martedì 20 settembre 2016

Signora mia

Che tempi, signora mia, che tempi. In Belgio si consuma la barbarie delleutanasia di un minore, e Il Foglio che mi fa? Praticamente tace. LAnnalena intervista la dottoressa Franca Benini (parente?), esperta in cure palliative, per rammentarci che cè pure «unaltra via», il Matzuzzi intervista un pretonzolo fiammingo che da qualche tempo s’offre come alternativa (mano nella mano, pregando insieme, il malato terminale rinuncia all’eutanasia, pare gli riesca nel 50% dei casi), il Meotti scacazza la solita reductio ad Hitlerum, e poi che altro? Zero. Il nichilismo avanza e per Il Foglio pare non ci sia altro da temere che il M5S. Ma li ricorda i bei tempi in cui bastava che cedesse un chiodino, cadesse un crocefisso, ed erano subito paginoni su paginoni? Come dice? No, signora mia, pure il nostro Giulianone tace, è tutto preso dalle Presidenziali ameregane, je sta sur cazzo l’Hillary ma fa fatica a farsi piacere er Trump, che i numeri li avrebbe tutti per essere un Our Love, ma è che je manca la finezza del Cav., può darsi riuscirà a farselo piacere più in là, ma solo se vince. Manco il Maurizio? Manco il Maurizio, signora mia, non oggi almeno, speriamo bene per domani, può darsi stia buttando giù qualcosa proprio mentre stiamo a disperare. Certo, però, che è brutto sentirsi abbandonati proprio da chi giurava che avrebbe pugnato in difesa dei principi non negoziabili fino all’ultima goccia di sangue. Gli sarà già finito o era tanto per dire? Non ci si può più fidare di nessuno, signora mia, di nessuno.

giovedì 15 settembre 2016

Orgoglio dell’indecenza



Quante ne ha dette, Silvio Berlusconi, e quante se ne è rimangiate, ricordate? Un merito, però, bisogna riconoscerglielo: sapeva che, a rimangiarsi quanto aveva detto, il rischio fosse quello di ricavarne una figura di merda, e cercava di evitarla, anche se non riusciva a farlo in altro modo che negando levidenza, quindi rischiandone regolarmente una anche più grossa. Così, una volta pretendeva di convincerci che gli fosse stata attribuita una frase che in realtà, a suo dire, non aveva mai detto, anzi, che nemmeno si fosse mai sognato di dire, e invece la frase era lì, inoppugnabilmente documentata, e un’altra si affannava nel tentativo di persuaderci che si fosse voluto forzare il senso delle sue affermazioni, che fosse stato frainteso, anzi, si fosse voluto fraintenderlo, e con intento malevolo, anche se quanto aveva detto era inequivocabile.
Ma cè di più: Silvio Berlusconi dava limpressione di tenere molto a risultare convincente, e sembrava che per poter essere sicuro di riuscirci avesse bisogno di convincere innanzitutto se stesso. Non manteneva gli impegni presi, cambiava idea continuamente, non era mai disposto a riconoscere un errore, e tuttavia aveva enormemente a cuore che di lui si pensasse fosse un uomo di parola. Una faccia da schiaffi, senza dubbio, ma con un residuo senso dellonore. Ma forse onore è parola grossa, limitiamoci a dire: un residuo senso della decenza.
Matteo Renzi è tutta unaltra cosa: rimangiarsi quel che ha detto non gli pone alcun problema, e infatti quasi mai si sente in dovere di darne spiegazione, tanto meno di negarlo. Quel che dice è in ragione solo delleffetto che ritiene abbia a sortirne entro il tempo che precede la smentita, che per lui è del tutto irrilevante se dovrà trovare modo nel sostenere il contrario di quanto ha sostenuto in precedenza o col venir meno di fatto al dargli conseguenza. Una faccia da schiaffi pure lui, dunque, ma senza neppure unombra di scrupolo. Direi si tratti di un vero e proprio orgoglio dell’indecenza, che è da considerare un significativo salto evolutivo per la specie dell’uomo di merda.

lunedì 12 settembre 2016

Una droga, praticamente


Quando chiudeva a questo modo quella che nel sottotitolo presentava come Unautobiografia politica (Dal Pci al socialismo europeo – Editori Laterza, 2005), chi avrebbe potuto sollevare il sospetto che Giorgio Napolitano non fosse sincero? Aveva appena compiuto 80 anni, verosimile si fosse posto già da tempo proprio quella meta a scadenza del suo lungo impegno politico, comprensibile si sentisse come un pesce fuor dacqua in «unepoca di sfrenata personalizzazione della politica, di smania di protagonismo, di ossessiva ricerca delleffetto mediatico».
A sentirlo oggi – parlo dellintervista concessa a Mario Calabresi (la Repubblica, 10.9.2016) – un sospetto, però, viene. Di lì a qualche mese, infatti, il settennato di Carlo Azeglio Ciampi sarebbe giunto a termine, si sarebbe dovuto cercare un nuovo inquilino per il Quirinale, la scelta si sarebbe inevitabilmente ristretta alla cerchia di quanti fossero più super partes, o almeno apparissero tali in modo convincente: col ritratto offerto di sé in quelle memorie, e ancor più col momento per mandarle in stampa, non è più probabile che Giorgio Napolitano stesse lanciando la sua candidatura a Presidente della Repubblica?
Certo, non si nascondeva che il tentativo di restare in campo potesse risultare «difficile e ingrato», ma il «sapiente precetto di Plutarco» consentiva che si ricorresse a qualche «expediency». Se così fosse, dovremmo riconoscere che quella di dichiararsi ormai extra partes, pronto a darsi interamente ai nipotini, sortì il risultato. «Non ho mai cessato di sentirmi legato alla politica», scriveva, e il decennio successivo avrebbe dimostrato che non poteva farne a meno. Una droga, praticamente.
Ricorrendo allormai logora metafora calcistica – il lettore chiuda un occhio, «limpoverimento culturale che la politica ha subìto» lha resa insostituibile – diremmo che solo da arbitro, e dopo una lunga carriera da grigio mediano, attento quasi esclusivamente a non riportare infortuni e a non perdere il posto di titolare, Giorgio Napolitano fosse destinato a scoprire in sé la vocazione di centrocampista, capace di pennellare cross precisi al centimetro.
Dismessa la casacca da arbitro, eccolo in tuta da allenatore. Mai seduto in panchina, sempre a bordo campo, ora a segnalare un fuorigioco inesistente («Le firme per chiedere il referendum le hanno raccolte i fautori del sì mentre quelli del no non hanno avuto la forza di raggiungere il numero minimo», ma non si sarebbe dovuto tenere comunque, il referendum, visto che la riforma costituzionale non è passata coi voti dei due terzi del Parlamento?), ora a pretendere lespulsione per un fallo di reazione ad un’assassina entrata a gamba tesa sulla quale invece si può chiudere un occhio («Non ho condiviso la iniziale politicizzazione e personalizzazione del referendum da parte del Presidente del Consiglio, ma specie all’indomani del sia pur lento sforzo di correzione di questo approccio da parte di Renzi, nulla può giustificare la virulenza di una personalizzazione alla rovescia operata dalle più diverse opposizioni facendo del referendum il terreno di un attacco radicale a chi guida il PD e il governo del Paese»).
Il gioco non gira nel modo giusto, puttana Eva, «non c’è respiro, non c’è visione ampia, manca lo sguardo lungo...». Poi, visto che la partita non mette bene, andrebbe rivista la regola dei 3 punti a chi vince: «Rispetto a due anni fa lo scenario politico risulta mutato in Italia come in Europa. Ci sono nuovi partiti, alcuni dei quali in forte ascesa che hanno rotto il gioco di governo tra due schieramenti, con il rischio che vada al ballottaggio previsto dall’Italicum e vinca chi al primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col voto popolare. Si rischia di consegnare il 54% dei seggi a chi al primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti», ma non era così anche prima, quando ai sondaggi il ballottaggio era dato tra centrodestra e centrosinistra?
Niente da fare, l«expediency» ce lha nel sangue, il gioco è tutta la sua vita, troverà pace solo nella tomba. 

venerdì 9 settembre 2016

«Verrei»



Credo che la reazione di Alessandro Di Battista allo svarione grammaticale di Luigi Di Maio meriti un po più di attenzione di quanta gliene è stata riservata.
Mi pare che la mimica faciale renda esplicito che quasi immediatamente colga che «verrei» non sia corretto, ma che per esserne sicuro abbia bisogno di ripeterlo a fior di labbra come a controllare se suoni bene o meno, che quindi si guardi attorno per vedere se qualcun altro si sia accorto della cosa, e sempre a fior di labbra provi a sentire se più opportunamente ci volesse un «venissi», per poi assumere unespressione di palese disagio alla quasi piena convinzione che di strafalcione si sia trattato.
Ora noi sappiamo che Di Battista è stato fatto oggetto fino allaltrieri di feroci prese per il culo per lessere inciampato più volte nello stesso errore. Possiamo immaginare che ne abbia sofferto al punto da sentirsi in dovere di rimetter finalmente mano alla grammatica italiana, che tuttavia, si sa, impone un po di pratica perché il rispetto delle sue regole diventi automatico. Lindugio che segue al «verrei» di Di Maio può così esser letto come un rapido ripasso della regoletta, mentre il labiale allapplicarla al caso.
Quello che tuttavia mi pare assai più degno di attenzione è il disagio che segue alla constatazione che quello di Di Maio è stato uno sproposito: è un disagio nel quale vi sarà pure un riverbero dello scorno che Di Battista deve aver provato le volte in cui ha commesso lo stesso errore e glielo si è fatto notare con una pernacchia, ma non sera detto che tra lui e Di Maio vi fosse unagguerrita competizione per lalmeno formale leadership del movimento? Chi ha modo di cogliere in castagna il proprio rivale non dovrebbe esserne anche solo un pochino soddisfatto? Comè che a Di Battista non scappa neppure unalzata di sopracciglio? Comè che, al posto di un pur contenuto cenno di ironia, si nota quello che pare un genuino rincrescimento, per giunta venato di una qualche apprensione, quasi a immaginare le immancabili canzonature che ne sarebbero seguite? In altri termini, possiamo prestar fede a tutte le indiscrezioni giornalistiche che della vita interna al M5S ci danno un quadro assai simile alla Battaglia di Anghiari?
Per meglio dire: quanto di ciò che ci torna utile per nutrire la convinzione che «non sono poi così diversi da tutti gli altri» corrisponde alla realtà di fatto e quanto invece è mera proiezione del nostro bisogno che così realmente sia? 

mercoledì 7 settembre 2016

[...]

Suppongo sia superfluo spiegare al mio lettore, che mediamente è assai colto, la differenza tra uniscrizione nel registro degli indagati (più correttamente, iscrizione della notizia di reato) e un avviso di garanzia (più correttamente, informazione di garanzia), sta di fatto che nessuno dei due atti obbliga un eletto del M5S a doverne rendere personalmente conto quando questo non sia a suo carico, ma invece a carico di chi egli abbia scelto come collaboratore, consulente o (nel caso in cui leletto sia un sindaco) assessore.
Per meglio dire, questobbligo non è contemplato da alcun documento fin qui redatto allo scopo di normare la vita interna del movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio: non ve nè traccia dellatto costitutivo, né nel programma, né nel cosiddetto non-statuto, né in alcuna delle versioni del codice etico che i candidati e gli eletti sotto il simbolo del M5S sono tenuti ad impegnarsi di rispettare. È evidente che il forcaiolismo dei grillini non arriva al punto da attribuire una proprietà transitiva della personale responsabilità penale, che daltra parte nelliscrizione nel registro degli indagati e nellavviso di garanzia è ancora tutta in ipotesi.
Altra cosa, ovviamente, quando uno dei due atti sia a carico di un candidato, ancor più nel caso sia a carico di un eletto, dove il doverne dar conto non si limita al doverne dare tempestiva comunicazione agli organi direttivi del movimento, ma di regola comporta la somministrazione di drastiche sanzioni, ancorché intese come misure di preventiva sterilizzazione di eventuali condotte configurabili la continuazione del reato fino a quel punto solo in ipotesi. Qui il forcaiolismo è patente, ma si esplica in un momento di autoregolamentazione che assume i caratteri di una sfida alle altre forze politiche che lasciano leletto dovè anche quando sia stato condannato in primo grado, un po come accade con lautoriduzione dello stipendio di parlamentare e con il rifiuto del finanziamento pubblico: sfida sul piano morale, e dunque pesantemente retorica, ma in fondo legittimamente provocatoria.

Ciò detto, a me paiono del tutto strumentali le accuse che in questi giorni piovono su Virginia Raggi: non è lei ad essere iscritta nel registro degli indagati e nulla la obbligava a rendere pubblico che Paola Muraro lo sia, né nei confronti di chi lha votata, e in fin dei conti neppure nei confronti dei vertici del M5S, perché quelliscrizione non era a suo carico, e a conoscenza dellatto poteva essere a corrente solo lindagata, e solo nel caso in cui questultima si fosse attivata per venirne a conoscenza. Ora è accaduto che Paola Muraro si sia appunto attivata in tal senso; e che così sia venuta a conoscenza che a suo carico uniscrizione vi fosse (da rammentare che per reati di un certo rilievo all’indagato che ne faccia richiesta si può dare una risposta che in sostanza la rigetta: «non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione», come a dire «non ve n’è alcuna di cui l’esserne a conoscenza possa attivare l’iscritto a frapporre qualche ostacolo all’indagine»); e che di questo abbia subito informato Virginia Raggi, la quale – questo quanto le si rimprovera – non avrebbe reso pubblica la cosa. Domanda: perché avrebbe dovuto?
A norma del codice di comportamento degli eletti sotto il simbolo del M5S da lei sottoscritto prima essere candidata, non era tenuta a farlo. In ossequio al codice etico del movimento, neppure. Risulta, inoltre, che, seppure con qualche settimana di ritardo, abbia informato almeno due dei membri del minidirettorio romano che gli organi direttivi centrali le hanno affiancato: solo di questo ritardo deve rendere conto, e non al paese, non a chi l’ha eletta, nemmeno ai militanti del M5S, ma eventualmente solo a Beppe Grillo e alla Casaleggio Associati, visto che in Italia partiti e movimenti non hanno personalità giuridica e possono darsi le regole che vogliono.
Altrettanto strumentali mi paiono le accuse di doppia morale che vengono rivolte al M5S, come daltronde è di pacifica evidenza per i casi che sono presi in considerazione per dimostrarla: a Parma, Federico Pizzarotti è stato sospeso per non aver reso pubblica uniscrizione nel registro degli indagati che era a suo carico, non a carico di un suo assessore; a Quarto, Rosa Capuozzo è stata espulsa per non aver denunciato i tentativi messi in atto da un consigliere comunale per condizionarne le decisioni; altrove, ogniqualvolta il M5S ha chiesto le dimissioni di eletto sotto il simbolo di un altro partito, era a questi, e non ad altri, che era ascritto il reato di cui vera notizia negli atti che precedevano il rinvio a giudizio, se non nella stessa imputazione.


Ai vertici del M5S potrebbe bastare far presente questo, ma si può capire perché abbiano una fottuta paura che possa non bastare, e perché dunque si preparino a dare spiegazioni di quanto è accaduto a Roma rinunciando ad argomenti ragionati, preferendone altri, di quelli che non richiedono troppo sforzo per essere ritenuti convincenti da chi solitamente fatica a ragionare: cè da attendersi che spiegheranno la loro posizione tagliando due o tre teste (Muraro, Marra e De Dominicis), cosa legittima e forse opportuna, e, non dovesse bastare, anche quella del sindaco, il che sarebbe peggio di un suicidio. Sarebbe un errore madornale, perché rivelerebbe che la ratio messa a fondamento dellonestà che vogliono al centro della politica non è una logica, ma un umore. Quel che è peggio, non lumore della base grillina, ma quello che ad essa è attribuito da chi a vario titolo e da diversa posizione vuole il fallimento dellesperienza romana.
In definitiva, direi che quello di Roma è un importante stress test per il M5S: o accetterà di indossare la caricatura che in tanti tentano di calcargli addosso, e allora sarà la fine, il che non sarebbe neppure tutta questa gran perdita, o riuscirà a darsi una credibile coerenza che non sia la semplice proiezione di quello per i detrattori spiegherebbe il consenso che fin qui ha raccolto. 

lunedì 5 settembre 2016

Sembrava che tutti l’avessero sulla punta della lingua

Mi pare che sulliniziativa promossa dal Ministero della Salute sotto il logo di Fertility Day si sia detto quasi tutto. Alcuni – Eugenia Roccella su lOccidentale, per esempio – hanno sostenuto che il fine fosse legittimo e il mezzo fosse corretto. In questo caso si è trattato di voci isolate, perché pressoché unanime, invece, e particolarmente severa, è stata la disapprovazione degli strumenti comunicativi impiegati, in questo caso considerati inappropriati anche dalla gran parte di quanti solitamente ritengono che nessuna obiezione di principio si possa sollevare al fatto che lo Stato interferisca in scelte tanto delicate come quelle relative al riprodursi o meno, che per altri, al contrario, dovrebbe rimanere nella piena libertà di ciascuno, dove alla pienezza di tale libertà concorrerebbe pure il diritto di non esser fatti oggetto di qualsivoglia forma di condizionamento o di pressione. Sono proprio questi ultimi ad aver fatto sentire con più forza la propria voce, coprendo tutto lampio spettro dellatteggiamento critico, dallo sdegno allo scherno, dalla denuncia, spesso anche vivacemente colorita, di quello che da alcuni è stato interpretato come un ridicolo tentativo di ingegneria sociale fino alla condanna di quella che ad altri è parsa unintollerabile intrusione da parte dello Stato nella sfera più intima di un individuo.
Senza rinunciare a esprimere sulla vicenda la mia personale opinione, ma lasciandola a quanto il lettore penso potrà agevolmente trarre da quanto segue, qui mi soffermerò solo su un aspetto della questione, che sta – mi si conceda lespressione– in un default semantico nel quale è incorsa la quasi totalità dei commentatori, dal più pensoso degli editorialisti al più cazzaro dei twittaroli, e affermo questo dopo opportuna verifica su tre o quattro motori ricerca: «campagna demografica» è locuzione cui stranamente si è fatto solo sporadico ricorso per definire liniziativa del Ministero della Salute (solo 3 casi su le oltre 1.200 pagine che toccavano largomento), eppure era pacifico che di campagna demografica si trattasse, come almeno a chi lha polemicamente accostata a quella promossa dal regime fascista nel 1927 non poteva sfuggire. Fuor di dubbio che fosse una «campagna»: un Piano Nazionale per la Fertilità (tutto in maiuscolo), un calendario di manifestazioni pubbliche a sostegno, un apposito sito web e una nutrita batteria di spot – limitandoci alla parte visibile della macchina – non dovrebbero sollevare obiezioni allaffermazione che si fosse di fronte a un «insieme di azioni volte a un determinato fine, economico, igienico, politico, scientifico» (Treccani). Fuor di dubbio, altresì, che alcuni obiettivi del Piano Nazionale per la Fertilità («informare i cittadini sul ruolo della fertilità nella loro vita, sulla sua durata e su come proteggerla evitando comportamenti che possono metterla a rischio», «fornire assistenza sanitaria qualificata per difendere la fertilità, promuovere interventi di prevenzione e diagnosi precoce al fine di curare le malattie dellapparato riproduttivo e intervenire, ove possibile, per ripristinare la fertilità naturale» e «sviluppare nelle persone la conoscenza delle caratteristiche funzionali della loro fertilità per poterla usare scegliendo di avere un figlio consapevolmente ed autonomamente») siano esplicitamente finalizzati a «operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società», dunque dichiaratamente piegati a strumenti propagandistici nel momento stesso in cui si assume che informazione e assistenza non possano servire altro interesse che quello di una crescita demografica.
E allora perché tanta fatica – sia da chi l’aveva promossa, sia dai pochi che l’hanno approvava in toto, sia dai tanti che ne hanno contestato il mezzo e/o il fine – a parlare di «campagna demografica»? Sembrava che tutti l’avessero sulla punta della lingua, ma non usciva dalle labbra. Perché la più appropriata formulazione tecnica di un tal genere di operazione propagandistica non ha trovato modo di offrirsi come oggetto della questione nellesatta portata del significato che nel suo significante trova piena rappresentazione della crescita demografica come fattore geopolitico? Per dirla in modo più semplice: comè che a nessuno è venuto in mente di far presente che, dagli attuali 7 miliardi di abitanti sulla Terra, nel 2050 passeremo comunque ai 9, anche se in proporzione gli italiani dovessero essere assai meno, e che dunque il bisogno di infoltire la popolazione della Penisola non è al servizio di alcun dettato etico, non risponde ad alcuna premura relativa alla specie umana, ma è semplicemente una residuale forma di nazionalismo? Credo che tutto questo trovi ragione in un limite culturale assai più diffuso di quanto sembrerebbe lecito immaginare. Insomma, non siamo poi così al sicuro: l’avventurismo di marca sciovinista non ci è precluso del tutto. 

giovedì 1 settembre 2016

[...]


Beatrice Lorenzin è diventata mamma a 44 anni, evidentemente non aveva nessuno a metterle sotto il muso una clessidra per dirle che doveva sbrigarsi, sennò non aspettava tanto.


martedì 30 agosto 2016

Contrordine, foglianti!

Contrordine, foglianti! Non tutto ciò che è naturale fa legge cui obbedire. Sia chiaro: per i matrimoni gay, la fecondazione assistita, la diagnosi pre-impianto, laborto terapeutico, leutanasia, tutto è come prima, e sia lodato il Disegno Intelligente, lode al creato per come Dio vha impresso dentro il suo segno; per il terremoto, no, via libera al lamento su quanto la Natura sia malvagia, e ben venga la citazione di Giacomo Leopardi.
Nel caso possano sorgere dubbi, come criterio orientativo valga la regola dettata dal signor direttore, quello smilzo, ma assai meno sottile del signor fondatore: «La natura – dice – non ci piace in assoluto, ma ci piace solo se fa quello che ci aspettiamo dalla natura» (Il Foglio, 30.8.2016). Certo, si poteva dirlo in modo diverso, con qualche ghirigoro in più, in modo che non sembrasse un dar la pagella a Dio (bravo in biologia, scadente in geologia), ma non cè fretta, il giovanotto deve ancora crescere.  

Sciacalli

C’è il tizio che, appresa la notizia, sale in auto, raggiunge i luoghi devastati dal terremoto e si mette a rovistare fra le macerie alla ricerca di denaro o di altri beni appartenenti a chi nel crollo della propria casa, spesso tirata su col lavoro di una vita, ha trovato la morte o ha perso i propri cari: esecrabile, non c’è alcun dubbio. Non meno esecrabile dell’imprenditore edile che si rallegra dell’accaduto nel quale non riesce a vedere altro che l’occasione di una ricca commessa. E il giornalista che con la scusa di informare smercia la sua oscena pornografia del dolore? E il suo collega? Parlo di quello che, in alternativa, mentre le squadre di soccorso ancora estraggono morti e feriti da cumuli di travi e calcinacci, suggerisce di pensare all’accaduto come a un’opportunità di rilancio per l’economia che possa favorire il tanto arreso rialzo del nostro afflitto Pil. Esecrabili anche loro, senza dubbio. Sciacalli, come si è soliti dire. Come quelli che «la tragedia del terremoto ci interroghi sui nostri peccati e sull’abominio delle unioni civili», come quella che nel terremoto di Amatrice intravvede il karma che rende giustizia al suino: più cretini che sciacalli, ma sciacalli. C’è un genere di sciacallaggio, tuttavia, che in occasione di catastrofi naturali sembra essere ampiamente tollerato: al prete è consentito fare la scarpetta intingendo il suo pezzo di pane nel sangue di chi è morto e nelle lacrime di chi è sopravvissuto.
«Eventi come questi – dice monsignor Francesco Cavina, vescovo di Carpi – ci inducono a riconsiderare la verità sull’uomo e sul creato. È sufficiente un attimo: la terra trema e possiamo perdere ogni cosa, inclusa la vita. In pochi secondi. L’uomo che si crede signore assoluto e padrone della propria esistenza vede sgretolarsi in un attimo ogni umana certezza. È proprio in tragedie come questa che si ha la dimostrazione di come noi siamo tutto meno che autosufficienti. Siamo creature che dipendono da un Altro, ed è inevitabile che dinanzi a catastrofi simili si aprano spazi al trascendente, che vadano oltre la mera dimensione orizzontale».
Inizia male, Sua Eccellenza, molto male. Che eventi come questi possano farci perdere ogni cosa, inclusa la vita, lo sapevamo già da prima che si ripetessero come è accaduto in questa occasione: in cosa dovrebbero farci riconsiderare la verità sull’uomo e sul creato che non ci fosse stato possibile aver già considerato? La terra ha tremato, le case sono crollate, sotto il loro crollo c’è chi ha perso la vita: cosa c’è di nuovo rispetto ad altri eventi in tutto simili a questi? E chi è che può sentirsi signore assoluto e padrone della propria esistenza al punto da poter escludere che sarà mai toccato dalla cieca furia degli elementi? Nessuna chiusura al trascendente si nutre di questa certezza, semmai è il contrario («Dio è per noi rifugio e fortezza, perciò non temiamo se la terra trema» - Salmo 45).
Ma poi, se siamo creature che dipendono da un Altro, ne siamo dipendenti anche come potenziali vittime di simili eventi? In altri termini: è quest’Altro che dispone della nostra vita, e a uno la toglie, permettendo venga schiacciato da un pilastro, e a un altro la lascia, trovandogli riparo sotto un arco? «Trovare un senso a quanto accade è impresa ardua». Non c’è dubbio, soprattutto a dare per scontato che ve ne sia uno. Perché, se è vero che «non si può spiegare tutto»,  è altrettanto vero che qui c’è assai poco di inspiegabile. Diremmo che l’inspiegabile subentri solo a dar per certo, come Sua Eccellenza ci invita a fare, che il terremoto l’abbia voluto o consentito – nemmeno lui sembra avere le idee troppo chiare – un «Dio che è Amore»: «Dio ha in ogni caso e sempre un piano di amore che si sviluppa secondo linee a noi incomprensibili, ignote, misteriose. Direttrici che non sono le nostre, umane. Anche nella tragedia c’è un senso e il nostro compito è chiedere a Dio un aiuto affinché possiamo comprendere il bene che esiste nella tragedia».
Posto l’inspiegabile dove non c’era, ecco il bisogno della «la fede che viene in soccorso» a far scorgere il bene dove sembrerebbe esservi il male. Parla per esperienza personale, Sua Eccellenza: «In Emilia, piano piano, abbiamo scoperto questo bene che può sgorgare dal disastro. La fede aiuta a vederlo: le popolazioni che guardavano agli antichi luoghi di culto chiusi, aspettando la loro riapertura, la nascita di tante vocazioni religiose». Lo sciacallo che rovista fra le macerie facendo incetta di portafogli e catenine d’oro, al confronto, diventa un galantuomo.

martedì 23 agosto 2016

[...]



Che Matteo Renzi si sia rimangiato l'impegno, più volte solennemente assicurato, di trarre conseguenza da un'eventuale bocciatura referendaria della sua riforma costituzionale con la presa d'atto del «fallimento della sua esperienza in politica», considerandola perciò «conclusa», senza riuscire a ritenere possibile altro che «tornarsene a casa», mi pare sia fuori discussione: in relazione al valore che si assegna alla parola data, si può dire sia venuto meno alla più sacra delle norme che regolano i rapporti tra persone responsabili o semplicemente ci abbia ripensato. Su questo punto non caveremo ragno dal buco, perché il valore che si assegna alla parola data è relativo, come relativo è il concetto di responsabilità. Sta di fatto che, nelle dichiarazioni che assicuravano quell'impegno, a motivarlo comparivano regolarmente il coraggio, la dignità e la coerenza. Una coerenza, sia chiaro, ben al di qua (o ben al di là, fate voi) del tener fede a quanto detto, ma più semplicemente forma di ciò che dalla causa passa all'effetto, come elemento ad essa connaturato. Ecco, allora, che, anche volendo concedere che questo rimangiarsi la parola data altro non sia che un mero aver cambiato idea, resta in sospeso la questione del coraggio e della dignità, che ad allegare alla coerenza non è stato altri che Matteo Renzi. Già lo sapevamo, ma è qui che, ancorché implicita, c'è l'ammissione: «Sono un cazzaro senza alcuna dignità, e un cagasotto».

lunedì 22 agosto 2016

Sarà per la prossima volta, chissà

La tecnica di cui Luciano Violante ci dà saggio ne Le ragioni del Sì  (L’Huffington Post, 18.8.2016) è stata brevettata venticinque secoli fa dal retore Protagora di Abdera, padre della sofistica: sta nel dar forza agli argomenti in sostegno della propria tesi col contrapporli a quelli in sostegno della tesi opposta che si è opportunamente provveduto a manipolare con l’insinuare che a fondamento essi abbiano un difettoso impianto logico o, peggio, un vizio morale. Nel caso del referendum sulla riforma costituzionale, la contrapposizione sarebbe tra chi vuole un cambiamento che si dà per scontato sia necessario e urgente, ma soprattutto possibile in un sol modo, quello prospettato dalla riforma in discussione, e chi ad esso si oppone perché contrario ad ogni cambiamento.
Già il ricorso a tale espediente retorico è irritante, ma quello che qui lo rende particolarmente odioso è il presentarlo come una pacata disamina delle ragioni del Sì e di quelle del No che non dovrebbe rendere difficile riconoscere quanto le prime siano superiori alle seconde alla sola condizione di rigettare quello che sarebbe un pregiudizio: bontà sua, Luciano Violante ci consente di continuare a ritenere che la riforma costituzionale debba essere bocciata, ma solo a prezzo di ammettere, ancorché implicitamente, che siamo intellettualmente disonesti. Tutto sommato, Maria Elena Boschi ci aveva trattato meglio, limitandosi a dire che votare No sarebbe fare un favore all’Isis.
Intellettualmente disonesti, perché Luciano Violante non trascura le nostre obiezioni, anzi, le fa a tal punto sue da concedersi il banalizzarle e il caricaturizzarle, per poi cestinarle. Oddio, non è che le prenda in considerazione tutte. Per esempio, sulle dinamiche del processo legislativo che la riforma costituzionale introdurrebbe, non dice nulla, ma fa niente, gli sarà scappato, in fondo a tutti scappa sempre qualcosa, chissà non voglia tornare sulla questione, probabilmente metterà una toppa.
In tal caso, ci auguriamo voglia soffermarsi anche su quanto in questa occasione ha glissato come si trattasse di materia irrilevante. In ordine sparso: ad approvare la riforma costituzionale ora al vaglio referendario è stato un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale; nel programma elettorale del partito che se ne è fatto promotore non se ne faceva cenno; il processo legislativo che ha prodotto tale riforma è stato contrassegnato da un costante ricorso al porre la questione di fiducia, dalla rimozione dei parlamentari dissidenti dalla commissione per gli affari costituzionali, da vergognosi episodi di ricatto, di intimidazione e di trasformismo; pareva che il problema fosse il bicameralismo, e il problema rimane; si dovevano ridurre i costi, e a conti fatti il risparmio è risibile; sembra che il referendum sia una cortese concessione del governo, e invece è dovuto per il mancato raggiungimento dei due terzi dei voti parlamentari in favore della riforma; un Senato, che nelle intenzioni doveva essere abolito, diventa una mostruosità in ordine a composizione e prerogative...
Chissà, può darsi che Luciano Violante, prima o poi, troverà un attimino. Chissà, può darsi che la prossima volta possa perfino fare a meno di polverosi mezzucci retorici. 

sabato 20 agosto 2016

[...]


Gli mancano ancora tre mesi per compiere cinque anni e scala una parete verticale alta nove metri in meno di un minuto: da me ha preso solo la erre moscia, tutto il resto dalla madre.

venerdì 19 agosto 2016

[...]

Paolo Bechis ci informa che Palazzo Chigi è al quinto tentativo di derattizzazione da quando ospita Matteo Renzi, falliti miserevolmente i quattro precedenti, e imperdonabilmente spreca l’occasione offertagli per una pagina di grande letteratura, buttando giù un pezzullo sciatto e incolore, nel quale perfino l’ironia ha il fiato corto, e sì che il materiale c’era per un esilarante poemetto eroicomico, per una rabbrividente fiaba gotica, per un affascinante romanzo allegorico... Un rimprovero che forse è ingiusto, perché  in fondo Bechis è solo un giornalista, ma si provi a immaginare uno scrittore vero, di quelli che ormai non ce n’è più, a descrivere il momento in cui gli occhi di un topo trovano riflesso in quelli di un Presidente del Consiglio, e viceversa, si provi a immaginare quale straordinaria prova letteraria possa venir fuori dalla descrizione dei pensieri che in quel momento attraversano la mente del topo.

lunedì 15 agosto 2016

Précis de chinoiseries

Sono in tanti gli italiani a pensare sia legittimo che in Italia un musulmano possa liberamente professare il proprio credo, ma nello stesso a ritenere che le autorità preposte alla sicurezza nazionale abbiano pieno diritto di espellere un imam le cui prediche possano metterla a rischio. Costoro non dovrebbero faticare troppo a capire le ragioni delle autorità cinesi, che già da qualche tempo hanno concesso ai cattolici la pressoché piena libertà di culto, ma pretendono che i vescovi siano di loro gradimento, a garanzia che la loro predicazione non metta in discussione le prerogative delle Stato.
Il paragone sembrerà asimmetrico, comprendo, ma solo se si dà per scontato che le autorità cinesi siano tenute ad avere un’idea di sicurezza nazionale uguale a quella che hanno quelle italiane, il che non è, né si può pretendere, data l’elasticità di un concetto come quello di Stato laico, in Italia tanto lasco da non consentirci più neppure di avvertire come ingerenze clericali quelle che in Cina sarebbero considerate istigazioni alla sovversione. È che, a consentire anche in minima misura che la religione non resti cosa tutta privata, e possa avere quella rilevanza pubblica che essa immancabilmente pretende, la laicità diventa giocoforza principio estremamente duttile, e necessariamente si adatta alle misure che lo Stato si dà come opportune per metter freno all’irriducibile tentazione che ogni religione manifesta a eroderne le legittime prerogative. Quel che voglio dire è che, se si tiene conto dell’asimmetria di contesto tra Italia e Cina, il paragone ha la sua bella simmetria, tutt’è a saper vedere l’elemento che è in comune a un imam che nel chiuso di una moschea esorti a violare le leggi dello Stato che lo ospita e a un vescovo che dal suo pulpito, ma pure dalle pagine dei maggiori quotidiani nazionali, e dagli schermi di tutte le emittenti televisive, a giorni alterni tuoni contro questa o quella decisione del Parlamento, ponga veti a questa o quella scelta del Governo, scagli strali a questa o quella sentenza della Magistratura: un vescovo che facesse tutto questo in Cina non equivarrebbe ad un imam che in Italia pretendesse la sharia?
Regge ancor meglio, il paragone, a considerare che il vescovo è inserito in una struttura gerarchica che lo rende a pieno titolo esponente qualificato di una confessione religiosa, espressione di un mandato che lo fa pastore di un gregge che gli deve obbedienza come fattore imprenscindibile del credo, mentre invece l’imam raccoglie il credito che riesce a trovare, e trovarne tanto o poco non toglie e non aggiunge nulla al fatto che la sua rimane una personale lettura del Corano, che un altro imam può addirittura ritenere erronea. In altri termini, impacchettare un imam, metterlo su un aereo e rispedirlo da dove è venuto non è fare offesa ad Allah, a Maometto e a tutti i musulmani, mentre dire a un vescovo «Eccelle’, e mò ci hai rotto er cazzo» equivale pressappoco a ricrocifiggere Cristo.
Ecco perché, sebbene a nessun cattolico cinese sia oggi fatto divieto di professare la propria fede, di dichiararla apertamente, di andare a messa, di battezzare i propri figli, eccetera, la Chiesa di Roma sente comunque che in Cina sia violata la libertà di culto per il solo limite di non poter nominare vescovi che eventualmente possano risultare sgraditi alle autorità cinesi. Questo spiega perché in Cina ci siano due Chiese cattoliche che in nulla differiscono sul piano teologico e su quello dottrinario, ma che hanno inconciliabile momento di distinguo su una questione canonistica, che poi, nel fondo, è ecclesiologica: una, la più consistente sul piano numerico, accetta le condizioni poste dalle autorità cinesi e in cambio ne riceve il titolo di Chiesa cattolica ufficiale, mentre l’altra si considera perseguitata solo perché al Papa non si concede di poter scegliere i vescovi che vuole, e per vezzo si dice clandestina, anche se in realtà è da tempo che vive alla luce del sole e i suoi vescovi, graditi a Roma e sgraditi alle autorità cinesi, non sono neanche più fatti oggetto di restrizioni come fu in un passato neanche troppo lontano.
Situazione insostenibile, capirete. E la Chiesa di Roma, infatti, non riesce più a sostenerla, perché lasciarla così com’è significherebbe di fatto creare le condizioni per una Chiesa autonoma da Roma, in tutto cattolica, tranne che quel tratto che l’apparenterebbe all’anglicanesimo, con un clero incardinato nella struttura dello Stato piuttosto che nella piramide gerarchica cui in cima siede il Papa. Con una crescita demografica che non accenna a mostrare battute d’arresto, ogni spiraglio dato alla libertà di professare una fede metterebbe in condizioni estremamente favorevoli la Chiesa cattolica ufficiale, che ne godrebbe enormemente nella competizione proselitaria: sarebbero poste le premesse per uno scisma, tremenda sciagura, alla quale è necessario mettere da subito riparo, fosse pure accettando qualche compromesso, che tuttavia non può mostrare segni di cedimento su una questione che è di principio, e di sommo principio.
È evidente che in gioco debba esser messo il meglio del meglio di quella bimillenaria ipocrisia di cui la Chiesa è stata ed è insuperabile maestra, e l’intervista che monsignor Giuseppe Wei Jingyi ha concesso a Vatican Insider per la firma di Gianni Valente è un saggio eccelso di quest’arte, sicché vale la pena di una lettura non superficiale.
Sua Eccellenza «è un esponente noto dell’area ecclesiale cinese cosiddetta clandestina» ed è chiamato a esprimere un parere sull’apertura di una linea di dialogo tra Pechino e Santa Sede di cui si è fatto promotore il cardinale John Tong, altrettanto noto esponente dell’area ecclesiale cinese cosiddetta ufficiale, ed è chiaro che a chiunque tornerebbe estremamente arduo conciliare la superiore esigenza di trovare una soluzione accettabile con le difficoltà poste dalle posizioni di partenza, apparentemente irriducibili. Nondimeno Sua Eccellenza ha dalla sua una formidabile risorsa: qualsiasi cosa il Papa deciderà al riguardo sarà senza dubbio il meglio, dunque nel dire ciò che pensa gli basta far presente che il Papa non potrà mai decidersi ad una soluzione che svenda il senso di tante sofferenze subite da lui e dal suo gregge, fedeli in tutto a Roma, a differenza di quel mezzo eretico d’un Tong, da sempre pappa e ciccia col regime di Pechino. Suppongo sia chiaro il filo sul quale Wei è chiamato a mostrare le sue doti di equilibrista e, vedrete, vi strapperà l’applauso.
È che l’ipocrisia di un chierico, quando il chierico è di pregio, ha una grazia e una naturalezza che l’ipocrisia di un laico non potrà mai aspirare neppure ad eguagliare. 

Come vescovo cinese, cosa l’ha colpita maggiormente nell’intervento del cardinale John Tong sui possibili sviluppi delle relazioni tra Santa Sede, Chiesa in Cina e governo cinese riguardo alla nomina dei vescovi?
L’articolo di cardinale Tong sulla “Comunione della Chiesa in Cina con la Chiesa universale” mi ha impressionato per la sua novità. Quello che mi ha più impressionato è la luce che Tong ha ricevuto dal cielo, che lo ha illuminato e gli ha fatto guardare con nuovi occhi tutta la questione. Lui parte dal modo scelto da Dio per dialogare con l’uomo, e suggerisce di guardare con quello stesso sguardo anche il dialogo tra la Santa Sede e Pechino. Per questo lui riesce a prefigurare sviluppi così importanti e positivi.
[Il cardinale Tong è stato illuminato dal cielo, dunque è chiaro che prima non lo fosse.]

Il cardinale Tong scrive che «la Santa Sede ha l’autorità di stabilire la modalità più opportuna per la nomina dei vescovi in Cina», e che il Papa «ha l’autorità specifica di considerare le condizioni particolari della Chiesa nel Paese e stabilire leggi speciali, che però non violino i principi di fede e non distruggano la comunione ecclesiale». I vescovi cosiddetti “clandestini”, compreso lei, sono pronti a riconoscere questo fatto?
Esercitando la propria autorità in queste cose, il Papa e la Santa Sede di certo non contraddicono la fede e non danneggiano la comunione e l’unità della Chiesa. I fedeli cinesi che vivono in Cina, clandestini o ufficiali, tutti sono cattolici. E i cattolici sono fedeli alla Sede apostolica. È per rimanere fedele alla Sede apostolica di Roma che io ho accettato di diventare un vescovo clandestino! Come potrei adesso non accettare ciò che viene indicato dalla Santa Sede? È per confessare esplicitamente la nostra fedeltà al Papa e alla Sede apostolica che siamo diventati una comunità clandestina, cioè non registrata ufficialmente presso gli apparati civili. E allora, come potremmo adesso rifiutare ciò che viene dal Papa e dalla Santa Sede?
[Guardi, caro Valente, che a cambiare idea è stato Tong, non io. È lui che apre alla possibilità che vengano finalmente riconosciute le prerogative della Santa Sede sulla scelta dei vescovi, non io che le ho sempre avute ben presenti.]

Nel suo lungo saggio, il cardinale Tong scrive: «Alcuni sono preoccupati che le trattative tra la Cina e il Vaticano abbiano come conseguenza l’abbandono dei vescovi non ufficiali». Lei, che è un vescovo non riconosciuto dal governo, cosa ne pensa?
Mi domando: quali possono essere le prerogative legittime delle comunità clandestine che rischiano di essere contraddette o frustrate nelle trattative tra la Cina e la Santa Sede? Esiste il Diritto canonico e il Diritto civile, ma da ambedue i punti di vista, il dialogo tra la Santa Sede e il governo cinese non sacrificherà nessuna istanza legittima delle comunità clandestine. Riguardo alle preoccupazioni che nel negoziato la Sede apostolica possa dimenticare i vescovi in prigione, esse appaiono del tutto prive di fondamento. Come può la Chiesa, che è madre, dimenticare i propri figli che confessano anche a prezzo di sofferenze la sua fede? È impossibile, perché è impossibile che lo Spirito Santo abbandoni la Chiesa.
[Ma, dico, vuol scherzare? Si apre il dialogo sulla legittimità della nomina dei vescovi da parte della Santa Sede e noi, che sul punto siamo sempre stati fedeli a Roma sebbene il prezzo fosse la persecuzione, dovremmo temere di essere sacrificati nelle trattative?] 

Il cardinale Tong scrive che la Santa Sede, con l’accordo in discussione, vuole favorire la piena comunione della Chiesa in Cina, e immagina una Conferenza episcopale che comprenda tutti i vescovi in comunione con il Papa, dopo che si saranno risolti i casi di vescovi illegittimi e scomunicati. Potrebbero esserci resistenze nelle comunità cinesi, dopo tanti decenni di divisione?
La Chiesa di Dio che cammina nella storia è fatta di peccatori. Se prende forma una Conferenza episcopale cinese in comunione con il Papa, tutti questi vescovi saranno persone convertite per camminare insieme verso il Regno di Dio. Questa visione, questa prospettiva è bellissima. È quello che noi speriamo di vedere da tanto tempo, quello per cui preghiamo da tanto tempo. La comunità dei fedeli cinesi non avrà obiezioni. Ma speriamo anche che questo sia accompagnato da frutti di conversione in tutti noi. È un tempo in cui tutti dobbiamo guardare alla condizione concreta del Figliol Prodigo narrata nel Vangelo, quel figlio che era stato lontano per anni e per vivere era finito a accudire i maiali. Si può immaginare che puzzasse di maiale anche lui, e che quindi, tornando a casa, si sarà lavato appena possibile, perché nessuno vuole rimanere vicino a persone che puzzano. Non vogliamo vedere il Figliol Prodigo che dopo essere stato abbracciato dal padre ritorna a trafficare coi maiali, a rivoltarsi nel loro fango, e non chiede di essere liberato dalla sporcizia e dal cattivo odore. Se qualcuno si comporta così, e ritorna nel fango, vuol dire che non ha nessuna identità, nessun senso d’appartenenza, e tutti fuggiranno lontano da lui.
[Senta, le cose stanno a questo modo: noi non ci siamo mai allontanati dalla casa paterna, sono Tong e i suoi ad averlo fatto, e ben venga che vi ritornino, ma tocca a loro fare penitenza e promettere di non tornare ad essere più fedeli a Pechino che a Roma. Non mi faccia esser più duro, ho da mantenere un tono pio, sennò mi si rovina l’aureola.]

Ha sentito qualcosa sui contenuti delle trattative tra Santa Sede e Governo cinese?
Noi non conosciamo i particolari, ma sappiamo che stanno lavorando, i lavori procedono, e quindi vuol dire che le cose vanno avanti. Non serve mettere fretta, perché è bene che si lavori con calma. Ma nello stesso tempo, noi speriamo che si arrivi presto a un risultato concreto, che sia buono per tutti. E prima arriva, meglio è.
[Passi alla prossima domanda, questa è imbarazzante.] 

Secondo alcuni commentatori, il dialogo è illusorio e addirittura nocivo se prima non si elimina il peso dell’Associazione patriottica. Le cose stanno così?
Quando due realtà cominciano a trattare devono essere libere di parlare su tutto. Anche sull’Associazione patriottica. Ma senza porre pre-condizioni. Noi dobbiamo dire quello che pensiamo, anche dare suggerimenti, ma il Papa deve sentire soprattutto il nostro totale sostegno, e che ci fidiamo di lui. Non dobbiamo essere noi a pretendere di condizionarlo, a dire quello che deve o non deve fare, o addirittura pretendere di imporgli le nostre idee. Nel Vangelo, Gesù ha affidato a Pietro il compito di confermare nella fede i suoi fratelli. Lo stesso Gesù assiste il Papa in questo compito. E noi non dobbiamo avere la pretesa di insegnargli come si fa.
[Tutto il contendere è sempre stato sul fatto che noi eravamo fedeli a Roma e loro no. Veda un po’ lei se, nel cercare di trovare un accordo, sia possibile cambiare le carte in tavola al punto da penalizzare ulteriormente noi per accontentare loro. Se lo fa, il Papa dà segno di non essere assistito dallo Spirito Santo. Lo scriva, così glielo riferiscono.]

Ma se uno, in coscienza, ha dei dubbi?
Il criterio da seguire non sono le proprie opinioni, ma il Vangelo e la fede degli Apostoli. Nessuno può credere che le sue idee siano superiori alle parole di Gesù. E Gesù, nel Vangelo, ci ha detto anche di fidarci di Pietro, dell’Apostolo che lo aveva tradito e che Lui ha perdonato, perché Pietro lo sostiene Lui stesso. Certo, bisogna seguire la verità che percepiamo nella nostra coscienza. Ma è la fede che illumina la nostra coscienza, e non viceversa.
[Dubbi, un cazzo. Il Papa dimostra di essere un buon pastore solo se riporta la pecorella smarrita nell’ovile.] 

Quali sono le grandi opportunità e anche le insidie più pericolose che Lei vede, come pastore, nel presente e nel futuro della Chiesa in Cina?
In questo tempo, nella società cinese si avverte che c’è bisogno di punti di riferimento morali, perché la corruzione rovina e distrugge tutto. Quindi si percepisce una aspirazione diffusa al bene, a fare le cose rispettando gli altri e il bene comune. E in questo modo, secondo me, si diffonde anche un clima favorevole allo spirito del Vangelo. Vediamo che possiamo collaborare. La società cinese si aspetta da noi cristiani un contributo positivo e costruttivo. Il rischio è che non approfittiamo di questa circostanza favorevole, perché siamo presi e ci perdiamo in altre cose. Sarebbe come una rinuncia a annunciare il Vangelo, in un momento in cui tanti potrebbero accoglierlo con gioia.
[Guardi, qui in Cina il boom economico ha scatenato un bel po’ di istinti. Ci offriamo al regime come instrumentun regni per aiutarlo a contenerli, facciamo questo da secoli. E ora il regime può accettare le nostre richieste, è diventato un prezzo che può pagare senza troppo peso in cambio di ciò che promettiamo.]

Sempre il cardinale Tong, alcuni mesi fa, aveva ribadito l’opportunità di “cinesizzare” la Chiesa in Cina, così che essa non sia mai più percepita come un fattore di colonizzazione religiosa. È un processo insidioso?
Ma già Matteo Ricci non ha portato in Cina il “Vangelo italiano” o il “Vangelo francese”. Ha portato il Vangelo. E ha percorso la via cinese per farlo arrivare ai cinesi.
[Tong sa bene che tra Pechino e Roma, prima o poi, una soluzione si troverà. Cerca di fare il furbetto per ritagliarsi una posizione di privilegio, questo è tutto. Figurarsi se dovevamo aspettare lui per la lezioncina sull’inculturazione del cattolicesimo, ma ci faccia il piacere.]

Le omelie e i discorsi di Papa Francesco continuano a essere facilmente accessibili, in terra cinese?
Certo. Vengono pubblicati su tanti siti internet, e passano da persona a persona. Stiamo seguendo passo passo tutti i suggerimenti legati all’Anno Santo della Misericordia. Su internet vedo anche che tanti cinesi vengono a trovare il Papa alle udienze generali, a Roma, e lo incontrano a piazza San Pietro. Lui li saluta spesso. Rispetto al passato, per i cinesi è diventato più facile arrivare a Roma e vedere o addirittura salutare il Papa. C’è una vicinanza visibile con il Vescovo di Roma, che prima non c’era. Le cose sono cambiate e continuano a cambiare.
[Ma certo, sono finiti i tempi dell’ateismo di Stato e per noi cattolici, mi consenta di citare Mao, grande è la confusione, ottima è l’opportunità.]

Potrà evolvere anche il ruolo dell’Associazione patriottica?
Personalmente, spero che col tempo essa diventi una cosa del passato. Perché tanti hanno un brutto ricordo del ruolo avuto da essa, in tante situazioni. La cosa importante è trovare vie nuove per aiutare i cattolici anche a manifestare il proprio amore per la Patria.
[Ormai ha fatto il suo tempo, ora ci penseremo noi.]

Avrà seguito la vicenda di Thaddeus Ma Daqin, vescovo di Shanghai, e del sua intervento sul ruolo positivo dell’Associazione patriottica. Alcuni lo hanno etichettato come un voltagabbana, un traditore.
Nessuno si può permettere di giudicare, diffamare e bastonare gli altri come traditori. Nessuno ha diritto di farlo, e chi lo fa fa una cosa molto cattiva. Cosa ne sappiamo noi di quello che c’è nel cuore di Thaddeus Ma Daqin, dopo l’esperienza che ha vissuto, e dopo che gli è stato impedito per quattro anni di fare il vescovo?
[Quell’uomo è un verme, ma non è bello dirlo.]

Lei riesce a immaginare meglio di noi quello che è passato nel cuore del vescovo Ma.
Non ho avuto le sue stesse esperienze. Ma la solitudine sì,  e anche il fatto di essere portato in un posto o in un altro. In quelle circostanze, non sei mai solo: sei davanti a Dio, e quello che pensi e fai, lo pensi e lo fai davanti a Dio. Magari i fedeli non li vedi, magari altri ti hanno tradito, ma sei sempre davanti a Dio. E questo vale di più. Preghiamo per Ma Daqin con rispetto, senza permetterci di giudicare il cuore degli altri.
[Guardi che anch’io ne ho passate di brutte, ma non ho ceduto.] 

Padre Lombardi, allora direttore della Sala stampa della Santa Sede, aveva detto che il Papa prega per Ma Daqin e per tutti i cinesi.
Il Papa è un padre, guarda e giudica le cose con occhio di padre. Il vescovo Ma Daqin è un uomo che prega, il Papa lo sa e ha fiducia in lui. Per un padre, la cosa più importante è mostrare il suo amore per i propri figli.
[Ma certo, per chi pregare, se non per i peccatori?]

venerdì 12 agosto 2016

Coda (Bè, Mantelli’, ...)

DallIstat arrivano numeri che non hanno bisogno di commento, perché parlano da soli: da due anni e mezzo siamo nelle mani di un pericolosissimo cretino, uno buono solo a picchiettare col ditino sulla tastiera del suo telefonino cazzate del tipo #cambiaverso, #lavoltabuona, #italiariparte, mentre il paese affonda nella merda, e chi lo fa notare si becca limputazione di disfattismo, lepiteto di gufo, il sospetto che le critiche siano mosse da unantipatia tutta epidermica, un pregiudizio tutto umorale, chissà, forse anche un pochino malato.
Non è del tutto chiaro cosa abbia consentito a questo miserabile buffone di potersi spacciare per Uomo della Provvidenza, ma è evidente il concorso di quanti hanno deciso di dargli fiducia, fosse pure con riserva, fosse pure col solo limitarsi a criticare chi lo criticasse, sempre pronti a ravvisare qualche difetto nella forma, indizio di chissà quale oscura visceralità, mai disposti a scendere nel merito, se non per limitarsi a liquidarlo come un futile pretesto.
Ovviamente è inutile aspettarsi che qualcuno paghi per lo scempio che in questi ultimi due anni e mezzo si è consumato col dargli questa fiducia, perché non pagherà neppure lui, né Boschi, né Lotti, né Sensi, tuttal più resterà fregato qualcuno fra i più stupidi della sua banda, il meno lesto a metter freno allabbrivio dellarroganza per rifugiarsi in qualche tragicomica resipiscenza. È un paese, questo, che non chiede mai il conto, che si limita a mugugnare o a piagnucolare, che i bagni di sangue riparatori si limita a sognarli ad occhi aperti. 

Nessuno pagherà, tanto meno – riporto in virgolettato un commento di Massimo Mantellini al post qui sotto – chi «fra Renzi ed il mondo intorno h[a] scelto Renzi, magari sbagliando, magari pronto a cambiare idea quando la misura sarà per [lui] colma, e ad incazzar[s]i, se [gl]i pare il caso».
Bè, Mantelli, fattelo parere in fretta, il caso. Leggi i numeri dellIstat e cerca di cambiare idea, ché la misura direi sia stracolma, e strabocca. Anche da tempo, direi, ma non pretendo troppo, mi basta che tu riconosca sia colma adesso, oggi. Non cè bisogno che tu cambi idea incazzandoti, sarebbe pretender troppo da chi è nato coi modi fini e lanimo pien di garbo (e tu lo nacquesti), basterebbe un commentino dei tuoi ai numeri dell’Istat, a quello che significano per milioni di disgraziati intontiti dalla propaganda di regime (oh, regime morbidissimo, sia chiaro, non appigliarti al termine, lo sai che ho il vizio dell’iperbole), e tra rigo e rigo metterci unincrespatura di labbra, qualcosa che rilevi almeno a me che, se non colma, la misura ti paia – come dire – colmetta.
Fai con calma ovviamente, avrai sicuramente per le mani un post sull’ultimo modello di smartphone che sta per esser messo sul mercato e non vorrei scombinarti le priorità. Però da qui a fine anno cerca di trovare un minutino.