Nell’intervista
che Jean Ziegler ha concesso ad Aline Wüst e che Blick
ha
mandato in pagina la scorsa settimana («Die
Kinder müssen nun das System angreifen») c’è
un passaggio che mi ha inflitto un blando riverbero della
fibrillazione che l’anno
scorso m’assalì
alla rilettura delle ultime pagine del secondo di tre libroni della
Utet che non toccavo da decenni. Solo un riverbero, stavolta, e
blando, ripeto, ché con gli epigoni dei Grandi Vagolitici accade che
la tragica fibrillazione si ripresenta come farsesca tachicardia, e
tuttavia la mano a un certo punto è corsa al petto.
Un
pugno di multinazionali fa la metà del pil mondiale, dice lo
Ziegler, siamo a uno strapotere che ci mette davanti a bivio: o
distruggiamo il capitalismo o il capitalismo ci distrugge. Ok, dice
la Wüst,
vada per distruggerlo, ma poi? E qui lo Ziegler: «Boh, si vedrà! In
fondo, la mattina che fu presa la Bastiglia nessuno aveva idea di
cosa sarebbe venuto dopo...».
Bell’esempio
del cazzo, faccio tra me e me, nessuno lo sapeva quella mattina,
certo, ma noi lo sappiamo, eccome: al posto di un re si ebbe un
imperatore. E sempre tra me e me: se è lecito inferire, dove siamo
andati a finire tutte le volte che siamo
partiti
per distruggere il capitalismo? Vertigine, affanno, m’è
d’uopo un controllino: 182/84, frequenza 102, meno male, va’,
pensavo peggio. Comunque è meglio prendere qualcosa, chessò,
qualche milligrammo di Prezzolini... Dove ho messo quell’appunto?
Ah, sì, sta nel librone della Utet.
Non
fa una previsione, Prezzolini, quando dice – siamo alla fine degli
anni Sessanta – che, «se il progressista è l’uomo
del domani, il conservatore è l’uomo
del dopodomani»: non dice che a una stagione di entusiastica
adesione a un moto di rinnovamento ne segue necessariamente una di
disillusione e di pentimento (eventualmente di resipiscenza, semmai
pure operosa): niente di tutto questo (peraltro tiene a precisare che
il «conservatore» – il «vero conservatore», dice – non è un
«reazionario», né un «tradizionalista»): no, Prezzolini si
limita a evocare l’obiezione
che è in radice alla sfiducia nel progresso, quella basata sulla
convinzione, espressa in forma di timore saldamente motivato, che da
un domani migliore del presente (sospesa la questione se poi lo sarà
davvero o no) possa discendere un dopodomani che ne risulti assai
peggiore, peraltro dandola come ipotesi altamente probabile, se non
certa: è la sfiducia che non fa mistero di trovare ragione in una
visione dichiaratamente pessimistica della natura umana, stolta più
che malvagia (la via che porta all’inferno,
eccetera), considerata ineluttabilmente incline a far guai: visione
che però implica anche un giudizio di merito sul presente, qualunque
esso sia: quand’anche
sembri pessimo, perfino al punto da far credere che qualsiasi domani
diverso non possa che essere migliore, il peggio è sempre possibile,
anzi è così gravemente incombente da essere pressoché sicuro: dal
progredire, insomma, si avrebbe sempre qualcosa da perdere e, se pure
non si avesse altro da perdere che le proprie catene, se pure questo
fosse assicurato per il domani, c’è
il caso – probabilità che per il «conservatore» abbiamo
visto essere prossima alla certezza – che dopodomani ci si
possa ritrovare molto più strettamente avvinti in catene molto più
pesanti, e tutto questo – dice il «conservatore» –
trova
conferma nell’esperienza:
l’esperienza mostra che alla lunga ogni progresso tradisce sempre
le sue promesse, e spesso in modo tragico: tanto gli basta per poter
vantare merito di una lungimiranza protetta dall’insidiosa
minaccia degli entusiasmi che menano a rovina il «progressista»,
sempre incapace di vedere oltre la punta del proprio naso, e perciò
incline all’avventura,
fonte d’ogni genere di disastro.
Gesù, come m’è uscita ’sta glossa? Sembra una parafrasi speculare del Totò che sbotta: «Poi dice che uno si butta a sinistra!». Basta, basta, devo tenermi alla larga dagli Ziegler, sennò il 26 maggio finisco per votare +Europa.
* * *
«Nelle
cose economiche e sociali, la via diritta,
salvo
eccezioni rarissime, è la via falsa.
Solo
la via storta, lungo la quale gli uomini cadono,
ritornano
sui propri passi, esperimentano,
falliscono
e ritentano e talvolta riescono,
è
la via sicura e, di fatto, più rapida»
Luigi
Einaudi,
Prediche
inutili