Che
tempi, signora mia, che tempi. In Belgio si consuma la barbarie
dell’eutanasia
di un minore, e Il
Foglio
che mi fa? Praticamente tace. L’Annalena
intervista la dottoressa Franca Benini (parente?), esperta in cure
palliative, per rammentarci che c’è
pure «un’altra
via»,
il Matzuzzi intervista un pretonzolo fiammingo che da qualche tempo
s’offre
come alternativa (mano nella mano, pregando insieme, il malato
terminale rinuncia all’eutanasia, pare gli riesca nel 50% dei
casi), il Meotti scacazza la solita reductio
ad Hitlerum,
e poi che altro? Zero. Il nichilismo avanza e per Il
Foglio
pare non ci sia altro da temere che il M5S. Ma li ricorda i bei tempi in cui bastava che cedesse un chiodino, cadesse un crocefisso, ed erano subito paginoni su paginoni? Come dice? No, signora
mia, pure il nostro Giulianone tace, è tutto preso dalle
Presidenziali ameregane, je sta sur cazzo l’Hillary ma fa fatica a
farsi piacere er Trump, che i numeri li avrebbe tutti per essere un Our
Love,
ma è che je manca la finezza del Cav., può darsi riuscirà a farselo piacere più in là, ma solo se vince. Manco il Maurizio? Manco il Maurizio, signora mia, non oggi almeno, speriamo bene per domani, può darsi stia buttando giù qualcosa proprio mentre stiamo a disperare. Certo, però, che è brutto sentirsi abbandonati proprio da chi giurava che avrebbe pugnato in difesa dei principi non negoziabili fino all’ultima goccia di sangue. Gli sarà già finito o era tanto per dire? Non ci si può più fidare di nessuno, signora mia, di nessuno.
martedì 20 settembre 2016
giovedì 15 settembre 2016
Orgoglio dell’indecenza
Quante
ne ha dette, Silvio Berlusconi, e quante se ne
è rimangiate, ricordate? Un merito, però, bisogna riconoscerglielo: sapeva
che, a rimangiarsi quanto aveva detto, il rischio fosse quello di
ricavarne una figura di merda, e cercava di evitarla, anche se non
riusciva a farlo in altro modo che negando l’evidenza,
quindi rischiandone regolarmente una anche più grossa. Così, una
volta pretendeva di convincerci che gli fosse stata attribuita una
frase che in realtà, a suo dire, non aveva mai detto, anzi, che
nemmeno si fosse mai sognato di dire, e invece la frase era lì,
inoppugnabilmente documentata, e un’altra si affannava nel
tentativo di persuaderci che si fosse voluto forzare il senso delle
sue affermazioni, che fosse stato frainteso, anzi, si fosse voluto
fraintenderlo, e con intento malevolo, anche se quanto aveva
detto era inequivocabile.
Ma c’è di più: Silvio Berlusconi dava l’impressione di tenere molto a risultare convincente, e sembrava che per poter essere sicuro di riuscirci avesse bisogno di convincere innanzitutto se stesso. Non manteneva gli impegni presi, cambiava idea continuamente, non era mai disposto a riconoscere un errore, e tuttavia aveva enormemente a cuore che di lui si pensasse fosse un uomo di parola. Una faccia da schiaffi, senza dubbio, ma con un residuo senso dell’onore. Ma forse onore è parola grossa, limitiamoci a dire: un residuo senso della decenza.
Ma c’è di più: Silvio Berlusconi dava l’impressione di tenere molto a risultare convincente, e sembrava che per poter essere sicuro di riuscirci avesse bisogno di convincere innanzitutto se stesso. Non manteneva gli impegni presi, cambiava idea continuamente, non era mai disposto a riconoscere un errore, e tuttavia aveva enormemente a cuore che di lui si pensasse fosse un uomo di parola. Una faccia da schiaffi, senza dubbio, ma con un residuo senso dell’onore. Ma forse onore è parola grossa, limitiamoci a dire: un residuo senso della decenza.
Matteo
Renzi è tutta un’altra
cosa: rimangiarsi quel che ha detto non gli pone alcun problema, e
infatti quasi mai si sente in dovere di darne spiegazione, tanto meno
di negarlo. Quel che dice è in ragione solo dell’effetto
che ritiene abbia a sortirne entro il tempo che precede la smentita,
che per lui è del tutto irrilevante se dovrà trovare modo nel sostenere il contrario di quanto ha sostenuto in precedenza o col
venir meno di fatto al dargli conseguenza. Una faccia da schiaffi
pure lui, dunque, ma senza neppure un’ombra
di scrupolo. Direi si tratti di un vero e proprio orgoglio dell’indecenza, che è da considerare un significativo salto evolutivo per la specie dell’uomo di merda.
lunedì 12 settembre 2016
Una droga, praticamente
Quando chiudeva a questo
modo quella che nel sottotitolo presentava come Un’autobiografia
politica
(Dal Pci al
socialismo europeo
– Editori Laterza, 2005), chi avrebbe potuto sollevare il sospetto
che Giorgio Napolitano non fosse sincero? Aveva appena compiuto 80
anni, verosimile si fosse posto già da tempo proprio quella meta a
scadenza del suo lungo impegno politico, comprensibile si sentisse
come un pesce fuor d’acqua
in «un’epoca
di sfrenata personalizzazione della politica, di smania di
protagonismo, di ossessiva ricerca dell’effetto
mediatico».
A sentirlo oggi – parlo dell’intervista
concessa a Mario Calabresi (la
Repubblica,
10.9.2016) – un sospetto, però, viene. Di lì a qualche mese,
infatti, il settennato di Carlo Azeglio Ciampi sarebbe giunto a
termine, si sarebbe dovuto cercare un nuovo inquilino per il
Quirinale, la scelta si sarebbe inevitabilmente ristretta alla
cerchia di quanti fossero più super
partes,
o
almeno apparissero tali in modo convincente: col
ritratto offerto di sé in quelle memorie, e ancor più col momento
per mandarle in stampa, non è più probabile che Giorgio Napolitano
stesse lanciando la sua candidatura a Presidente della Repubblica?
Certo, non si nascondeva che il tentativo di restare in campo potesse risultare «difficile
e ingrato»,
ma il «sapiente
precetto di Plutarco» consentiva
che si ricorresse a qualche «expediency».
Se così fosse, dovremmo riconoscere che quella di dichiararsi ormai
extra
partes,
pronto a darsi interamente ai nipotini,
sortì
il risultato. «Non
ho mai cessato di sentirmi legato alla politica»,
scriveva, e il decennio successivo avrebbe dimostrato che non poteva
farne a meno. Una droga, praticamente.
Ricorrendo all’ormai
logora metafora calcistica – il lettore chiuda un occhio,
«l’impoverimento
culturale che la politica ha subìto»
l’ha
resa insostituibile – diremmo che solo da arbitro, e dopo una lunga
carriera da grigio mediano, attento quasi esclusivamente a non
riportare infortuni e a non perdere il posto di titolare, Giorgio
Napolitano fosse destinato a scoprire in sé la vocazione di
centrocampista, capace di pennellare cross precisi al centimetro.
Dismessa la casacca da arbitro, eccolo in tuta da allenatore. Mai
seduto in panchina, sempre a bordo campo, ora a segnalare un
fuorigioco inesistente («Le
firme per chiedere il referendum le hanno raccolte i fautori del sì
mentre quelli del no non hanno avuto la forza di raggiungere il
numero minimo»,
ma non si sarebbe dovuto tenere comunque, il referendum, visto che la
riforma costituzionale non è passata coi voti dei due terzi del
Parlamento?), ora a pretendere l’espulsione
per un fallo di reazione ad un’assassina entrata
a gamba tesa sulla quale invece si può chiudere un occhio («Non
ho condiviso la iniziale politicizzazione e personalizzazione del
referendum da parte del Presidente del Consiglio, ma specie
all’indomani del sia pur lento sforzo di correzione di questo
approccio da parte di Renzi, nulla può giustificare la virulenza di
una personalizzazione alla rovescia operata dalle più diverse
opposizioni facendo del referendum il terreno di un attacco radicale
a chi guida il PD e il governo del Paese»).
Il gioco non gira nel modo giusto, puttana Eva, «non
c’è respiro, non c’è visione ampia, manca lo sguardo lungo...».
Poi, visto che la partita non mette bene, andrebbe rivista la regola
dei 3 punti a chi vince: «Rispetto
a due anni fa lo scenario politico risulta mutato in Italia come in
Europa. Ci sono nuovi partiti, alcuni dei quali in forte ascesa che
hanno rotto il gioco di governo tra due schieramenti, con il rischio
che vada al ballottaggio previsto dall’Italicum e vinca chi al
primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col
voto popolare. Si rischia di consegnare il 54% dei seggi a chi al
primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti», ma non era così anche prima, quando ai sondaggi il ballottaggio era
dato tra centrodestra e centrosinistra?
Niente da fare,
l’«expediency»
ce
l’ha
nel sangue, il gioco è tutta la sua vita, troverà pace solo nella
tomba.
venerdì 9 settembre 2016
«Verrei»
Credo che la reazione di
Alessandro Di Battista allo svarione grammaticale di Luigi Di Maio
meriti un po’ più di attenzione
di quanta gliene è stata riservata.
Mi pare che la mimica faciale
renda esplicito che quasi immediatamente colga che «verrei» non sia corretto, ma che per esserne sicuro abbia
bisogno di ripeterlo a fior di labbra come a controllare se
suoni bene o meno, che quindi si guardi attorno per vedere se qualcun
altro si sia accorto della cosa, e sempre a fior di labbra provi a sentire se più opportunamente ci volesse un «venissi», per poi assumere un’espressione
di palese disagio alla quasi piena
convinzione che di strafalcione si sia trattato.
Ora noi sappiamo che Di Battista è stato fatto oggetto
fino all’altrieri
di feroci prese per il culo per l’essere
inciampato più volte nello stesso errore. Possiamo immaginare che ne abbia
sofferto al punto da sentirsi in dovere di rimetter finalmente mano alla
grammatica italiana, che tuttavia, si sa, impone un po’
di pratica perché il rispetto delle sue regole diventi automatico.
L’indugio
che segue al «verrei» di Di Maio può così esser letto come un rapido ripasso
della regoletta, mentre il labiale all’applicarla
al caso.
Quello che tuttavia mi pare assai più degno di attenzione è
il disagio che segue alla constatazione che quello di Di Maio è
stato uno sproposito: è un disagio nel quale vi sarà pure un
riverbero dello scorno che Di Battista deve aver provato le volte in
cui ha commesso lo stesso errore e glielo si è fatto notare con una pernacchia, ma non s’era
detto che tra lui e Di Maio vi fosse un’agguerrita
competizione per l’almeno
formale leadership del movimento? Chi ha modo di cogliere in castagna
il proprio rivale non dovrebbe esserne anche solo un pochino
soddisfatto? Com’è
che a Di Battista non scappa neppure un’alzata
di sopracciglio? Com’è
che, al posto di un pur contenuto cenno di ironia, si nota quello che
pare un genuino rincrescimento, per giunta venato di una qualche
apprensione, quasi a immaginare le immancabili canzonature che ne sarebbero seguite? In altri termini, possiamo prestar fede a tutte le
indiscrezioni giornalistiche che della vita interna al M5S ci danno
un quadro assai simile alla Battaglia di Anghiari?
Per meglio dire:
quanto di ciò che ci torna utile per nutrire la convinzione che «non
sono poi così diversi da tutti gli altri» corrisponde alla realtà
di fatto e quanto invece è mera proiezione del nostro bisogno che così
realmente sia?
mercoledì 7 settembre 2016
[...]
Suppongo sia superfluo
spiegare al mio lettore, che mediamente è assai colto, la differenza
tra un’iscrizione nel registro
degli indagati (più correttamente, iscrizione della notizia di
reato) e un avviso di garanzia (più correttamente, informazione di
garanzia), sta di fatto che nessuno dei due atti obbliga un eletto
del M5S a doverne rendere personalmente conto quando questo non sia a
suo carico, ma invece a carico di chi egli abbia scelto come
collaboratore, consulente o (nel caso in cui l’eletto
sia un sindaco) assessore.
Per meglio dire, quest’obbligo
non è contemplato da alcun documento fin qui redatto allo scopo di
normare la vita interna del movimento fondato da Beppe Grillo e
Gianroberto Casaleggio: non ve n’è
traccia dell’atto costitutivo,
né nel programma, né nel cosiddetto non-statuto, né in alcuna
delle versioni del codice etico che i candidati e gli eletti sotto il
simbolo del M5S sono tenuti ad impegnarsi di rispettare. È evidente
che il forcaiolismo dei grillini non arriva al punto da attribuire
una proprietà transitiva della personale responsabilità penale, che
d’altra parte nell’iscrizione
nel registro degli indagati e nell’avviso
di garanzia è ancora tutta in ipotesi.
Altra cosa, ovviamente,
quando uno dei due atti sia a carico di un candidato, ancor più nel
caso sia a carico di un eletto, dove il doverne dar conto non si
limita al doverne dare tempestiva comunicazione agli organi direttivi
del movimento, ma di regola comporta la somministrazione di drastiche
sanzioni, ancorché intese come misure di preventiva sterilizzazione
di eventuali condotte configurabili la continuazione del reato fino a
quel punto solo in ipotesi. Qui il forcaiolismo è patente, ma si
esplica in un momento di autoregolamentazione che assume i caratteri
di una sfida alle altre forze politiche che lasciano l’eletto
dov’è
anche quando sia stato condannato in primo grado, un po’
come accade con l’autoriduzione
dello stipendio di parlamentare e con il rifiuto del finanziamento
pubblico: sfida sul piano morale, e dunque pesantemente retorica, ma
in fondo legittimamente provocatoria.
Ciò detto, a me paiono del
tutto strumentali le accuse che in questi giorni piovono su Virginia
Raggi: non è lei ad essere iscritta nel registro degli indagati e
nulla la obbligava a rendere pubblico che Paola Muraro lo sia, né
nei confronti di chi l’ha
votata, e in fin dei conti neppure nei confronti dei vertici del M5S,
perché quell’iscrizione non era
a suo carico, e a conoscenza dell’atto
poteva essere a corrente solo l’indagata,
e solo nel caso in cui quest’ultima
si fosse attivata per venirne a conoscenza. Ora è accaduto che Paola
Muraro si sia appunto attivata in tal senso; e che così sia venuta a
conoscenza che a suo carico un’iscrizione vi fosse (da rammentare che per
reati di un certo rilievo all’indagato
che ne faccia richiesta si può dare una risposta che in sostanza la
rigetta: «non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione»,
come a dire «non ve n’è alcuna di cui l’esserne a conoscenza
possa attivare l’iscritto a frapporre qualche ostacolo
all’indagine»); e che di questo abbia subito informato Virginia
Raggi, la quale – questo quanto le si rimprovera – non avrebbe
reso pubblica la cosa. Domanda: perché avrebbe dovuto?
A norma del
codice di comportamento degli eletti sotto il simbolo del M5S da lei
sottoscritto prima essere candidata, non era tenuta a farlo. In
ossequio al codice etico del movimento, neppure. Risulta, inoltre,
che, seppure con qualche settimana di ritardo, abbia informato almeno
due dei membri del minidirettorio romano che gli organi direttivi
centrali le hanno affiancato: solo di questo
ritardo deve rendere conto, e non al paese, non a chi l’ha eletta,
nemmeno ai militanti del M5S, ma eventualmente solo a Beppe Grillo e
alla Casaleggio Associati, visto che in Italia partiti e movimenti
non hanno personalità giuridica e possono darsi le regole che
vogliono.
Altrettanto strumentali mi
paiono le accuse di doppia morale che vengono rivolte al M5S, come
d’altronde è di pacifica
evidenza per i casi che sono presi in considerazione per dimostrarla:
a Parma, Federico Pizzarotti è stato sospeso per non aver reso
pubblica un’iscrizione nel
registro degli indagati che era a suo carico, non a carico di un suo
assessore; a Quarto, Rosa Capuozzo è stata espulsa per non aver
denunciato i tentativi messi in atto da un consigliere comunale per
condizionarne le decisioni; altrove, ogniqualvolta il M5S ha chiesto
le dimissioni di eletto sotto il simbolo di un altro partito, era a
questi, e non ad altri, che era ascritto il reato di cui v’era
notizia negli atti che precedevano il rinvio a giudizio, se non nella
stessa imputazione.
Ai vertici del M5S potrebbe
bastare far presente questo, ma si può capire perché abbiano una
fottuta paura che possa non bastare, e perché dunque si preparino a
dare spiegazioni di quanto è accaduto a Roma rinunciando ad
argomenti ragionati, preferendone altri, di quelli che non richiedono
troppo sforzo per essere ritenuti convincenti da chi solitamente
fatica a ragionare: c’è da
attendersi che spiegheranno la loro posizione tagliando due o tre
teste (Muraro, Marra e De Dominicis), cosa legittima e forse
opportuna, e, non dovesse bastare, anche quella del sindaco, il che
sarebbe peggio di un suicidio. Sarebbe un errore madornale, perché
rivelerebbe che la ratio messa a fondamento dell’onestà
che vogliono al centro della politica non è una logica, ma un umore.
Quel che è peggio, non l’umore
della base grillina, ma quello che ad essa è attribuito da chi a
vario titolo e da diversa posizione vuole il fallimento
dell’esperienza romana.
In
definitiva, direi che quello di Roma è un importante stress test per
il M5S: o accetterà di indossare la caricatura che in tanti tentano
di calcargli addosso, e allora sarà la fine, il che non sarebbe
neppure tutta questa gran perdita, o riuscirà a darsi una credibile
coerenza che non sia la semplice proiezione di quello per i
detrattori spiegherebbe il consenso che fin qui ha raccolto.
lunedì 5 settembre 2016
Sembrava che tutti l’avessero sulla punta della lingua
Mi
pare che sull’iniziativa
promossa dal Ministero della Salute sotto il logo di Fertility
Day si
sia detto quasi tutto. Alcuni – Eugenia Roccella
su l’Occidentale,
per esempio
– hanno sostenuto che il fine fosse legittimo e il mezzo fosse
corretto. In questo caso si è trattato di voci isolate, perché pressoché unanime, invece, e
particolarmente severa, è stata la disapprovazione degli strumenti
comunicativi impiegati, in questo caso considerati inappropriati
anche dalla gran parte di quanti solitamente ritengono che nessuna obiezione di
principio si possa sollevare al fatto che lo Stato interferisca in
scelte tanto delicate come quelle relative al riprodursi o meno, che
per altri, al contrario, dovrebbe rimanere nella piena libertà di
ciascuno, dove alla pienezza di tale libertà concorrerebbe pure il
diritto di non esser fatti oggetto di qualsivoglia forma di
condizionamento o di pressione. Sono proprio questi ultimi ad aver
fatto sentire con più forza la propria voce, coprendo tutto l’ampio
spettro dell’atteggiamento
critico, dallo sdegno allo scherno, dalla denuncia, spesso anche
vivacemente colorita, di quello che da alcuni è stato interpretato
come un ridicolo tentativo di ingegneria sociale fino alla condanna di
quella che ad altri è parsa un’intollerabile
intrusione da parte dello Stato nella sfera più intima di un
individuo.
Senza rinunciare a esprimere sulla vicenda la mia
personale opinione, ma lasciandola a quanto il lettore penso potrà
agevolmente trarre da quanto segue, qui mi soffermerò solo su un
aspetto della questione, che sta – mi si conceda l’espressione–
in un default semantico nel quale è incorsa la quasi totalità dei
commentatori, dal più pensoso degli editorialisti al più cazzaro
dei twittaroli, e affermo questo dopo opportuna verifica su tre o
quattro motori ricerca:
«campagna
demografica»
è locuzione cui stranamente si è fatto solo sporadico ricorso per
definire l’iniziativa
del Ministero della Salute (solo 3 casi su le oltre 1.200 pagine che
toccavano l’argomento),
eppure era pacifico che di campagna demografica si trattasse, come
almeno a chi l’ha
polemicamente accostata a quella promossa dal regime fascista nel
1927 non poteva sfuggire. Fuor di dubbio che fosse una «campagna»:
un Piano
Nazionale per la Fertilità
(tutto in maiuscolo), un calendario di manifestazioni pubbliche a
sostegno, un apposito sito web e una nutrita batteria di spot –
limitandoci alla parte visibile della macchina – non dovrebbero
sollevare obiezioni all’affermazione
che si fosse di fronte a un «insieme
di azioni volte a un determinato fine, economico, igienico, politico,
scientifico»
(Treccani). Fuor di dubbio, altresì, che alcuni obiettivi del Piano
Nazionale per la Fertilità
(«informare
i cittadini sul
ruolo della fertilità nella loro vita, sulla sua durata e su come
proteggerla evitando comportamenti che possono metterla a rischio»,
«fornire
assistenza sanitaria qualificata per
difendere la fertilità, promuovere interventi di prevenzione e
diagnosi precoce al fine di curare le malattie dell’apparato
riproduttivo e intervenire, ove possibile, per ripristinare la
fertilità naturale»
e «sviluppare
nelle persone la conoscenza delle
caratteristiche funzionali della loro fertilità per poterla usare
scegliendo di avere un figlio consapevolmente ed autonomamente»)
siano esplicitamente finalizzati a «operare
un capovolgimento della mentalità corrente volto
a rileggere la fertilità come
bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società»,
dunque dichiaratamente piegati a strumenti propagandistici
nel momento stesso in cui si assume che informazione e assistenza non
possano servire altro interesse che quello di una crescita
demografica.
E allora perché tanta fatica – sia da chi l’aveva
promossa, sia dai pochi che l’hanno approvava in toto, sia dai
tanti che ne hanno contestato il mezzo e/o il fine – a
parlare di «campagna
demografica»? Sembrava che tutti l’avessero sulla punta della lingua, ma non usciva dalle labbra. Perché la più appropriata formulazione tecnica di un tal genere di
operazione propagandistica non ha trovato modo
di offrirsi come oggetto della questione nell’esatta
portata del significato che nel suo significante trova piena
rappresentazione della crescita demografica come fattore geopolitico?
Per dirla in modo più semplice: com’è
che a nessuno è venuto in mente di far presente che, dagli attuali 7
miliardi di abitanti sulla Terra, nel 2050 passeremo comunque ai 9,
anche se in proporzione gli italiani dovessero essere assai meno, e
che dunque il bisogno di infoltire la popolazione della Penisola non
è al servizio di alcun dettato etico, non risponde ad alcuna premura
relativa alla specie umana, ma è semplicemente una residuale forma
di nazionalismo? Credo che tutto questo trovi ragione in un limite culturale assai più diffuso di quanto sembrerebbe lecito immaginare. Insomma, non siamo poi così al sicuro: l’avventurismo di marca sciovinista non ci è precluso del tutto.
giovedì 1 settembre 2016
[...]
Beatrice
Lorenzin è diventata mamma a 44 anni, evidentemente non aveva
nessuno a metterle sotto il muso una clessidra per dirle che doveva
sbrigarsi, sennò non aspettava tanto.
martedì 30 agosto 2016
Contrordine, foglianti!
Contrordine,
foglianti! Non tutto ciò che è naturale fa legge cui obbedire. Sia
chiaro: per i matrimoni gay, la fecondazione assistita, la diagnosi
pre-impianto, l’aborto
terapeutico, l’eutanasia,
tutto è come prima, e sia lodato il Disegno Intelligente, lode al
creato per come Dio v’ha
impresso dentro il suo segno; per il terremoto, no, via libera al
lamento su quanto la Natura sia malvagia, e ben venga la citazione di
Giacomo Leopardi.
Nel caso possano sorgere dubbi, come criterio
orientativo valga la regola dettata dal signor direttore, quello
smilzo, ma assai meno sottile del signor fondatore: «La
natura –
dice – non ci
piace in assoluto, ma ci piace solo se fa quello che ci aspettiamo
dalla natura»
(Il Foglio,
30.8.2016). Certo, si poteva dirlo in modo diverso, con qualche
ghirigoro in più, in modo che non sembrasse un dar la pagella a Dio (bravo in biologia, scadente in geologia), ma non c’è
fretta, il giovanotto deve ancora crescere.
Sciacalli
C’è il tizio che, appresa la notizia, sale in auto, raggiunge i luoghi devastati dal terremoto e si mette a rovistare fra le macerie alla ricerca di denaro o di altri beni appartenenti a chi nel crollo della propria casa, spesso tirata su col lavoro di una vita, ha trovato la morte o ha perso i propri cari: esecrabile, non c’è alcun dubbio. Non meno esecrabile dell’imprenditore edile che si rallegra dell’accaduto nel quale non riesce a vedere altro che l’occasione di una ricca commessa. E il giornalista che con la scusa di informare smercia la sua oscena pornografia del dolore? E il suo collega? Parlo di quello che, in alternativa, mentre le squadre di soccorso ancora estraggono morti e feriti da cumuli di travi e calcinacci, suggerisce di pensare all’accaduto come a un’opportunità di rilancio per l’economia che possa favorire il tanto arreso rialzo del nostro afflitto Pil. Esecrabili anche loro, senza dubbio. Sciacalli, come si è soliti dire. Come quelli che «la tragedia del terremoto ci interroghi sui nostri peccati e sull’abominio delle unioni civili», come quella che nel terremoto di Amatrice intravvede il karma che rende giustizia al suino: più cretini che sciacalli, ma sciacalli. C’è un genere di sciacallaggio, tuttavia, che in occasione di catastrofi naturali sembra essere ampiamente tollerato: al prete è consentito fare la scarpetta intingendo il suo pezzo di pane nel sangue di chi è morto e nelle lacrime di chi è sopravvissuto.
«Eventi come questi – dice monsignor Francesco Cavina, vescovo di Carpi – ci inducono a riconsiderare la verità sull’uomo e sul creato. È sufficiente un attimo: la terra trema e possiamo perdere ogni cosa, inclusa la vita. In pochi secondi. L’uomo che si crede signore assoluto e padrone della propria esistenza vede sgretolarsi in un attimo ogni umana certezza. È proprio in tragedie come questa che si ha la dimostrazione di come noi siamo tutto meno che autosufficienti. Siamo creature che dipendono da un Altro, ed è inevitabile che dinanzi a catastrofi simili si aprano spazi al trascendente, che vadano oltre la mera dimensione orizzontale».
Inizia male, Sua Eccellenza, molto male. Che eventi come questi possano farci perdere ogni cosa, inclusa la vita, lo sapevamo già da prima che si ripetessero come è accaduto in questa occasione: in cosa dovrebbero farci riconsiderare la verità sull’uomo e sul creato che non ci fosse stato possibile aver già considerato? La terra ha tremato, le case sono crollate, sotto il loro crollo c’è chi ha perso la vita: cosa c’è di nuovo rispetto ad altri eventi in tutto simili a questi? E chi è che può sentirsi signore assoluto e padrone della propria esistenza al punto da poter escludere che sarà mai toccato dalla cieca furia degli elementi? Nessuna chiusura al trascendente si nutre di questa certezza, semmai è il contrario («Dio è per noi rifugio e fortezza, perciò non temiamo se la terra trema» - Salmo 45).
Ma poi, se siamo creature che dipendono da un Altro, ne siamo dipendenti anche come potenziali vittime di simili eventi? In altri termini: è quest’Altro che dispone della nostra vita, e a uno la toglie, permettendo venga schiacciato da un pilastro, e a un altro la lascia, trovandogli riparo sotto un arco? «Trovare un senso a quanto accade è impresa ardua». Non c’è dubbio, soprattutto a dare per scontato che ve ne sia uno. Perché, se è vero che «non si può spiegare tutto», è altrettanto vero che qui c’è assai poco di inspiegabile. Diremmo che l’inspiegabile subentri solo a dar per certo, come Sua Eccellenza ci invita a fare, che il terremoto l’abbia voluto o consentito – nemmeno lui sembra avere le idee troppo chiare – un «Dio che è Amore»: «Dio ha in ogni caso e sempre un piano di amore che si sviluppa secondo linee a noi incomprensibili, ignote, misteriose. Direttrici che non sono le nostre, umane. Anche nella tragedia c’è un senso e il nostro compito è chiedere a Dio un aiuto affinché possiamo comprendere il bene che esiste nella tragedia».
Posto l’inspiegabile dove non c’era, ecco il bisogno della «la fede che viene in soccorso» a far scorgere il bene dove sembrerebbe esservi il male. Parla per esperienza personale, Sua Eccellenza: «In Emilia, piano piano, abbiamo scoperto questo bene che può sgorgare dal disastro. La fede aiuta a vederlo: le popolazioni che guardavano agli antichi luoghi di culto chiusi, aspettando la loro riapertura, la nascita di tante vocazioni religiose». Lo sciacallo che rovista fra le macerie facendo incetta di portafogli e catenine d’oro, al confronto, diventa un galantuomo.
giovedì 25 agosto 2016
martedì 23 agosto 2016
[...]
Che
Matteo Renzi si sia rimangiato l'impegno,
più volte solennemente assicurato, di trarre conseguenza da
un'eventuale
bocciatura referendaria della sua riforma costituzionale con la
presa d'atto
del «fallimento
della sua esperienza in politica»,
considerandola perciò «conclusa»,
senza riuscire a ritenere possibile altro
che «tornarsene
a casa», mi pare sia fuori discussione: in relazione al valore che
si assegna alla parola data, si può dire sia venuto meno alla più sacra delle norme che regolano i rapporti tra persone responsabili o semplicemente ci abbia ripensato. Su questo punto non caveremo ragno dal buco, perché il valore che si assegna alla parola data è relativo, come relativo è il concetto di responsabilità. Sta di fatto che, nelle dichiarazioni che assicuravano quell'impegno, a motivarlo comparivano regolarmente il coraggio, la dignità e la coerenza. Una coerenza, sia chiaro, ben al di qua (o ben al di là, fate voi) del tener fede a quanto detto, ma più semplicemente forma di ciò che dalla causa passa all'effetto, come elemento ad essa connaturato. Ecco, allora, che, anche volendo concedere che questo rimangiarsi la parola data altro non sia che un mero aver cambiato idea, resta in sospeso la questione del coraggio e della dignità, che ad allegare alla coerenza non è stato altri che Matteo Renzi. Già lo sapevamo, ma è qui che, ancorché implicita, c'è l'ammissione: «Sono un cazzaro senza alcuna dignità, e un cagasotto».
lunedì 22 agosto 2016
Sarà per la prossima volta, chissà
La tecnica di cui Luciano Violante ci dà saggio ne Le ragioni del Sì (L’Huffington Post, 18.8.2016) è stata brevettata venticinque secoli fa dal retore Protagora di Abdera, padre della sofistica: sta nel dar forza agli argomenti in sostegno della propria tesi col contrapporli a quelli in sostegno della tesi opposta che si è opportunamente provveduto a manipolare con l’insinuare che a fondamento essi abbiano un difettoso impianto logico o, peggio, un vizio morale. Nel caso del referendum sulla riforma costituzionale, la contrapposizione sarebbe tra chi vuole un cambiamento che si dà per scontato sia necessario e urgente, ma soprattutto possibile in un sol modo, quello prospettato dalla riforma in discussione, e chi ad esso si oppone perché contrario ad ogni cambiamento.
Già il ricorso a tale espediente retorico è irritante, ma quello che qui lo rende particolarmente odioso è il presentarlo come una pacata disamina delle ragioni del Sì e di quelle del No che non dovrebbe rendere difficile riconoscere quanto le prime siano superiori alle seconde alla sola condizione di rigettare quello che sarebbe un pregiudizio: bontà sua, Luciano Violante ci consente di continuare a ritenere che la riforma costituzionale debba essere bocciata, ma solo a prezzo di ammettere, ancorché implicitamente, che siamo intellettualmente disonesti. Tutto sommato, Maria Elena Boschi ci aveva trattato meglio, limitandosi a dire che votare No sarebbe fare un favore all’Isis.
Intellettualmente disonesti, perché Luciano Violante non trascura le nostre obiezioni, anzi, le fa a tal punto sue da concedersi il banalizzarle e il caricaturizzarle, per poi cestinarle. Oddio, non è che le prenda in considerazione tutte. Per esempio, sulle dinamiche del processo legislativo che la riforma costituzionale introdurrebbe, non dice nulla, ma fa niente, gli sarà scappato, in fondo a tutti scappa sempre qualcosa, chissà non voglia tornare sulla questione, probabilmente metterà una toppa.
In tal caso, ci auguriamo voglia soffermarsi anche su quanto in questa occasione ha glissato come si trattasse di materia irrilevante. In ordine sparso: ad approvare la riforma costituzionale ora al vaglio referendario è stato un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale; nel programma elettorale del partito che se ne è fatto promotore non se ne faceva cenno; il processo legislativo che ha prodotto tale riforma è stato contrassegnato da un costante ricorso al porre la questione di fiducia, dalla rimozione dei parlamentari dissidenti dalla commissione per gli affari costituzionali, da vergognosi episodi di ricatto, di intimidazione e di trasformismo; pareva che il problema fosse il bicameralismo, e il problema rimane; si dovevano ridurre i costi, e a conti fatti il risparmio è risibile; sembra che il referendum sia una cortese concessione del governo, e invece è dovuto per il mancato raggiungimento dei due terzi dei voti parlamentari in favore della riforma; un Senato, che nelle intenzioni doveva essere abolito, diventa una mostruosità in ordine a composizione e prerogative...
Chissà, può darsi che Luciano Violante, prima o poi, troverà un attimino. Chissà, può darsi che la prossima volta possa perfino fare a meno di polverosi mezzucci retorici.
sabato 20 agosto 2016
[...]
Gli mancano ancora tre mesi per compiere cinque anni e scala una parete verticale alta nove
metri in meno di un minuto: da me ha preso solo la erre moscia, tutto
il resto dalla madre.
venerdì 19 agosto 2016
[...]
Paolo Bechis ci informa che Palazzo Chigi è al quinto tentativo di derattizzazione da quando ospita Matteo Renzi, falliti miserevolmente i quattro precedenti, e imperdonabilmente spreca l’occasione offertagli per una pagina di grande letteratura, buttando giù un pezzullo sciatto e incolore, nel quale perfino l’ironia ha il fiato corto, e sì che il materiale c’era per un esilarante poemetto eroicomico, per una rabbrividente fiaba gotica, per un affascinante romanzo allegorico... Un rimprovero che forse è ingiusto, perché in fondo Bechis è solo un giornalista, ma si provi a immaginare uno scrittore vero, di quelli che ormai non ce n’è più, a descrivere il momento in cui gli occhi di un topo trovano riflesso in quelli di un Presidente del Consiglio, e viceversa, si provi a immaginare quale straordinaria prova letteraria possa venir fuori dalla descrizione dei pensieri che in quel momento attraversano la mente del topo.
lunedì 15 agosto 2016
Précis de chinoiseries
Sono in tanti gli italiani a pensare sia legittimo che in Italia un musulmano possa liberamente professare il proprio credo, ma nello stesso a ritenere che le autorità preposte alla sicurezza nazionale abbiano pieno diritto di espellere un imam le cui prediche possano metterla a rischio. Costoro non dovrebbero faticare troppo a capire le ragioni delle autorità cinesi, che già da qualche tempo hanno concesso ai cattolici la pressoché piena libertà di culto, ma pretendono che i vescovi siano di loro gradimento, a garanzia che la loro predicazione non metta in discussione le prerogative delle Stato.
Il paragone sembrerà asimmetrico, comprendo, ma solo se si dà per scontato che le autorità cinesi siano tenute ad avere un’idea di sicurezza nazionale uguale a quella che hanno quelle italiane, il che non è, né si può pretendere, data l’elasticità di un concetto come quello di Stato laico, in Italia tanto lasco da non consentirci più neppure di avvertire come ingerenze clericali quelle che in Cina sarebbero considerate istigazioni alla sovversione. È che, a consentire anche in minima misura che la religione non resti cosa tutta privata, e possa avere quella rilevanza pubblica che essa immancabilmente pretende, la laicità diventa giocoforza principio estremamente duttile, e necessariamente si adatta alle misure che lo Stato si dà come opportune per metter freno all’irriducibile tentazione che ogni religione manifesta a eroderne le legittime prerogative. Quel che voglio dire è che, se si tiene conto dell’asimmetria di contesto tra Italia e Cina, il paragone ha la sua bella simmetria, tutt’è a saper vedere l’elemento che è in comune a un imam che nel chiuso di una moschea esorti a violare le leggi dello Stato che lo ospita e a un vescovo che dal suo pulpito, ma pure dalle pagine dei maggiori quotidiani nazionali, e dagli schermi di tutte le emittenti televisive, a giorni alterni tuoni contro questa o quella decisione del Parlamento, ponga veti a questa o quella scelta del Governo, scagli strali a questa o quella sentenza della Magistratura: un vescovo che facesse tutto questo in Cina non equivarrebbe ad un imam che in Italia pretendesse la sharia?
Regge ancor meglio, il paragone, a considerare che il vescovo è inserito in una struttura gerarchica che lo rende a pieno titolo esponente qualificato di una confessione religiosa, espressione di un mandato che lo fa pastore di un gregge che gli deve obbedienza come fattore imprenscindibile del credo, mentre invece l’imam raccoglie il credito che riesce a trovare, e trovarne tanto o poco non toglie e non aggiunge nulla al fatto che la sua rimane una personale lettura del Corano, che un altro imam può addirittura ritenere erronea. In altri termini, impacchettare un imam, metterlo su un aereo e rispedirlo da dove è venuto non è fare offesa ad Allah, a Maometto e a tutti i musulmani, mentre dire a un vescovo «Eccelle’, e mò ci hai rotto er cazzo» equivale pressappoco a ricrocifiggere Cristo.
Ecco perché, sebbene a nessun cattolico cinese sia oggi fatto divieto di professare la propria fede, di dichiararla apertamente, di andare a messa, di battezzare i propri figli, eccetera, la Chiesa di Roma sente comunque che in Cina sia violata la libertà di culto per il solo limite di non poter nominare vescovi che eventualmente possano risultare sgraditi alle autorità cinesi. Questo spiega perché in Cina ci siano due Chiese cattoliche che in nulla differiscono sul piano teologico e su quello dottrinario, ma che hanno inconciliabile momento di distinguo su una questione canonistica, che poi, nel fondo, è ecclesiologica: una, la più consistente sul piano numerico, accetta le condizioni poste dalle autorità cinesi e in cambio ne riceve il titolo di Chiesa cattolica ufficiale, mentre l’altra si considera perseguitata solo perché al Papa non si concede di poter scegliere i vescovi che vuole, e per vezzo si dice clandestina, anche se in realtà è da tempo che vive alla luce del sole e i suoi vescovi, graditi a Roma e sgraditi alle autorità cinesi, non sono neanche più fatti oggetto di restrizioni come fu in un passato neanche troppo lontano.
Situazione insostenibile, capirete. E la Chiesa di Roma, infatti, non riesce più a sostenerla, perché lasciarla così com’è significherebbe di fatto creare le condizioni per una Chiesa autonoma da Roma, in tutto cattolica, tranne che quel tratto che l’apparenterebbe all’anglicanesimo, con un clero incardinato nella struttura dello Stato piuttosto che nella piramide gerarchica cui in cima siede il Papa. Con una crescita demografica che non accenna a mostrare battute d’arresto, ogni spiraglio dato alla libertà di professare una fede metterebbe in condizioni estremamente favorevoli la Chiesa cattolica ufficiale, che ne godrebbe enormemente nella competizione proselitaria: sarebbero poste le premesse per uno scisma, tremenda sciagura, alla quale è necessario mettere da subito riparo, fosse pure accettando qualche compromesso, che tuttavia non può mostrare segni di cedimento su una questione che è di principio, e di sommo principio.
È evidente che in gioco debba esser messo il meglio del meglio di quella bimillenaria ipocrisia di cui la Chiesa è stata ed è insuperabile maestra, e l’intervista che monsignor Giuseppe Wei Jingyi ha concesso a Vatican Insider per la firma di Gianni Valente è un saggio eccelso di quest’arte, sicché vale la pena di una lettura non superficiale.
Sua Eccellenza «è un esponente noto dell’area ecclesiale cinese cosiddetta clandestina» ed è chiamato a esprimere un parere sull’apertura di una linea di dialogo tra Pechino e Santa Sede di cui si è fatto promotore il cardinale John Tong, altrettanto noto esponente dell’area ecclesiale cinese cosiddetta ufficiale, ed è chiaro che a chiunque tornerebbe estremamente arduo conciliare la superiore esigenza di trovare una soluzione accettabile con le difficoltà poste dalle posizioni di partenza, apparentemente irriducibili. Nondimeno Sua Eccellenza ha dalla sua una formidabile risorsa: qualsiasi cosa il Papa deciderà al riguardo sarà senza dubbio il meglio, dunque nel dire ciò che pensa gli basta far presente che il Papa non potrà mai decidersi ad una soluzione che svenda il senso di tante sofferenze subite da lui e dal suo gregge, fedeli in tutto a Roma, a differenza di quel mezzo eretico d’un Tong, da sempre pappa e ciccia col regime di Pechino. Suppongo sia chiaro il filo sul quale Wei è chiamato a mostrare le sue doti di equilibrista e, vedrete, vi strapperà l’applauso.
È che l’ipocrisia di un chierico, quando il chierico è di pregio, ha una grazia e una naturalezza che l’ipocrisia di un laico non potrà mai aspirare neppure ad eguagliare.
Come vescovo cinese, cosa l’ha colpita maggiormente nell’intervento del cardinale John Tong sui possibili sviluppi delle relazioni tra Santa Sede, Chiesa in Cina e governo cinese riguardo alla nomina dei vescovi?
L’articolo di cardinale Tong sulla “Comunione della Chiesa in Cina con la Chiesa universale” mi ha impressionato per la sua novità. Quello che mi ha più impressionato è la luce che Tong ha ricevuto dal cielo, che lo ha illuminato e gli ha fatto guardare con nuovi occhi tutta la questione. Lui parte dal modo scelto da Dio per dialogare con l’uomo, e suggerisce di guardare con quello stesso sguardo anche il dialogo tra la Santa Sede e Pechino. Per questo lui riesce a prefigurare sviluppi così importanti e positivi.
[Il cardinale Tong è stato illuminato dal cielo, dunque è chiaro che prima non lo fosse.]
Il cardinale Tong scrive che «la Santa Sede ha l’autorità di stabilire la modalità più opportuna per la nomina dei vescovi in Cina», e che il Papa «ha l’autorità specifica di considerare le condizioni particolari della Chiesa nel Paese e stabilire leggi speciali, che però non violino i principi di fede e non distruggano la comunione ecclesiale». I vescovi cosiddetti “clandestini”, compreso lei, sono pronti a riconoscere questo fatto?
Esercitando la propria autorità in queste cose, il Papa e la Santa Sede di certo non contraddicono la fede e non danneggiano la comunione e l’unità della Chiesa. I fedeli cinesi che vivono in Cina, clandestini o ufficiali, tutti sono cattolici. E i cattolici sono fedeli alla Sede apostolica. È per rimanere fedele alla Sede apostolica di Roma che io ho accettato di diventare un vescovo clandestino! Come potrei adesso non accettare ciò che viene indicato dalla Santa Sede? È per confessare esplicitamente la nostra fedeltà al Papa e alla Sede apostolica che siamo diventati una comunità clandestina, cioè non registrata ufficialmente presso gli apparati civili. E allora, come potremmo adesso rifiutare ciò che viene dal Papa e dalla Santa Sede?
[Guardi, caro Valente, che a cambiare idea è stato Tong, non io. È lui che apre alla possibilità che vengano finalmente riconosciute le prerogative della Santa Sede sulla scelta dei vescovi, non io che le ho sempre avute ben presenti.]
Nel suo lungo saggio, il cardinale Tong scrive: «Alcuni sono preoccupati che le trattative tra la Cina e il Vaticano abbiano come conseguenza l’abbandono dei vescovi non ufficiali». Lei, che è un vescovo non riconosciuto dal governo, cosa ne pensa?
Mi domando: quali possono essere le prerogative legittime delle comunità clandestine che rischiano di essere contraddette o frustrate nelle trattative tra la Cina e la Santa Sede? Esiste il Diritto canonico e il Diritto civile, ma da ambedue i punti di vista, il dialogo tra la Santa Sede e il governo cinese non sacrificherà nessuna istanza legittima delle comunità clandestine. Riguardo alle preoccupazioni che nel negoziato la Sede apostolica possa dimenticare i vescovi in prigione, esse appaiono del tutto prive di fondamento. Come può la Chiesa, che è madre, dimenticare i propri figli che confessano anche a prezzo di sofferenze la sua fede? È impossibile, perché è impossibile che lo Spirito Santo abbandoni la Chiesa.
[Ma, dico, vuol scherzare? Si apre il dialogo sulla legittimità della nomina dei vescovi da parte della Santa Sede e noi, che sul punto siamo sempre stati fedeli a Roma sebbene il prezzo fosse la persecuzione, dovremmo temere di essere sacrificati nelle trattative?]
Il cardinale Tong scrive che la Santa Sede, con l’accordo in discussione, vuole favorire la piena comunione della Chiesa in Cina, e immagina una Conferenza episcopale che comprenda tutti i vescovi in comunione con il Papa, dopo che si saranno risolti i casi di vescovi illegittimi e scomunicati. Potrebbero esserci resistenze nelle comunità cinesi, dopo tanti decenni di divisione?
La Chiesa di Dio che cammina nella storia è fatta di peccatori. Se prende forma una Conferenza episcopale cinese in comunione con il Papa, tutti questi vescovi saranno persone convertite per camminare insieme verso il Regno di Dio. Questa visione, questa prospettiva è bellissima. È quello che noi speriamo di vedere da tanto tempo, quello per cui preghiamo da tanto tempo. La comunità dei fedeli cinesi non avrà obiezioni. Ma speriamo anche che questo sia accompagnato da frutti di conversione in tutti noi. È un tempo in cui tutti dobbiamo guardare alla condizione concreta del Figliol Prodigo narrata nel Vangelo, quel figlio che era stato lontano per anni e per vivere era finito a accudire i maiali. Si può immaginare che puzzasse di maiale anche lui, e che quindi, tornando a casa, si sarà lavato appena possibile, perché nessuno vuole rimanere vicino a persone che puzzano. Non vogliamo vedere il Figliol Prodigo che dopo essere stato abbracciato dal padre ritorna a trafficare coi maiali, a rivoltarsi nel loro fango, e non chiede di essere liberato dalla sporcizia e dal cattivo odore. Se qualcuno si comporta così, e ritorna nel fango, vuol dire che non ha nessuna identità, nessun senso d’appartenenza, e tutti fuggiranno lontano da lui.
[Senta, le cose stanno a questo modo: noi non ci siamo mai allontanati dalla casa paterna, sono Tong e i suoi ad averlo fatto, e ben venga che vi ritornino, ma tocca a loro fare penitenza e promettere di non tornare ad essere più fedeli a Pechino che a Roma. Non mi faccia esser più duro, ho da mantenere un tono pio, sennò mi si rovina l’aureola.]
Ha sentito qualcosa sui contenuti delle trattative tra Santa Sede e Governo cinese?
Noi non conosciamo i particolari, ma sappiamo che stanno lavorando, i lavori procedono, e quindi vuol dire che le cose vanno avanti. Non serve mettere fretta, perché è bene che si lavori con calma. Ma nello stesso tempo, noi speriamo che si arrivi presto a un risultato concreto, che sia buono per tutti. E prima arriva, meglio è.
[Passi alla prossima domanda, questa è imbarazzante.]
Secondo alcuni commentatori, il dialogo è illusorio e addirittura nocivo se prima non si elimina il peso dell’Associazione patriottica. Le cose stanno così?
Quando due realtà cominciano a trattare devono essere libere di parlare su tutto. Anche sull’Associazione patriottica. Ma senza porre pre-condizioni. Noi dobbiamo dire quello che pensiamo, anche dare suggerimenti, ma il Papa deve sentire soprattutto il nostro totale sostegno, e che ci fidiamo di lui. Non dobbiamo essere noi a pretendere di condizionarlo, a dire quello che deve o non deve fare, o addirittura pretendere di imporgli le nostre idee. Nel Vangelo, Gesù ha affidato a Pietro il compito di confermare nella fede i suoi fratelli. Lo stesso Gesù assiste il Papa in questo compito. E noi non dobbiamo avere la pretesa di insegnargli come si fa.
[Tutto il contendere è sempre stato sul fatto che noi eravamo fedeli a Roma e loro no. Veda un po’ lei se, nel cercare di trovare un accordo, sia possibile cambiare le carte in tavola al punto da penalizzare ulteriormente noi per accontentare loro. Se lo fa, il Papa dà segno di non essere assistito dallo Spirito Santo. Lo scriva, così glielo riferiscono.]
Ma se uno, in coscienza, ha dei dubbi?
Il criterio da seguire non sono le proprie opinioni, ma il Vangelo e la fede degli Apostoli. Nessuno può credere che le sue idee siano superiori alle parole di Gesù. E Gesù, nel Vangelo, ci ha detto anche di fidarci di Pietro, dell’Apostolo che lo aveva tradito e che Lui ha perdonato, perché Pietro lo sostiene Lui stesso. Certo, bisogna seguire la verità che percepiamo nella nostra coscienza. Ma è la fede che illumina la nostra coscienza, e non viceversa.
[Dubbi, un cazzo. Il Papa dimostra di essere un buon pastore solo se riporta la pecorella smarrita nell’ovile.]
Quali sono le grandi opportunità e anche le insidie più pericolose che Lei vede, come pastore, nel presente e nel futuro della Chiesa in Cina?
In questo tempo, nella società cinese si avverte che c’è bisogno di punti di riferimento morali, perché la corruzione rovina e distrugge tutto. Quindi si percepisce una aspirazione diffusa al bene, a fare le cose rispettando gli altri e il bene comune. E in questo modo, secondo me, si diffonde anche un clima favorevole allo spirito del Vangelo. Vediamo che possiamo collaborare. La società cinese si aspetta da noi cristiani un contributo positivo e costruttivo. Il rischio è che non approfittiamo di questa circostanza favorevole, perché siamo presi e ci perdiamo in altre cose. Sarebbe come una rinuncia a annunciare il Vangelo, in un momento in cui tanti potrebbero accoglierlo con gioia.
[Guardi, qui in Cina il boom economico ha scatenato un bel po’ di istinti. Ci offriamo al regime come instrumentun regni per aiutarlo a contenerli, facciamo questo da secoli. E ora il regime può accettare le nostre richieste, è diventato un prezzo che può pagare senza troppo peso in cambio di ciò che promettiamo.]
Sempre il cardinale Tong, alcuni mesi fa, aveva ribadito l’opportunità di “cinesizzare” la Chiesa in Cina, così che essa non sia mai più percepita come un fattore di colonizzazione religiosa. È un processo insidioso?
Ma già Matteo Ricci non ha portato in Cina il “Vangelo italiano” o il “Vangelo francese”. Ha portato il Vangelo. E ha percorso la via cinese per farlo arrivare ai cinesi.
[Tong sa bene che tra Pechino e Roma, prima o poi, una soluzione si troverà. Cerca di fare il furbetto per ritagliarsi una posizione di privilegio, questo è tutto. Figurarsi se dovevamo aspettare lui per la lezioncina sull’inculturazione del cattolicesimo, ma ci faccia il piacere.]
Le omelie e i discorsi di Papa Francesco continuano a essere facilmente accessibili, in terra cinese?
Certo. Vengono pubblicati su tanti siti internet, e passano da persona a persona. Stiamo seguendo passo passo tutti i suggerimenti legati all’Anno Santo della Misericordia. Su internet vedo anche che tanti cinesi vengono a trovare il Papa alle udienze generali, a Roma, e lo incontrano a piazza San Pietro. Lui li saluta spesso. Rispetto al passato, per i cinesi è diventato più facile arrivare a Roma e vedere o addirittura salutare il Papa. C’è una vicinanza visibile con il Vescovo di Roma, che prima non c’era. Le cose sono cambiate e continuano a cambiare.
[Ma certo, sono finiti i tempi dell’ateismo di Stato e per noi cattolici, mi consenta di citare Mao, grande è la confusione, ottima è l’opportunità.]
Potrà evolvere anche il ruolo dell’Associazione patriottica?
Personalmente, spero che col tempo essa diventi una cosa del passato. Perché tanti hanno un brutto ricordo del ruolo avuto da essa, in tante situazioni. La cosa importante è trovare vie nuove per aiutare i cattolici anche a manifestare il proprio amore per la Patria.
[Ormai ha fatto il suo tempo, ora ci penseremo noi.]
Avrà seguito la vicenda di Thaddeus Ma Daqin, vescovo di Shanghai, e del sua intervento sul ruolo positivo dell’Associazione patriottica. Alcuni lo hanno etichettato come un voltagabbana, un traditore.
Nessuno si può permettere di giudicare, diffamare e bastonare gli altri come traditori. Nessuno ha diritto di farlo, e chi lo fa fa una cosa molto cattiva. Cosa ne sappiamo noi di quello che c’è nel cuore di Thaddeus Ma Daqin, dopo l’esperienza che ha vissuto, e dopo che gli è stato impedito per quattro anni di fare il vescovo?
[Quell’uomo è un verme, ma non è bello dirlo.]
Lei riesce a immaginare meglio di noi quello che è passato nel cuore del vescovo Ma.
Non ho avuto le sue stesse esperienze. Ma la solitudine sì, e anche il fatto di essere portato in un posto o in un altro. In quelle circostanze, non sei mai solo: sei davanti a Dio, e quello che pensi e fai, lo pensi e lo fai davanti a Dio. Magari i fedeli non li vedi, magari altri ti hanno tradito, ma sei sempre davanti a Dio. E questo vale di più. Preghiamo per Ma Daqin con rispetto, senza permetterci di giudicare il cuore degli altri.
[Guardi che anch’io ne ho passate di brutte, ma non ho ceduto.]
Padre Lombardi, allora direttore della Sala stampa della Santa Sede, aveva detto che il Papa prega per Ma Daqin e per tutti i cinesi.
Il Papa è un padre, guarda e giudica le cose con occhio di padre. Il vescovo Ma Daqin è un uomo che prega, il Papa lo sa e ha fiducia in lui. Per un padre, la cosa più importante è mostrare il suo amore per i propri figli.
[Ma certo, per chi pregare, se non per i peccatori?]
venerdì 12 agosto 2016
Coda (Bè, Mantelli’, ...)
Dall’Istat
arrivano numeri che non hanno bisogno di commento, perché parlano da
soli: da due anni e mezzo siamo nelle mani di un pericolosissimo
cretino, uno buono solo a picchiettare col ditino sulla tastiera del
suo telefonino cazzate del tipo #cambiaverso, #lavoltabuona,
#italiariparte, mentre il paese affonda nella merda, e chi lo fa
notare si becca l’imputazione
di disfattismo, l’epiteto
di gufo, il sospetto che le critiche siano mosse da un’antipatia
tutta epidermica, un pregiudizio tutto umorale, chissà, forse anche
un pochino malato.
Non è del tutto chiaro cosa abbia consentito a
questo miserabile buffone di potersi spacciare per Uomo della
Provvidenza, ma è evidente il concorso di quanti hanno deciso di
dargli fiducia, fosse pure con riserva, fosse pure col solo limitarsi
a criticare chi lo criticasse, sempre pronti a ravvisare qualche
difetto nella forma, indizio di chissà quale oscura visceralità,
mai disposti a scendere nel merito, se non per limitarsi a liquidarlo
come un futile pretesto.
Ovviamente è inutile aspettarsi che
qualcuno paghi per lo scempio che in questi ultimi due anni e mezzo
si è consumato col dargli questa fiducia, perché non pagherà
neppure lui, né Boschi, né Lotti, né Sensi, tutt’al
più resterà fregato qualcuno fra i più stupidi della sua banda, il
meno lesto a metter freno all’abbrivio
dell’arroganza
per rifugiarsi in qualche tragicomica resipiscenza. È un paese, questo, che non chiede mai il conto, che si limita a mugugnare o a piagnucolare, che i bagni di sangue riparatori si limita a sognarli ad occhi aperti.
Nessuno pagherà,
tanto meno
– riporto in virgolettato un commento di Massimo Mantellini al post
qui sotto – chi «fra
Renzi ed il mondo intorno h[a]
scelto
Renzi, magari sbagliando, magari pronto a cambiare idea quando la
misura sarà per [lui]
colma,
e ad incazzar[s]i,
se [gl]i
pare il caso».
Bè, Mantelli’,
fattelo parere in fretta, il caso. Leggi i numeri dell’Istat
e cerca di cambiare idea, ché la misura direi sia stracolma, e strabocca. Anche da tempo,
direi, ma non pretendo troppo, mi basta che tu riconosca sia colma
adesso, oggi. Non c’è
bisogno che tu cambi idea incazzandoti, sarebbe pretender troppo da
chi è nato coi modi fini e l’animo
pien di garbo (e tu lo nacquesti), basterebbe un commentino dei tuoi
ai numeri dell’Istat,
a quello che significano per milioni di disgraziati intontiti dalla
propaganda di regime (oh, regime morbidissimo, sia chiaro, non
appigliarti al termine, lo sai che ho il vizio dell’iperbole), e
tra
rigo e rigo metterci un’increspatura
di labbra, qualcosa che rilevi almeno a me che, se non colma, la misura ti paia – come dire – colmetta.
Fai con calma ovviamente, avrai sicuramente per le mani un post sull’ultimo modello di smartphone che sta per esser messo sul mercato e non vorrei scombinarti le priorità. Però da qui a fine anno cerca di trovare un minutino.
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