quesito non fu in grado di impedirlo. E Labriola ci spiega come e perché: «In qualunque forma di società [...] la legislazione diretta è incapace, per sé sola, di corrispondere ai bisogni dell’amministrazione pubblica. Essa può immaginarsi come un correttivo del sistema parlamentare, non come un eliminatore. Ma qual correttivo è realmente efficace? Pur troppo, no; la legislazione diretta non esclude né la corruzione, né l’imbroglio, né il tradimento, e forse, sotto un certo aspetto, come mostrano le vecchie democrazie classiche, li fomenta. È almeno un mezzo rivoluzionario? Recisamente, no. La legislazione diretta o seconda la politica dominante, ed allora è inutile; o l’avversa, ed allora è impotente. Nei sistemi in cui accanto alla legislazione diretta sta il parlamento, la forza militare dello Stato, il potere esecutivo e la burocrazia dipendono soltanto dalle Camere dei rappresentanti. Senza dubbio queste, se vogliono, possono accettare il voto popolare, ma, se non vogliono, possono vittoriosamente resistervi». Come dargli torto?

3. Con una delle sue felicissime uscite, qualche giorno fa, Massimo Bordin ha detto: «La democrazia diretta si chiama così perché c’è sempre qualcuno che la dirige» (Radio Radicale, 27.6.2013). Ben detto, così riassumendo due o tre scaffali di letteratura scettica, se non avversa, alla democrazia diretta. E tuttavia sarà il caso di rammentare che il referendum altro non è che «strumento di democrazia diretta»: correttivo inutile o impotente, se vogliamo riconoscere come fondate le riflessioni di Labriola. Prevengo la più scontata delle obiezioni, riprendendo la vulgata più comunemente evocata a fronte di questa critica sollevata al più decantato tra gli strumenti di democrazia diretta: ma il divorzio, l’aborto, non li dobbiamo ai referendum? Errore: li dobbiamo alle rispettive leggi licenziate dal parlamento, i referendum si limitarono a confermarle rigettando la proposta di abrogarle.