Dubbia
è la radice di ακρίβεια, che in Tucidide sta per diligenza, in Platone per
precisione, in Aristotele per rigore, nella
Bibbia dei Settanta per esattezza, e che arriva nel nostro lemmario dall’uso
che se ne fece nell’Ottocento tedesco, dove Akribie stava per la virtù del
filologo e dello storico che eccellono in meticolosità. Da noi divenne acribia,
e fu subito degradata a pignoleria, difficile capire se per quella nostra inclinazione
al pressappoco che nella cura minuziosa e assidua dei dettagli vede un ostacolo
alla comprensione intuitiva del tutto (dobbiamo questo cancro a Benedetto Croce), o se non fu piuttosto per come il
termine suona all’orecchio: non sentite un che di acre e di bilioso, sennò di borioso, nell’acribioso? Se
siamo costretti a sospendere la questione sul piano etimologico, perché ormai ci
è impossibile capire quanto discernere (άκρατος) e quanto assodare (βέβαιος) ci
fosse nell’ακρίβεια dei greci, non è vano porcela su quello della cosiddetta psicologia
morale, perché non c’è ombra di dubbio che, di là dai suoi risultati, l’acribia
ha un movente di natura etica, e infatti l’acribioso ha sempre un Über-Ich spietato, perciò raramente inefficace.
Francesco Bucci ci aveva già dato prova di quanto sia efficace la sua acribia con Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, 2011), nel quale dimostrava con spietata documentazione quanto la ricca bibliografia del filosofo sia in realtà un immenso patchwork di copia-incolla. Ora ce ne dà una ancora più convincente con Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante (Società Editrice Dante Alighieri, 2013), disperdendo tutto il fumo che ormai da anni avvolge il fondatore de la Repubblica, dandogli profilo di grande pensatore. Operazione che necessitava di qualcosa in più della meticolosità nello studio dei testi, perché scovare a pag. 694 de Il tramonto dell’Occidente: «L’esegesi heideggeriana è questo tentativo. Come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dallo spazio simbolico non costituisce il limite o lo scacco del linguaggio, ma il terreno fecondo su cui solamente possono fiorire e svilupparsi nuovi sensi e nuove parole. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione occidentale, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto per accogliere ciò che esso libera, ciò che offre non tanto all’interpretazione (ermeneutica), ma all’orientamento (esegesi)», e trovare il collegamento con quanto c’è a pag. 238 de La terra del male: «L’esegesi junghiana è questo tentativo; come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dal simbolo non costituisce il limite o lo scacco della coscienza, ma il terreno fecondo su cui solamente la coscienza può fiorire e svilupparsi. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto e accoglie dal nascosto ciò che esso libera, ciò che offre non all’interpretazione, ma all’orientamento», tutto sommato vuole solo acume e perseveranza, e Galimberti è rivelato. Con Scalfari non bastavano, perché l’impostura corre in diagonale lungo i suoi testi.
La tesi che Bucci intende dimostrare, a mio modesto avviso riuscendoci, è che, da quando «ha lasciato la direzione di la Repubblica ed è andato in pensione, nella mente [di Scalfari] si deve essere accesa una luce che gli ha indicato un percorso nuovo e difficile, [nell’intento di] lasciare ai posteri un’immagine di sé più alta e nobile di quella del semplice giornalista che, per quanto grande, ha pur sempre a che fare con la banale attualità [e] il modo più semplice per raggiungere l’immortalità deve essergli sembrato quello di trasformarsi in saggista e di occuparsi in tale veste dei massimi sistemi [fatto sta che] i suoi libri, se risultano qua e là di un qualche interesse sul piano autobiografico, sono privi di qualsiasi valore sotto il profilo propriamente culturale, e questo per il semplice motivo che sono opere di un dilettante». Dove sta il problema? Bucci lo pone in esergo, con la folgorante formula di Alessandro Morandotti: «Il dilettante diletta solo se stesso».
I più tragicomici infortuni di questa pratica autoerotica sono evidenziati da Bucci fin dall’Introduzione, dove dimostra quanto siano contraddittori i significati che Scalfari affida di volta in volta a due termini come universalità e modernità, e per una semplicissima ragione: il bignamino dal quale il pensatore attinge è ogni volta diverso. Non meno tragicomici sono gli infortuni in cui Scalfari incorre ogni volta che deve far quadrare ragione con morale, natura con storia, libertà con progresso, e qui mi pare che Bucci colga il quid dal quale discendono il tragico e il comico: Scalfari si dibatte nel guscio vuoto del sistema crociano, e non riesce a liberarsene.
Molto ancora si potrebbe dire intorno a Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante: sulla linearità dell’argomentazione, sull’uso discreto dell’ironia, sulle riflessioni che punteggiano il testo col ricorso all’autorità del mero buonsenso. Ma qui mi fermo, consigliandovene la lettura.
Francesco Bucci ci aveva già dato prova di quanto sia efficace la sua acribia con Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, 2011), nel quale dimostrava con spietata documentazione quanto la ricca bibliografia del filosofo sia in realtà un immenso patchwork di copia-incolla. Ora ce ne dà una ancora più convincente con Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante (Società Editrice Dante Alighieri, 2013), disperdendo tutto il fumo che ormai da anni avvolge il fondatore de la Repubblica, dandogli profilo di grande pensatore. Operazione che necessitava di qualcosa in più della meticolosità nello studio dei testi, perché scovare a pag. 694 de Il tramonto dell’Occidente: «L’esegesi heideggeriana è questo tentativo. Come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dallo spazio simbolico non costituisce il limite o lo scacco del linguaggio, ma il terreno fecondo su cui solamente possono fiorire e svilupparsi nuovi sensi e nuove parole. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione occidentale, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto per accogliere ciò che esso libera, ciò che offre non tanto all’interpretazione (ermeneutica), ma all’orientamento (esegesi)», e trovare il collegamento con quanto c’è a pag. 238 de La terra del male: «L’esegesi junghiana è questo tentativo; come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dal simbolo non costituisce il limite o lo scacco della coscienza, ma il terreno fecondo su cui solamente la coscienza può fiorire e svilupparsi. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto e accoglie dal nascosto ciò che esso libera, ciò che offre non all’interpretazione, ma all’orientamento», tutto sommato vuole solo acume e perseveranza, e Galimberti è rivelato. Con Scalfari non bastavano, perché l’impostura corre in diagonale lungo i suoi testi.
La tesi che Bucci intende dimostrare, a mio modesto avviso riuscendoci, è che, da quando «ha lasciato la direzione di la Repubblica ed è andato in pensione, nella mente [di Scalfari] si deve essere accesa una luce che gli ha indicato un percorso nuovo e difficile, [nell’intento di] lasciare ai posteri un’immagine di sé più alta e nobile di quella del semplice giornalista che, per quanto grande, ha pur sempre a che fare con la banale attualità [e] il modo più semplice per raggiungere l’immortalità deve essergli sembrato quello di trasformarsi in saggista e di occuparsi in tale veste dei massimi sistemi [fatto sta che] i suoi libri, se risultano qua e là di un qualche interesse sul piano autobiografico, sono privi di qualsiasi valore sotto il profilo propriamente culturale, e questo per il semplice motivo che sono opere di un dilettante». Dove sta il problema? Bucci lo pone in esergo, con la folgorante formula di Alessandro Morandotti: «Il dilettante diletta solo se stesso».
I più tragicomici infortuni di questa pratica autoerotica sono evidenziati da Bucci fin dall’Introduzione, dove dimostra quanto siano contraddittori i significati che Scalfari affida di volta in volta a due termini come universalità e modernità, e per una semplicissima ragione: il bignamino dal quale il pensatore attinge è ogni volta diverso. Non meno tragicomici sono gli infortuni in cui Scalfari incorre ogni volta che deve far quadrare ragione con morale, natura con storia, libertà con progresso, e qui mi pare che Bucci colga il quid dal quale discendono il tragico e il comico: Scalfari si dibatte nel guscio vuoto del sistema crociano, e non riesce a liberarsene.
Molto ancora si potrebbe dire intorno a Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante: sulla linearità dell’argomentazione, sull’uso discreto dell’ironia, sulle riflessioni che punteggiano il testo col ricorso all’autorità del mero buonsenso. Ma qui mi fermo, consigliandovene la lettura.