Pino
Daniele odiava Napoli, almeno questo è quanto mi confessò nell’estate del 1976,
al termine di un concerto che tenne ad Ischia Ponte, davanti a non più di due
dozzine di spettatori, mi pare che il biglietto costasse tremila lire. Poi, sì,
l’odio è un sentimento ambivalente, e allora possiamo dire pure che l’amasse,
ma tacere dello schifo che provava per i peggiori difetti dei napoletani – basta
leggere come si deve Napul’è, ’Na tazzulella ’e cafè e Terra mia – significa fargli un grosso
torto, piacesse o non piacesse la musica che componeva. Pino Daniele apparteneva
a quella minuscola percentuale di napoletani che di Napoli non sono disposti a
sopportare quella rassegnazione, quel fatalismo, quella strafottenza, quella pusillanimità,
quella furbizia da servi e quel viscido sentimentalismo che taluni riescono
perfino a esibire con orgoglio come un carattere che esige uno statuto di
antica nobiltà: se ne hanno la possibilità, fuggono via, e appena poté farlo
Pino Daniele lo fece. Il fatto che usasse il dialetto napoletano significa poco
o niente, di fatto la sua musica non ha nulla di napoletano, né della tradizione
classica, né di quanto su quella è venuto a imbastardirla, per lo più
caricaturizzandone i tratti. Era un apolide, si era scelto un linguaggio fuori
d’ogni contesto regionale o nazionale, e in quanto al carattere, scontroso com’era,
più che napoletano lo si poteva dire abruzzese, friulano, tutto, ma non
napoletano. Vedere come Luigi De Magistris si avvoltola nel suo sudario, come a
farsene un tabarro, è spettacolo vomitevole. Ancor più, però, lo è il vedere
una città intera che fa finta di piangere – lacrime finte, di quelle vere non è
più capace da secoli – e del morto non aver capito un cazzo.
martedì 6 gennaio 2015
lunedì 5 gennaio 2015
Quando un’azienda dal marchio prestigioso... / 2
Con
quel «si sa che l’omosessualità è
creativa ed eccitante variante della condizione umana, ma non è naturale e non
è incline a stabilire solidi legami famigliari o educativi» (Il Foglio, 2.1.2015), deve aver avuto
qualche noia, e allora eccolo correre ai ripari. Il nodo della questione è quel
«non è naturale», che suonava come «non è fisiologico», dunque come «patologico», buono solo ad invischiare Il Foglio della merda che tra poco spargerà
La Croce. Ecco, allora, che Ferrara
si affretta a spiegarci la differenza che c’è tra lui e Adinolfi: l’omosessualità
è un peccato, pensare che sia una malattia è «una scemenza col botto», è «intolleranza
ignorante».
Ve l’avevo anticipato già a settembre, rammentate? «Quando un’azienda dal marchio prestigioso
scopre che sul mercato cominciano a girare copie contraffatte dei suoi prodotti
– scrivevo – all’inizio solitamente
nicchia. È che all’inizio il prodotto contraffatto è quasi sempre imitazione
così sciatta da esaltare i pregi di quello originale, che dalla copia trarrà
dunque il vantaggio di riaffermare quanto sia inimitabile, dando così ragione
del suo prezzo, scoraggiando l’acquisto di un articolo senza dubbio assai meno
costoso, ma di qualità sensibilmente inferiore, che in più avrà la pecca di
qualificare l’acquirente come uno sprovveduto o, peggio, come la più patetica
versione della fashion victim. Chi copia, tuttavia, impara a farlo sempre
meglio e presto per l’azienda dal marchio prestigioso comincia a diventare un
problema serio, con gravi danni per gli utili, ma soprattutto per l’immagine. […]
È
solo allora che l’azienda dal marchio prestigioso comincerà a sentirsi lesa e a
farsi forte degli strumenti che ne tutelano i legittimi interessi» (Quando
un’azienda dal marchio prestigioso... – Malvino,
16.9.2014). Ma era settembre, l’uscita de La
Croce era ancora lontana, e «non
siamo ancora a questo punto – scrivevo – con la contraffazione di Giuliano Ferrara che Mario Adinolfi smercia in
provincia». Ora, invece, la cosa comincia a diventare imbarazzante, perché
il prodotto contraffatto non si limita a far concorrenza, ma minaccia di
svalutare l’originale. La dinamica di mercato è nota, gli esperti del settore
dicono che ne tocca un buon 20-30%: il rischio, in questo caso, è che l’omofobia
dozzinale di Adinolfi sollevi la questione di quanto veramente valga quella sofisticata
di Ferrara. Perché – avvisavo – «solo a
un occhio estremamente ingenuo possono sfuggire le differenze tra barba e
barba, obesità e obesità, vocione e vocione, sicché tra l’eleganza di un
fogliante e la cafonaggine di un vogliolamamma corre ancora la stessa
differenza che una volta c’era tra i manici di vacchetta naturale e quelli in
nappa lisciviata, tra le borchie in ottone e quelle in alluminio indorato [il
parallelo era con le borse di Louis Vuitton originali e quelle contraffatte]. È differenza che al momento si coglie al
primo colpo d’occhio, ma fossi in Ferrara comincerei a preoccuparmi».
Si
preoccupa solo alla vigilia dell’uscita de La
Croce, Ferrara, e cerca di recuperare il ritardo, ovviamente con qualche
affanno. Ma quale malattia! L’omosessualità è peccato, sennò tutto è malattia,
e allora «tutti abbiamo bisogno di essere curati e soprattutto di essere
lasciati in pace». E poi, che cazzo, parlarne come di una
malattia non è «riportare la cultura
cristiana e cattolica dentro le ossessioni ideologiche del tempo, mettendo la
psicologia comportamentale e altre bellurie dentro la nuova evangelizzazione»?
E in fondo non erano ricchioni pure Socrate, sant’Anselmo e il cardinale
Newman? «Le tirate di san Paolo contro i
sodomiti sono le benvenute, perché parlano di peccato e non di malattia», ma,
per l’amor del cielo, si eviti «l’irrigidimento
caricaturale e clinicizzante dei materiali culturali non negoziabili che furono
lo stigma d’intelligenza di una lunga stagione cattolica e laica del
contemporaneo». Ecco, qui sta il punto: La
Croce è una caricatura de Il Foglio.
E questo l’avevamo intuito. Quello che ci sorprende è che Ferrara sia assai più
preoccupato di quanto fosse prevedibile aspettarsi. Come se Louis Vuitton volesse
innanzitutto convincere se stesso che il pregio di una sua borsa stia tutta nel
marchio, il che finisce per risultare ingeneroso verso la qualità dei materiali, che in questo
editoriale di lunedì 5 gennaio sono d’altronde esaltati in modo fiacco, quasi stanco. Ma
forse si riuscirà a fare di meglio nei prossimi giorni.
domenica 4 gennaio 2015
Un hombre vertical
18 febbraio 2014 «A
me la scorta non mi garba, non la voglio, grazie. Non posso e non voglio
passare dalla bicicletta all’auto blu»
3 gennaio 2015 «Gli
spostamenti aerei, dormire in caserma, avere la scorta, abitare a Chigi non
sono scelte ma frutto di protocolli di sicurezza»
sabato 3 gennaio 2015
venerdì 2 gennaio 2015
[...]
Tra
i riti che l’ipocrisia impone a chi vuol passare per personcina a modo c’è
quello di piangere sulla chiusura di un giornale, come in morte della libertà
di stampa e del pluralismo dell’informazione, anche quando il giornale che
chiude vendeva pochissime copie e si pappava una montagna di contributi
pubblici. Questo è il caso di Europa:
vendeva 1.500 copie al giorno e in dieci anni ha inghiottito 32 milioni di euro,
davvero vogliamo piangere? Pianga Menichini, via, ché può tornargli perfino
utile togliersi dal muso quel sorriso da furbetto. Noi, che vediamo la zecca
morta cascare giù dal ventre del cane, cerchiamo di essere solidali col cane:
ok, la zecca è morta, e meno male.
«Si sa»
Che
scenda dall’alto o che salga dal basso, la violenza che si fa autorità ha
bisogno di una legittimazione che abbia l’impronta del divino, sennò non regge
a lungo, tanto meno può diventare istituzione. Quando scende dall’alto, viene
da chi, per meriti particolari, anzi, potremmo dire peculiari, Dio avrebbe
investito di un potere speciale, assoggettarsi al quale sarebbe dunque cosa naturale,
visto che è Dio ad aver dato legge alla natura. Ma la regola vale pure per la
violenza che sale dal basso: anch’essa, per legittimarsi come autorità, deve
ammantarsi di divino («vox populi, vox
Dei»). C’è un punto, tuttavia, in cui la violenza che scende dall’alto s’incontra
con quella che sale dal basso per fondersi in quel «si sa» che introduce sia la fallacia ad auctoritatem sia quella ad
populum: «si sa» – dice chi, a
corto di argomenti, vuole infliggerci violenza nella sua forma più insidiosa,
che è quella dell’imbroglio – ma in realtà non si sa la cosa più importante,
cioè donde venga l’autorità dell’affermazione che segue, se da quanto Dio ha
concentrato nelle sentenze dei primi o da quanto ha diluito nei luoghi
comuni degli ultimi. «Si sa», dice, e
in questo modo non è neanche più tenuto a spiegare per quale via la verità gli
esca di bocca. «Si sa», e non si
capisce se quanto segue sia distillato della sapienza cumulata da dinastie di élites
o folgorante scintilla che sprizza del deposito
di buonsenso custodito nei secoli dalla plebe. A meno che non venga usato in
modo ironico – proprio a mettere in discussione l’autorità che non ammette
discussione – guardiamoci dal «si sa».
Esempio
(in coda ad una lunga lista di «si sa»
che stipano un editoriale su Il Foglio
di venerdì 2 gennaio): «Si sa che
l’omosessualità è creativa ed eccitante variante della condizione umana, ma non
è naturale e non è incline a stabilire solidi legami famigliari o educativi».
«Si sa» perché sta scritto nel Levitico o perché da che mondo è mondo si
pestano i ricchioni? Che importa, «si sa»,
e tanto basti a fare argomento.
giovedì 1 gennaio 2015
«L’invenzione di Aristotele»
La
logica è «invenzione di Aristotele»?
Così sull’ultimo numero di Domenica
de Il Sole-24 Ore (pag. 22), per
titolo a un articolo di Hilary Putnam. Titolo che, tutto sommato, non tradisce
il contenuto dell’articolo, nel quale non c’è scritto testualmente quanto nel
titolo, ma che «Aristotele ha inventato
le variabili [predicative]», e che
«ha studiato nei dettagli 256 inferenze
(dette “sillogismi categorici” o semplicemente “sillogismi”)» cui esse
possono dar vita, e che «ha fatto vedere come stabilire quali sono valide (24 lo sono) e quali sono invalide
(la gran parte)», e che così «ha inaugurato
il programma consistente nella creazione di un organo del ragionamento
deduttivo».
Se
la logica è questo, niente da dire. Di fatto, Aristotele preferisce parlare di
analitica, mentre alla logica assegna un significato assai più generico,
talvolta perfino deteriore, assai prossimo a quello che per lui ha la
dialettica: nei Secondi Analitici contrappone il λογικος συλλογισμος a quello
propriamente apodittico, e nei Topici
scrive che poggia su premesse ψευδων ενδοξων
δε come quello dialettico (che nei Primi
Analitici dice composto da προτασεις κατα
δοξαν), mentre in generale svaluta costantemente il λογικων θεωρειν, arrivando a definirlo vacuo (κενον) in Etica Eudemia.
Ma
la logica, poi, è mero dedurre? E, ammesso e non concesso che lo sia, si
possono trascurare gli studi di Lukasiewicz, Perelman, Viano, Calogero, giusto
per citarne qualcuno, che hanno per tempo smantellato la tesi qui riproposta da
Putnam, presa di peso dall’ormai logora lettura di Prantl? Più in generale, e
come sempre quando si ha a che fare con le semplificazioni giornalistiche, è il
caso di affibbiare ad Aristotele, che è del IV secolo avanti Cristo, il titolo
di inventore di una prassi di cui troviamo numerose tracce già nel secolo prima,
e già in Parmenide, già in Eraclito? Come si può ignorare che sotto e dentro la
logica dianoetica c’è la logica noetica?
Speriamo bene per l’anno nuovo
Il
primo pensiero del 2015 non può che andare a quanti stanotte hanno perso una
mano o un occhio per sparare i botti di fine anno. Si tratta per lo più di
poveracci – visto mai il presidente di una banca o l’amministratore delegato di
una multinazionale sparare botti? – e poveracci che per nessuna ragione al
mondo rinuncerebbero a spendere in polvere nera e miccia corta il poco che loro
resta della speranza solitamente spesa in Gratta&vinci. Poveracci due
volte, dunque, ma forse anche due, tre, quattro volte. E a chi rivolgere il
proprio pensiero, quando la retorica del momento preme, se non agli ultimi?
Veniamo
ai penultimi, ché la retorica del momento ancora preme, e cioè ai medici che
ieri sera hanno attaccato il loro turno al pronto soccorso e hanno passato la
notte a rappezzare monconi e a medicare ustioni. Costretti a farlo, prima che
per contratto, per quella nobile ragione che ormai suona come un peto di
Esculapio. A quest’ora staranno tornando a casa, Dio non voglia abbiano un
colpo di sonno al volante, sennò al pronto soccorso non troveranno neanche una
barella.
Terzo
pensiero a quelli che una volta si chiamavano spazzini ed oggi sono operatori ecologici,
che all’ingrato lavoraccio di rimuovere dalle strade tonnellate di cocci di bottiglia
dovranno anche quest’anno aggiungere il deprimente dato Istat che dai balconi
non si butta altro, finiti i tempi in cui si aspettava San Silvestro per liberarsi
di un De Chirico che non s’abbinasse bene al divano.
Quarto
pensiero, in attesa che la retorica del momento scemi, ai migranti sul barcone
di Capodanno che al primo botto sparato a Lampedusa avranno pensato al peggio, il
quinto al povero cardinal Bertone che ora tutti scansano come la peste e avrà
passato la serata solo soletto, giocherellando con il tappo, aspettando invano un
sms da Gianni Letta, e il sesto vada a chi sogna di andare al Quirinale e non
ci andrà.
Un
settimo pensiero vada – no, basta, finita la retorica del momento – il settimo pensiero vada a chi anche quest’anno non è morto e, che cazzo, avrebbe anche
potuto farci il piacere. Speriamo bene per l’anno nuovo.
Glaucoma, probabilmente
Vero
è che «senectus ipsa est morbus», ma nel
suo discorso di fine anno Giorgio Napolitano ha fatto cenno, seppur vago, a
specifiche «limitazioni e difficoltà», dicendole «crescenti»,
sicché è del tutto naturale che uno si chieda quali possano essere. Io tenderei
ad escludere problemi al sistema nervoso centrale, peraltro tanto comuni alla
sua veneranda età: tranne qualche inceppamento nell’eloquio, che capita pure ai
trentenni, m’è sembrato un poco affaticato, ma discretamente lucido. Io direi
si tratti di glaucoma, la patologia che porta a una progressiva riduzione del
campo visivo periferico. In pratica, il soggetto affetto da glaucoma vede bene
solo ciò che è al centro del suo campo visivo, e tutto attorno è come non ci
fosse niente. La cosa dev’essere iniziata fin dal giorno che ha messo piede al
Quirinale, nel 2006, almeno così pare suggerirci quando rammenta che ha sempre
avuto come primario interesse «il
reciproco riconoscimento, rispetto e ascolto tra gli opposti schieramenti, il
confrontarsi con dignità nelle assemblee elettive, l’individuare i temi di
necessaria convergenza nell’interesse generale». Nel 2006, si sa, il campo
visivo di un soggetto sano era quasi interamente occupato dal centrodestra e
dal centrosinistra, ma presto il bipolarismo è andato a farsi fottere, e i due
schieramenti si sono sempre più ristretti. E più si restringevano, più si accostavano.
E più si accostavano, più si restringevano. E nel farlo, come è naturale per
una destra che si voleva centrodestra e per una sinistra che si voleva
centrosinistra, convergevano entrambe al centro, sempre bene in vista al nostro
amato Presidente della Repubblica, cui il glaucoma non consentiva di vedere che
intanto astensionismo, M5S e Lega riducevano il Pd e Forza Italia a poco più di
un terzo degli aventi diritto al voto: niente, tutto lo scenario politico che
rientrava nel suo campo visivo – maggioranza e minoranza – erano il Pd e Forza
Italia, gli «opposti schieramenti». Nessuna
perplessità sul fatto che gli accordi sottobanco non li rendessero poi tanto «opposti», se non in favore delle
rispettive tifoserie. Nessuna preoccupazione riguardo al fatto che oltre a «riconoscimento, rispetto e ascolto» finissero
addirittura a raggiungere l’orgasmo simultaneo nel realizzare pezzo dopo pezzo,
qui con reciproca desistenza, lì con accordo bipartisan, il Piano di rinascita democratica di Licio
Gelli. Gli «opposti schieramenti»
erano quelli, e tutto attorno zero, il buio, il niente. Sia chiaro, non è che,
oltre al Pd e a Forza Italia, d’attorno ci fosse e tuttora ci sia poi chissà cosa.
Ammesso e non concesso, tuttavia, sia solo cacca, è cacca che comunque non puoi
far finta non esista, dovendo rappresentare l’unità della nazione. Ti è toccato
in sorte di dover rappresentare l’unità di una nazione che per un buon 70% è
cacca, sia, ma non puoi limitarti a rappresentare solo l’unità di quel 30% che sta
al centro del tuo campo visivo, che poi finisce per diventare il 20% a non veder
più nemmeno le fronde interne a Pd e a Forza Italia, ai margini. Deve averlo
capito, finalmente, e prima di finire a rappresentare solo il governo, di volta
in volta dato a questo o a quello, a sua piena discrezione, in pratica a rappresentare solo l’unità di se stesso, avrà detto: «Basta,
nasino mio bello, andiamocene ad Anacapri». Della signora Clio, ormai, riesce a
vedere solo quello.
mercoledì 31 dicembre 2014
«Carminati invoca giustizia»
L’art.
416 bis c.p. non sanziona una particolare associazione per delinquere – Cosa nostra,
’Ndrangheta, Camorra, Sacra corona unita – ma tutte quelle che sono «di tipo mafioso», descrivendone le
attività che configurano la tipologia: «Coloro
che ne fanno parte – recita – si
avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti,
per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo
di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi
pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri».
Come ho già scritto (Mondo di mezzo –Malvino, 8.12.2014), a me pare che le
1.228 pagine dell’Ordinanza di
applicazione delle misure cautelari emessa a carico di Massimo Carminati &
C. non lascino dubbi e che la tipologia di quella associazione per delinquere
corrisponda a quella contemplata dall’art. 416 bis: sarà la magistratura
giudicante a dire l’ultima parola, ma a me pare vi sia abbondanza di materiale
in favore dell’ipotesi accusatoria.
Torno
sulla questione, che altrimenti avrei lasciato in sospeso fino alla sentenza,
per commentare un articolo a firma di Annalisa Chirico apparso su Il Foglio di martedì 30 dicembre (Criminale con diritto di difesa), che in
buona sostanza vuol essere la summa degli argomenti – vedremo subito che non lo
sono, ma momentaneamente diamo ad essi la dignità di argomenti – che proprio
dal giornale di Giuliano Ferrara, in tre o quattro occasioni, sono stati
sollevati a contestare l’imputazione mossa dalla Procura di Roma. Prima di
passare in rassegna le obiezioni che in questo articolo sono sollevate all’ipotesi
accusatoria, però, vorrei anticipare che in esso mi pare ottimamente
tratteggiata quella parodia del garantista altrimenti assai meno incisiva di
quella del giustizialista. Altrove, infatti, mi son chiesto: «Qual è la maschera del tizio che pretende
sempre tre gradi di giudizio per dire colpevole chi è colto in flagrante, e che
dinanzi all’intercettazione telefonica nella quale un criminale si autoaccusa
di un delitto solleva la questione se mettergli la cimice sia stato lecito, e
che riesce sempre a trovare un diritto negato a ogni fetente della peggior
risma, e più fetente è, più sembra andare in brodo di giuggiole a trovargliene
uno da spendersi per garantirglielo?» (Caricaturizzare il giustizialista è un gioco da ragazzi – Malvino, 15.12.2014). Bene, direi che Annalisa Chirico risponda alla
domanda, offrendosi generosamente come caricatura del garantista, «quello che in ogni giudice vede un boia e
in ogni ladro, ogni assassino, ogni stupratore vede sempre il poveretto
massacrato di botte lungo la strada che da Gerusalemme scende a Gerico, e accorre
subito con olio, vino e bende» (ibidem).
Del tutto irrilevante, in questa sede, porsi la domanda se questa generosità
chieda un ritorno in visibilità, cosa che tutto sommato sarebbe anche
legittima, visto che il campo dei giustizialisti è ampiamente inflazionato. Di
fatto siamo al triste déjà vu del
giornalismo a tesi, quello che spende il poco o il tanto che ha nella
costruzione di caratteristi, macchiette non di rado seriosissime, con ruolo
fisso, da gettone per la prevedibilissima comparsata nei talk show.
Tutto
sommato è onesta, Annalisa Chirico, perché fin dall’attacco non fa mistero del
ruolo fisso che si è dato: «Anche i criminali
hanno diritto alla difesa. Quella che leggete è una difesa di Massimo Carminati.
Il giornalista collettivo, per definizione, è megafono della requisitoria e
censore dell’arringa. Qui si contraddice la pubblica accusa». La caricatura
del garantista è rivendicata nel processo mediatico, in cui la caricatura del giustizialista sostiene la tesi accusatoria, come «diritto alla difesa», anzi come «tributo
alla giurisdizione» (sì, usa proprio questa espressione, e qui occorre rilevare un notevole salto qualitativo rispetto al «siamo tutti puttane»). In altri termini, è dichiarato il diritto di difendere una posizione con gli
strumenti dell’avvocato, facendosi megafono dell’arringa e censore della
requisitoria, compito che si assolve riportando in virgolettato quanto
affermano i legali di Massimo Carminati, gli avvocati Naso, «pater» e «filia» (un po’ di latino, si sa, è indispensabile a nobilitare il
foro, e il lettore è diffidato dal leggervi un doppio senso). Così l’articolo non pare avere altro fine che quello degli avvocati
difensori: incontestabile com’è l’accusa di associazione per delinquere (3-7
anni di reclusione), si cerca innanzitutto di scansare quella di associazione
per delinquere di tipo mafioso (7-12 anni di reclusione), per poi banalizzare
la portata delle responsabilità dell’assistito per ottenere il minimo della
pena, ché in fondo 3 anni passano in fretta e può darsi nel frattempo ci scappi
un’amnistia, per la quale Annalisa Chirico pure si spende.
Nulla
è risparmiato nell’arringa: alla fine dell’articolo Massimo Carminati potrà
risultare antipatico solo a chi non abbia mai parcheggiato in seconda fila, a
chi non abbia mai messo il sacchetto della spazzatura nel cassonetto fuori
orario, insomma solo a quella rara mosca bianca che da noi è praticamente
introvabile. Signori della Corte, cioè, carissimi lettori, il qui presente
imputato non è un santo, certo, ma l’accusa è esagerata: non parla siciliano,
dunque non può essere mafioso; più che di un’associazione per delinquere era a
capo di una banda di cazzari; per quanto si autoaccusa nelle intercettazioni, sciocchezzuole,
millantava; e poi, a ben vedere, lo si può pur considerare «un Robin Hood del XX secolo», ché «se poteva aiutare qualcuno, non si risparmiava». Perciò – lo manda
a dire da Annalisa Chirico – «Carminati invoca
giustizia». Già è tanto che nell’articolo non sia tornato il paragone con
Enzo Tortora, accontentiamoci di questo.
domenica 28 dicembre 2014
[...]
Sull’ultimo
numero de l’Espresso (XL/52), nella sua rubrica bisettimanale (La bustina di
Minerva – pag. 138), Umberto Eco afferma
di aver posseduto «una tarda traduzione italiana (1914) di un libello di tal
G.B. Pérès intitolato “Napoleone non è mai esistito”», della quale dice di
essere recentemente «riuscito a scovare la prima edizione, del 1835, che
s’intitola “Grand erratum source d’un nombre infini d’errata”». Possiamo
immaginare il dolore del bibliofilo che scopra di essere stato infinocchiato, dunque gli si faccia sapere con la dovuta delicatezza che la prima edizione dell’operetta è del 1827, pubblicata a Parigi
in forma anonima col titolo che recita Comme quoi Napoléon n’a jamais existé,
ou Grand Erratum, source d’un nombre infini d’errata à noter dans l’histoire du
XIXe siècle. Per saperlo gli sarebbe bastato un giretto sul web, di cui spesso
ha lamentato l’approssimazione e l’imprecisione dei dati messi a disposizione dell’utente. [Non è il web, tuttavia, che qui mi è tornato di aiuto, ma un piccolo saggio di Gianni Guadalupi su un vecchio numero di FMR (I/8 - pagg. 95-116).]
A proposito di approssimazione e imprecisione. Nella descrivere la teoria di
«G.B. Pérès» (in realtà, J-B. Pérès, Jean-Baptiste), Umberto Eco dice che «l’autore
dimostra che Napoleone è soltanto un mito solare, e argomenta con dovizia di
prove trovando analogie tra il sole, Apollo (e “Napoleo” significherebbe
“veramente Apollo lo sterminatore”), nato anche lui su un’isola mediterranea,
mentre la madre Letizia significherebbe l’aurora, e Letizia proverrebbe da
Latona, madre di Apollo», mentre in realtà il parallelismo tra Latona e Letizia è retto solo dalla assonanza tra Λητω e laetor.
Appunti
1. Nel
conforme vi sono due accezioni
divergenti in un punto che può aprirci alla comprensione della ragione prima e
della conseguenza ultima del conformismo:
v’è il concorde (per somiglianza,
consonanza, affinità) e v’è l’adeguato
(per corrispondenza, adattabilità, congruità), e il punto in cui essi divergono
è quello in cui il comune sinonimo di conveniente
indica colui che compie l’atto che lo fa convenuto
e il vantaggio che egli ne trae nel non mancare al convenire. Questo ci consente di risolvere l’ambiguità del conformista nella natura moralmente neutra della forma cui è chiamato ad aderire, e che
tale dev’essere – moralmente neutra,
dico – perché vi sia perfetta coincidenza tra convenire e convenienza.
Ovviamente sarà il caso di chiarire quale sia la forma alla quale il conformista
è chiamato a convenire, donde ne
tragga convenienza e cosa debba
intendersi per moralmente neutro. Perché
questo ci sia reso semplice, potremmo cominciare dall’interrogarci sul senso
che il suffisso -ismo assume nel conformismo. Qui non sta a indicare una
dottrina religiosa, filosofica o politica, ma una tendenza che trascende ogni dottrina o, per meglio dire, che la
supera, per limitarsi a conformarsi a quella che di volta in volta è
preminente. Ecco chiarito il primo punto: la forma cui il conformista
è chiamato a conformarsi deve avere
un carattere di preminenza, ancorché
mobile. Potremmo affrettarci a dire che la tendenza
sia a trovare convenienza dal convenire nel punto dove un’opinione si
fa maggioritaria, ma questo non è del tutto corretto, perché occorre un altro
fattore a fare di questa opinione una forma
alla quale si sia chiamati a farsi conforme:
dev’essere maggioritaria, sì, ma deve anche avere uno statuto interno che ne
affermi la pretesa totalizzante. È per questo che il fenomeno del conformismo appare più evidente per le forme che sul piano religioso,
filosofico o politico, ma anche su quello artistico, e più in generale sul
piano del gusto, assumono caratteri totalitari, e tuttavia non sarà il caso di
inferire che il conformismo sia una
resa a questa pretesa. Tutt’altro. Non c’è diretta proporzione, infatti, tra la
forza con la quale la forma si impone
e la massa che le si fa conforme: la
pressione che genera il conformismo
non è – o comunque non è solo – ab
extrinseco, siamo piuttosto dinanzi a un processo di natura osmotica, che
peraltro dà conto anche del carattere liquido della massa qui in oggetto (ha il
veloce spostamento tipico dei fluidi, si adatta al recipiente che l’accoglie,
ecc.).
2. Ho
intenzionalmente evitato, in questa premessa, ogni diretto riferimento a
elementi di natura psicologica o sociologica. Diciamo che l’approccio al conformismo è stato di tipo fenomenologico
(dove per fenomenologia, qui, intendo l’analisi della sua mera Selbstgegebenheit, almeno come ce l’ha
spiegata Max Scheler). Tuttavia l’autodarsi
del conformismo esorbita in radice da
quest’ambito ed era inevitabile che la forma
rimanesse entità pura e che la tendenza
rimanesse cosa astratta. In questo secondo paragrafo continuerò a lasciare sullo
sfondo la sterminata mole di studi psicologici e sociologici che soprattutto
negli ultimi settant’anni si sono appuntati sulla questione – do per scontato
che il lettore ne abbia una conoscenza anche superficiale, il tanto che basti a
risparmiarmi la lunga lista delle note a pie’ di pagina relative agli autori
che qui faranno capolino, seppur per vaghi cenni – limitandomi a considerare i
due punti che abbiamo lasciato in sospeso: come il convenire produca convenienza
e cosa debba intendersi per moralmente
neutro relativamente a questa scelta. È possibile farlo astraendoci dalla
psicologia del conformista e dalla
società in cui vive? Non è già la scelta di termini come convenire, che implica un luogo, e convenienza, che implica una merce di scambio, a renderci
impossibile il mettere da parte la società? E tirare in ballo la morale non ci obbliga a considerare il conformismo un carattere, e dunque una
configurazione psichica? Senza dubbio, ma dal sociale possiamo continuare a
tener lontani il convenire e la convenienza considerandoli agente e atto
della convenzione, che è del moto convettivo dato dal gradiente osmotico. Così con la morale: implica un costume, dunque un
soggetto, tuttavia, nel dire moralmente
neutra la forma cui tale soggetto
è chiamato ad aderire, ci è indispensabile chiarire la natura del costume o
possiamo anche farne a meno limitandoci a considerare la natura del momento adesivo?
Nel moto convettivo che spinge il conformista ad aderire ad una convenzione, quale che sia la natura del
fluido e le caratteristiche del mezzo in cui esso si muove, non è possibile individuare
una costante? C’è un K che vale
sempre, in ogni espressione del conformismo,
quale che siano la forme cui il conformista è chiamato ad aderire, quali
che siano i fattori che in lui generano l’adesione, quali che siano i caratteri
del suo moto convettivo? In altri
termini: c’è una spiegazione pre-psicologica e pre-sociologica al conformismo? Io penso di sì. Penso che
sia proprio la natura inorganica del processo osmotico passivo a spiegare il conformismo prima e oltre i modi in cui
esso si autodà nell’individuo e nella
società. Nell’organico troviamo membrane che si oppongono all’osmosi passiva, ma
ad un considerevole prezzo. Un prezzo che l’inorganico, prima ancora di non
volere, non sa pagare. Corre verso la convenienza:
psicologia e sociologia vengono dopo, a dargli parvenza di umano.
[segue]
venerdì 26 dicembre 2014
[...]
Bergo’,
fossi in te, mi cagherei addosso dalla paura. No, dico, hai visto le facce che
avevano i signori della Curia mentre li smerdavi coi peggiori epiteti? ’Spetta
che ti rifilo qualche fermo immagine, così ti fai un’idea degli umori.
Bergo’,
posso capire che ti girino i coglioni perché in Curia trovi resistenze alla tua
linea, però così tu rischi grosso e, quel che è peggio, non ottieni nulla. E
vabbe’ che vieni dalla provincia e che certe finezze non puoi coglierle, però,
che cazzo, sei un gesuita, dovresti avere almeno un’infarinatura di prudenza, sapere che mortificare il cortigiano e tenerlo a corte è come scavarsi la fossa.
Guarda che fino a un certo punto riesco anche a comprenderti: ti pari il culo
coram populo, così, quando tra un anno o due dovrai dar conto che al netto delle
chiacchiere tutto è come prima, potrai pur sempre dire che non ne hai colpa,
che ti hanno messo i bastoni tra le ruote, e naturalmente troverai chi ti darà
ragione. Ma questo torna buono a costruirti il santino, non a fare le riforme,
tanto meno le rivoluzioni. E poi tu stesso hai tenuto a precisare che da papa
hai potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale, roba che nessun
papa ha avuto mai bisogno di precisare: o questa potestà mostri di averla, e
mandi i ribelli a fare i missionari tra i cannibali, o taci. Bergo’, i papi passano, la Curia resta.
martedì 23 dicembre 2014
[...]
Non
si capisce perché l’operazione Aquila Nera non possa essere banalizzata come
taluni hanno fatto con l’operazione Mafia Capitale. Se quella di Roma non è
mafia, quello dell’Aquila è fascismo? Se le intercettazioni tra gli indagati
che la Procura di Roma ritiene facessero capo a Massimo Carminati dimostrano
che quell’organizzazione a delinquere non avesse i caratteri della cosca
mafiosa, quelle tra gli indagati che la Procura dell’Aquila ritiene facessero capo
a Stefano Manno dimostrano che quella combriccola fosse fascista? Se la mafia –
come si è detto – è tutta un’altra cosa, e a Roma tutt’al più era attiva una
banda di cravattari, mezzo millantatori e mezzo coatti, quella che si è
scoperta tra Marche, Abruzzo e Molise era un’organizzazione paramilitare?
Tramavano per l’eversione, dicono, ma via, banalizziamo pure qui, erano una dozzina
di sfessati che neanche credevano in quello che dicevano, terroristi da social
network, scadenti parodie dei terroristi neri degli anni Settanta. È come con
Carminati, via, che solo chi è più cecato di lui può paragonare a Totò Riina:
accostare Manno a Concutelli è assurdo. E i morti, poi, come la mettiamo coi
morti? C’è chi ha strepitato in qualche talk show: «La mafia è sanguinaria, e
questi qui che hanno fatto? Hanno minacciato di menare uno, ne hanno spaventato
un altro, passavano qualche mazzetta a quelli del Comune. E che è, mafia,
questa?». Non si capisce perché non possa andar bene lo stesso schema con
questi balordi che giocavano all’insurrezione invece che a Monopoli. Avevano
armi? Anche quelli di Roma, e in fondo chi non possiede un mitra, oggi? Vanno
puniti questi e quelli, sia chiaro, ma evitiamo costruzioni paranoiche nell’uno
e nell’altro caso: Carminati è un delinquentello, Menna è un poveraccio, tirare
in ballo Banda della Magliana e Ordine Nuovo è ridicolo.
E
per stasera basta, ché non mi sento tanto tonico. Alla prossima, semmai, mi
spenderò per banalizzare la lebbra a sfogo di pelle.
Un Chisciotte in meno
Settant’anni
fa, a Buenos Aires, venivano date alle stampe le Ficciones di Jorge Luis Borges, che di lì a poco sarebbero arrivate
in Italia, per i tipi della Einaudi. Così facemmo la scoperta di Pierre Menard, autor del Quijote, una
delle più geniali creazioni dello scrittore argentino.
Tra il
copiare meccanicamente il Chisciotte e
il produrre pagine in tutto simili a quelle di Cervantes c’era di mezzo un poderoso
lavoro che occupò Menard per anni e anni, e di cui egli non volle lasciar traccia,
ma di cui Borges si premura di farci intendere scopo e metodo.
Leggiamo
e non ci resta altro da fare che rimanere a bocca aperta dinanzi alla
rivelazione: il Chisciotte di Menard
e quello di Cervantes possono sembrare simili solo ad un ingenuo, tra l’uno e l’altro
c’è una differenza enorme, com’è nel dire la stessa frase in due contesti del
tutto diversi: ha lo stesso suono in entrambi i casi, ma arriva ad essere pronunciata
seguendo percorsi profondamente dissimili, che rivelano mentalità e sensibilità distanti secoli. Siamo ben oltre l’impossibilità di entrare due volte nello stesso fiume: qui è possibile entrare due volte nello stesso fiume, ma è tra le due entrate che non vi è alcuna possibilità di similitudine, e la differenza sta nell’enorme distanza che si avverte come coincidenza.
Possiamo provare ad aggiornare la prova: come sarebbe il Chisciotte di chi oggi volesse compiere su Menard lo stesso sforzo sovrumano che Menard tentò su Cervantes? Giocoforza sarebbe un altro Chisciotte, un Chisciotte contemporaneo, perciò infinitamente meno faticoso. Basterebbe ritrarre un uomo sulla cinquantina che un bel giorno, di punto in bianco, decide di abbandonare tutto ciò che fin lì è stata la sua vita per andarsene ramingo per il mondo con lo scopo di mettere in pratica quanto ha letto nei libri. Infinitamente meno faticoso, rispetto a cinque secoli fa, e rispetto a ottant’anni fa (Borges data l’impresa di Menard agli anni trenta del Novecento), perché i libri, oggi, offrono modelli che non si esauriscono in quello cavalleresco. Sarebbe un Chisciotte qualsiasi: in apparenza, un Chisciotte in più, ma, in sostanza, un Chisciotte in meno.
lunedì 22 dicembre 2014
20.5.1944 - 22.12.2014
Avrò
avuto 15 o 16 anni, proiettarono Woodstock
a una Festa de l’Unità, ero in prima fila, abbracciato ad una ragazzina brufolosa
di cui ero innamorato perso, del film me ne importava poco o niente. Poi, d’un
tratto, la sua voce. Non sapevo chi fosse. Anche dopo averlo saputo, non è che
mi abbia fatto differenza. Per dire, mai comprato un suo disco. Quella canzone,
interpretata in quel modo, con quella faccia – quella scena, insomma, con tutto
quello che di fastidioso pure mi procurava, quelle basette, quella maglietta – solo
quello era il mio Joe Cocker, la topica del blues bianco. Non avrei molto da
commemorare, in fondo era un artista che riducevo a quegli otto minuti del
film. La ragazzina disse: «Cazzo!». «Cazzo!», risposi io. E per otto minuti
rimanemmo inchiodati con gli occhi sullo schermo. Una delle cose che non
dimenticherò mai.
[...]
Ormai
sono passati più di venti mesi da quando Bergoglio è stato fatto papa e qualche
resoconto, anche solo alla buona, penso sia lecito farlo. Non già sul suo
pontificato, però, perché è presto ancora, ma sulle reazioni che ha prodotto
nel popolo dei tiepidi o degli indifferenti o addirittura dei sedicenti
anticlericali, sì, ci è lecito. E allora occorre segnalare che, a fronte delle tante autorevoli teste di cazzo che al povero Ratzinger rinfacciavano un giorno
sì e l’altro pure di grattarci quattro miliardi all’anno tra ottopermille,
finanziamenti alle scuole gestite dai preti, riparazioni al campanile, sconti
fiscali, eccetera, non c’è neppure una vocina, fioca quanto si voglia, che a
Bergoglio chieda conto di come si concili tutta la sua retorica da poverello
che si batte a mani nude contro Mammona e il continuare a intascare la
sfaccimma della sfaccimma della sfaccimma di milioni e milioni di euro attraverso
i canali di sempre. Vanno a intervistarlo, gli chiedono di tutto, ma a nessuno
salta l’uzzolo di dirgli: «Santità, che fa, molla la presa sul pacco di soldi che
continua a scorrere dalle tasche degli italiani verso la Cei e il Vaticano? E
quando?». Né glielo chiede uno dei tanti che chiama al telefono, sarà che sono
troppo coglioni per affrontare una questione tanto sgradevole o forse già sanno
che di botto mancherebbe campo e la linea cadrebbe, e poi di che cazzo
potrebbero vantarsi il giorno dopo? Ve lo immaginate Benigni? «Oh, Santità, la
ringrazio, quanto onore ricevere i suoi complimenti per la mia catechesi laica.
Già che ci troviamo, però, mi toglie una curiosità? Cosa le costa un motu
proprio di due righe nel quale si legga: “dal giorno tot accettiamo soldi solo dal
singolo fedele”?». Macché.
sabato 20 dicembre 2014
[...]
«Considero grave e
allarmante l’impoverimento culturale che la politica ha subìto; e non mi
riconosco negli atteggiamenti oggi prevalenti. Stiamo vivendo un’epoca di
sfrenata personalizzazione della politica, di smania di protagonismo, di
ossessiva ricerca dell’effetto mediatico. E al fenomeno dei “partiti personali”,
cresciuto in Italia più che in qualsiasi altro grande paese europeo, al declino
dei metodi di direzione politica collegiale, alla perdita da parte dei partiti
di radicamento e di vita democratica nelle istanze di base si accompagna una
diffusa spregiudicatezza nella lotta per il potere e nella gestione del potere». Chi può aver scritto
parole tanto sagge? Non ci arrivate? Ok, non voglio tenervi troppo sulla corda:
si tratta di Giorgio Napolitano, è un brano tratto dalla sua «autobiografia politica» (Dal Pci al socialismo europeo – Editori
Laterza, 2005). Da non crederci, vero? Si tratta dello stesso Giorgio Napolitano
che qualche giorno fa ci ha esortato all’adorazione del vitello d’oro, il
Matteo Renzi che, in quanto a spregiudicatezza, a sfrenata personalizzazione
della politica, a smania di protagonismo, ad ossessiva ricerca dell’effetto
mediatico e allo sbattersene dei metodi di direzione politica collegiale, non è
secondo a nessuno. Si tratta dello stesso Giorgio Napolitano che ha fatto un solenne
cazziatone a quanti nel Pd storcono il muso per come il Fenomeno se ne fotta
altissimamente delle istanze di base e del radicamento del partito, che ha
trasformato in una macchina propagandistica da campagna elettorale permanente.
Obietterete che non si crocifigge un caro vecchietto a quel che ha detto dieci
anni fa, quando l’impoverimento culturale subìto dalla politica era evidente
quasi solo nel centrodestra e “partito personale” era sinonimo di Forza Italia.
Convengo, figurarsi. Era solo per avvertire la casa editrice: in caso di
ristampa, si provveda al taglio del succitato passaggio.
venerdì 19 dicembre 2014
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