Giusto per non lasciare inevasa la questione, sulla «Merkel che fa piangere una bambina» («bambina» a 14 anni? mah!) la penso esattamente come il mio filosofo di riferimento (Disabitudine alla realtà – Formamentis, 17.7.2015), che anche stavolta, come al solito, brilla per chiarezza e concisione.
sabato 18 luglio 2015
[...]
Se
ho capito bene, pur di non essere costretto a dimettersi, Tsipras si
prepara a stringere a una sorta di Patto del Nazareno con forze
politiche a cui Syriza si dichiarava alternativa, e irriducibilmente alternativa, nel momento di
chiedere il voto alle elezioni di appena sei mesi fa. In sostanza, si
prepara ad ingannare i greci una seconda volta, perché è evidente
che così viene tradito anche il mandato chiesto e ottenuto alle
elezioni politiche del 25 gennaio, come già è stato per il no
chiesto e ottenuto al referendum del 5 luglio. Scelte obbligate, si
dirà, e convengo, ma in base a quale obbligo se non quello di
acquisire e mantenere il potere contro
chi te lo ha affidato, e quindi in spregio al principio democratico
che all’eletto
affida la rappresentanza del volere degli elettori?
Non venite a
dirmi che il principio democratico è per l’appunto un principio,
lo so bene. So bene che in democrazia il consenso si fonda sulla
capacità degli elettori di sopportare, fin tanto ci riescano, la
delusione di veder mancate le promesse dei candidati. Qui, tuttavia,
non siamo al non aver onorato entro la fine del mandato gli impegni
presi al momento di chiedere il voto: siamo al rimpasto di una
maggioranza dopo solo sei mesi, siamo alla firma di un accordo che
tradisce il risultato di un referendum tenuto appena una settimana
prima. In entrambi i casi, siamo dinanzi all’esercizio di un potere
che si fa autonomo dalla fonte che dovrebbe legittimarlo. Sembrerà
esagerato parlare di demagogia e di autocrazia, ma in fondo l’etimo
di questi due termini non descrivono quel che con Tsipras accade in
Grecia?
Eppure – penso agli editoriali di Norma Rangieri di questi ultimi giorni –
Tsipras continua a trovare simpatizzanti in quella sinistra che dà
il meglio di sé quando si straccia le vesti per lo scandalo di un Pd
che cerca e trova accordo con chi aveva solennemente giurato mai
avrebbe stretto un accordo, e che non esita a tappare i buchi aperti
in Parlamento dalle defezioni dell’opposizione interna col soccorso
azzurro della pattuglia di Verdini. Ripeto:
parlo de il
manifesto,
non di chi coltiva la subcultura del «basta vincere, non ha
importanza come».
Il sospetto è che tra i maneggioni del Pd che in
Renzi vedono la mutazione efficace e chi s’attarda
a vantare d’essere
ancora comunista ci sia in comune il tratto di considerare
irrilevante il mezzo rispetto al fine. Che poi è il tratto
specularmente opposto a quello che si rimprovera alla gestione
cosiddetta tecnocratica delle sorti umane, che nella esaltazione del
mezzo correrebbe – si dice – il serio rischio di smarrire fine.
Volevo dire che nel secondo caso c’è
solo il serio rischio di sacrificare il bene comune a interessi
particolari, nel primo c’è
la negazione di fatto della democrazia. Insomma, a Tsipras e a Renzi io preferisco i freddi burocrati di Bruxelles. Al feudalesimo preferisco la monarchia illuminata.
[...]
I. Andando
per la sessantina, mi costa sempre più fatica tollerare la follia
del mondo. Uso il gerundio per attenuare il nesso di causalità, non
voglio dar da intendere che alla relazione io assegni la cogenza
di una legge di natura: parlo solo per me, né mi sfugge che col
passar degli anni, al contrario, di solito si diventi più tolleranti
verso il mondo. Per me è accaduto tutto il contrario, ma «fatica»,
«tolleranza», «follia», «mondo» sono
termini estremamente ambigui e può darsi che nel circostanziarne il
senso io riesca a spiegarmi meglio, dunque a chiarire lo stato
d’animo che informa l’affermazione con la quale ho aperto questa
chiacchierata.
Comincerei
dal «mondo», che intendo come «totalità dei fatti, non
delle cose» (Tractatus logico-philosophicus, 1.1), con le
quali, d’altronde, ho sempre avuto un buon rapporto. È che
«l’oggetto è semplice» (ibidem,
2.02) e «la [sua] sostanza […] sussiste
indipendentemente da ciò che accade» (ibidem, 2.024):
non così per il fatto, «la [cui] struttura […] consta
delle strutture degli stati di cose» (ibidem, 2.034), e
del quale, anche se non volessimo, non possiamo farci che un’immagine, la quale ne «presenta
la situazione nello spazio logico» (ibidem, 2.11). A
differenza della cosa, insomma, il fatto deve necessariamente darsi situazione in uno
spazio logico, altrimenti non può che segnalare l’illogicità del
mondo per quella porzione di cui ne è parte. Bene, direi che,
andando per la sessantina, vedo crescere a dismisura la quantità di
fatti la cui rappresentazione è irrealizzabile in uno spazio entro
il quale vigano le norme della logica, che poi sono le stesse che informano le leggi della retta argomentazione. In altri termini, il mondo le rifiuta, non sa che farsene, anzi sembra compiacersi dell’infrangerle, e così rovina, ma sembra compiacersi anche di questo.
Semplice,
allora, spiegare cosa intenda per «follia del mondo»: se
«l’immagine
logica dei fatti è il pensiero»
(ibidem,
3) e se «il
pensiero è la proposizione munita di senso»
(ibidem,
4), sempre più spesso mi capita di non riuscire più a cogliere un
senso nelle proposizioni che esprimono la logica dei fatti. Non in
tutte, in realtà, occorre che sia onesto, ma nella gran parte direi
proprio di sì. Il mondo, insomma, non ragiona più. Va avanti così da un bel pezzo, quello che segna il
punto di rottura è la presa d’atto
che ogni tentativo di cogliere un senso nelle proposizioni che
esprimono la logica dei fatti, e cioè di poter pensare qualcosa di
sensato riguardo al mondo, prima che inutile, è impossibile. Commentare i fatti, insomma, mi deprime, mi mortifica, mi avvilisce. Quale miglior rimedio del trascurarli?
Prevengo
l’obiezione
di chi a questo punto voglia contestarmi ch’io
non riesca a cogliere la logica dei fatti perché non in possesso degli strumenti adeguati: quali
sarebbero – rispondo – questi strumenti adeguati, se non quelli
che ho sempre utilizzato in passato, riuscendo con essi a trovare un
senso nelle proposizioni che esprimevano la logica dei fatti in
passato? Se non sono più adeguati, dev’essere
cambiato qualcosa nella natura dei fatti, la cui immagine logica –
e qui mi pare che l’inferenza
sia ampiamente motivata – rifugga dal darsi proposizioni munite di
senso. Nulla è cambiato in me, è il «mondo»
ad
essere cambiato. Se devo rimproverarmi qualcosa, insomma, è il non
essere stato in grado, da un certo punto in poi, di costruire un artificio retorico che surrogasse uno spazio logico entro il quale i fatti potessero trovare un surrogato di senso.
Aggiungo che da un certo punto in poi ho rinunciato anche a provarci,
e forse qui sarà più chiaro il significato che intendo dare a
«tolleranza»
e a «fatica»:
soffro un fastidio, un tremendo fastidio, al quale vado mettendo
riparo col rifiuto di dare ogni sorta di attenzione alla «follia
del mondo». E devo dire che funziona.
Non
mi si fraintenda: se non sono in grado di formulare una prognosi per
questa «follia del mondo»,
la sua diagnosi è stata accurata e in buona misura me ne è chiara
l’etiopatogenesi.
In modo frammentario, certo, e senza metterci quel tanto di
pedanteria che forse sarebbe stata necessaria, in dodici anni di
scrittura pubblica mi pare di aver illustrato a sufficienza le cause
e i modi che hanno portato i fatti a diventare irrappresentabili in
quello «spazio
logico»
nel quale, finché hanno potuto, si sono dati immagine
in forma di «proposizione
munita di senso».
Tornare alla scrittura privata segna la decisione di archiviare il
caso clinico della «follia
del mondo»,
per dedicarmi a questioni di nessun interesse pubblico, chessò –
dico per fare qualche esempio sfogliando il mio taccuino delle ultime settimane – i busti
di Messerschmidt,
la claritas
e la defectio
in Gioacchino da Fiore, quanto di Händel ci sia in Sergent
Pepper,
temi inopportuni sulle pagine di un blog nato come diario civile. Che dunque è il caso venga chiuso.
Ho meditato sull’opportunità di oscurarne le pagine, ma mi ha trattenuto il constatare che, a più di un mese dalla sospensione dell’aggiornamento, continuano ad esser lette in una media di 600/die, mentre è aumentato notevolmente il numero di lettori per quelle scritte tra il 2004 e il 2010 (malvino.ilcannocchiale.it): lascio tutto dov’è, chissà non possa tornar utile a comprendere meglio una decisione che in tanti mi hanno scritto di trovare inspiegabile, e che qui è assai probabile non sia riuscito a spiegar meglio. Ci avrò fatto la figura del disadattato, dell’irriducibile passatista che si ostina a dare alle parole un peso che ormai non hanno più da tempo. E in parte è vero, perché – ripeto – non sono io ad essere impazzito, ma il mondo.
Ho meditato sull’opportunità di oscurarne le pagine, ma mi ha trattenuto il constatare che, a più di un mese dalla sospensione dell’aggiornamento, continuano ad esser lette in una media di 600/die, mentre è aumentato notevolmente il numero di lettori per quelle scritte tra il 2004 e il 2010 (malvino.ilcannocchiale.it): lascio tutto dov’è, chissà non possa tornar utile a comprendere meglio una decisione che in tanti mi hanno scritto di trovare inspiegabile, e che qui è assai probabile non sia riuscito a spiegar meglio. Ci avrò fatto la figura del disadattato, dell’irriducibile passatista che si ostina a dare alle parole un peso che ormai non hanno più da tempo. E in parte è vero, perché – ripeto – non sono io ad essere impazzito, ma il mondo.
II. Non
sono mai riuscito a capire che cazzo di linguaggio sarebbe quello che
dà struttura all’inconscio,
ma da qualche tempo non me ne faccio più un problema, perché ho il
sospetto che questa sia una delle tante frasi uscite di bocca a Lacan
senza star troppo a pensarci abbastanza prima,
per poi farlo fin troppo dopo.
Il sospetto è che fosse vittima anche lui del difettaccio che deve
essere stato relativamente comune ai tempi in cui residuava ancora
qualcosa della «mente
bicamerale»
(cfr. Julian Jaynes) e si preferiva non correggere lo sproposito
scappato di penna sul papiro, che d’altronde
era materiale assai costoso, e tollerava male le cancellature. Non so
più dove possa essersi ficcato, ma una trentina d’anni
fa raccolsi in uno studiolo due o tre dozzine di passi tratti per lo
più da testi greci scritti tra il I e il III secolo, sui quali si
sono scervellate invano intere generazioni, provando a ipotizzare per
ciascuno la versione piana, perfettamente comprensibile, di colpo
diventata impenetrabile per la decisione dell’autore
di non procedere a correggere un refuso, spesso banale, per
rivolversi a dargli un senso a
posteriori,
spesso con esiti infelici per la coerenza interna al testo, ma, via,
i posteri si arrangino, tanto l’oscurità
implica profondità, e l’inconscio non sbaglia mai: scendano, i
posteri, e si perdano, chissà che non finiscano per trovare
l’introvabile. Ecco, invece di «inconscio»
sarebbe stato meglio dire «spirito»,
ma, insomma, ci siamo capiti...
Divago,
maledizione, divago sempre. Partivo con l’intenzione di dire che il
linguaggio – e so che c’è da storcere il muso – non so
concepirlo altrimenti che in forma di scrittura. Anche quando è
orale? Anche. Ma la scrittura non viene dopo? Certo, ma nella forma
orale il linguaggio regge solo se è adeguatamente traducibile in
scrittura, sennò è ciancia, rumore, eventualmente musica, ma non ha
niente a che vedere con la costruzione di un senso. Solo nella frase
scritta, o che può esser scritta senza far perdere nulla di quanto
esprime nella sua forma orale, se qualcosa esprime, il pensiero può
darsi – almeno tentare – dignità di linguaggio. Ma forse sbaglio
a dire «dignità»:
meglio «struttura».
E qui chiudo il cerchio aperto con l’incipit: il pensiero non può
fare a meno di una struttura, il linguaggio gliene dà una che nella
forma scritta (per meglio dire: in qualsivoglia forma pianamente
traducibile in un testo che si dia le norme della scrittura) trova la
sola possibilità di offrirsi a una verifica. Intendiamoci: non che
la frase scritta sia immune di per sé da ciò che rende così spesso
fatua, se non ladra o assassina, la frase orale, ma è che, a
differenza di quest’ultima, dà piena disponibilità di saggiare la
struttura attraverso la quale il pensiero può esprimersi...
Divago ancora, maledizione, per giunta dilungandomi più del dovuto, e in fondo solo per dire che ho sempre affidato alla scrittura il compito di dare al flusso dei miei pensieri una forma intellegibile, fosse solo a me stesso. In altri termini, è sempre e solo scrivendolo che mi sono chiarito cosa pensassi, verificando se reggesse come scrittura nel rispetto delle regole che reggono la retta argomentazione, che sta alla logica come la geometria sta all’aritmetica. È per questo che probabilmente non smetterò mai di scrivere, come d’altronde faccio da sempre, da ben prima che la mia scrittura diventasse pubblica. Quando rileggo i quaderni che ho riempito dal 1972 al momento in cui ho aperto questo blog, noto qualche diversità di accenti, una maggiore attenzione alla vita personale, una libertà che era innanzitutto impudicizia, una totale mancanza di autocensura, certe arditezze in spregio anche a quel minimo di buone maniere che è indispensabile quando si interloquisce con altri da sé, elementi che in apparenza rendono quella scrittura totalmente diversa da quella pubblica, ma che in realtà differiscono solo in un punto: la mia scrittura pubblica eccede in premesse, che quella privata – devo supporre – ha sempre dato per superflue. Un’ansia di spiegarmi bene che dev’esser concava alla convessità della paura di essere frainteso: tutta qui, la differenza, tra i miei taccuini e il blog. È evidente che, a dispetto della fama di temerario, io abbia un genuino timor panico dell’agorà telematica, d’altronde ho sempre ritenuto fosse cretino definirla realtà virtuale: si tratta di un duplicato della realtà che in parte le si sovrappone, ormai senza più alcuna possibilità di separarne i piani, perché in più punti sono tanto embricati che tutto il bene e tutto il male che si può pensare del web coincide con tutto il bene e tutto il male che si può pensare dell’esser-ci (quello stare dentro la vita che non è necessariamente vivere).
Divago ancora, maledizione, per giunta dilungandomi più del dovuto, e in fondo solo per dire che ho sempre affidato alla scrittura il compito di dare al flusso dei miei pensieri una forma intellegibile, fosse solo a me stesso. In altri termini, è sempre e solo scrivendolo che mi sono chiarito cosa pensassi, verificando se reggesse come scrittura nel rispetto delle regole che reggono la retta argomentazione, che sta alla logica come la geometria sta all’aritmetica. È per questo che probabilmente non smetterò mai di scrivere, come d’altronde faccio da sempre, da ben prima che la mia scrittura diventasse pubblica. Quando rileggo i quaderni che ho riempito dal 1972 al momento in cui ho aperto questo blog, noto qualche diversità di accenti, una maggiore attenzione alla vita personale, una libertà che era innanzitutto impudicizia, una totale mancanza di autocensura, certe arditezze in spregio anche a quel minimo di buone maniere che è indispensabile quando si interloquisce con altri da sé, elementi che in apparenza rendono quella scrittura totalmente diversa da quella pubblica, ma che in realtà differiscono solo in un punto: la mia scrittura pubblica eccede in premesse, che quella privata – devo supporre – ha sempre dato per superflue. Un’ansia di spiegarmi bene che dev’esser concava alla convessità della paura di essere frainteso: tutta qui, la differenza, tra i miei taccuini e il blog. È evidente che, a dispetto della fama di temerario, io abbia un genuino timor panico dell’agorà telematica, d’altronde ho sempre ritenuto fosse cretino definirla realtà virtuale: si tratta di un duplicato della realtà che in parte le si sovrappone, ormai senza più alcuna possibilità di separarne i piani, perché in più punti sono tanto embricati che tutto il bene e tutto il male che si può pensare del web coincide con tutto il bene e tutto il male che si può pensare dell’esser-ci (quello stare dentro la vita che non è necessariamente vivere).
venerdì 17 luglio 2015
[...]
L’avessero
arrestato, ci sarebbe stata una rivoluzione: un anno e mezzo fa ne
era sicuro, o almeno ci teneva a farlo credere. Oggi vuole almeno
sperarlo, e butta lì la cosa per vedere l’effetto che fa a chi
dovrebbe scatenarla, la rivoluzione. Sì, la rivoluzione è evocata
in contesti diversi, ma questo basta a spiegare che una minaccia si
sia trasformata in preghiera? L’ometto è volubile, si sa, poi non
ci avrà creduto neanche un anno e mezzo fa, figuriamoci ora – son
robe che potevano venire in mente, a lui o a chiunque altro, solo ai
tempi in cui si girava Il Caimano, che è del 2006 – e
tuttavia lo scarto implica una presa d’atto che va ben oltre il
rovinoso calo di consenso che ha accusato in questi nove anni: oggi
sa che lo zoccolo duro è assai meno duro di quanto lui o chiunque
altro immaginasse. Forse non ha mai avuto la durezza che potesse
assicurare una reazione violenta a un suo arresto, ma prima era
possibile un bluff, oggi non più. Ulteriore conferma, se mai ce ne
fosse stato bisogno, che la fidelizzazione non è il nocciolo del
consenso, ma la sua buccia.
giovedì 16 luglio 2015
Passo
A
me piace schierarmi, anche quando per farlo è necessario quel
pizzico di disonestà intellettuale indispensabile all’esercizio anche della più blanda
faziosità. Beh, nel caso Crocetta non riesco proprio a farlo. Mi sta sul
cazzo lui, mi stanno sul cazzo le vedove e le orfane degli eroi che
scendono in politica sfruttando il proprio cognome, mi sta sul cazzo
chi cerca di sfruttare il contenuto di intercettazioni telefoniche
dal contenuto penalmente irrilevante per far cadere un amministratore della cosa pubblica che non riesce a far cadere in altro modo, mi sta sul cazzo chi passa
a un giornalista degli atti secretati, mi sta sul cazzo il
giornalista che li pubblica, mi sta sul cazzo il politico che dalla
caduta di Crocetta si attende possa venir fuori l’occasione
perché il suo boss lo metta a sminestrare al posto lasciato vacante, mi sta sul
cazzo chi inserisce il pilota automatico della sua indignazione per andare inevitabilmente a sbattere col muso contro la morale, mi
sta sul cazzo la macchietta del garantista che scatta per riflesso pavloviano a prendere le
difese di Tutino. Per questa volta, dunque, rinuncio a schierarmi,
perché, anche volendo, non saprei proprio con chi solidarizzare.
mercoledì 15 luglio 2015
[...]
Ad
ogni strofa che maledice l’Europa-così-com’è segue il
ritornello che non-è-quella-del-Manifesto-di-Ventotene, ma fra
quelli che cantano ’sta canzone – me lo chiedevo sentendola
cantare pure da Renzi – vorrei sapere quanti l’hanno veramente
letto.
Piluccando: «La rivoluzione europea, per rispondere alle
nostre esigenze, dovrà essere socialista... Le caratteristiche che
hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di
successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi
privilegiati ricchezze che converrà distribuire durante una crisi
rivoluzionaria in senso egalitario... Pensiamo ad una riforma agraria
che passi la terra a chi la coltiva... Il concordato con cui in
Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza col fascismo andrà
senz’altro abolito...».
martedì 14 luglio 2015
Fra parentesi
Non
sembrerà, ma io sono assai sensibile alle critiche che mi muovono i
miei lettori, e proprio oggi uno di loro mi ha rimproverato il «grave
errore»
di usare, per l’«azione
politica di una nazione»,
lo stesso metro di giudizio che potrebbe anche essere legittimo per
l’«azione
di un individuo»
nell’affermare
che «nel
momento di contrarre un debito si debba avere ben chiaro che per
onorarlo si debba essere disposti anche a morire di fame».
Anzi, fatemi dir meglio: il metro di giudizio che sostiene la mia
affermazione sarebbe senza dubbio errato nell’analisi
dell’«azione
politica di una nazione»,
ma non è detto che non lo sia pure nel caso di un individuo che
contragga un debito infischiandosene della possibilità di onorarlo,
e dico questo perché sul punto il lettore in questione mi è
sembrato vago, limitandosi a definire il mio giudizio come operante
attraverso gli «strumenti
dell’etica»,
termine che occorre maneggiare con cautela perché assai pericoloso,
e che infatti io cerco di evitare anche quando il contesto basterebbe
a dargli il significato che vorrei gli fosse dato da chi mi legge, e
chi mi legge da qualche tempo non dovrebbe ignorare che per me il
«bene» a fondamento del discorso etico equivale a quell’«utile
per il maggior numero di individui» che dovrebbe far coincidere la
regola morale alla norma giuridica. In tal senso, sì, non ho fatica
ad ammettere che l’«utile per il maggior numero di individui» sta
nel fatto che ciascun individuo si assuma fino in fondo la
responsabilità delle proprie azioni, per potersene dichiarare
pienamente libero.
Ora, a me pare che la propria libertà non possa che consistere nel muoversi entro i limiti posti dalla libertà altrui, e che questi
limiti debbano necessariamente essere concordati nella sede di un
contratto sociale, nazionale o sovranazionale, che può anche essere violato, a patto di saperne
subire le conseguenze, e senza avere alcun diritto di lamentarsene. Sarà per questo che, pur riuscendo a cogliere
la differenza che corre tra un popolo e un individuo, presumo che
entrambi siano tenuti ad essere responsabili delle proprie azioni?
Certo, la differenza che corre tra un popolo e un individuo non mi
impedisce di constatare che, per le scelte fatte da un governo, la
responsabilità di un popolo che lo ha espresso sia solo indiretta,
ma in fin dei conti non rimane tutta sua? Nel caso dei greci, è fuor
di dubbio che il debito pubblico sia stato cumulato per le politiche
di governi democraticamente eletti da un popolo che non è stato in
grado di ponderarne a sufficienza le conseguenze.
Bene, il governo
in carica non avrà le responsabilità di quelli che l’hanno
preceduto, questo è perfino ovvio, ma il popolo greco è sempre quello, e non può pretendere
che le conseguenze di scelte errate in precedenza siano emendate in
virtù di un cambio di governo. Del debito che la Grecia ha cumulato
può darsi non abbiano goduto in modo equo tutti greci, su questo non
c’è dubbio, ma è di tutti i greci la responsabilità che questo
sia accaduto, e questo mi pare che destini al solo dibattito interno
l’analisi del come e del perché sia potuto accadere. Non è detto
che da questa analisi possa necessariamente maturare un senso di
responsabilità che riesca a farsi carico di ciò che il passato
chiede all’oggi, ma può darsi aiuti finalmente a capire che
dall’oggi dipende il domani.
Hanno solo lo yogurt?
Restano
dubbi su Tsipras? A me pare che dopo la dichiarazione ufficiale da
lui rilasciata al termine dell’eurosummit del 12 luglio – la
riporta il
manifesto,
oggi, e qui vale la pena di analizzarla in dettaglio – non ne
restino neppure per chi ha commesso la leggerezza di considerarlo, se
non un rivoluzionario, uno tosto, uno con le palle, uno capace di
mettere l’Europa con le spalle al muro, costringendola ad accettare
una ristrutturazione del debito, se non un suo drastico taglio, che
consentisse alla Grecia di riprender fiato dalla morsa delle misure
alle quali era stata sottoposta dai governi precedenti, sennò
fanculo all’euro, fanculo all’Europa, e che i burocrati
dell’Eurozona se la sbrigassero a far fronte alle conseguenze di
una Grexit, che a chiacchiere poteva essere una liberazione, ma
poteva pure rivelarsi un buco nero in cui sarebbero finite prima o
poi il Portogallo, la Spagna, l’Italia e tutto il resto. Macché,
neanche capace di un ricatto che, se andava fatto, doveva essere
fatale: un demagogo da quattro soldi, uno buono solo a infinocchiare
qualche fessacchiotto dei nostri.
In realtà, almeno per quanto mi
riguarda, non restavano dubbi già al momento in cui ha deciso di
indire un referendum che non era difficile intuire si sarebbe
rivelato inutile e dannoso proprio se il risultato fosse stato quello
cui sembrava mirasse, anche se poteva non essere così balzana
l’ipotesi che mirasse a perderlo, per potersi dimettere,
risparmiarsi la figura di merda che oggi lo inscrive nella galleria dei
più patetici bluffer di ogni tempo, tornare a fare l’opposizione, che in fondo è
la più bella delle occupazioni per chi non sa governare, se vuole
scansare ogni altro lavoro di un comune mortale.
«Abbiamo
lottato duramente per sei mesi, fino alla fine», ha detto questo
stronzo cagato a forza, e c’è da supporre non sia nemmeno risparmiato uno di quei sorrisi da piacione coi quali ha mandato in sollucchero la climaterica sinistra di mezza Europa. «Abbiamo lottato duramente per ottenere il miglior risultato
possibile, un accordo che consentirà alla Grecia di rimettersi in
piedi e al popolo greco di essere in grado di continuare a
combattere». La pressoché unanime opinione è che sia stato
costretto ad accettare tutto quello che gli hanno imposto, fatta
eccezione per il contentino di avere i controllori in casa, che già
è cosa umiliante, piuttosto che dover portare i registri di cassa a
Bruxelles. Ancorché unanime, tuttavia, l’opinione che abbia dovuto
cedere su tutto può anche essere fallace. E allora c’è da chiedersi
cosa ci abbia davvero guadagnato, la Grecia. Oggettivamente, nulla. Per
meglio dire, è solo Tsipras che ci guadagna il mantenere la guida
del governo, ma solo a patto di rimpiazzare in Parlamento chi gli
toglierà la fiducia con chi al referendum si è espresso per il sì,
il che neanche è sicuro, sicché sarà più comico che tragico dover
vedere la caduta del suo governo non per un «golpe post-moderno»
deciso a Berlino, ma per una resa di conti tutta interna a Syriza,
mentre in piazza i delusi ne bruciano le bandiere. Perfino il fatuo
Varoufakis finisce per ricavare un’inimmaginabile aura di serietà
gridando al tradimento.
Ma Tsipras, come tutti demagoghi, ha una
faccia a prova di schiaffi: «Abbiamo affrontato decisioni difficili
e difficili dilemmi. Ci siamo assunti la responsabilità di una
decisione per evitare l’attuazione degli obiettivi più estremi
portati avanti dalle forze conservatrici più estreme dell’Unione
europea». Come chi, dopo aver subìto uno stupro, vanti di aver
ridotto lo stupratore a un poveraccio col cazzo moscio.
«Questo
accordo prevede misure severe. Tuttavia, abbiamo impedito il
trasferimento di proprietà pubbliche all’estero, abbiamo impedito
l’asfissia finanziaria e il crollo del sistema finanziario - che
erano già stati pianificati nei minimi dettagli e alla perfezione -
che erano in corso di attuazione. Infine, in questa battaglia dura,
siamo riusciti a ottenere la ristrutturazione del debito e un
processo di finanziamento a medio termine. Eravamo consapevoli che
non sarebbe stato un compito facile, ma abbiamo creato un patrimonio
molto importante. Un lascito importante, e un cambiamento tanto
necessario per tutta l’Europa. La Grecia continuerà a combattere,
noi continueremo a combattere, in modo da poter tornare a crescere, a
recuperare la nostra sovranità nazionale persa. Abbiamo guadagnato
la nostra sovranità. Abbiamo inviato un messaggio di democrazia, un
messaggio di dignità, in Europa e nel mondo. Questa è l’eredità
più importante di questi giorni». Tutto sta, adesso, nel cercare di
convincere i greci che si è trattato proprio di questa strabiliante
vittoria. Non ci riuscisse, pazienza. Però ai greci sarebbe data
un’occasione irripetibile per mostrare all’Europa intera che, a
dispetto dell’odiosa vulgata che li dipinge come italiani appena un
po’ più scemi, sono un popolo serio. Hanno solo lo yogurt? Una
volta tanto ci affogassero dentro un premier.
[...]
Il
quesito posto ai greci col referendum del 5 luglio era il seguente:
«Deve
essere accettato il progetto
di
accordo presentato da Commissione
europea,
Bce e Fmi
nell’Eurogruppo
del
25 giugno 2015, composto da due parti che costituiscono la loro
proposta?».
Dobbiamo dare per scontato che chi si è recato alle urne abbia letto
i due documenti che costituivano il progetto di accordo? Ne avrà
avuto il tempo, visto che il referendum è stato indetto solo pochi
giorni prima del voto? In altri termini, i greci sapevano con
esattezza a cosa stessero dicendo sì o no? Non lo sapremo mai,
ovviamente, ma un’idea
possiamo ricavarla a posteriori, per la delusione che accompagna chi
in Grecia e fuori dalla Grecia voleva vincesse il no. Se, infatti,
l’accordo
che Tsipras ha sottoscritto ieri è meno pesante di quello che ha
rifiutato il 25 giugno, la
delusione avrebbe senso solo a ipotizzare che chi è stato
soddisfatto dell’esito
del referendum non fosse a conoscenza di cosa fosse scritto in quei
due documenti. C’è
da chiedersi, dunque, a cosa abbia detto no. Per meglio dire, c’è
da chiedersi a cosa gli sia stato fatto credere dicesse no, e poi se
il farglielo credere sia stato intenzionale o meno.
Per risolvere la
questione non c’è
che da riandare ai giorni che hanno preceduto il referendum per
rileggere le dichiarazioni di chi parteggiava per il no.
Rileggendole, si capisce il perché della delusione: nulla di ciò
che avrebbe dovuto far forti le ragioni della Grecia con la vittoria
del no ha trovato modo di realizzarsi nel modo che si riteneva
dovesse esser ovvio. Si dirà che è proprio la vittoria del no ad
aver irrigidito l’Eurogruppo
del 12 luglio nella richiesta di condizioni che sono in tanti, fra
quanti parteggiavano per il no, a ritenere pesanti almeno quanto
quelle del 25 giugno. Bene, non era prevedibile? Voglio dire: chi ha
deciso di indire il referendum non doveva mettere in conto questa
reazione?
Si badi bene: qui non ho alcuna intenzione di dare un
giudizio di merito sull’intera vicenda, voglio limitarmi a
considerare perché sia stato indetto il referendum, quale
significato avesse realmente e quale invece gli si è voluto dare, e
quali risultati pratici abbia avuto. Se mi astengo dall’esprimere
la mia opinione sull’intera vicenda, è per una ragione
estremamente semplice: non le do molto peso, perché è della stessa
natura che ha spinto tanti a parteggiare per il no, ma di segno
diametralmente opposto. Io, ad esempio, ritengo che nel momento di
contrarre un debito si debba avere ben chiaro che per onorarlo si
debba essere disposti anche a morire di fame. Poi ritengo che, nel
momento di entrare a far parte di una comunità che si è data alcune
regole, quelle regole vadano rispettate, sennò si possa trarre la
sola conclusione di non farne più parte. Più in generale, ritengo
che la Grecia non avrebbe mai dovuto entrare nell’Eurozona o
uscirne già da tempo. Per parametri che avrebbero imposto analoghe
misure anche per altri paesi? Non mi interessa, d’altronde qui
stiamo parlando della Grecia, ma in ogni caso, sì, sarebbe stato
meglio se analoghe misure si fossero prese anche per altri paesi, se
avessero posto gli stessi problemi posti dalla Grecia. Di fatto,
almeno fino ad ora, questi problemi si sono posti solo per la Grecia,
e a mio modesto avviso questo doveva bastare a dichiararla fuori
dall’Eurozona. Sarebbe stato un problema anche per i paesi che ne
fanno parte? Peggio per loro, se non in grado di far fronte ad una
decisione che era imposta dalle regole che si erano dati.
Come
vedete, si tratta di ragioni che non tengono in alcun conto la logica
che guida verso il compromesso per motivi di opportunità. Insomma,
sono le ragioni di uno che non può pretendere di avere alcuna voce
in capitolo nella costruzione di un’Europa come quella che abbiamo.
Ecco, credo che sarebbe bello se allo stesso modo la pensassero anche
quelli che ritengono impensabile una Grecia fuori dall’Europa o una
Grecia in default, e pensano che questo debba essere evitato ad ogni
costo, anche a fronte delle resistenze della Grecia ad uniformarsi
alle richieste che le vengono dagli organismi che a torto o a ragione
sono deputati a dettare una linea comune: sarebbe bello se anche loro
ammettessero di non poter pretendere di avere voce in capitolo, e si
limitassero a considerare le questioni di metodo. Su queste,
soprattutto per come si sono messe le cose, credo si possa
concordare: Tsipras ha ingannato il suo popolo, il referendum si è
dimostrato ancora una volta uno strumento inutile e dannoso.
Giorni,
settimane, mesi a parlare della Grecia come culla della democrazia,
dimenticando che nella stessa culla vi è cresciuta pure la
demagogia.
lunedì 13 luglio 2015
[...]
«Se
sento ancora qualcuno dire che
il
referendum di domenica non è servito a niente,
metto
le mani alla pistola»
Gilio’,
quando hai finito le munizioni, mi faresti il piacere di spiegarmi a
cosa è servito il referendum greco?
sabato 11 luglio 2015
venerdì 10 luglio 2015
[...]
Parlo
a quei due o tre che mi hanno rimproverato di aver scritto
che lo strumento referendario è quasi sempre inutile o dannoso,
sennò inutile e dannoso. Ecco qui un ottimo esempio ad illustrare il
paradigma: la democrazia diretta è detta così perché c’è sempre
qualcuno a dirigerla, e quasi sempre in culo a chi ci crede.
[...]
In
Platone è «pseudoargomento
filosofico»,
ma non ha ancora la specifica connotazione di categoria retorica che
in Aristotele troverà la specie del «sillogismo
eristico»
e il modo della «ignoratio
elenchi» (αγνοια
ελεγχου),
che poi sarebbe l’errore del presumere di confutare un’affermazione
senza avere «esatta
conoscenza dei motivi, materiali o formali, che possano determinare
tale confutazione» (Guido
Calogero, Storia
della logica antica).
Parlo di quello che è più comunemente conosciuto come «ragionamento
a cazzo di cane»,
di cui abbiamo avuto in questi giorni un saggio nello pseudoargomento di chi contesta la
condanna in primo grado che Silvio Berlusconi aggiunge alla sua
collezione, perché
«tanto andrà tutto in prescrizione»,
con ciò intendendo suggerire (ma in taluni casi arrivando ad
affermarlo esplicitamente) che il processo neanche andasse celebrato,
e che quindi, se s’è
celebrato, l’accusa
non voleva far giustizia, ma solo molestare un povero cristo.
È qui
che la definizione di «ragionamento
a cazzo di cane»
rivela quanto sia impropria. Se, infatti, un argomento può darsi in
paragone a un cazzo, quello del cane non rappresenta in modo congruo
questo pseudoargomento: più appropriata l’immagine
del pene umano affetto da induratio
penis plastica
(morbo di La Peyronie). Giacché «tanto
andrà tutto in prescrizione»,
il magistrato avrebbe dovuto archiviare? Non arrivano a dirlo perché sanno bene che non sarebbe stato possibile, dunque è il caso di illustrare i
motivi materiali e formali che in questo caso rendono risibile la
contestazione quanto la pretesa di mandare la pallina in rete per finire a pisciarsi sui piedi?
giovedì 9 luglio 2015
Cazzabubboli rozzi e cazzabubboli sofisticati
Quanti
parlamentari sono passati dal centrodestra al centrosinistra? Tutti
corrotti come De Gregorio? E poi il governo Prodi è caduto per la
campagna acquisti che Berlusconi avrebbe promosso al Senato? Non è
caduto perché gli venne meno l’appoggio
di Mastella?
Più o meno a questo si riducono gli argomenti dei
berlusconiani all’indomani della
condanna di Berlusconi, come se l’articolo
del Codice Penale che ci dice cos’è corruzione non avesse al centro
quella «retribuzione non dovuta»
che in questo caso l’accusa è
riuscita a dimostrare esserci stata: in questione non era il cambio
di casacca, né il fine che si intendeva raggiungere col promuoverlo,
tanto meno poi se il mezzo si sia rivelato efficace, ma il fatto che
sia intercorso un «contratto illecito» tra soggetti che in esso si
son fatti corrotto e corruttore.
Niente di nuovo, sia chiaro. Ogni
volta che Berlusconi è raggiunto dalle conseguenze delle sue
disinvolture – chiamiamole così, va’ – i rozzi cazzabubboli
che per contratto gli reggono l’ormai logoro strascico da reuccio di operetta sono capaci
delle più inverosimili piroette logiche. Quello che in questa occasione, invece, risulta notevole è lo spuntare, qua e là, di
cazzabubboli un po’ più sofisticati, che per quel malsano
esercizio di mettersi in posa da personcine libere dal pregiudizio antiberlusconiano – preferisco non fare nomi – sfidano il buonsenso, prima che il diritto, sostenendo che
addirittura non sia ipotizzabile il reato di corruzione per chi, da parlamentare, sia costituzionalmente sciolto da vincolo di mandato. In
sostanza, un eletto potrebbe fare ciò che vuole del proprio voto.
E grazie al cazzo, diciamo loro, ma non può venderlo. Perché è suo
solo finché è gratis, o almeno riesce a dimostrarlo tale. Per
meglio dire: finché non è dimostrabile il contrario, come è
accaduto nel caso in questione.
De Gregorio ha dichiarato, dando
prova di quanto dichiarava, che per togliere il suo voto al
centrosinistra, e darlo al centrodestra, ha percepito un bel pacco di
milioni di euro, e da Berlusconi. Sbraitassero pure, i suoi servi,
ormai siamo abituati a sentirne il coro che lamenta di persecuzioni
giudiziarie e di sentenze politiche. Ma i garantisti un tanto
all’etto, per piacere, avessero il buon gusto di star zitti.
martedì 7 luglio 2015
Corrispondenze (Tutto è ormai già perso)
Dove
ho mai scritto che «i
greci sono un popolo di fannulloni»?
Dove ho mai scritto che «per
anni e anni hanno scialacquato allegramente a spese dell’Europa»?
Ho riletto gli unici due post che ho dedicato alla questione greca,
caro ***, e non ho trovato traccia di affermazioni simili, né mi
pare di aver insinuato nulla del genere: in uno mi sono limitato a
dire che la Grecia d’oggi
non c’entra
niente con la
Grecia antica,
il cui lascito è ormai da secoli patrimonio dell’intera
umanità, sicché è ridicolo pretendere che possa pareggiare o anche
soltanto alleggerire i debiti che la Grecia ha cumulato negli ultimi
decenni nei confronti di mezzo mondo; nell’altro
ho posto l’attenzione
su ciò che fa del referendum uno strumento inutile o dannoso,
cercando di dimostrare perché quello voluto da Tsipras non risolva
nulla, ed anzi possa rivelarsi addirittura pericoloso, innanzitutto
per la Grecia, ma anche per l’Europa.
In realtà, alla questione
greca ho dedicato anche un terzo post, ma si trattava solo del
copia-incolla di un’intervista concessa a Libero
da Antonio Martino: la facevo precedere da una rapida nota con la
quale dichiaravo di far mia la sua opinione
(«Se
la Grecia non può onorare i suoi debiti deve fallire, i titoli
diventano carta straccia e quelli che li hanno comprati subiscono una
perdita in conto capitale, del resto hanno lucrato sugli alti tassi
di interesse per molto tempo. Vuol dire che gli è andata male, hanno
fatto l’investimento sbagliato»).
Ecco, rileggendo quest’intervista,
trovo un’affermazione
dalla quale, forse, avrei fatto meglio a dissociarmi: «I
greci sono abituati a vivere a spese degli altri».
Ti riferisci a quest’affermazione
nell’attribuirmi
frasi che comunque non sono mai uscite dalla mia penna? Allora, sì,
ti devo una spiegazione, e ovviamente non sono autorizzato a chiarire
il senso che Antonio Martino voleva dare a quella frase, ma penso di
poter dire che anche lui, come me che ho sottoscritto quella frase,
non intendeva
generalizzare. Voglio dire che gli stereotipi sono sempre da
rigettare quando si parla di realtà complesse come un’intera
nazione, e aggiungerei che questo è tanto più sentito da un
liberale, che in una nazione non perde di vista la varietà degli
individui che la compongono, vedendoli accomunati da una storia, non
da un carattere. «I
greci sono abituati a vivere a spese degli altri»,
dunque, sarà un’affermazione
che si presta ad essere fraintesa – convengo – ma che trova
ragione nell’assunzione
di un dato inoppugnabile: i governi greci hanno amministrato la cosa
pubblica in modo irresponsabile, facendo affidamento – un folle
affidamento – sull’inesauribilità
delle risorse che derivavano dall’emissione
di titoli di stato. La Grecia, in sostanza, ha pensato di poter
vivere facendo debiti il cui pagamento potesse essere rinviato
all’infinito.
La cosa assurda è che pensa di poterlo fare ancora, rifiutandosi di
metter mano ad un riassetto del sistema che l’ha
portata al fallimento.
Un sistema, bada bene, che è la vera causa
dell’impoverimento
di tanti greci, a dispetto di chi blatera che sia Germania ad
affamarli. Mentre l’economia
greca aveva un tasso di crescita del 4% – parlo del periodo tra il
1998 e il 2007, prima che la crisi economica si abbattesse sugli
Stati Uniti e da lì all’Europa
– la spesa sociale ammontava a meno della metà di quanto
ammontasse in Germania. Certo, si tratta di un’odiosa
vulgata che i greci siano dei fannulloni, e infatti sono al primo
posto in Europa per ore
annue di lavoro pro capite, sta di fatto che si sono dati dei governi
che hanno continuato a concedere esenzioni fiscali ad armatori,
grandi
proprietari terrieri e Chiesa ortodossa. Prendi quest’ultimo
caso: la
Chiesa ortodossa è il più grande proprietario terriero del paese,
possiede catene alberghiere, centri turistici, proprietà
immobiliari, aziende nei più svariati settori, e non ha mai pagato
una dracma di tasse, né un euro, grazie ad un articolo della
Costituzione del 1975, un articolo che neppure la nuova classe
dirigente del paese riesce ad emendare, alla faccia del
marxismo-leninismo che li ispira. Si calcola che negli ultimi dieci
anni siano quasi 600 i miliardi di euro che dalla Grecia siano stati
trasferiti all’estero:
passi che i governi di destra chiudessero un occhio, ma ’sti
benedetti bolscevichi di Syriza, invece di andare col cappello in
mano a chiedere la carità in Europa, cosa aspettano a nazionalizzare
tutto?
Ok, stavo scaldandomi, ora mi calmo. Vedi, caro ***, non c’era
bisogno che la Grecia danzasse sull’orlo del default per capire che
l’Europa
non va assolutamente bene così com’è,
ma, se doveva essere la Grecia a farlo capire a chi ancora non l’ha
capito, non c’era
altro modo? I greci sono stati fottuti per l’ennesima
volta, e stavolta da un cazzaro, uno che è della stessa pasta di
Renzi, solo un poco più disperato, perché davvero ha poco da
perdere, perché tutto è ormai già perso.
lunedì 6 luglio 2015
Un Oxi che non vuol dire niente
Giusto
due anni fa intrattenevo il mio lettore sulle ragioni che mi avevano
portato a rivedere la mia posizione sull’istituto
referendario, arrivando a definirlo inutile o dannoso. Non starò qui
a ripetermi, dirò solo che la mia riflessione era partita dagli
articoli che Arturo Labriola dedicò a questo strumento di democrazia
diretta, su Critica Sociale,
nel 1897, per poi passare all’analisi
di ciò che l’istituto
referendario ha significato in Italia, ma al netto di tutta la
retorica che ne ha magnificato i risultati, com’è
evidente soprattutto per quello sul divorzio del 1974 e per quello
sull’aborto
del 1981, che in fondo non servirono ad altro che a confermare due
leggi approvate da un parlamento di eletti. Chi ne ha voglia potrà
riandare a quei post per prendere atto che la critica all’istituto
referendario veniva a trarre ulteriore motivo dalla natura
inevitabilmente ambigua che assume un quesito quando sia posto come
variabile indipendente dal contesto generale nel quale trovi modo di
essere formulato come chiave di un cambiamento che si ritenga
possibile in virtù del mero desiderio di realizzarlo, perché non
c’è
mai stato velleitarismo che alla lunga non abbia mostrato i propri
limiti nel trascurare le resistenze al cambiamento.
Inutile o
dannoso, il referendum, perché strumento che si rivela quasi sempre
essenzialmente inefficace a opporre la volontà degli elettori a
quella dei propri governanti, quando queste confliggano, o
addirittura facilmente utilizzabile per coartare le forze che si
esprimono attraverso l’una ai
disegni che mirano a realizzare l’altra,
nelle forme di quella deriva plebiscitaria che quasi sempre ha per
fine l’asservimento
delle masse agli interessi di uno o di pochi, non importa se folli
avventurieri o freddi delinquenti. Ma direi di più: quand’anche
il referendum non riveli la sua
inutilità con l’irrilevanza sostanziale data a ciò che
formalmente ha espresso come volontà popolare, resta il problema che non possa far tabula rasa delle conseguenze che il passato ha sul presente. Un referendum può trasformare una monarchia in repubblica, ma questo, di per se stesso, non trasforma un tracollo bellico in vittoria militare.
Bene, direi che il referendum tenuto ieri in Grecia possa dirsi senza dubbio inutile e per molti versi dannoso. Anche in questo caso era rispettata la regola di interrogare un popolo su questioni che erano state enucleate da un problema assai più ampio, che d’altronde nella sua portata generale non poteva non restare del tutto fuori dalla possibilità di essere rimesso alla volontà popolare, in primo luogo per vincoli di natura giuridica, speciosamente e strumentalmente elusi per dar da credere che il risultato delle urne potesse in qualche modo esprimere la volontà dei greci riguardo al restare o meno nell’Eurozona, qualsiasi cosa voglia intendersi per Eurozona, o ci sia interessa che si intenda. In sostanza, il referendum non decideva sulla permanenza della Grecia nella Comunità europea, né sul corso dell’euro in Grecia, ma l’intenzione di chi lo ha indetto, e in fretta, e senza preoccuparsi troppo di chiarirne il senso a chi chiamava alle urne, era quella di farsi forte di un risultato in gran parte previsto, e proprio in virtù del significato che si era certi di poter ingannevolmente attribuire alla consultazione, per riaprire i negoziati con i creditori in una condizione che sul piano interno e su quello esterno almeno apparisse migliore, se pure non potesse esserlo, rispetto a quella in cui si era al momento in cui le trattative si erano interrotte. In parole povere, i greci sono stati ingannati come d’altronde è stato fatto per decenni: i predecessori di Tsipras hanno fatto creder loro che potessero entrare in Europa continuando a vivere da greci, e Tsipras ha fatto creder loro che ora ne possano uscire per tornare a vivere come prima che l’Europa esistesse, e naturalmente per Europa qui è da intendere quel che è l’Europa è oggi, ed è tutto tranne quel che voleva essere, o diceva di voler essere, certo, sta di fatto tuttavia che a ciò che è si è giunti anche per l’assenso dei governi greci, che hanno sottoscritto impegni non solo per il loro oggi, ma anche per il loro domani.
Bene, direi che il referendum tenuto ieri in Grecia possa dirsi senza dubbio inutile e per molti versi dannoso. Anche in questo caso era rispettata la regola di interrogare un popolo su questioni che erano state enucleate da un problema assai più ampio, che d’altronde nella sua portata generale non poteva non restare del tutto fuori dalla possibilità di essere rimesso alla volontà popolare, in primo luogo per vincoli di natura giuridica, speciosamente e strumentalmente elusi per dar da credere che il risultato delle urne potesse in qualche modo esprimere la volontà dei greci riguardo al restare o meno nell’Eurozona, qualsiasi cosa voglia intendersi per Eurozona, o ci sia interessa che si intenda. In sostanza, il referendum non decideva sulla permanenza della Grecia nella Comunità europea, né sul corso dell’euro in Grecia, ma l’intenzione di chi lo ha indetto, e in fretta, e senza preoccuparsi troppo di chiarirne il senso a chi chiamava alle urne, era quella di farsi forte di un risultato in gran parte previsto, e proprio in virtù del significato che si era certi di poter ingannevolmente attribuire alla consultazione, per riaprire i negoziati con i creditori in una condizione che sul piano interno e su quello esterno almeno apparisse migliore, se pure non potesse esserlo, rispetto a quella in cui si era al momento in cui le trattative si erano interrotte. In parole povere, i greci sono stati ingannati come d’altronde è stato fatto per decenni: i predecessori di Tsipras hanno fatto creder loro che potessero entrare in Europa continuando a vivere da greci, e Tsipras ha fatto creder loro che ora ne possano uscire per tornare a vivere come prima che l’Europa esistesse, e naturalmente per Europa qui è da intendere quel che è l’Europa è oggi, ed è tutto tranne quel che voleva essere, o diceva di voler essere, certo, sta di fatto tuttavia che a ciò che è si è giunti anche per l’assenso dei governi greci, che hanno sottoscritto impegni non solo per il loro oggi, ma anche per il loro domani.
È chiaro, poi, che si possa
chiedere di rinegoziare gli impegni presi, ma pretendere che questi
vengano rinegoziati nei modi voluti, e senza che la controparte batta
ciglio, in virtù poi del fatto che un referendum abbia solo
aleatoriamente dichiarati nulli quegli impegni, prima assunti con
evidente leggerezza, non dice nulla riguardo al fatto che chi è
investito della responsabilità di rappresentare il proprio paese lo
inganni al punto da rappresentarne anche l’inaffidabilità
rispetto agli impegni presi? La Grecia è libera di uscire dalla
Comunità europea, è libera di tornare alla dracma, è libera
perfino di non pagare i propri debiti, e ovviamente è libera di
diventare uno stato socialista, però deve assumersene tutti gli
oneri e le conseguenze. Non può pretendere di farlo solo a parole,
per giunta con un Oxi che non vuol dire niente. Perché una cosa deve
esser chiara, al netto del tanto rumore che ha preceduto questo
referendum, e la cui eco ancora sarà udibile per qualche settimana:
la Grecia è nella stessa situazione in cui era prima, e di certo non
è più forte, anche se ieri sera si è illusa d’esserlo.
Meditazioni trascendentali / 1
Adesso
è facile capire la differenza che c’era
tra i due, ma nel 1972 tutti pensavano che Alan Sorrenti fosse una
specie di Demetrios Stratos, è che i gargarismi in falsetto del
primo sembravano apparentati alle diplofonie e alle trifonie del
secondo, colpa del cerume che da un po’
intasava l’italico orecchio
medio (e qui «medio» ha il suo bravo doppio senso). Non ci fu bisogno
di aspettare molto per capire che appartenevano a due razze diverse,
perché Alan Sorrenti passò
quasi subito dalla progressive alla disco e Demetrios Stratos morì.
Non fosse morto, poteva passare dall’overtone
a un qualche inutile trallallèro, chi può dirlo? Sicché laudato
si’,
mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu
homo vivente po’
scappare, salvo scoraggiarla, mostrandosi al naturale.
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