sabato 18 luglio 2015

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I. Andando per la sessantina, mi costa sempre più fatica tollerare la follia del mondo. Uso il gerundio per attenuare il nesso di causalità, non voglio dar da intendere che alla relazione io assegni la cogenza di una legge di natura: parlo solo per me, né mi sfugge che col passar degli anni, al contrario, di solito si diventi più tolleranti verso il mondo. Per me è accaduto tutto il contrario, ma «fatica», «tolleranza», «follia», «mondo» sono termini estremamente ambigui e può darsi che nel circostanziarne il senso io riesca a spiegarmi meglio, dunque a chiarire lo stato d’animo che informa l’affermazione con la quale ho aperto questa chiacchierata.
Comincerei dal «mondo», che intendo come «totalità dei fatti, non delle cose» (Tractatus logico-philosophicus, 1.1), con le quali, d’altronde, ho sempre avuto un buon rapporto. È che «loggetto è semplice» (ibidem, 2.02) e «la [sua] sostanza […] sussiste indipendentemente da ciò che accade» (ibidem, 2.024): non così per il fatto, «la [cui] struttura […] consta delle strutture degli stati di cose» (ibidem, 2.034), e del quale, anche se non volessimo, non possiamo farci che un’immagine, la quale ne «presenta la situazione nello spazio logico» (ibidem, 2.11). A differenza della cosa, insomma, il fatto deve necessariamente darsi situazione in uno spazio logico, altrimenti non può che segnalare l’illogicità del mondo per quella porzione di cui ne è parte. Bene, direi che, andando per la sessantina, vedo crescere a dismisura la quantità di fatti la cui rappresentazione è irrealizzabile in uno spazio entro il quale vigano le norme della logica, che poi sono le stesse che informano le leggi della retta argomentazione. In altri termini, il mondo le rifiuta, non sa che farsene, anzi sembra compiacersi dell’infrangerle, e così rovina, ma sembra compiacersi anche di questo. 
Semplice, allora, spiegare cosa intenda per «follia del mondo»: se «limmagine logica dei fatti è il pensiero» (ibidem, 3) e se «il pensiero è la proposizione munita di senso» (ibidem, 4), sempre più spesso mi capita di non riuscire più a cogliere un senso nelle proposizioni che esprimono la logica dei fatti. Non in tutte, in realtà, occorre che sia onesto, ma nella gran parte direi proprio di sì. Il mondo, insomma, non ragiona più. Va avanti così da un bel pezzo, quello che segna il punto di rottura è la presa d’atto che ogni tentativo di cogliere un senso nelle proposizioni che esprimono la logica dei fatti, e cioè di poter pensare qualcosa di sensato riguardo al mondo, prima che inutile, è impossibile. Commentare i fatti, insomma, mi deprime, mi mortifica, mi avvilisce. Quale miglior rimedio del trascurarli?
Prevengo lobiezione di chi a questo punto voglia contestarmi chio non riesca a cogliere la logica dei fatti perché non in possesso degli strumenti adeguati: quali sarebbero – rispondo – questi strumenti adeguati, se non quelli che ho sempre utilizzato in passato, riuscendo con essi a trovare un senso nelle proposizioni che esprimevano la logica dei fatti in passato? Se non sono più adeguati, devessere cambiato qualcosa nella natura dei fatti, la cui immagine logica – e qui mi pare che linferenza sia ampiamente motivata – rifugga dal darsi proposizioni munite di senso. Nulla è cambiato in me, è il «mondo» ad essere cambiato. Se devo rimproverarmi qualcosa, insomma, è il non essere stato in grado, da un certo punto in poi, di costruire un artificio retorico che surrogasse uno spazio logico entro il quale i fatti potessero trovare un surrogato di senso. Aggiungo che da un certo punto in poi ho rinunciato anche a provarci, e forse qui sarà più chiaro il significato che intendo dare a «tolleranza» e a «fatica»: soffro un fastidio, un tremendo fastidio, al quale vado mettendo riparo col rifiuto di dare ogni sorta di attenzione alla «follia del mondo». E devo dire che funziona. 
Non mi si fraintenda: se non sono in grado di formulare una prognosi per questa «follia del mondo», la sua diagnosi è stata accurata e in buona misura me ne è chiara letiopatogenesi. In modo frammentario, certo, e senza metterci quel tanto di pedanteria che forse sarebbe stata necessaria, in dodici anni di scrittura pubblica mi pare di aver illustrato a sufficienza le cause e i modi che hanno portato i fatti a diventare irrappresentabili in quello «spazio logico» nel quale, finché hanno potuto, si sono dati immagine in forma di «proposizione munita di senso». Tornare alla scrittura privata segna la decisione di archiviare il caso clinico della «follia del mondo», per dedicarmi a questioni di nessun interesse pubblico, chessò – dico per fare qualche esempio sfogliando il mio taccuino delle ultime settimane – i busti di Messerschmidt, la claritas e la defectio in Gioacchino da Fiore, quanto di Händel ci sia in Sergent Pepper, temi inopportuni sulle pagine di un blog nato come diario civile. Che dunque è il caso venga chiuso.
Ho meditato sull’opportunità di oscurarne le pagine, ma mi ha trattenuto il constatare che, a più di un mese dalla sospensione dell’aggiornamento, continuano ad esser lette in una media di 600/die, mentre è aumentato notevolmente il numero di lettori per quelle scritte tra il 2004 e il 2010 (malvino.ilcannocchiale.it): lascio tutto dov’è, chissà non possa tornar utile a comprendere meglio una decisione che in tanti mi hanno scritto di trovare inspiegabile, e che qui è assai probabile non sia riuscito a spiegar meglio. Ci avrò fatto la figura del disadattato, dell’irriducibile passatista che si ostina a dare alle parole un peso che ormai non hanno più da tempo. E in parte è vero, perché – ripeto – non sono io ad essere impazzito, ma il mondo.   


II. Non sono mai riuscito a capire che cazzo di linguaggio sarebbe quello che dà struttura allinconscio, ma da qualche tempo non me ne faccio più un problema, perché ho il sospetto che questa sia una delle tante frasi uscite di bocca a Lacan senza star troppo a pensarci abbastanza prima, per poi farlo fin troppo dopo. Il sospetto è che fosse vittima anche lui del difettaccio che deve essere stato relativamente comune ai tempi in cui residuava ancora qualcosa della «mente bicamerale» (cfr. Julian Jaynes) e si preferiva non correggere lo sproposito scappato di penna sul papiro, che daltronde era materiale assai costoso, e tollerava male le cancellature. Non so più dove possa essersi ficcato, ma una trentina danni fa raccolsi in uno studiolo due o tre dozzine di passi tratti per lo più da testi greci scritti tra il I e il III secolo, sui quali si sono scervellate invano intere generazioni, provando a ipotizzare per ciascuno la versione piana, perfettamente comprensibile, di colpo diventata impenetrabile per la decisione dellautore di non procedere a correggere un refuso, spesso banale, per rivolversi a dargli un senso a posteriori, spesso con esiti infelici per la coerenza interna al testo, ma, via, i posteri si arrangino, tanto l’oscurità implica profondità, e l’inconscio non sbaglia mai: scendano, i posteri, e si perdano, chissà che non finiscano per trovare l’introvabile. Ecco, invece di «inconscio» sarebbe stato meglio dire «spirito», ma, insomma, ci siamo capiti...
Divago, maledizione, divago sempre. Partivo con l’intenzione di dire che il linguaggio – e so che c’è da storcere il muso – non so concepirlo altrimenti che in forma di scrittura. Anche quando è orale? Anche. Ma la scrittura non viene dopo? Certo, ma nella forma orale il linguaggio regge solo se è adeguatamente traducibile in scrittura, sennò è ciancia, rumore, eventualmente musica, ma non ha niente a che vedere con la costruzione di un senso. Solo nella frase scritta, o che può esser scritta senza far perdere nulla di quanto esprime nella sua forma orale, se qualcosa esprime, il pensiero può darsi – almeno tentare – dignità di linguaggio. Ma forse sbaglio a dire «dignità»: meglio «struttura». E qui chiudo il cerchio aperto con l’incipit: il pensiero non può fare a meno di una struttura, il linguaggio gliene dà una che nella forma scritta (per meglio dire: in qualsivoglia forma pianamente traducibile in un testo che si dia le norme della scrittura) trova la sola possibilità di offrirsi a una verifica. Intendiamoci: non che la frase scritta sia immune di per sé da ciò che rende così spesso fatua, se non ladra o assassina, la frase orale, ma è che, a differenza di quest’ultima, dà piena disponibilità di saggiare la struttura attraverso la quale il pensiero può esprimersi...
Divago ancora, maledizione, per giunta dilungandomi più del dovuto, e in fondo solo per dire che ho sempre affidato alla scrittura il compito di dare al flusso dei miei pensieri una forma intellegibile, fosse solo a me stesso. In altri termini, è sempre e solo scrivendolo che mi sono chiarito cosa pensassi, verificando se reggesse come scrittura nel rispetto delle regole che reggono la retta argomentazione, che sta alla logica come la geometria sta all’aritmetica. È per questo che probabilmente non smetterò mai di scrivere, come d’altronde faccio da sempre, da ben prima che la mia scrittura diventasse pubblica. Quando rileggo i quaderni che ho riempito dal 1972 al momento in cui ho aperto questo blog, noto qualche diversità di accenti, una maggiore attenzione alla vita personale, una libertà che era innanzitutto impudicizia, una totale mancanza di autocensura, certe arditezze in spregio anche a quel minimo di buone maniere che è indispensabile quando si interloquisce con altri da sé, elementi che in apparenza rendono quella scrittura totalmente diversa da quella pubblica, ma che in realtà differiscono solo in un punto: la mia scrittura pubblica eccede in premesse, che quella privata – devo supporre – ha sempre dato per superflue. Un’ansia di spiegarmi bene che dev’esser concava alla convessità della paura di essere frainteso: tutta qui, la differenza, tra i miei taccuini e il blog. È evidente che, a dispetto della fama di temerario, io abbia un genuino timor panico dell’agorà telematica, d’altronde ho sempre ritenuto fosse cretino definirla realtà virtuale: si tratta di un duplicato della realtà che in parte le si sovrappone, ormai senza più alcuna possibilità di separarne i piani, perché in più punti sono tanto embricati che tutto il bene e tutto il male che si può pensare del web coincide con tutto il bene e tutto il male che si può pensare dell’esser-ci (quello stare dentro la vita che non è necessariamente vivere).

venerdì 17 luglio 2015

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L’avessero arrestato, ci sarebbe stata una rivoluzione: un anno e mezzo fa ne era sicuro, o almeno ci teneva a farlo credere. Oggi vuole almeno sperarlo, e butta lì la cosa per vedere l’effetto che fa a chi dovrebbe scatenarla, la rivoluzione. Sì, la rivoluzione è evocata in contesti diversi, ma questo basta a spiegare che una minaccia si sia trasformata in preghiera? L’ometto è volubile, si sa, poi non ci avrà creduto neanche un anno e mezzo fa, figuriamoci ora – son robe che potevano venire in mente, a lui o a chiunque altro, solo ai tempi in cui si girava Il Caimano, che è del 2006 – e tuttavia lo scarto implica una presa d’atto che va ben oltre il rovinoso calo di consenso che ha accusato in questi nove anni: oggi sa che lo zoccolo duro è assai meno duro di quanto lui o chiunque altro immaginasse. Forse non ha mai avuto la durezza che potesse assicurare una reazione violenta a un suo arresto, ma prima era possibile un bluff, oggi non più. Ulteriore conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la fidelizzazione non è il nocciolo del consenso, ma la sua buccia.

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«Le style c’est l’homme»
Jacques Lacan


giovedì 16 luglio 2015

Passo

A me piace schierarmi, anche quando per farlo è necessario quel pizzico di disonestà intellettuale indispensabile all’esercizio anche della più blanda faziosità. Beh, nel caso Crocetta non riesco proprio a farlo. Mi sta sul cazzo lui, mi stanno sul cazzo le vedove e le orfane degli eroi che scendono in politica sfruttando il proprio cognome, mi sta sul cazzo chi cerca di sfruttare il contenuto di intercettazioni telefoniche dal contenuto penalmente irrilevante per far cadere un amministratore della cosa pubblica che non riesce a far cadere in altro modo, mi sta sul cazzo chi passa a un giornalista degli atti secretati, mi sta sul cazzo il giornalista che li pubblica, mi sta sul cazzo il politico che dalla caduta di Crocetta si attende possa venir fuori loccasione perché il suo boss lo metta a sminestrare al posto lasciato vacante, mi sta sul cazzo chi inserisce il pilota automatico della sua indignazione per andare inevitabilmente a sbattere col muso contro la morale, mi sta sul cazzo la macchietta del garantista che scatta per riflesso pavloviano a prendere le difese di Tutino. Per questa volta, dunque, rinuncio a schierarmi, perché, anche volendo, non saprei proprio con chi solidarizzare. 

L’Osservatore Romano, 15.7.2015



mercoledì 15 luglio 2015

Meditazioni trascendentali / 2

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Ad ogni strofa che maledice l’Europa-così-com’è segue il ritornello che non-è-quella-del-Manifesto-di-Ventotene, ma fra quelli che cantano ’sta canzone – me lo chiedevo sentendola cantare pure da Renzi – vorrei sapere quanti l’hanno veramente letto.
Piluccando: «La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista... Le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire durante una crisi rivoluzionaria in senso egalitario... Pensiamo ad una riforma agraria che passi la terra a chi la coltiva... Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza col fascismo andrà senz’altro abolito...».

martedì 14 luglio 2015

Fra parentesi

Non sembrerà, ma io sono assai sensibile alle critiche che mi muovono i miei lettori, e proprio oggi uno di loro mi ha rimproverato il «grave errore» di usare, per l«azione politica di una nazione», lo stesso metro di giudizio che potrebbe anche essere legittimo per l«azione di un individuo» nellaffermare che «nel momento di contrarre un debito si debba avere ben chiaro che per onorarlo si debba essere disposti anche a morire di fame». Anzi, fatemi dir meglio: il metro di giudizio che sostiene la mia affermazione sarebbe senza dubbio errato nellanalisi dell«azione politica di una nazione», ma non è detto che non lo sia pure nel caso di un individuo che contragga un debito infischiandosene della possibilità di onorarlo, e dico questo perché sul punto il lettore in questione mi è sembrato vago, limitandosi a definire il mio giudizio come operante attraverso gli «strumenti dell’etica», termine che occorre maneggiare con cautela perché assai pericoloso, e che infatti io cerco di evitare anche quando il contesto basterebbe a dargli il significato che vorrei gli fosse dato da chi mi legge, e chi mi legge da qualche tempo non dovrebbe ignorare che per me il «bene» a fondamento del discorso etico equivale a quell’«utile per il maggior numero di individui» che dovrebbe far coincidere la regola morale alla norma giuridica. In tal senso, sì, non ho fatica ad ammettere che l’«utile per il maggior numero di individui» sta nel fatto che ciascun individuo si assuma fino in fondo la responsabilità delle proprie azioni, per potersene dichiarare pienamente libero.
Ora, a me pare che la propria libertà non possa che consistere nel muoversi entro i limiti posti dalla libertà altrui, e che questi limiti debbano necessariamente essere concordati nella sede di un contratto sociale, nazionale o sovranazionale, che può anche essere violato, a patto di saperne subire le conseguenze, e senza avere alcun diritto di lamentarsene. Sarà per questo che, pur riuscendo a cogliere la differenza che corre tra un popolo e un individuo, presumo che entrambi siano tenuti ad essere responsabili delle proprie azioni? Certo, la differenza che corre tra un popolo e un individuo non mi impedisce di constatare che, per le scelte fatte da un governo, la responsabilità di un popolo che lo ha espresso sia solo indiretta, ma in fin dei conti non rimane tutta sua? Nel caso dei greci, è fuor di dubbio che il debito pubblico sia stato cumulato per le politiche di governi democraticamente eletti da un popolo che non è stato in grado di ponderarne a sufficienza le conseguenze.
Bene, il governo in carica non avrà le responsabilità di quelli che l’hanno preceduto, questo è perfino ovvio, ma il popolo greco è sempre quello, e non può pretendere che le conseguenze di scelte errate in precedenza siano emendate in virtù di un cambio di governo. Del debito che la Grecia ha cumulato può darsi non abbiano goduto in modo equo tutti greci, su questo non c’è dubbio, ma è di tutti i greci la responsabilità che questo sia accaduto, e questo mi pare che destini al solo dibattito interno l’analisi del come e del perché sia potuto accadere. Non è detto che da questa analisi possa necessariamente maturare un senso di responsabilità che riesca a farsi carico di ciò che il passato chiede all’oggi, ma può darsi aiuti finalmente a capire che dall’oggi dipende il domani.

Hanno solo lo yogurt?

Restano dubbi su Tsipras? A me pare che dopo la dichiarazione ufficiale da lui rilasciata al termine dell’eurosummit del 12 luglio – la riporta il manifesto, oggi, e qui vale la pena di analizzarla in dettaglio – non ne restino neppure per chi ha commesso la leggerezza di considerarlo, se non un rivoluzionario, uno tosto, uno con le palle, uno capace di mettere l’Europa con le spalle al muro, costringendola ad accettare una ristrutturazione del debito, se non un suo drastico taglio, che consentisse alla Grecia di riprender fiato dalla morsa delle misure alle quali era stata sottoposta dai governi precedenti, sennò fanculo all’euro, fanculo all’Europa, e che i burocrati dell’Eurozona se la sbrigassero a far fronte alle conseguenze di una Grexit, che a chiacchiere poteva essere una liberazione, ma poteva pure rivelarsi un buco nero in cui sarebbero finite prima o poi il Portogallo, la Spagna, l’Italia e tutto il resto. Macché, neanche capace di un ricatto che, se andava fatto, doveva essere fatale: un demagogo da quattro soldi, uno buono solo a infinocchiare qualche fessacchiotto dei nostri.
In realtà, almeno per quanto mi riguarda, non restavano dubbi già al momento in cui ha deciso di indire un referendum che non era difficile intuire si sarebbe rivelato inutile e dannoso proprio se il risultato fosse stato quello cui sembrava mirasse, anche se poteva non essere così balzana l’ipotesi che mirasse a perderlo, per potersi dimettere, risparmiarsi la figura di merda che oggi lo inscrive nella galleria dei più patetici bluffer di ogni tempo, tornare a fare l’opposizione, che in fondo è la più bella delle occupazioni per chi non sa governare, se vuole scansare ogni altro lavoro di un comune mortale.
«Abbiamo lottato duramente per sei mesi, fino alla fine», ha detto questo stronzo cagato a forza, e c’è da supporre non sia nemmeno risparmiato uno di quei sorrisi da piacione coi quali ha mandato in sollucchero la climaterica sinistra di mezza Europa. «Abbiamo lottato duramente per ottenere il miglior risultato possibile, un accordo che consentirà alla Grecia di rimettersi in piedi e al popolo greco di essere in grado di continuare a combattere». La pressoché unanime opinione è che sia stato costretto ad accettare tutto quello che gli hanno imposto, fatta eccezione per il contentino di avere i controllori in casa, che già è cosa umiliante, piuttosto che dover portare i registri di cassa a Bruxelles. Ancorché unanime, tuttavia, l’opinione che abbia dovuto cedere su tutto può anche essere fallace. E allora c’è da chiedersi cosa ci abbia davvero guadagnato, la Grecia. Oggettivamente, nulla. Per meglio dire, è solo Tsipras che ci guadagna il mantenere la guida del governo, ma solo a patto di rimpiazzare in Parlamento chi gli toglierà la fiducia con chi al referendum si è espresso per il sì, il che neanche è sicuro, sicché sarà più comico che tragico dover vedere la caduta del suo governo non per un «golpe post-moderno» deciso a Berlino, ma per una resa di conti tutta interna a Syriza, mentre in piazza i delusi ne bruciano le bandiere. Perfino il fatuo Varoufakis finisce per ricavare un’inimmaginabile aura di serietà gridando al tradimento.
Ma Tsipras, come tutti demagoghi, ha una faccia a prova di schiaffi: «Abbiamo affrontato decisioni difficili e difficili dilemmi. Ci siamo assunti la responsabilità di una decisione per evitare l’attuazione degli obiettivi più estremi portati avanti dalle forze conservatrici più estreme dell’Unione europea». Come chi, dopo aver subìto uno stupro, vanti di aver ridotto lo stupratore a un poveraccio col cazzo moscio.
«Questo accordo prevede misure severe. Tuttavia, abbiamo impedito il trasferimento di proprietà pubbliche all’estero, abbiamo impedito l’asfissia finanziaria e il crollo del sistema finanziario - che erano già stati pianificati nei minimi dettagli e alla perfezione - che erano in corso di attuazione. Infine, in questa battaglia dura, siamo riusciti a ottenere la ristrutturazione del debito e un processo di finanziamento a medio termine. Eravamo consapevoli che non sarebbe stato un compito facile, ma abbiamo creato un patrimonio molto importante. Un lascito importante, e un cambiamento tanto necessario per tutta l’Europa. La Grecia continuerà a combattere, noi continueremo a combattere, in modo da poter tornare a crescere, a recuperare la nostra sovranità nazionale persa. Abbiamo guadagnato la nostra sovranità. Abbiamo inviato un messaggio di democrazia, un messaggio di dignità, in Europa e nel mondo. Questa è l’eredità più importante di questi giorni». Tutto sta, adesso, nel cercare di convincere i greci che si è trattato proprio di questa strabiliante vittoria. Non ci riuscisse, pazienza. Però ai greci sarebbe data un’occasione irripetibile per mostrare all’Europa intera che, a dispetto dell’odiosa vulgata che li dipinge come italiani appena un po’ più scemi, sono un popolo serio. Hanno solo lo yogurt? Una volta tanto ci affogassero dentro un premier. 

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Il quesito posto ai greci col referendum del 5 luglio era il seguente: «Deve essere accettato il progetto di accordo presentato da Commissione europea, Bce e Fmi nell’Eurogruppo del 25 giugno 2015, composto da due parti che costituiscono la loro proposta?». Dobbiamo dare per scontato che chi si è recato alle urne abbia letto i due documenti che costituivano il progetto di accordo? Ne avrà avuto il tempo, visto che il referendum è stato indetto solo pochi giorni prima del voto? In altri termini, i greci sapevano con esattezza a cosa stessero dicendo sì o no? Non lo sapremo mai, ovviamente, ma unidea possiamo ricavarla a posteriori, per la delusione che accompagna chi in Grecia e fuori dalla Grecia voleva vincesse il no. Se, infatti, l’accordo che Tsipras ha sottoscritto ieri è meno pesante di quello che ha rifiutato il 25 giugno, la delusione avrebbe senso solo a ipotizzare che chi è stato soddisfatto dellesito del referendum non fosse a conoscenza di cosa fosse scritto in quei due documenti. Cè da chiedersi, dunque, a cosa abbia detto no. Per meglio dire, cè da chiedersi a cosa gli sia stato fatto credere dicesse no, e poi se il farglielo credere sia stato intenzionale o meno.
Per risolvere la questione non c’è che da riandare ai giorni che hanno preceduto il referendum per rileggere le dichiarazioni di chi parteggiava per il no. Rileggendole, si capisce il perché della delusione: nulla di ciò che avrebbe dovuto far forti le ragioni della Grecia con la vittoria del no ha trovato modo di realizzarsi nel modo che si riteneva dovesse esser ovvio. Si dirà che è proprio la vittoria del no ad aver irrigidito l’Eurogruppo del 12 luglio nella richiesta di condizioni che sono in tanti, fra quanti parteggiavano per il no, a ritenere pesanti almeno quanto quelle del 25 giugno. Bene, non era prevedibile? Voglio dire: chi ha deciso di indire il referendum non doveva mettere in conto questa reazione?
Si badi bene: qui non ho alcuna intenzione di dare un giudizio di merito sull’intera vicenda, voglio limitarmi a considerare perché sia stato indetto il referendum, quale significato avesse realmente e quale invece gli si è voluto dare, e quali risultati pratici abbia avuto. Se mi astengo dall’esprimere la mia opinione sull’intera vicenda, è per una ragione estremamente semplice: non le do molto peso, perché è della stessa natura che ha spinto tanti a parteggiare per il no, ma di segno diametralmente opposto. Io, ad esempio, ritengo che nel momento di contrarre un debito si debba avere ben chiaro che per onorarlo si debba essere disposti anche a morire di fame. Poi ritengo che, nel momento di entrare a far parte di una comunità che si è data alcune regole, quelle regole vadano rispettate, sennò si possa trarre la sola conclusione di non farne più parte. Più in generale, ritengo che la Grecia non avrebbe mai dovuto entrare nell’Eurozona o uscirne già da tempo. Per parametri che avrebbero imposto analoghe misure anche per altri paesi? Non mi interessa, d’altronde qui stiamo parlando della Grecia, ma in ogni caso, sì, sarebbe stato meglio se analoghe misure si fossero prese anche per altri paesi, se avessero posto gli stessi problemi posti dalla Grecia. Di fatto, almeno fino ad ora, questi problemi si sono posti solo per la Grecia, e a mio modesto avviso questo doveva bastare a dichiararla fuori dall’Eurozona. Sarebbe stato un problema anche per i paesi che ne fanno parte? Peggio per loro, se non in grado di far fronte ad una decisione che era imposta dalle regole che si erano dati.
Come vedete, si tratta di ragioni che non tengono in alcun conto la logica che guida verso il compromesso per motivi di opportunità. Insomma, sono le ragioni di uno che non può pretendere di avere alcuna voce in capitolo nella costruzione di un’Europa come quella che abbiamo. Ecco, credo che sarebbe bello se allo stesso modo la pensassero anche quelli che ritengono impensabile una Grecia fuori dall’Europa o una Grecia in default, e pensano che questo debba essere evitato ad ogni costo, anche a fronte delle resistenze della Grecia ad uniformarsi alle richieste che le vengono dagli organismi che a torto o a ragione sono deputati a dettare una linea comune: sarebbe bello se anche loro ammettessero di non poter pretendere di avere voce in capitolo, e si limitassero a considerare le questioni di metodo. Su queste, soprattutto per come si sono messe le cose, credo si possa concordare: Tsipras ha ingannato il suo popolo, il referendum si è dimostrato ancora una volta uno strumento inutile e dannoso.
Giorni, settimane, mesi a parlare della Grecia come culla della democrazia, dimenticando che nella stessa culla vi è cresciuta pure la demagogia. 

lunedì 13 luglio 2015

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«Se sento ancora qualcuno dire che
il referendum di domenica non è servito a niente,
metto le mani alla pistola»
Alessandro Gilioli, 10.7.2015 (*)


Gilio’, quando hai finito le munizioni, mi faresti il piacere di spiegarmi a cosa è servito il referendum greco?

sabato 11 luglio 2015

venerdì 10 luglio 2015

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E dunque le condizioni che la Grecia si appresta ad accettare per evitare il default e rimanere in Europa sarebbero uguali, se non peggiori, rispetto a quelle che Tsipras intendeva rifiutare in forza dell’esito del referendum da lui voluto. Sfiora il sospetto che quel referendum non servisse a ciò che si diceva dovesse servire?
Parlo a quei due o tre che mi hanno rimproverato di aver scritto che lo strumento referendario è quasi sempre inutile o dannoso, sennò inutile e dannoso. Ecco qui un ottimo esempio ad illustrare il paradigma: la democrazia diretta è detta così perché c’è sempre qualcuno a dirigerla, e quasi sempre in culo a chi ci crede. 

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In Platone è «pseudoargomento filosofico», ma non ha ancora la specifica connotazione di categoria retorica che in Aristotele troverà la specie del «sillogismo eristico» e il modo della «ignoratio elenchi» (αγνοια ελεγχου), che poi sarebbe l’errore del presumere di confutare un’affermazione senza avere «esatta conoscenza dei motivi, materiali o formali, che possano determinare tale confutazione» (Guido Calogero, Storia della logica antica).
Parlo di quello che è più comunemente conosciuto come «ragionamento a cazzo di cane», di cui abbiamo avuto in questi giorni un saggio nello pseudoargomento di chi contesta la condanna in primo grado che Silvio Berlusconi aggiunge alla sua collezione, perché «tanto andrà tutto in prescrizione», con ciò intendendo suggerire (ma in taluni casi arrivando ad affermarlo esplicitamente) che il processo neanche andasse celebrato, e che quindi, se sè celebrato, laccusa non voleva far giustizia, ma solo molestare un povero cristo.
È qui che la definizione di «ragionamento a cazzo di cane» rivela quanto sia impropria. Se, infatti, un argomento può darsi in paragone a un cazzo, quello del cane non rappresenta in modo congruo questo pseudoargomento: più appropriata limmagine del pene umano affetto da induratio penis plastica (morbo di La Peyronie). Giacché «tanto andrà tutto in prescrizione», il magistrato avrebbe dovuto archiviare? Non arrivano a dirlo perché sanno bene che non sarebbe stato possibile, dunque è il caso di illustrare i motivi materiali e formali che in questo caso rendono risibile la contestazione quanto la pretesa di mandare la pallina in rete per finire a pisciarsi sui piedi?

giovedì 9 luglio 2015

Cazzabubboli rozzi e cazzabubboli sofisticati

Quanti parlamentari sono passati dal centrodestra al centrosinistra? Tutti corrotti come De Gregorio? E poi il governo Prodi è caduto per la campagna acquisti che Berlusconi avrebbe promosso al Senato? Non è caduto perché gli venne meno lappoggio di Mastella?
Più o meno a questo si riducono gli argomenti dei berlusconiani allindomani della condanna di Berlusconi, come se larticolo del Codice Penale che ci dice cosè corruzione non avesse al centro quella «retribuzione non dovuta» che in questo caso l’accusa è riuscita a dimostrare esserci stata: in questione non era il cambio di casacca, né il fine che si intendeva raggiungere col promuoverlo, tanto meno poi se il mezzo si sia rivelato efficace, ma il fatto che sia intercorso un «contratto illecito» tra soggetti che in esso si son fatti corrotto e corruttore.
Niente di nuovo, sia chiaro. Ogni volta che Berlusconi è raggiunto dalle conseguenze delle sue disinvolture – chiamiamole così, va’ – i rozzi cazzabubboli che per contratto gli reggono l’ormai logoro strascico da reuccio di operetta sono capaci delle più inverosimili piroette logiche. Quello che in questa occasione, invece, risulta notevole è lo spuntare, qua e là, di cazzabubboli un po’ più sofisticati, che per quel malsano esercizio di mettersi in posa da personcine libere dal pregiudizio antiberlusconiano – preferisco non fare nomi – sfidano il buonsenso, prima che il diritto, sostenendo che addirittura non sia ipotizzabile il reato di corruzione per chi, da parlamentare, sia costituzionalmente sciolto da vincolo di mandato. In sostanza, un eletto potrebbe fare ciò che vuole del proprio voto. E grazie al cazzo, diciamo loro, ma non può venderlo. Perché è suo solo finché è gratis, o almeno riesce a dimostrarlo tale. Per meglio dire: finché non è dimostrabile il contrario, come è accaduto nel caso in questione.
De Gregorio ha dichiarato, dando prova di quanto dichiarava, che per togliere il suo voto al centrosinistra, e darlo al centrodestra, ha percepito un bel pacco di milioni di euro, e da Berlusconi. Sbraitassero pure, i suoi servi, ormai siamo abituati a sentirne il coro che lamenta di persecuzioni giudiziarie e di sentenze politiche. Ma i garantisti un tanto all’etto, per piacere, avessero il buon gusto di star zitti.

martedì 7 luglio 2015

Corrispondenze (Tutto è ormai già perso)

Dove ho mai scritto che «i greci sono un popolo di fannulloni»? Dove ho mai scritto che «per anni e anni hanno scialacquato allegramente a spese dellEuropa»? Ho riletto gli unici due post che ho dedicato alla questione greca, caro ***, e non ho trovato traccia di affermazioni simili, né mi pare di aver insinuato nulla del genere: in uno mi sono limitato a dire che la Grecia doggi non centra niente con la Grecia antica, il cui lascito è ormai da secoli patrimonio dellintera umanità, sicché è ridicolo pretendere che possa pareggiare o anche soltanto alleggerire i debiti che la Grecia ha cumulato negli ultimi decenni nei confronti di mezzo mondo; nellaltro ho posto l’attenzione su ciò che fa del referendum uno strumento inutile o dannoso, cercando di dimostrare perché quello voluto da Tsipras non risolva nulla, ed anzi possa rivelarsi addirittura pericoloso, innanzitutto per la Grecia, ma anche per l’Europa.
In realtà, alla questione greca ho dedicato anche un terzo post, ma si trattava solo del copia-incolla di un’intervista concessa a Libero da Antonio Martino: la facevo precedere da una rapida nota con la quale dichiaravo di far mia la sua opinione («Se la Grecia non può onorare i suoi debiti deve fallire, i titoli diventano carta straccia e quelli che li hanno comprati subiscono una perdita in conto capitale, del resto hanno lucrato sugli alti tassi di interesse per molto tempo. Vuol dire che gli è andata male, hanno fatto l’investimento sbagliato»). Ecco, rileggendo questintervista, trovo unaffermazione dalla quale, forse, avrei fatto meglio a dissociarmi: «I greci sono abituati a vivere a spese degli altri». Ti riferisci a questaffermazione nellattribuirmi frasi che comunque non sono mai uscite dalla mia penna? Allora, sì, ti devo una spiegazione, e ovviamente non sono autorizzato a chiarire il senso che Antonio Martino voleva dare a quella frase, ma penso di poter dire che anche lui, come me che ho sottoscritto quella frase, non intendeva generalizzare. Voglio dire che gli stereotipi sono sempre da rigettare quando si parla di realtà complesse come un’intera nazione, e aggiungerei che questo è tanto più sentito da un liberale, che in una nazione non perde di vista la varietà degli individui che la compongono, vedendoli accomunati da una storia, non da un carattere. «I greci sono abituati a vivere a spese degli altri», dunque, sarà unaffermazione che si presta ad essere fraintesa – convengo – ma che trova ragione nellassunzione di un dato inoppugnabile: i governi greci hanno amministrato la cosa pubblica in modo irresponsabile, facendo affidamento – un folle affidamento – sullinesauribilità delle risorse che derivavano dallemissione di titoli di stato. La Grecia, in sostanza, ha pensato di poter vivere facendo debiti il cui pagamento potesse essere rinviato allinfinito. La cosa assurda è che pensa di poterlo fare ancora, rifiutandosi di metter mano ad un riassetto del sistema che lha portata al fallimento.
Un sistema, bada bene, che è la vera causa dellimpoverimento di tanti greci, a dispetto di chi blatera che sia Germania ad affamarli. Mentre leconomia greca aveva un tasso di crescita del 4% – parlo del periodo tra il 1998 e il 2007, prima che la crisi economica si abbattesse sugli Stati Uniti e da lì allEuropa – la spesa sociale ammontava a meno della metà di quanto ammontasse in Germania. Certo, si tratta di un’odiosa vulgata che i greci siano dei fannulloni, e infatti sono al primo posto in Europa per ore annue di lavoro pro capite, sta di fatto che si sono dati dei governi che hanno continuato a concedere esenzioni fiscali ad armatori, grandi proprietari terrieri e Chiesa ortodossa. Prendi questultimo caso: la Chiesa ortodossa è il più grande proprietario terriero del paese, possiede catene alberghiere, centri turistici, proprietà immobiliari, aziende nei più svariati settori, e non ha mai pagato una dracma di tasse, né un euro, grazie ad un articolo della Costituzione del 1975, un articolo che neppure la nuova classe dirigente del paese riesce ad emendare, alla faccia del marxismo-leninismo che li ispira. Si calcola che negli ultimi dieci anni siano quasi 600 i miliardi di euro che dalla Grecia siano stati trasferiti allestero: passi che i governi di destra chiudessero un occhio, ma sti benedetti bolscevichi di Syriza, invece di andare col cappello in mano a chiedere la carità in Europa, cosa aspettano a nazionalizzare tutto?
Ok, stavo scaldandomi, ora mi calmo. Vedi, caro ***, non c’era bisogno che la Grecia danzasse sull’orlo del default per capire che lEuropa non va assolutamente bene così comè, ma, se doveva essere la Grecia a farlo capire a chi ancora non lha capito, non cera altro modo? I greci sono stati fottuti per lennesima volta, e stavolta da un cazzaro, uno che è della stessa pasta di Renzi, solo un poco più disperato, perché davvero ha poco da perdere, perché tutto è ormai già perso.

lunedì 6 luglio 2015

Un Oxi che non vuol dire niente


Giusto due anni fa intrattenevo il mio lettore sulle ragioni che mi avevano portato a rivedere la mia posizione sullistituto referendario, arrivando a definirlo inutile o dannoso. Non starò qui a ripetermi, dirò solo che la mia riflessione era partita dagli articoli che Arturo Labriola dedicò a questo strumento di democrazia diretta, su Critica Sociale, nel 1897, per poi passare allanalisi di ciò che listituto referendario ha significato in Italia, ma al netto di tutta la retorica che ne ha magnificato i risultati, comè evidente soprattutto per quello sul divorzio del 1974 e per quello sullaborto del 1981, che in fondo non servirono ad altro che a confermare due leggi approvate da un parlamento di eletti. Chi ne ha voglia potrà riandare a quei post per prendere atto che la critica allistituto referendario veniva a trarre ulteriore motivo dalla natura inevitabilmente ambigua che assume un quesito quando sia posto come variabile indipendente dal contesto generale nel quale trovi modo di essere formulato come chiave di un cambiamento che si ritenga possibile in virtù del mero desiderio di realizzarlo, perché non cè mai stato velleitarismo che alla lunga non abbia mostrato i propri limiti nel trascurare le resistenze al cambiamento.
Inutile o dannoso, il referendum, perché strumento che si rivela quasi sempre essenzialmente inefficace a opporre la volontà degli elettori a quella dei propri governanti, quando queste confliggano, o addirittura facilmente utilizzabile per coartare le forze che si esprimono attraverso l’una ai disegni che mirano a realizzare laltra, nelle forme di quella deriva plebiscitaria che quasi sempre ha per fine lasservimento delle masse agli interessi di uno o di pochi, non importa se folli avventurieri o freddi delinquenti. Ma direi di più: quandanche il referendum non riveli la sua inutilità con l’irrilevanza sostanziale data a ciò che formalmente ha espresso come volontà popolare, resta il problema che non possa far tabula rasa delle conseguenze che il passato ha sul presente. Un referendum può trasformare una monarchia in repubblica, ma questo, di per se stesso, non trasforma un tracollo bellico in vittoria militare.
Bene, direi che il referendum tenuto ieri in Grecia possa dirsi senza dubbio inutile e per molti versi dannoso. Anche in questo caso era rispettata la regola di interrogare un popolo su questioni che erano state enucleate da un problema assai più ampio, che daltronde nella sua portata generale non poteva non restare del tutto fuori dalla possibilità di essere rimesso alla volontà popolare, in primo luogo per vincoli di natura giuridica, speciosamente e strumentalmente elusi per dar da credere che il risultato delle urne potesse in qualche modo esprimere la volontà dei greci riguardo al restare o meno nell’Eurozona, qualsiasi cosa voglia intendersi per Eurozona, o ci sia interessa che si intenda. In sostanza, il referendum non decideva sulla permanenza della Grecia nella Comunità europea, né sul corso delleuro in Grecia, ma lintenzione di chi lo ha indetto, e in fretta, e senza preoccuparsi troppo di chiarirne il senso a chi chiamava alle urne, era quella di farsi forte di un risultato in gran parte previsto, e proprio in virtù del significato che si era certi di poter ingannevolmente attribuire alla consultazione, per riaprire i negoziati con i creditori in una condizione che sul piano interno e su quello esterno almeno apparisse migliore, se pure non potesse esserlo, rispetto a quella in cui si era al momento in cui le trattative si erano interrotte. In parole povere, i greci sono stati ingannati come daltronde è stato fatto per decenni: i predecessori di Tsipras hanno fatto creder loro che potessero entrare in Europa continuando a vivere da greci, e Tsipras ha fatto creder loro che ora ne possano uscire per tornare a vivere come prima che lEuropa esistesse, e naturalmente per Europa qui è da intendere quel che è lEuropa è oggi, ed è tutto tranne quel che voleva essere, o diceva di voler essere, certo, sta di fatto tuttavia che a ciò che è si è giunti anche per lassenso dei governi greci, che hanno sottoscritto impegni non solo per il loro oggi, ma anche per il loro domani.
È chiaro, poi, che si possa chiedere di rinegoziare gli impegni presi, ma pretendere che questi vengano rinegoziati nei modi voluti, e senza che la controparte batta ciglio, in virtù poi del fatto che un referendum abbia solo aleatoriamente dichiarati nulli quegli impegni, prima assunti con evidente leggerezza, non dice nulla riguardo al fatto che chi è investito della responsabilità di rappresentare il proprio paese lo inganni al punto da rappresentarne anche linaffidabilità rispetto agli impegni presi? La Grecia è libera di uscire dalla Comunità europea, è libera di tornare alla dracma, è libera perfino di non pagare i propri debiti, e ovviamente è libera di diventare uno stato socialista, però deve assumersene tutti gli oneri e le conseguenze. Non può pretendere di farlo solo a parole, per giunta con un Oxi che non vuol dire niente. Perché una cosa deve esser chiara, al netto del tanto rumore che ha preceduto questo referendum, e la cui eco ancora sarà udibile per qualche settimana: la Grecia è nella stessa situazione in cui era prima, e di certo non è più forte, anche se ieri sera si è illusa desserlo.



Meditazioni trascendentali / 1

Adesso è facile capire la differenza che cera tra i due, ma nel 1972 tutti pensavano che Alan Sorrenti fosse una specie di Demetrios Stratos, è che i gargarismi in falsetto del primo sembravano apparentati alle diplofonie e alle trifonie del secondo, colpa del cerume che da un po intasava l’italico orecchio medio (e qui «medio» ha il suo bravo doppio senso). Non ci fu bisogno di aspettare molto per capire che appartenevano a due razze diverse, perché Alan Sorrenti passò quasi subito dalla progressive alla disco e Demetrios Stratos morì. Non fosse morto, poteva passare dallovertone a un qualche inutile trallallèro, chi può dirlo? Sicché laudato si, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente po scappare, salvo scoraggiarla, mostrandosi al naturale.

domenica 5 luglio 2015

[...]

Un lettore mi ha chiesto: «Perché lei evita sempre di entrare nel merito delle questioni economiche?». Alla domanda ho risposto in modo elusivo: «Perché implicano una dichiarazione di fede». Me ne sono subito pentito, ma ho rimosso. Poi mi è capitata sotto gli occhi lintervista che Antonio Martino ha concesso a Sandro Iacometti (Libero, 3.7.2015) e mi ci sono specchiato di quel tanto che qui mi consente di riparare, riproducendola.  


Professor Antonio Martino, perché siamo arrivati a questa situazione con la Grecia, di chi è la colpa?
«La responsabilità fondamentale è dell’Europa. Dagli alti ideali del processo di unificazione economica, partito proprio in Italia grazie anche a mio padre, del cui lavoro sono molto orgoglioso, si è passati ad un meccanismo con cui redistribuire reddito da un Paese all’altro. Fuori dai denti, per dare fregature ad alcuni Stati e vantaggi ad altri».
Ma ora come si risolve?
«La parola spread è inglese,ma non ho mai sentito un americano che si preoccupasse dello spread fra il tasso di interesse californiano e quello texano.
Perché a uno è mai venuto in mente che se la California non riesce a collocare i titoli di Stato i texani li debbano comprare. La California fallisce e quelli che hanno i titoli se ne fanno una ragione».
Quindi la Grecia dovrebbe fallire?
«Quello che vale per il governo federale americano da oltre due secoli perché non dovrebbe valere per l’Europa? Se la Grecia non può onorare i suoi debiti deve fallire, i titoli diventano carta straccia e quelli che li hanno comprati subiscono una perdita in conto capitale, del resto hanno lucrato sugli alti tassi di interesse per molto tempo. Vuol dire che gli è andata male, hanno fatto l’investimento sbagliato».
Però ci sono gli aiuti pubblici da restituire...
«E’ stato sbagliato, insensato e demenziale darglieli. Si rende conto che i protagonisti di questo psicodramma sono tre persone che nessuno ha eletto, una delle quali è a capo di una istituzione che avrebbe dovuto essere abolita nel 1967? La signora Lagarde del Fondo monetario internazionale non ha ragione di mettere bocca. L’Fmi è stato creato nel 1944 a Bretton Woods con lo scopo di finanziare i Paesi in deficit per evitare che svalutassero la loro moneta. Quando nel 1967 venne sciolto il Consorzio dell’oro e la convertibilità dei dollari in oro smise di essere pensabile, il Fondo avrebbe dovuto essere abolito. Invece fu mantenuto in vita, malgrado non serva assolutamente a niente tranne che a distribuire laute prebende a quelli che ci lavorano».
E i soldi che ha messo l’Italia, che fine fanno?
«Non dobbiamo più dare un euro a nessuno».
Ma quelli già dati?
«Niente, quelli sono persi».
Se la Grecia fallisce non rischia di saltare anche l’euro?
«Luigi Einaudi riteneva che la moneta unica avrebbe impedito agli Stati di pagare le spese pubbliche facendo stampare denaro alle banche centrali e dando vita alla più iniqua di tutte le imposte che è l’inflazione. Ma quell’idea è stata tradita, perché quello che sta facendo Mario Draghi con il QE altro non è che monetizzare il debito degli Stati membri, una cosa non prevista dai trattati».
Molti sostengono che se non ci fosse stata la Bce andava tutto all’aria...
«Molti sbagliano. Il QE produrrà i suoi effetti tra un anno e mezzo o due e la sua utilità è ancora lungi dall’essere provata. Il lavoro della Bce è stato superfluo e potenzialmente pericoloso perché potrebbe far partire un processo inflazionistico difficile da controllare».
Atene avrà pure qualche responsabilità...
«I Paesi europei devono capire che non si può avere contemporaneamente sviluppo economico, alta spesa pubblica e pareggio di bilancio. I greci inoltre sono abituati a vivere a spese degli altri, il problema è che gli altri prima o poi finiscono».

Massimo Bontempelli, Stato di grazia, Sansoni 1942