mercoledì 10 agosto 2016

C’è quartismo e quartismo / 2

Quando dice: «Odio chi non parteggia», Antonio Gramsci non si limita a rivelarci unindole incapace di concepire la vita in altro modo che come impegno attivo, coraggioso, generoso («l’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita»), né si limita a dichiarare la posizione morale di chi condanna chi a questo impegno si sottrae («chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto»): fa qualcosa di più che biasimare gli egoisti, i pusillanimi e gli indolenti: coglie in essi il ruolo assunto nel corso delle vicende umane («l’indifferenza è il peso morto della storia [...] opera potentemente nella storia […] passivamente, ma opera»), sussumendolo allinorganico («è la fatalità [...] è la materia bruta che strozza l’intelligenza»).
Pagina dura, senza dubbio, tanto più dura oggi, centanni dopo. Oggi chi non parteggia gode di ottima fama: ci appare serio, equilibrato, immune dalle basse passioni che agitano i partigiani, capace di saper vedere in tutto un pro e un contro, perciò in quella materiale impossibilità di schierarsi che implicherebbe far torto, seppur un piccolo torto, allo schieramento opposto. Non sia mai. Terzista, dunque, quando in campo ci sono due schieramenti, quartista quando ce ne sono tre, quintista il giorno che ce ne dovessero essere quattro. Vigliaccheria? Potrebbe insinuarlo solo un attaccabrighe matricolato come Antonio Gramsci, che infatti a Torino non si perse mai una rissa, robe di cui il Pci fece sparire ogni traccia per confezionarci il santino. Peso morto della storia? Macché, chi scansa la zuffa ha posto fisso nei migliori salotti, dove la zuffa scorre sul maxischermo fra i commenti dei presenti, e i suoi sono sempre quelli più apprezzati. Cosè, d’altronde, la storia, se non ciò che se ne dice nel miglior salotto?
Diciamo la verità: non abbiamo i fondamentali per odiare chi se ne sta sempre comodo super partes, solitamente accorto – ritenerlo un caso sarebbe un ingiusto negar merito dovuto – a non rompere eccessivamente il cazzo alla pars più forte, ci è concesso solo provare invidia. Per esempio: a noi poveracci che ieri eravamo antiberlusconiani e oggi, con la convinzione di essere pure abbastanza coerenti, siamo antirenziani, rode potentemente il culo che ieri a Berlusconi, e oggi a Renzi, qualcuno riesca trovare sempre qualche pro che gli impedisca di dirsi completamente contro. Personalmente, io invidio il Mantellini.

«Una collaboratrice di un programma radio della Rai scrive su Facebook che nel suo contratto ci sono condizioni che le impediscono di citare o fare satira su Renzi», e a lui cosa salta agli occhi? Che «un certo numero di commentatori furiosamente antirenziani vedono in una simile argomentazione la pistola fumante di quanto vanno affermando da tempo sulle volgari prevaricazioni che Renzi applicherebbe a tutti i livelli». E che è, tutta sta furia, cazzo? Non sta bene, cè sentore di «un fortissimo carico ideologico». La clausola censoria del contratto? «Renzi non ha creato questa situazione, se l’è trovata davanti: e invece di rifiutarla, come aveva promesso, l’ha cavalcata. Dal mio punto di vista – una grandissima delusione». Altro che dargli del buffone, del cazzaro, riempirlo di insulti o di maledizioni, questo sì che è un colpo micidiale: sai come resterà di merda, il Renzi, quando saprà che ha deluso il Mantellini.
Sistemato il Renzi come meritava, il Mantellini passa a sistemare il resto, in nome di quel sano equilibrio che non deve mai venir meno in chi voglia evitare di inciampare nella partigianeria. «Il giornalismo italiano è da sempre, per sua essenza costituzionale, estremamente debole e chiaramente schierato. Dentro la logica del “amici-nemici” abbiamo tutti da perdere moltissimo. [...] Dentro una simile polarizzazione, con una stampa debolissima e senza identità, non si può non osservare anche il fenomeno opposto. Lo squallore giornalistico dei fogli antirenziani, le offese da asilo nido dei grillini, le bugie di una lunga serie di “giornalisti” televisivi che da 20 mesi organizzano talk show solo per attaccare Renzi (magari per astio personale prima ancora che per convinzione politica) con sempre gli stessi ospiti che dicono le stesse cose con lo stesso tono».
Non arriva a dire che la clausola censoria fosse una garanzia a tutela del Renzi, ma il senso sembra quello. Gli sarà sembrato di avere esagerato col dirsene deluso e cerca di bilanciare? Può darsi, però ecco assestargli subito unaltra mazzata: «La notizia di oggi è che purtroppo Renzi da questo punto di vista non è migliore degli altri». Ma per non sbilanciarsi troppo: «La notizia, oggi, è anche che gli altri non sono (mai stati prima e non sono nemmeno ora) migliori di Renzi».

martedì 9 agosto 2016

[...]

Quando la Costituzione recita che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49), viene spontaneo pensare che faccia obbligo ai partiti di darsi regole di vita interna che sul metodo democratico abbiano il loro fondamento. In sostanza, si è portati a credere che la Costituzione imponga ai partiti di seguire una linea politica democraticamente decisa dai propri iscritti a scadenze tali da poterla ritenere in ogni istante espressione della loro volontà, di assegnare ruoli e incarichi al proprio interno sulla base di norme certe e trasparenti che consentano di poterli considerare espressione di scelte democraticamente condivise, di arrivare alle candidature da presentare agli appuntamenti elettorali seguendo procedure di selezione che diano agli iscritti il pieno controllo sulle liste, di gestire le proprie risorse economiche rispondendone come di beni comuni, anche quando esse siano a saldo di una lunga storia.
Tutto sbagliato, non è così, e non a caso il testo dell’articolo è ambiguo, consentendo una lettura riduttiva che nel «diritto di associarsi liberamente» contempli la libertà di un partito di darsi le regole interne che meglio creda e nel «metodo democratico» semplicemente quello della competizione elettorale, sicché il concorso di «tutti i cittadini» a «determinare la politica nazionale» troverebbe nell’iscrizione a un partito semplicemente un modo di sostegno più attivo che non il solo votarlo: fu il Pci a pretendere che l’art. 49 non specificasse in modo chiaro che sulla vita interna di un partito potesse efficacemente ricadere un giudizio esterno, in modo che fosse così fatta salva la regola del «centralismo democratico», formula che, secondo Lenin, assicurava «libertà di discussione, ma unità d’azione». È errato dire, dunque, che l’art. 49 della Costituzione resta inattuato: semplicemente non fu scritto per essere attuato nel modo in cui tutti – si fa per dire – dicono andrebbe attuato, e se, per come fu scritto, sembrò potesse tornar comodo solo al Pci, la storia della Prima Repubblica mostra in modo assai eloquente che tornò comodo a tutti, perfino a chi si proclamava antipartitocratico e intanto si costruiva un partito in cui su soldi e linea politica non era lecito a nessun iscritto poter mettere becco.
I partiti italiani – tutti, quindi non fa differenza se rigettano la denominazione, preferendo quella di movimento – sono enti di fatto, non persone giuridiche, e come tali non hanno da dover render conto a chicchessia dei loro statuti, né di come è retta la loro vita interna. Ne consegue che, se non si procede prima a ridefinire la loro natura giuridica, ogni discussione sull’art. 49 della Costituzione lascia il tempo che trova: rimarranno associazioni private, e come tali potranno fottersene alla grande del «metodo democratico» che si vorrebbe imporre loro. La loro linea politica continuerà ad essere tracciata a dispetto delle tesi congressuali e dei programmi elettorali, potendo così continuare a tradire la volontà dei loro elettori e degli stessi iscritti. Ruoli e incarichi continueranno ad essere assegnati per cooptazione, sulla base del solo merito di una fedeltà da ottusi gregari, che è il miglior modo per selezionare la peggior classe politica. A compilare le liste elettorali continueranno ad essere i membri di segreteria. A disporre della cassa, per lo più piena di denaro pubblico, continuerà ad essere chi di fatto – e in sostanza anche di diritto – è padrone del partito.
Per questo, un editoriale come quello che ieri apriva la prima pagina del Corriere della Sera, a firma di Ferruccio de Bortoli, pur pieno di assennate considerazioni, non è più efficace di un buco nell’acqua. Certo, «i partiti sarebbero più credibili se mettessero mano, senza indugi o ambiguità, alle proprie norme interne». «Se si vuole tutelare la democrazia rappresentativa, occorre rendere meno oscure e insindacabili le liste dei candidati o dei nominati che i leader dei partiti propongono agli elettori», certo. E, certo, «conoscere meglio i partiti, il loro finanziamento, le modalità di scelta dei vertici, il ruolo delle fondazioni, contribuisce a sciogliere quella patina di sospetto e pregiudizio [pregiudizio?], a volte esagerato [esagerato?], che alimenta il populismo e l’astensione e indebolisce nelle fondamenta una democrazia rappresentativa già troppo sfibrata», ma non ci si illuda possa riuscirci una legge ordinaria come quella che de Bortoli pensa faccia al caso, nella fattispecie quella che ha come primo firmatario Matteo Richetti, già approvata alla Camera e ora arenatasi al Senato: senza dare ai partiti l’onere della persona giuridica, ogni impegno preso sulla carta potrà bellamente essere aggirato o addirittura eluso.

sabato 6 agosto 2016

Segnalibro

Ben detto

L’intervista che il cardinale Angelo Scola ha concesso qualche giorno fa a Matteo Matzuzzi (Il Foglio, 4.8.2016) meriterebbe di essere commentata in dettaglio, frase per frase, ma già l’afa ci fiacca, ad addentrarci in un groviglio di mezzucci retorici stramazzeremmo. Diremo solo che Sua Eminenza è un altro a cui Bergoglio sta sul cazzo, ma è cardinale, può solo lasciare si capisca fra le righe. Richiama alla mente il Bertoldo di Giulio Cesare Croce, che costretto a inchinarsi dinanzi a re Alboino, s’inchina, sì, ma di culo.
Lasciamo perdere, limitiamoci a riportare una citazione che Sua Eminenza piglia da Teodrammatica 3 di Hans Urs von Balthasar (Jaka Book, 1980), volume che qui dobbiamo fare ammenda di non aver mai letto, ripromettendoci di procurarcelo al più presto perché chissà di quante altre perle altrettanto preziose deve essere ricolmo: «In tutte le epoche si cerca di ridurre il cristianesimo in modo tale che la ferita che Cristo ha inferto alla storia si possa chiudere. Non è possibile, continuerà a suppurare».
Non a sanguinare, ma a suppurare, cioè a produrre materiale infetto. Ben detto, neanche da Nietzsche poteva uscire un’allegoria così calzante.

venerdì 5 agosto 2016

Ma il poker è un gioco serio

Direi si debba considerarlo un annuncio ufficiale, perché a darlo è Maria Teresa Meli: se alla chiamata referendaria sulla riforma costituzionale dovesse vincere il no, Matteo Renzi non abbandonerà la politica, anzi, nemmeno abbandonerà la segreteria del partito. In quanto a Palazzo Chigi, «non lo dice più pubblicamente, ma ritiene che le sue dimissioni sarebbero un atto dovuto. Il che non vuol dire che mollerà la presa... “Sarò io a parlare, in quanto segretario, a nome del Pd, nel caso di una crisi di governo”. E, cioè, sarà sempre lui a decidere se proseguire la legislatura oppure no, perché di fronte a una eventuale indisponibilità del Pd sarebbe davvero complicato dare vita a un nuovo governo» (Corriere della Sera, 5.8.2016). Altro che, «se perdo, considero fallita la mia esperienza in politica» (30.12.2015), «se perdo, smetto di far politica» (12.1.2016), «nel caso in cui perdessi il referendum, considererei finita la mia esperienza politica» (20.1.2016), «se al referendum votano no, io vado a casa» (12.6.2016)... Dopo la spacconata di aver messo nel piatto tutte le fiches che aveva davanti, ora ritira la posta. Roba che a poker ti troveresti a raccattare i denti sotto il tavolo. Ma il poker è un gioco serio. 

giovedì 4 agosto 2016

[...]

Fatta eccezione per ledizione di Atene del 1896 e per quella di Saint Louis del 1904, dove non ne ottenne neppure una, lItalia ha sempre conquistato un discreto numero di medaglie doro nelle restanti 25 edizioni delle Olimpiadi, con una media di circa 8 (7,96 per la precisione, con un minimo di 2 alle edizioni di Londra del 1908 e di Montreal del 1976 e un massimo di 14 a quella di Los Angeles del 1984). Con questi precedenti, cè da ritenere che per l’edizione di quest’anno, a Rio de Janeiro, non ne conquisterà neppure una? Tutto è possibile, ovviamente, ma risulta davvero difficile immaginarlo, tanto più che in alcune specialità sportive (scherma e ciclismo, per esempio) i risultati ottenuti dagli atleti italiani sono un dato ormai consolidato da tempo. Diciamo che anche per quest’anno è lecito aspettarsi che l’Italia porti a casa un gruzzoletto di medaglie d’oro, aspettativa che è più che lecito assuma la forma dell’auspicio in chiunque abbia a cuore i colori italiani e trovi espressione di augurio in chiunque, a qualsiasi livello, abbia un ruolo di rappresentanza della comunità nazionale.
C’è, tuttavia, un altro modo di aspettarsi che un risultato sia conseguito: quello di chi sia (o si senta) legittimato a fissarlo come meta e a esigere che a lui si debba risponderne nel caso che non sia raggiunta. Non sarebbe giusto interpretare a questo modo la frase attribuita a Matteo Renzi: con «aspetto gli ori dell’Italia» si sarà limitato a esprimere una speranza, a formulare un pronostico, a dare forma di sprone a una fiduciosa attesa. Poi è probabile che la frase sia solo una sintesi giornalistica, che possa aver detto qualcosa di simile ma senza conferirgli il tono imperativo che risuona in quell’asciutto «aspetto gli ori dell’Italia». Insomma, non è il caso che si lasci spazio al pregiudizio che fin qui si è potuto abbondantemente nutrire della sua pessima abitudine alla posa da ducetto, anche perché possiamo star tranquilli che ai nostri atleti non saranno spezzate le gambe nel caso in cui dovessero ottenere risultati inferiori alle ragionevoli aspettative: tutto si risolverebbe nel constatare per due o tre giorni la sua irreperibilità on line. Accadesse il contrario – cosa che qui conviene augurarsi per non essere rinviati a giudizio per disfattismo – al più ci toccherà sorbirci la consueta scacazzata di tweet che ci convinceranno ad essere contenti che tante gambe ne abbiano scansata una davvero brutta.

Corrispondenze

[Probabilmente discuteremo ancora a lungo – uso la formula usata qualche giorno fa da Ernesto Galli della Loggia – «se quella che stiamo vivendo è una guerra “di religione”, ovvero una guerra in cui “c’entra la religione”, ovvero ancora una guerra in cui una parte “si serve della religione”» (Corriere della Sera, 30.7.2016). Abbiamo cominciato a discuterne 15 anni fa, ma finora la discussione non è servita a molto. È che i concetti di guerra e di religione non sono così univoci come solitamente si è portati a credere, se ne dovrebbe discutere solo dopo essersi messi daccordo sul significato dato ai termini. Per quanto riguarda la religione, poi, quando nel prenderne in considerazione una di cui si sappia poco o niente si usano categorie ritenute idonee a comprenderne unaltra, peraltro a torto, perché neanche di quella poi se ne sa molto di più, la confusione è inevitabile. Per queste ragioni si deve ritenere utile ogni occasione che consenta di spiegarsi a dovere, e la lettera che segue, quella di un lettore che ha ritenuto fosse troppo lunga per postarla a commento di quanto ho scritto su un editoriale di Angelo Panebianco, mi pare la offra a chi, come nel caso del lettore, ritiene che «stiamo vivendo una guerra “di religione”», o che comunque sia «una guerra in cui “c’entra la religione”», e a chi ritiene, come ho più volte scritto su queste pagine, che la religione c’entra, sì, ma solo come sovrastruttura, e che, a darle altro valore, si corre il rischio di gettare benzina sul fuoco.]


Ho letto l’articolo di Panebianco, e inizialmente ho avuto la sua stessa impressione riguardo quel «salto di qualità». Poi mi sono detto chissà, magari per Panebianco i terroristi islamici vedono «gli uomini-simbolo della odiata cristianità occidentale» come il mostro che, se abbattuto, ti permette di passare il livello o una testa di cervo da appendere al muro come trofeo (visto anche che nell’Islam una figura tale, cioè un tramite tra il fedele e dio, non esiste e quindi trasuda blasfemia) e allora sì: forse «salto di qualità» assume un certo senso. Ma tutto ciò non ha molta importanza. Ne ha, invece, capire quale ruolo giochi davvero la religione in questo scontro. Lei dice che è una sovrastruttura, un vestito che sindossa per «chiedere il saldo delle proprie frustrazioni».
C’è un libricino di Piovene, «Processo dell’Islam alla civiltà occidentale», che probabilmente conoscerà. È il reportage di un convegno tenutosi a Venezia nel ’55, in cui si incontrarono intellettuali, economisti, scrittori (c’era per esempio Taha Husein) di entrambe le parti; l’Occidente era rappresentato da soli italiani; c’erano orientalisti da una parte, occidentalisti dall’altra. Bene, il convegno durò qualche giorno e per tutto il tempo gli esponenti orientali sembrarono evitare - agli occhi degli occidentali - la disputa meramente religiosa (dissero solamente che il concetto di carità evangelica era affine a quello di fratellanza espresso dal Corano e che in generale tra le due fedi non vi era antitesi, semmai continuità) ma chiarirono un punto: «[I musulmani] scindendo il Cristianesimo dalla civiltà Occidentale, hanno ritenuto che questa abbia degenerato dai suoi principi...». L’empietà degli occidentali, per loro, non risiedeva nel Cristianesimo ma nell’averlo tradito, abbracciando il materialismo a danno della spiritualità e con esso corrompendo, sfruttandole, le società islamiche. Alla luce di tale premessa, le loro accuse nei confronti degli occidentali presero a fondarsi su un unico punto, quello politico, complice ovviamente la congiuntura storica. In realtà, però, come Piovene fece notare, nell’Islam l’argomento politico incapsula strutturalmente quello religioso, poiché non va dimenticato che il Corano è anche un testo giuridico, un codice, e se «in Occidente lo Stato presuppone la separazione della religione, frutto della libera scelta della coscienza individuale, dalla politica, che riguarda gli interessi collettivi, nell’Islam esso presuppone la loro assoluta coincidenza». Ora, di tempo ne è passato dal ’55, siamo d’accordo, ma si fa presto ad arrivare a noi; le interpretazioni del Corano rimangono quelle: tra i fondamenti ideologici di Bin Laden prima e Abū Bakr al-Baghdādi oggi vi sono gli scritti di Sayyd Qutb, il capo dei fratelli musulmani che aiutò parecchio Nasser a salire alla presidenza nell’Egitto post-monarchico del fantoccio Re Faruk, per riceverne in cambio galera e condanna a morte. Fu Qutb - dalla prigionia - a gettare il seme del fondamentalismo moderno all’interno del cosmo musulmano sunnita come reazione alla preclusione forzosa dei posti di potere nei confronti delle figure religiose, massime quelle integraliste. Oggi, Al Shabaab fa strage di cristiani in Kenya - ferma i pullman con sventagliate di mitra, divide i fedeli dagli infedeli e uccide questi ultimi; a Bamako nel 2015, all’hotel Radisson Blue, i terroristi uccisero coloro che non conoscevano a memoria il Corano, stessa cosa a Dacca poco fa (qui gli attentatori erano di famiglia benestante, a evidenziare l’interclassismo della - termine usato impropriamente - jihad: vi sono «attentatori di estrazione politica, sociale ed economica completamente diversa. L’unica cosa che li accomuna è l’ideologia religiosa che sottoscrivono» cit.). «O davvero vogliamo far finta che a muovere fenomeni di tali dimensioni possano essere contenziosi tutti teologici?» chiede lei, dottor Castaldi. Hassan Butt (citato da Giovanni Fontana qui) affermò che la teologia islamica era il motore della loro violenza. Sappiamo che molte sure del Corano giustificano l’assassinio in nome di Allah, anche per questo il califfato inquadra nei suoi eserciti chi quella violenza la esprime con più efficacia (invasati, assassini, psicopatici ecc...) e lo manda da noi. O gode della sua iniziativa privata. Passi che tali fenomeni non siano «mossi da contenziosi teologici», ma questo, di per sé, esclude la motivazione religiosa in senso generale? Abū Bakr al-Baghdādī, in fine dei conti, era un imam prima di Camp Bucca. Ma non voglio andare oltre su questo punto, mi limito a fare congetture che mi sembrano degne di nota.
Sono in linea di massima d’accordo con lei quando sostiene che Daesh sfrutta gli attentati in Europa (in Africa, in America, nel Medio Oriente) per «farsi forte nella resa dei conti con le opposte fazioni» sorte dal Maghreb al Pakistan dopo le rivolte del 2010 e via discorrendo (perché per esempio l’autoproclamato califfo, subito dopo il ritorno in Iraq dalla prigionia, iniziò sistematicamente a rompere i coglioni ad al-Mālikī e al suo governo sciita con una lunga serie di attentati, governo che seppur malvisto dai sunniti iracheni nessuno aveva ancora preso di mira a quel modo). Sarà certo superfluo, però è bene ricordare che l’Isis non è l’unica organizzazione terroristica islamista a fare disastri a casa nostra, e nemmeno la prima: al-Qaeda stessa lo ha fatto in maniera più eclatante; più recentemente, la strage di Charlie Hebdo è anch’essa stata rivendicata da al-Qaeda, così come l’attacco a un resort in Costa d’Avorio. La lotta per la conquista di territori d’influenza, per l’accaparramento delle fonti energetiche, portata avanti nella maniera che conosciamo, non dà a Daesh - che negli ultimi mesi ha ridotto comunque parecchio il volume delle aree assoggettate - nessuna sicurezza di poter anche solo durare più a lungo dei suoi concorrenti: rispetto a questi ultimi si è attirata più nemici e combatterli richiede continui arrivi di forze fresche da impegnare; una débâcle nella sua pur imponente macchina propagandistica potrebbe costarle cara.
Ritorno infine a Panebianco, precisamente all’ultimo periodo del suo articolo, dove scrive che «l’attacco di Saint-Etienne-du-Rouvray dovrebbe» aprire gli occhi alla Chiesa, la quale avrebbe deciso d’abbandonare l’Europa ormai secolarizzata. Non so se il giornalista lì dentro ci collochi pure il nostro paese; a me viene in mente la legge Cirinnà così come da originaria proposta e com’è poi effettivamente passata, e penso ebbro di letizia: no, non ci ha ancora abbandonati, Santa Romana Chiesa. Amen.

Marcello Nardo

*                       *                     *

Prima di venire al sodo, affronto le questioni relative allarticolo di Panebianco che lei solleva in apertura e in chiusura.
(1) Se cè articolazione tra attentato e attentato, e se quanto ne caratterizza il tratto funzionale è l’essere «guerra di religione», attaccare una chiesa e uccidere un prete arrivano assai in ritardo: più che un «salto di qualità», rappresenterebbero il tentativo di dare alla «guerra» un movente religioso, ma «a posteriori». Non vi è intenzione di segnare un passaggio di livello della qualità, dunque, ma di qualificare finalmente come religioso un fine che evidentemente tale non è, o che comunque si ritiene non sia stato percepito come religioso. Suppongo sia evidente la contraddizione tra il sostenere che il fine religioso sia in radice al piano strategico degli attacchi e allo stesso tempo considerare lobiettivo religioso come un innalzamento di livello in una supposta escalation. Non regge neppure allipotesi che invece si tratti di uno «scontro di civiltà», che pure è cosa abbastanza diversa da una «guerra di religione», sebbene Panebianco le tratti come interscambiabili: posto, infatti, che agli occhi di un attentatore la colpa dell’occidente da colpire sia quella di aver smarrito le sue radici cristiane – che poi sarebbe la stessa imputazione mossagli da chi si erge in sua difesa – e che dunque il bersaglio che si intende colpire non sia tanto il cristianesimo quanto – qui la cito – «l’empietà degli occidentali, [che] per loro non risiedeva nel cristianesimo, ma nell’averlo tradito, abbracciando il materialismo a danno della spiritualità», che senso ha attaccare una chiesa e uccidere un prete? Se ne ha uno, dovè il «salto di qualità»? In ogni caso, concordo con lei quando scrive che «tutto ciò non ha molta importanza». Per meglio dire: non ne ha molta in assoluto, perché, contestualmente allargomentare che «la religione centra», unimportanza – anche bella grossa – la assume.
(2) Non sono molto daccordo con lei neppure relativamente alla considerazione che fa sulla chiusa delleditoriale di Panebianco, dove scrive che l’attacco di Saint-Etienne-du-Rouvray dovrebbe aprire gli occhi alla Chiesa, che avrebbe deciso d’abbandonare l’Europa ormai secolarizzata. Lei sostiene che, come sarebbe dimostrato dalle modifiche apportate al ddl Cirinnà, la sua capacità di ingerenza e, ancor più, il suo interesse allingerenza siano ancora patenti. Nel dettaglio ha ragione, e tuttavia è innegabile che sul piano geopolitico la Chiesa abbia già da tempo messo in atto un riposizionamento tattico che privilegia lattenzione su Asia, Africa e Sudamerica, a discapito di Europa e Nordamerica, per le quali pure stende piani di rievangelizzazione. Non è un’opzione che nasca dal capriccio, ma da una previdente analisi degli sviluppi demografici del pianeta: quando il fine ultimo è quello di durare, «todo modo es bueno». È che la Chiesa è abituata a guardare lontano.
Venendo al cuore della questione posta dalla sua lettera, devo confessarle che vi trovo un limite insuperabile nel porre l’islam al di sopra delle ragioni storiche che l’hanno prodotto, il che la porta a ritenerlo inemendabile al pari di chi ritiene non debba e non possa emendarsi. Si tratta – mi consenta la franchezza – del non riuscire a rappresentarsi pienamente la religione come sovrastruttura. Per l’islam, come d’altronde per il cristianesimo, elementi che dottrinariamente sono postulati come insuperabili riconoscono nel corso dei secoli rimodulazioni che li alterano profondamente per renderli continuamente funzionali a ciò che il dettato religioso ha pretesa di interpretare. In altri termini, è la plasticità dell’esegesi che assicura la sopravvivenza alla tradizione. In tal senso, la citazione del post di Giovanni Fontana è quanto mai opportuna. Sulla tesi lì esposta ho avuto modo di parlare di persona con l’autore nelle due occasioni in cui abbia avuto modo di incontrarci qui a Napoli, peraltro constatando qualche significativa precisazione, che tuttavia non risolve per intero il punto di conflitto. È che io sono dell’idea che ignorare i sei secoli di differenza che ci sono tra islam e cristianesimo porti inevitabilmente a raffronti asimmetrici e dunque un pochino strabici.
Guardi che non voglio sminuire in alcun modo l’orrore che a ragione può incuterle anche l’islam più «moderato»: è il mio stesso orrore, ma ci metto accanto alcune considerazioni che mi pare a lei sfuggano. Lei dice che «nell’islam l’argomento politico incapsula strutturalmente quello religioso, poiché non va dimenticato che il Corano è anche un testo giuridico, un codice, e [citando il libricino] se “in occidente lo stato presuppone la separazione della religione, frutto della libera scelta della coscienza individuale, dalla politica, che riguarda gli interessi collettivi, nell’islam esso presuppone la loro assoluta coincidenza”». Tutto giusto, ma soltanto a rappresentarsi il «date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio» come un programma coerentemente rispettato lungo tutta la storia del cristianesimo. Non voglio appesantire questa mia con ragguagli storici, che daltronde potrebbero fraintesi come spocchiosa lezioncina, ma ogni raffronto tra cristianesimo e islam che pretenda di trovare nel primo unintrinseca potenzialità di riforma che si intenda negare allislam è inevitabilmente destinato a scontare il prezzo di un pregiudizio ideologico, dal quale non è indenne neppure qualche ateo militante. Quanto più questo pregiudizio sia forte, più saranno fatte salde le sciagurate tesi che vedono nel cristianesimo, seppure in embrione, lo stato di diritto, la democrazia e perfino il liberalismo: tutta roba che è venuta in gestazione contro il cristianesimo, e a cui il cristianesimo è stato costretto a fare buon viso a cattivo gioco. Probabilmente accadrà la stessa cosa anche allislam, solo che non ci sarà dato modo di vederlo.
Sia chiaro che in questa previsione non vi è alcuna speranza, solo la constatazione che alla lunga lerba spacca il cemento. 

lunedì 1 agosto 2016

Non c’è più religione

La «musulmana [che] a messa si toglie il velo in segno di rispetto verso i cristiani» (ansa.it, 31.7.2016) ignora che invece, almeno a messa, i cristiani pretendono che una donna stia a capo coperto. Per meglio dire, così è stato fino al 1983, quando il nuovo Codice di Diritto Canonico cassò il Can. 1262 di quello precedente («mulieres autem, capite cooperto et modeste vastitae, maxime cum ad mensam dominicam accedunt»): fino ad allora, e da Paolo (1 Cor 11, 5-15), passando per Tertulliano (De virginibus velandis, De cultu feminarum), Crisostomo (Orationes, XXVI), Cipriano (De habitu virginum), Agostino (Epistulae, CCXLV), Ambrogio (De virginitate) – giusto per fermarci alla Seconda Patristica – sul capo di una donna, per i cristiani, il velo sta bene sempre, e in chiesa è d’obbligo, massimamente a messa.
Offrire come omaggio quello che un tempo sarebbe stato oltraggio: assai poco probabile che il gesto avesse in sé una perfidia di qualità tanto squisita, alla musulmana sarebbe stata necessaria una conoscenza del cristianesimo che neanche i cristiani hanno. Né l’islam sta messo meglio, perché, per una musulmana, di là da ogni pur nobile intenzione, scoprire il capo in pubblico dovrebbe rimanere gesto lascivo.
In una domenica che le cronache si precipitano a registrare come emblematica, l’emblema sta tutto nel comune smarrimento di simboli e significati. Poi, in un articolo pubblicato da l’Espresso e che riporta l’esperienza fatta da un giornalista francese come infiltrato in una cellula islamista, leggiamo che di Allah, quelli del Daesh, se ne fregano: il chiodo che hanno in testa è la fica, non pensano ad altro che alle vergini che starebbero ad aspettarli in Paradiso. Altro che ritorno del sacro, qui non c’è più religione.

sabato 30 luglio 2016

C’è quartismo e quartismo

Chiusa la stagione che ci illuse di essere finalmente diventati un paese normale per il solo fatto di essere approdati al tanto agognato bipolarismo, formula magica che avrebbe sanato i mali della Prima Repubblica, a cominciare da quello dellinstabilità dei governi, dalla quale si diceva fossero sortiti tutti gli altri – sia consentito linciso: sè visto quanto fosse magica, la formula – ecco che se ne apre una nuova, quella del tripolarismo, come a insinuarci il sospetto che la normalità non fa per noi, che siamo nati per essere speciali, forse semplicioni, ma refrattari alle semplificazioni, anche a quella di due opposti schieramenti che facciano il pienone di tutte le piccinerie in lizza a surrogare la permanente guerra civile che a chiacchiere ci piace da impazzire, ma che poi stanca, e ci convince che in fondo siamo nati per venire a patti, per costruire le basi di una civile convivenza in cui ci si possa fottere a vicenda, ma a bassa intensità.
È che devesserci stato, col bipolarismo, qualche fraintendimento circa il concetto di normalità, che probabilmente – azzardo unipotesi – devesser nato per il cronico ritardo che ci portiamo nellarrancare dietro un mondo che da oltre un secolo va a zigzag, ma troppo velocemente per gente riflessiva comè noto sono gli italiani: così, mentre il bipolarismo già mostrava chiaramente i suoi limiti perfino nei paesi in cui era quasi diventato forma mentis, noi lo adottavamo con lentusiasmo che lanimale mette nelluso dellorgano che gli è stato conferito da una mutazione vincente, certi che semplificare la selva di particolarismi, per lo più corrispondenti a bassi interessi di famiglie, clan, consorterie e corporazioni, ci avrebbe dato lalternanza, la solidità dellesecutivo, un sano pragmatismo, le ascelle sempre belle fresche e la pelle vellutata. Preso con entusiasmo lo zig, non avevano calcolato lo zag: di una politica semplificata in due opposti schieramenti, uno di destra e uno di sinistra, cioè, per meglio dire, uno di centrodestra e uno di centrosinistra, entrambi a rompersi le corna per conquistare il centro, lasciando a destra e a sinistra zoccoli ritenuti duri, poi rivelatisi friabilissimi, il mondo non sapeva più che farsene. La morte delle ideologie, il ritorno del sacro, la riscoperta dei particolarismi, il revival del nazionalismo, boh, va’ a capire. Due schieramenti erano pochi. O troppi. Pochi per farsi carico delle diverse e perfino opposte ragioni che gemmavano in seno ad ogni schieramento, troppi per quella bella e illuminata dittatura cui anche il più sincero democratico cominciava a fare un pensierino.
Come risolvere laporia? Soluzione allitaliana: tripolarismo. Asimmetrico, per giunta. I tre schieramenti, che insieme raccolgono più dei tre quarti dei votanti, che comunque sono a stento i tre quinti degli aventi diritto al voto, hanno forze pressoché pari, e la cosiddetta morte delle ideologie ha reso estremamente mobili gli elettori, per non parlare degli eletti, sicché un incremento o un calo dei consensi, gratta gratta, non è mai affidato a un progetto di società, talvolta neppure a un programma di governo, ma quasi esclusivamente alla spinta o al risucchio di istanze labili, quasi tutte umorali, che sembra quasi impongano a ogni soggetto politico lo star dietro ai sondaggi, come il tafano sta appiccicato al culo della vacca.
Questo è quanto i tre schieramenti hanno in comune (ovviamente con la vocazione a rappresentare il meglio della società italiana, che non si sa perché si ci accanisce a dare per scontato sia la maggioranza, in un paese dove a ogni vizio morale o intellettuale di un eletto corrisponde con purissima proporzionale lo stesso vizio, per lo più imbruttito, in quanti lo hanno scelto a rappresentarli), ma il resto li fa differenti in tutto: mentre il Pd è un partito (per meglio dire, è un comitato elettorale), il centrodestra è una coalizione (per meglio dire, lo sarebbe a rimuovere due o tre dozzine di problemini che vi si frappongono) e il M5S, invece, è un movimento che fieramente disdegna la forma partito (per meglio dire, ci tiene a darsi aspetto di assemblea permanente, ma in fondo è un marchio dato in franchising a ogni sfessato che sia disposto ad obbedire ciecamente alla politica aziendale).
Non solo: tutti e tre gli schieramenti hanno vocazione maggioritaria, ma, mentre il M5S persegue lobiettivo in orgogliosa solitudine, indisponibile ad alleanze con chicchessia, il Pd e il centrodestra hanno una voglia matta di stringere unintesa, però ci tengono a far finta di esserci costretti, ovviamente per il bene del paese, e ovviamente a malincuore, perché avessero il consenso per far tutto da soli, e vabbè, ma per quanto fior fior di cervelloni si alternino da anni nel tentativo di scrivere una legge elettorale che eviti di avere due poker dassi allo stesso giro, tantè, chi vince è costretto a spartirsi il piatto, sicché si tollera perfino che al rilancio uno dica «servito» e si giochi tutte le fiches che ha davanti, per poi ritirare la posta in gioco se il giro pare butti male. E poi comunque gli ordini vengono da Bruxelles, uguali per chiunque stia al governo, tanto vale far finta di stare al gioco.
Non pensiate, però, che questo non abbia generato disagio. Lha generato, eccome. Lha generato e continua a generarlo, come ieri dimostrava il fenomeno del terzismo e oggi dimostra quello del quartismo. Ma qui occorre intendersi.
Nel definire il terzismo come l’«atteggiamento di chi sostiene una terza posizione autonoma rispetto a due schieramenti contrapposti», il Treccani mette le mani avanti, dicendo che il termine è proprio del «linguaggio giornalistico», come a dissuaderci da ogni considerazione di merito sul significato che qui il significante si incarica di rappresentare. È noto, infatti, che la logica che informa il giornalismo non risponda affatto ai criteri sui quali in altri ambiti si fonda la relazione tra cosa e parola, prevalendo la ratio che piega l’una all’altra, o viceversa, per rendere efficaci delle suggestioni, per lo più servendosi di eufemismi o iperboli.
Nel caso del terzismo, che peraltro è fenomeno tutto giornalistico (nasce e muore dentro al Corriere della Sera, fatta eccezione per le sue emanazioni emulative), la suggestione sta nell’evocazione di una «posizione» che implicherebbe uno spazio ben definito, entro il quale sarebbe possibile riconoscere, se non un’unità di pensiero, almeno un comune sentire, che tuttavia non le conferirebbe i connotati di «schieramento», e questo per il suo non porsi in competizione con le due opposte «posizioni», ma anzi per offrirne ad esse una terza come occasione di mediazione. Niente di più lontano, in realtà, da quanto abbiamo constatato negli interventi di quanti venivano definiti terzisti nel passato ventennio: la loro terzietà sembrava non avere affatto un tratto univoco, né sul piano culturale, né su quello politico, anzi, sembrava non avere neanche vocazione a mediare, accontentandosi di trovare un’equidistanza che servisse ad assicurare un profilo di superiore neutralità.
Tutto uguale col quartismo, che però rivela unasimmetria di neutralità che trova congruità con quella dello schema tripolare. E infatti cè quartismo e quartismo.

[segue] 

venerdì 29 luglio 2016

International Superbullshit Awards 2016

Mentana ci vede una contraddizione, solleva pure un sopracciglio quasi a dire che gli dispiace doverla segnalare, visto che si tratta del Papa, ma che lintelligenza ha i suoi insopprimibili diritti, e un dovere solo, quello di non tacere mai. Bergoglio dice che quella in atto non è una guerra di religione – osserva Mentana – ma poi va in visita ad Auschwitz, dove tanti ebrei trovarono la morte per la loro fede. Ragionamento tanto sgangherato che merita la nomination allInternational Superbullshit Awards 2016.
Ammesso (e soprattutto non concesso) che ad Auschwitz gli ebrei siano stati eliminati per motivi religiosi e non razziali, dove sarebbe linferenza che consente di affermare che allora le stragi che da qualche tempo insanguinano lEuropa abbiano lo stesso carattere? Dove sarebbe necessitata la relazione di analogia tra sterminio di ebrei in quanto ebrei (non importa se per motivi religiosi o razziali) e ammazzamenti di gente a caso, senza alcuna distinzione per età, sesso, nazionalità, etnia, fede, ecc.? 

giovedì 28 luglio 2016

Una modesta proposta

a Filippo Facci

Ritengo ci sia un modo per scoraggiare drasticamente chi sia intenzionato a commettere – il lettore scelga il termine che più gli garba, non fa alcuna differenza – un attentato, una strage, un attacco jihadista che mieta vittime – il lettore scelga l’obiettivo che più gli aggrada, è uguale – tra miti fedeli raccolti in preghiera, bavosi erotomani attorno a un palo di lapdance, adolescenti drogati a un rave party, amabili famigliole a far compere in un centro commerciale, e – permettete un briciolo di presunzione – ritengo sia un rimedio che possa trovare largo consenso – questo penso sia il suo pregio – sia fra quanti sono certi che bestialità del genere abbiano l’inconfondibile e dunque incontestabile marchio dello zoticume coranico, sia fra quanti sono convinti che, in casi come questi, la religione stia solo a copertura di severi quadri psicotici in cui sono prevalenti elementi narcisisti e paranoici ad impronta altamente aggressiva, distruttiva ed autodistruttiva. Pronti a stupirvi di una soluzione che supera ogni polemica sulla natura del fenomeno? È in due punti:
1) Dalla prossima carneficina in poi sarà fatto tombale riserbo sulle generalità di chi lha consumata: non saranno resi pubblici né il nome, né la nazionalità, tanto meno ne saranno pubblicate foto, diffusi video, riportate testimonianze di parenti, amici o conoscenti. Sapere che sarà sepolto nel più totale anonimato gli sottrarrà il premio che si attende, sia che si tratti di un soldato dellIsis votato alleroismo, sia che si tratti di un esaltato intenzionato a soddisfare la sua delirante fame di attenzione. Copertura finanziaria: zero euro.
2) Lislam, si sa, è roba da beduini: chi ha il corpo contaminato da carne di animale impuro non entra in Paradiso. Pubblico avviso che da oggi in poi la salma (o quello che ne resta) di chi si sia reso responsabile di una carneficina che si presti anche lontanamente ad essere rappresentata come azione jihadista sarà inumata completamente avvolta in fettine di prosciutto.  Copertura finanziaria: dai 20 ai 30 euro (anche meno se le fettine sono sottili). 

[...]

È comprensibile che la complessità generi il bisogno di semplificare. Per certi versi, e fino a un certo punto, è giusto che il bisogno abbia ristoro, ed è giusto che qualcuno se ne faccia carico, soprattutto se in favore di chi non abbia mezzi propri per difendersi dallo sgradevole stato d’ansia che la complessità infligge a tanti. Lodevole, perciò, lo spirito con quale Angelo Panebianco dev’essersi messo davanti alla pagina bianca per scrivere l’editoriale che ieri apriva la prima pagina del Corriere della Sera, sta di fatto che semplificare è sempre operazione a rischio, e il risultato, in questo caso, illustra quanto possa esser grosso.
«Un paio di islamici radicali va a sgozzare un sacerdote e un’altra persona in una chiesa cattolica francese»: di che si tratta? Guerra di religione, dice Angelo Panebianco: è «guerra santa islamica». Ma allora perché vedere un «salto di qualità» nel passare dal massacro indiscriminato all’«assassinio mirato degli uomini-simbolo dell’odiata cristianità occidentale»? Se con gli ammazzamenti che da qualche tempo insanguinano l’Europa siamo in presenza di un attacco che l’islam ha sferrato al cristianesimo, l’episodio che si è consumato nella chiesa di Saint-Etienne-de-Rouvray non segna affatto un innalzamento del livello di offensiva, anzi, c’è da chiedersi perché qualcosa del genere non sia accaduto prima. A considerare, come correttamente Angelo Panebianco non manca di fare, che fino all’altrieri le stragi abbiano avuto per vittime per lo più «atei, agnostici o cristiani di fede molto tiepida», e aggiungeremmo anche musulmani (oltre un terzo fra i morti a Nizza), regge la tesi che tutti questi tragici eventi siano segmenti di offensiva mossa da «cristianofobia»?
No, nel tentativo di semplificare ad Angelo Panebianco dev’essere scappata una stronzata, lasciate che si spieghi meglio: non è una guerra di religione, è uno scontro di civiltà, perché, «pur quasi scomparsa dalla coscienza di tanti europei, forse la maggioranza, la religione cristiana ha comunque forgiato il mondo europeo e occidentale [e] anche se molti europei non possiedono più gli strumenti per comprenderlo, le categorie culturali che essi usano derivano da quella tradizione». Bene, ma allora come si spiega che la gran parte degli autori delle stragi sulle quali l’Isis appone la sua vidima, oltre a non aver mai nemmeno letto il Corano, oltre a non aver mai frequentato una moschea, oltre a non rispettare il Ramadan, a bere alcol, consumare droga, mostrare estrema disinvoltura nella loro vita sessuale, hanno un profilo culturale per nulla differente da quello di tanti altri disperati che sono il vero e proprio scarto sociale della nostra superiore civiltà giudaico-cristiana? Non è più verosimile che l’islam, o almeno quel che dell’islam è utilizzabile allo scopo, sia solo il vestito che attualmente è considerato più elegante per presentarsi a chiedere il saldo delle proprie frustrazioni, dei propri fallimenti, della propria rabbia?
Angelo Panebianco non lo esclude, anzi, concede che chi «si vota all’assassinio di persone inermi sia affetto da gravi tare», non diversamente da «colui che entrava nelle SS per il gusto di commettere omicidi o [da]l bolscevico che scannava contadini ricchi o tutti quelli che il Partito definiva nemici, o [dal]la guardia rossa impegnata in azioni criminali per conto di Mao Tse Tung», ma questo – dice – «non permette di occultare il rapporto fra le loro azioni e il totalitarismo». Certo, ma non varrebbe la pena di definire meglio questo rapporto? Se è vero, infatti, che «dire che il tale o talaltro jihadista ha problemi mentali non consente di negare il legame che c’è fra la sua azione e la guerra dichiarata dall’islamismo radicale contro l’occidente», è chiarire la natura di questo legame che consente di appurare se davvero quel che assume il connotato di «islamismo radicale» sia primariamente interessato a colpire l’occidente o piuttosto non si serva del terrore che semina nelle città europee per farsi forte nella resa dei conti con le opposte fazioni che in seno alle società di tradizione musulmana hanno preso corpo dopo la destabilizzazione dell’area che dalla Tunisia si estende fino al Pakistan, riprendendo i tratti delle antichissime contese che periodicamente si scatenano in seno all’islam a copertura di contese che per posta in gioco hanno da sempre il controllo di territorio e risorse economiche. O davvero vogliamo far finta che a muovere fenomeni di tali dimensioni possano essere contenziosi tutti teologici? Possibile che, pur di semplificare, Angelo Panebianco non riesca a trovare una formula diversa da quella cara a Oriana Fallaci, a Magdi Cristiano Allam e a Giuliano Ferrara? A quanto pare, è possibile. Anche a lui – soprattutto a lui, almeno lui ha studiato – occorrerà concedere che non accada in malafede. D’altra parte, quanti lucidissimi cervelli hanno pisciato dinanzi a quello che non si era mai visto prima?
Certo, qualche sospettuccio viene: se non di malafede, almeno di una certa qual pigrizia intellettuale. Perché, a suo dire, non essere convinti che quanto va accadendo non possa trovare altro paradigma che quello dell’assedio di Vienna sarebbe segno che si è «impantanati nelle trappole del politicamente corretto». Argomento che palesemente sembra voler eludere il merito della questione, per giunta trascurando la pacifica evidenza che porre la questione di quanto la religione e la cultura siano mere sovrastrutture di fenomeni e processi che, seppure solo se e quando si riesca a enuclearli dalle passioni in cui sono avvolti, immancabilmente rivelano tutt’altra natura non è affatto far loro omaggio, anzi.

martedì 26 luglio 2016

[...]

Non escludo che un calciatore possa affezionarsi alla città che dà i colori alla squadra in cui gioca, soprattutto se in quella città è nato o in quella squadra ha giocato per molti anni, ma si può pretendere che, dopo esservi rimasto solo per tre anni, la ami al punto da rinunciare a unofferta estremamente vantaggiosa che gli venga fatta da unaltra società di calcio, che peraltro si impegna pure a pagargli la penale per la rescissione del contratto? In buona fede, si può arrivare a sentire che abbia fatto offesa alla città che lascia e addirittura a dargli del traditore, quasi avesse stretto un patto di sangue, e lavesse violato?
Beh, non costituirà saggio attendibile, ma, nellarco delle due ore che oggi ho speso in giro per sbrigare alcune faccende, in città non si parlava daltro, e proprio in questi termini: Higuain ha offeso Napoli, Higuain ha tradito Napoli. Non la squadra del Napoli, dove parlare di offesa e tradimento, seppure esagerando, ci potrebbe pure stare: no, loffesa e il tradimento si sono consumati a danno dei napoletani, e, almeno a quanto mè parso di poter intendere tra gli insulti che contestualmente venivano rivolti a sua madre, a sua moglie e a sua sorella, offesa e tradimento vanno considerati tanto più gravi perché si sono consumati per vile interesse pecuniario, che poi sarebbe una robetta di alcuni milioni di euro.
A strepitare che per due soldi Higuain s’è venduto lanima e ha sfregiato la città, gente il cui voto costa 50 euro, e che per 100 te ne porta 3, quello di sua madre, di sua moglie e di sua sorella, e guadagnandone 10, perché a ciascuna ne dà solo 30.

[...]

[Le cose più sennate che ho letto sulle stragi che stanno insanguinando mezzo mondo le ho trovate... Indovinate dove? Su Il Foglio. Non rabbrividite, parlo de Il Foglio che esce il lunedì, quello diretto da Giorgio Dell’Arti, raccolta antologica di articoli apparsi su altri quotidiani e altre riviste, talvolta anche sul web, nel corso della settimana precedente. Il numero di ieri apriva con una miscellanea di brani tratti da articoli di Guido Olimpio, Andrea Riccardi, Stefano Montefiori e altri, cuciti assieme in modo assai efficace come a ribattere le osservazioni di un interlocutore immaginario, vergate probabilmente dallo stesso Dell’Arti, a costruire un dialogo così vivo e brillante che non posso trattenermi dal riportare su queste pagine. Tra le parentesi quadre ci sono i rimandi alle fonti, elencate in calce.]    


Rassegnarsi a convivere con la morte?

Il fondamentalismo islamico e la pazzia dietro agli attentati dei lupi solitari:
cosa possiamo, cosa non possiamo fare e cosa dobbiamo sperare. 


Questa mattina, seduto in metropolitana, un po’ per gioco e un po’ per ansia, mi sono chiesto: chi ha il volto dell’attentatore? Chi potrebbe farsi esplodere o tirare fuori un coltello?
La capisco, stiamo vivendo una lunga estate del terrore. In poche settimane, dagli Stati Uniti all’Europa, abbiamo assistito a una serie impressionante di attacchi. L’ultimo a Monaco di Baviera. L’Isis, il folle, il veterano in lotta con la polizia, il disturbato che prende in prestito una causa politica o religiosa. La sintesi è brutale: la nostra società è sotto minaccia [1].

Sempre seduto in metropolitana, ho pensato che sarebbe ora di prendere in mano i fucili. Sarebbe ora di difendere con le armi i nostri territori contro l’Isis.
La capisco anche in questo caso, ma lei sta confondendo due problemi distinti, anche se connessi. C’è il totalitarismo e il fondamentalismo dell’Isis, o Is o Daesh (e mi scusi se qui generalizzo un po’) con insediamenti territoriali, ramificazioni e la sua propaganda, che si sviluppa in un mondo islamico carico di contraddizioni e divisioni. D’altra parte, si moltiplicano in Europa i radicali, i folli, gli antisistema, pronti a fare tanto male, che vivono tra di noi [2].

Se ho capito bene, quelli che fanno gli attentati in Europa per lei sono solo dei pazzi? Ma guardi che rivendicano la loro fede, urlano «Allah Akbar» mentre sparano sulla folla. Mi sembra un atteggiamento da radical chic che dal suo lettino di Capalbio (ammesso che i radical chic vadano ancora a Capalbio) cerca di minimizzare la minaccia dell’Islam, riducendo tutto a una questione di follia.
Ma certo, non tutti i terroristi sono pazzi, ovviamente, ma qualsiasi pazzo oggi può ispirarsi all’Isis e improvvisarsi suo soldato. Una volta i matti pensavano di essere Napoleone, oggi pensano di essere l’Isis. Lo Stato islamico fornisce loro la copertura ideologica e l’incitamento ad agire. L’Isis è in grado di organizzare attentati complessi, ma è capace anche di accontentare chi vuole suicidarsi finendo in prima pagina [3].

Ma chi lo dice che questi terroristi che uccidono in nome dell’Islam sono pazzi? Lei, guardando un uomo con un kalashnikov in mano, sa distinguere un pazzo da un sano di mente?
Questi i fatti: indagando per mesi sui foreign fighters, gli investigatori francesi hanno scoperto che il 10 per cento di chi è partito per la Siria o per l’Iraq è schizofrenico [4]; e nel rapporto annuale sul terrorismo in Europa che l’Europol ha presentato la scorsa settimana è scritto che circa il 35 per cento dei lupi solitari che hanno compiuto attacchi tra il 2000 e il 2015 aveva problemi di tipo psichiatrico [5].

Capisco, ma non può negare che qui c’entri la religione e il fondamentalismo islamico. E le rivendicazioni dell’Isis allora? Possibile che nessuno di questi terroristi avesse contatti diretti con membri o cellule dello Stato Islamico?
Certamente, un lupo solitario può essere un terrorista dormiente addestrato in Siria. Non tutti diventano combattenti al fronte, però. Chi non riesce a partire per il Medio Oriente può essere facilmente riciclato: sono i «lupi solitari» incoraggiati all’azione nei Paesi in cui si trovano. Ma può anche essere – ed è questa la minaccia più grave – un qualsiasi musulmano con problemi psichici, oppure depresso da un matrimonio finito male, oppure propenso all’assunzione di droghe, oppure perfettamente normale ma pieno di rabbia per le sue condizioni di vita, che trova nella ideologia apocalittica dell’Isis e nella sua propaganda multimediale una apparente via d’uscita. Senza ricevere ordini da Raqqa, che ha poi comunque interesse a etichettarlo e rivendicare l’attacco terroristico [6].

Spesso questi terroristi si islamizzano velocemente, va bene, ma sempre fondamentalisti islamici sono.
Qui non c’è un esercito di liberazione, guerriglieri che si organizzano, qui c’è un patologico culto di morte. La follia di Mohamed Lahouiaej Bouhlel, l’attentatore di Nizza, non è così diversa, almeno dal punto di vista fenomenologico, da quella di Andreas Lubitz, il pilota tedesco che si schianta sui Pirenei con un aereo pieno di passeggeri, o anche da quella di Anders Breivik che spara coi suoi fucili automatici nel corso di una festa politica a Utøya, o da quella di Omar Mateen che irrompe armato in un locale di Orlando e fa fuoco all’impazzata [7].

Troppo filosofico.
Le faccio esempio più comprensibile: Mohamed Bouhlel, l’uomo che si è lanciato con un Tir sulla folla a Nizza del 14 luglio: non andava mai in moschea, beveva alcol, era depresso e picchiava la moglie, il padre in Tunisia dice che era pazzo. Ma le autorità francesi hanno parlato di attentato islamista, e l’Isis lo ha rivendicato. Perché? Ho letto qualche giorno fa un’intervista all’orientalista francese Olivier Roy, che da tempo sostiene la tesi di una «islamizzazione del radicalismo»: secondo lui persone disadattate, nichiliste o squilibrate finiscono per abbracciare la causa jihadista perché «è oggi l’unica davvero radicale sul mercato», quella che garantisce il maggiore grado di rifiuto del mondo [3].

Suvvia, messe così molte storie ricordano quelle degli assassini di massa americani.
Certo, il percorso di Mohamed Lahouaiej Bouhlel ricorda quello dei «mass shooter» statunitensi che per lungo tempo macerano nei propri tormenti, simulano una vita anonima e innocua. Poi all’improvviso una scintilla, una situazione contingente che accende la miccia e li trasforma in bombe. C’è un’evidente sovrapposizione tra le due realtà: la prima appartiene al privato, la seconda arriva quando scoprono l’impegno politico. In questa ultima veloce fase, il killer sceglie il movente che preferisce per giustificare la sua follia [4].

Io forse ho studiato meno di lei, ma ricordo una frase di Cechov che fa: «Chiunque può superare una crisi: è il quotidiano che ti logora». Il ripetersi di attentati ha portato insicurezza, affanno, paura nelle nostre vite. E lei mi parla di rifiuto del mondo, dice che non dovremmo fare niente? Io credo che sia il momento di potenziare i nostri apparati militari e di intelligence. Guardi François Hollande, che ha deciso di schierare entro fine luglio 15mila riservisti, di portare a diecimila il numero di militari schierati a presidio di manifestazioni o eventi estivi.
Mai come questi giorni l’intelligence internazionale è sotto scacco. Perché le indagini sulla strage di Nizza hanno svelato che il piano del massacro veniva preparato da mesi, senza che le autorità francesi ne sapessero nulla. E la reazione delle autorità bavaresi invece di isolare il pericolo ha allargato le dimensioni del panico, trasmettendo allarmi crescenti e infondati, invitando una metropoli e una regione a barricarsi in casa. È stata una pessima prova. Ma il punto è che non esiste nessuna possibilità di prevenire i lupi solitari. D’altra parte negli Usa i lupi solitari (da Columbine in poi) esistono da un pezzo. È lo stesso fenomeno, l’unica differenza è che si presenta con abiti diversi e in questo caso l’abito è l’Islam [8].

Però c’è l’esempio di Israele. Un’enorme attività di intelligence e un popolo perennemente in armi. Servizio militare obbligatorio di tre anni (un anno per le donne), con richiamo per tutti ogni anno, fino a che non si sono compiuti 50 anni. In altri termini: una mobilitazione generale continua.
È vero, è un sistema molto efficace. Non si azzera il rischio, ma lo si contiene. Loro accettano in pieno questo sistema militarizzato perché si sentono e sono assediati da un pezzo e sanno che c’è almeno un paese, l’Iran, che dichiara ufficialmente di volerli annientare. Noi non abbiamo questa consapevolezza e nonostante tutto ci sentiamo sicuri, parendoci impossibile che casi come quelli di Nizza capitino proprio a noi [9].

C’è però il caso della Gran Bretagna, che in passato fu bersaglio anche di un terrorismo diffuso, dove sono stati investiti oltre due miliardi di sterline per l’intelligence e la prevenzione: in pratica per pagare centinaia di infiltrati e attirare nella rete i candidati al jihadismo. Chiaro che questa non è una garanzia assoluta di successo ma limita la possibilità di attentati, come dimostra Londra.
Bisogna però dirlo con franchezza: il terrorismo è una tecnica di combattimento prima ancora che un’ideologia mortale che non può essere sconfitto in maniera definitiva. Non ci sono realistiche possibilità di cancellare il pericolo di subire attentati come la quello di Nizza o di Monaco o del giovane immigrato che ha attaccato all’arma bianca i passeggeri di un treno in Baviera [10].

Dovremmo quindi abituarci a convivere con la possibilità di essere ammazzati in una qualunque sera in un qualunque ristorante?
Esattamente come ci siamo abituati all’idea che ogni anno, nell’indifferenza generale, muoiano in macchina 3-4.000 persone. Fidiamo nel fatto che la ripetitività del massacro gli tolga forza mediatica, quindi significato. Come tutti i fenomeni di moda, verrà a sbiadire anche questo [9].

Tutto qui? Io rimango convinto che serva più vigilanza, più poliziotti nei quartieri, più attenzione ai siti internet che arruolano i disperati, più telecamere, più sermoni in italiano nelle moschee, più controlli sui barconi...
Tutto vero. Tutto giusto. Ma più ancora è importante avere la consapevolezza, vigile ma non isterica, che può accadere anche da noi. Ed essere, tutti noi, più presenti. Fare finta che possa capitare solo agli altri non è solo inutile, è autolesionista [11].



Note: [1] Guido Olimpio, CdS 23/7; [2] Andrea Riccardi, CdS 23/7; [3] Stefano Montefiori, CdS 17/7; [4] Alessandra Coppola, Guido Olimpio, Cds 17/7; [5] Marco Bresolin, La Stampa 21/7; [6] Franco Venturini, CdS 17/7; [7] Christian Raimo, internazionale.it 15/7; [8] Gianluca Di Feo, la Repubblica 23/7; [9] Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 16/7; [10] Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 23/7; [11] Gian Antonio Stella, Cds 23/7. 

giovedì 21 luglio 2016

Considerazioni sull’intervista che Giorgio Napolitano ha concesso a Claudio Cerasa (Il Foglio, 20.7.2016)


Augurare la morte a qualcuno è penalmente irrilevante (Cassazione, 41190/2014), resta il fatto che spesso, quando l’augurio va a segno, la morte arriva sempre troppo tardi. 

[...]

Considero la profilassi vaccinica una conquista di valore inestimabile, prima che nella storia della medicina, in quella del progresso umano, dunque riservo un severo biasimo a quanti fanno resistenza alla sua diffusione, con ciò mettendo a rischio la propria salute, talvolta la propria vita, il che sarebbe ancora pienamente legittimo, se non fosse che questo mette a rischio pure la salute e la vita altrui. Niente in contrario, quindi, allobbligatorietà della profilassi vaccinica. Aggiungo che, fosse per me, la estenderei anche a molti di quei casi in cui è facoltativa.
Ciò detto a scanso di ogni possibile equivoco, confesso di nutrire più duna perplessità riguardo a quanto apprendo: «I medici che sconsigliano i vaccini infrangono il codice deontologico e vanno incontro a procedimenti disciplinari che possono arrivare alla radiazione» (ansa.it, 20.7.2016).
La prima perplessità è relativa alla sintesi giornalistica che accentua, fino a drammatizzare, un passaggio del Documento sui vaccini licenziato lo scorso 8 luglio dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, che testualmente recita: «Solo in casi specifici, quali ad esempio alcuni stati di deficit immunitario, il medico può sconsigliare un intervento vaccinale. Il consiglio di non vaccinarsi nelle restanti condizioni, in particolare se fornito al pubblico con qualsiasi mezzo, costituisce infrazione deontologica» (pag. 4). È pacifico, infatti, che uninfrazione deontologica comporti in sede sanzionatoria la somministrazione di un procedimento disciplinare congruo alla sua gravità. Sta di fatto, tuttavia, che il Documento sui vaccini non faccia alcun cenno a quanto grave debba ritenersi quella di sconsigliare un intervento vaccinale, sicché pare del tutto arbitraria una lettura del testo tesa ad attribuirgli un giudizio di gravità pari a quella di infrazioni deontologiche punite con la radiazione.
Daltronde – di qui la seconda perplessità – il Codice di Deontologia Medica, che pure è del 2014 e che appena due mesi fa ha subìto lultima modifica, non ha ancora formalmente recepito questa fattispecie di infrazione, sulla quale, quindi, è stato formulato un giudizio di merito.
È possibile avanzare qualche ipotesi riguardo a questo ritardo, e di qui una terza e più grossa perplessità. Si può ragionevolmente prevedere, per esempio, che la costruzione di una tale fattispecie implichi giocoforza – poco importa quanto propriamente – la messa in discussione di due degli articoli più delicati del Codice di Deontologia Medica, quelli che evocano lobiezione di coscienza anche senza nominarla esplicitamente: «Lesercizio professionale del medico è fondato sui principi di libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità» (art. 4); «Il medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici» (art. 22). In un campo così delicato meglio accontentarsi di piantare uno spaventapasseri.  

martedì 19 luglio 2016

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Oggi è inimmaginabile prima che impossibile, ma una ventina d’anni fa l’entrata della Turchia nella Unione Europea era cosa immaginabile e anche possibile, almeno a considerare i termini in cui se ne discuteva: paese musulmano, certo, ma laico, e poi da tempo nella Nato, insomma, non era come farci entrare l’Ungheria, ma nemmeno sembrava tutto questo gran tabù, tant’è che al partito di cui Erdogan è leader veniva concesso lo status di osservatore presso il gruppo consiliare del Ppe, quello che intanto maggiormente si spendeva perché nella Costituzione europea fosse fatta menzione delle radici cristiane del continente. Poi venne l’11 settembre del 2001, Bush, Ratzinger e Fallaci lo presero per una dichiarazione di guerra dell’islam all’occidente cristiano, l’ignoranza e la paura fecero il resto, e la Turchia in Europa parve d’improvviso uno spalancare le porte al nemico: stop, marcia indietro, per entrare in Europa alla Turchia mancavano la storia e la geografia, se ne poteva riparlare solo dopo un eventuale battesimo di massa. La rabbia e l’orgoglio, ovviamente, non sono esclusive tutte occidentali: i turchi non la presero benissimo e, come spesso accade quando ci si sente esclusi da un consesso del quale si vorrebbe far parte, cominciarono a esibire con fierezza le ragioni che motivavano l’esclusione, mentre gli integralisti islamici, che a ogni tentativo di far capolino dalle fogne in cui Ataturk li aveva cacciati trovavano l’esercito a ricacciarveli, avevano gioco facile a convincere che l’uva non valesse la pena di fare tutti quei salti perché era acerba.
Accade così anche col singolo individuo: se lo emargini, si fa forza con la prima maschera identitaria che ha sottomano. Prendi il tizio che fino a ieri insegnava in un’università bosniaca: fino a ieri si professava ateo, ascoltava quartetti jazz e beveva cognac, ma lascia che a distruggergli la vita, ad ammazzargli moglie, figli e amici sia il cristianissimo esercito serbo, e dal niente che gli resta spunta la sorpresa che suo nonno fosse – così almeno gli diceva suo padre – un buon musulmano, ed eccolo trasformato in mujaheddin. A chi emargini in una banlieue parigina puoi negare tutto, ma non l’invidia e il risentimento, né puoi impedire che diventino follia, né puoi impedire alla follia di indossare il miglior vestito che trova in soffitta, quello del suddito del Gran Califfo. Sia chiaro, è sacrosanto ficcargli una pallottola in mezzo agli occhi, ma vestito da Costantino IV Pogonato in difesa di Costantinopoli è da pazzi, tale e quale.
Sono disposto a concedere che l’islam possa rappresentare un pericolo per l’occidente, ma solo in virtù dell’idiozia di cui l’occidente ha dato prova a cavallo dei due millenni. Ma idiozia è termine improprio, perché include, col freddo calcolo di alcuni, l’ignavia delle moltitudini.

lunedì 18 luglio 2016

Consiglio a gratis

Pare che Jim Messina, gran guru della comunicazione al servizio di Matteo Renzi, abbia già consigliato da qualche settimana al suo assistito di non battere troppo sul chiodo del referendum, di smettere col dargli il significato di un plebiscito pro o contro la sua persona, anzi di farsi un po’ da parte quando se ne parla, perché ad ogni sua sortita sul tema i sondaggi hanno fin qui regolarmente registrato un calo delle intenzioni a favore del Sì, con un corrispettivo incremento a favore del No, che dapprima è stato solo relativo, per poi diventare assoluto, raccogliendo consensi da chi prima era indeciso. Per quanto attiene alle analoghe sortite di Maria Elena Boschi, diventate via via più frequenti al diradarsi di quelle di Matteo Renzi, idem con patate, e forse anche peggio: pare che neppure la bellona incanti più. Ora, giacché Jim Messina è ormai da mesi consigliere di Matteo Renzi, viene spontaneo chiedersi com’è che questo effetto non fosse stato previsto: è Jim Messina a non essere tutto ’sto gran guru che si dice o è Matteo Renzi che non ne segue i consigli? Nel primo caso, c’è da chiedersi se sia stata scelta intelligente quella di assoldare un tizio che delinea strategie–alla–come–cazzo–gira–il–vento. Nel secondo, la domanda è che senso abbia strapagare un espertone al quale non si sia disposti a dare piena fiducia. È così che assume particolare rilievo l’ulteriore consiglio che pare Jim Messina abbia dato a Matteo Renzi per riaddrizzare l’andamento della campagna referendaria: «umanizzarsi». Su cosa Jim Messina possa aver inteso con «umanizzarsi» è lecito solo fare supposizioni, probabilmente avrà voluto dissuadere dal continuare ad esibire la certezza che il referendum sia solo una formalità e che l’approvazione della riforma costituzionale sia ormai già cosa fatta. Se è così, sarà difficile che il consiglio di Jim Messina possa trovare il dovuto ascolto da tipetti drogati di autostima come Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, che d’altronde, per quanto hanno fin qui illustrato del loro carattere, potrebbero risultare «umani» solo facendosela addosso. Potrebbe basta anche la piccola, forse, ma per andare sul sicuro – consiglio a gratis – meglio la grossa.