I. Andando
per la sessantina, mi costa sempre più fatica tollerare la follia
del mondo. Uso il gerundio per attenuare il nesso di causalità, non
voglio dar da intendere che alla relazione io assegni la cogenza
di una legge di natura: parlo solo per me, né mi sfugge che col
passar degli anni, al contrario, di solito si diventi più tolleranti
verso il mondo. Per me è accaduto tutto il contrario, ma «fatica»,
«tolleranza», «follia», «mondo» sono
termini estremamente ambigui e può darsi che nel circostanziarne il
senso io riesca a spiegarmi meglio, dunque a chiarire lo stato
d’animo che informa l’affermazione con la quale ho aperto questa
chiacchierata.
Comincerei
dal «mondo», che intendo come «totalità dei fatti, non
delle cose» (Tractatus logico-philosophicus, 1.1), con le
quali, d’altronde, ho sempre avuto un buon rapporto. È che
«l’oggetto è semplice» (ibidem,
2.02) e «la [sua] sostanza […] sussiste
indipendentemente da ciò che accade» (ibidem, 2.024):
non così per il fatto, «la [cui] struttura […] consta
delle strutture degli stati di cose» (ibidem, 2.034), e
del quale, anche se non volessimo, non possiamo farci che un’immagine, la quale ne «presenta
la situazione nello spazio logico» (ibidem, 2.11). A
differenza della cosa, insomma, il fatto deve necessariamente darsi situazione in uno
spazio logico, altrimenti non può che segnalare l’illogicità del
mondo per quella porzione di cui ne è parte. Bene, direi che,
andando per la sessantina, vedo crescere a dismisura la quantità di
fatti la cui rappresentazione è irrealizzabile in uno spazio entro
il quale vigano le norme della logica, che poi sono le stesse che informano le leggi della retta argomentazione. In altri termini, il mondo le rifiuta, non sa che farsene, anzi sembra compiacersi dell’infrangerle, e così rovina, ma sembra compiacersi anche di questo.
Semplice,
allora, spiegare cosa intenda per «follia del mondo»: se
«l’immagine
logica dei fatti è il pensiero»
(ibidem,
3) e se «il
pensiero è la proposizione munita di senso»
(ibidem,
4), sempre più spesso mi capita di non riuscire più a cogliere un
senso nelle proposizioni che esprimono la logica dei fatti. Non in
tutte, in realtà, occorre che sia onesto, ma nella gran parte direi
proprio di sì. Il mondo, insomma, non ragiona più. Va avanti così da un bel pezzo, quello che segna il
punto di rottura è la presa d’atto
che ogni tentativo di cogliere un senso nelle proposizioni che
esprimono la logica dei fatti, e cioè di poter pensare qualcosa di
sensato riguardo al mondo, prima che inutile, è impossibile. Commentare i fatti, insomma, mi deprime, mi mortifica, mi avvilisce. Quale miglior rimedio del trascurarli?
Prevengo
l’obiezione
di chi a questo punto voglia contestarmi ch’io
non riesca a cogliere la logica dei fatti perché non in possesso degli strumenti adeguati: quali
sarebbero – rispondo – questi strumenti adeguati, se non quelli
che ho sempre utilizzato in passato, riuscendo con essi a trovare un
senso nelle proposizioni che esprimevano la logica dei fatti in
passato? Se non sono più adeguati, dev’essere
cambiato qualcosa nella natura dei fatti, la cui immagine logica –
e qui mi pare che l’inferenza
sia ampiamente motivata – rifugga dal darsi proposizioni munite di
senso. Nulla è cambiato in me, è il «mondo»
ad
essere cambiato. Se devo rimproverarmi qualcosa, insomma, è il non
essere stato in grado, da un certo punto in poi, di costruire un artificio retorico che surrogasse uno spazio logico entro il quale i fatti potessero trovare un surrogato di senso.
Aggiungo che da un certo punto in poi ho rinunciato anche a provarci,
e forse qui sarà più chiaro il significato che intendo dare a
«tolleranza»
e a «fatica»:
soffro un fastidio, un tremendo fastidio, al quale vado mettendo
riparo col rifiuto di dare ogni sorta di attenzione alla «follia
del mondo». E devo dire che funziona.
Non
mi si fraintenda: se non sono in grado di formulare una prognosi per
questa «follia del mondo»,
la sua diagnosi è stata accurata e in buona misura me ne è chiara
l’etiopatogenesi.
In modo frammentario, certo, e senza metterci quel tanto di
pedanteria che forse sarebbe stata necessaria, in dodici anni di
scrittura pubblica mi pare di aver illustrato a sufficienza le cause
e i modi che hanno portato i fatti a diventare irrappresentabili in
quello «spazio
logico»
nel quale, finché hanno potuto, si sono dati immagine
in forma di «proposizione
munita di senso».
Tornare alla scrittura privata segna la decisione di archiviare il
caso clinico della «follia
del mondo»,
per dedicarmi a questioni di nessun interesse pubblico, chessò –
dico per fare qualche esempio sfogliando il mio taccuino delle ultime settimane – i busti
di Messerschmidt,
la claritas
e la defectio
in Gioacchino da Fiore, quanto di Händel ci sia in Sergent
Pepper,
temi inopportuni sulle pagine di un blog nato come diario civile. Che dunque è il caso venga chiuso.
Ho meditato sull’opportunità di oscurarne le pagine, ma mi ha trattenuto il constatare che, a più di un mese dalla sospensione dell’aggiornamento, continuano ad esser lette in una media di 600/die, mentre è aumentato notevolmente il numero di lettori per quelle scritte tra il 2004 e il 2010 (malvino.ilcannocchiale.it): lascio tutto dov’è, chissà non possa tornar utile a comprendere meglio una decisione che in tanti mi hanno scritto di trovare inspiegabile, e che qui è assai probabile non sia riuscito a spiegar meglio. Ci avrò fatto la figura del disadattato, dell’irriducibile passatista che si ostina a dare alle parole un peso che ormai non hanno più da tempo. E in parte è vero, perché – ripeto – non sono io ad essere impazzito, ma il mondo.
Ho meditato sull’opportunità di oscurarne le pagine, ma mi ha trattenuto il constatare che, a più di un mese dalla sospensione dell’aggiornamento, continuano ad esser lette in una media di 600/die, mentre è aumentato notevolmente il numero di lettori per quelle scritte tra il 2004 e il 2010 (malvino.ilcannocchiale.it): lascio tutto dov’è, chissà non possa tornar utile a comprendere meglio una decisione che in tanti mi hanno scritto di trovare inspiegabile, e che qui è assai probabile non sia riuscito a spiegar meglio. Ci avrò fatto la figura del disadattato, dell’irriducibile passatista che si ostina a dare alle parole un peso che ormai non hanno più da tempo. E in parte è vero, perché – ripeto – non sono io ad essere impazzito, ma il mondo.
II. Non
sono mai riuscito a capire che cazzo di linguaggio sarebbe quello che
dà struttura all’inconscio,
ma da qualche tempo non me ne faccio più un problema, perché ho il
sospetto che questa sia una delle tante frasi uscite di bocca a Lacan
senza star troppo a pensarci abbastanza prima,
per poi farlo fin troppo dopo.
Il sospetto è che fosse vittima anche lui del difettaccio che deve
essere stato relativamente comune ai tempi in cui residuava ancora
qualcosa della «mente
bicamerale»
(cfr. Julian Jaynes) e si preferiva non correggere lo sproposito
scappato di penna sul papiro, che d’altronde
era materiale assai costoso, e tollerava male le cancellature. Non so
più dove possa essersi ficcato, ma una trentina d’anni
fa raccolsi in uno studiolo due o tre dozzine di passi tratti per lo
più da testi greci scritti tra il I e il III secolo, sui quali si
sono scervellate invano intere generazioni, provando a ipotizzare per
ciascuno la versione piana, perfettamente comprensibile, di colpo
diventata impenetrabile per la decisione dell’autore
di non procedere a correggere un refuso, spesso banale, per
rivolversi a dargli un senso a
posteriori,
spesso con esiti infelici per la coerenza interna al testo, ma, via,
i posteri si arrangino, tanto l’oscurità
implica profondità, e l’inconscio non sbaglia mai: scendano, i
posteri, e si perdano, chissà che non finiscano per trovare
l’introvabile. Ecco, invece di «inconscio»
sarebbe stato meglio dire «spirito»,
ma, insomma, ci siamo capiti...
Divago,
maledizione, divago sempre. Partivo con l’intenzione di dire che il
linguaggio – e so che c’è da storcere il muso – non so
concepirlo altrimenti che in forma di scrittura. Anche quando è
orale? Anche. Ma la scrittura non viene dopo? Certo, ma nella forma
orale il linguaggio regge solo se è adeguatamente traducibile in
scrittura, sennò è ciancia, rumore, eventualmente musica, ma non ha
niente a che vedere con la costruzione di un senso. Solo nella frase
scritta, o che può esser scritta senza far perdere nulla di quanto
esprime nella sua forma orale, se qualcosa esprime, il pensiero può
darsi – almeno tentare – dignità di linguaggio. Ma forse sbaglio
a dire «dignità»:
meglio «struttura».
E qui chiudo il cerchio aperto con l’incipit: il pensiero non può
fare a meno di una struttura, il linguaggio gliene dà una che nella
forma scritta (per meglio dire: in qualsivoglia forma pianamente
traducibile in un testo che si dia le norme della scrittura) trova la
sola possibilità di offrirsi a una verifica. Intendiamoci: non che
la frase scritta sia immune di per sé da ciò che rende così spesso
fatua, se non ladra o assassina, la frase orale, ma è che, a
differenza di quest’ultima, dà piena disponibilità di saggiare la
struttura attraverso la quale il pensiero può esprimersi...
Divago ancora, maledizione, per giunta dilungandomi più del dovuto, e in fondo solo per dire che ho sempre affidato alla scrittura il compito di dare al flusso dei miei pensieri una forma intellegibile, fosse solo a me stesso. In altri termini, è sempre e solo scrivendolo che mi sono chiarito cosa pensassi, verificando se reggesse come scrittura nel rispetto delle regole che reggono la retta argomentazione, che sta alla logica come la geometria sta all’aritmetica. È per questo che probabilmente non smetterò mai di scrivere, come d’altronde faccio da sempre, da ben prima che la mia scrittura diventasse pubblica. Quando rileggo i quaderni che ho riempito dal 1972 al momento in cui ho aperto questo blog, noto qualche diversità di accenti, una maggiore attenzione alla vita personale, una libertà che era innanzitutto impudicizia, una totale mancanza di autocensura, certe arditezze in spregio anche a quel minimo di buone maniere che è indispensabile quando si interloquisce con altri da sé, elementi che in apparenza rendono quella scrittura totalmente diversa da quella pubblica, ma che in realtà differiscono solo in un punto: la mia scrittura pubblica eccede in premesse, che quella privata – devo supporre – ha sempre dato per superflue. Un’ansia di spiegarmi bene che dev’esser concava alla convessità della paura di essere frainteso: tutta qui, la differenza, tra i miei taccuini e il blog. È evidente che, a dispetto della fama di temerario, io abbia un genuino timor panico dell’agorà telematica, d’altronde ho sempre ritenuto fosse cretino definirla realtà virtuale: si tratta di un duplicato della realtà che in parte le si sovrappone, ormai senza più alcuna possibilità di separarne i piani, perché in più punti sono tanto embricati che tutto il bene e tutto il male che si può pensare del web coincide con tutto il bene e tutto il male che si può pensare dell’esser-ci (quello stare dentro la vita che non è necessariamente vivere).
Divago ancora, maledizione, per giunta dilungandomi più del dovuto, e in fondo solo per dire che ho sempre affidato alla scrittura il compito di dare al flusso dei miei pensieri una forma intellegibile, fosse solo a me stesso. In altri termini, è sempre e solo scrivendolo che mi sono chiarito cosa pensassi, verificando se reggesse come scrittura nel rispetto delle regole che reggono la retta argomentazione, che sta alla logica come la geometria sta all’aritmetica. È per questo che probabilmente non smetterò mai di scrivere, come d’altronde faccio da sempre, da ben prima che la mia scrittura diventasse pubblica. Quando rileggo i quaderni che ho riempito dal 1972 al momento in cui ho aperto questo blog, noto qualche diversità di accenti, una maggiore attenzione alla vita personale, una libertà che era innanzitutto impudicizia, una totale mancanza di autocensura, certe arditezze in spregio anche a quel minimo di buone maniere che è indispensabile quando si interloquisce con altri da sé, elementi che in apparenza rendono quella scrittura totalmente diversa da quella pubblica, ma che in realtà differiscono solo in un punto: la mia scrittura pubblica eccede in premesse, che quella privata – devo supporre – ha sempre dato per superflue. Un’ansia di spiegarmi bene che dev’esser concava alla convessità della paura di essere frainteso: tutta qui, la differenza, tra i miei taccuini e il blog. È evidente che, a dispetto della fama di temerario, io abbia un genuino timor panico dell’agorà telematica, d’altronde ho sempre ritenuto fosse cretino definirla realtà virtuale: si tratta di un duplicato della realtà che in parte le si sovrappone, ormai senza più alcuna possibilità di separarne i piani, perché in più punti sono tanto embricati che tutto il bene e tutto il male che si può pensare del web coincide con tutto il bene e tutto il male che si può pensare dell’esser-ci (quello stare dentro la vita che non è necessariamente vivere).