venerdì 5 luglio 2019

«Restiamo umani», a patto di far chiarezza sull’uomo


Per chi è credente, i diritti umani sono espressione delle prerogative che Dio ha conferito alla creatura che ha voluto a sua immagine e somiglianza. Tutto sommato non cambia molto per chi ritiene che i diritti umani nascano con luomo, espressione di ciò che la Natura gli conferisce in quanto uomo. In entrambi i casi è chiaro perché si tenga tanto alla distinzione tra diritti umani e diritti civili: Deus sive Natura, Natura sive Deus, i primi sarebbero connaturati alluomo, mentre i secondi sarebbero acquisiti.
Viene così ad essere implicitamente ammesso, quando non lo è in modo esplicito, che sia possibile una dimensione umana antecedente a storia, società e cultura, che di un homo fanno un civis. Intuibile, dunque, perché, per chi rigetta la tesi che luomo sia possibile fuori dalla dimensione storica, sociale e culturale, non ci sia alcuna differenza tra diritti umani e diritti civili: tutti i diritti sono acquisiti, tutti i diritti sono possibili solo come prodotti storici, come conquiste sociali e come costruzioni culturali, e, se per quelli umani si ha qualche ragione nel dichiararli inalienabili, è solo perché essi hanno trovato un più solido radicamento, in forza della insostituibile funzione che sono venuti ad assolvere come soluzioni a problemi non altrimenti risolvibili nel contesto che li sollevava.
Si pensi, per esempio, al più umano dei cosiddetti diritti umani, e cioè il diritto alla vita: potrà risultare insopportabile lidea che, con ciò, perda il sacro che gli verrebbe dallessere un dono di Dio o lineffabile che gli verrebbe dallessere scritto nel Dna della specie, ma anche il diritto alla vita è impensabile fuori dalla dimensione storica, sociale e culturale entro cui nasce, e si consolida, fino a diventare irrinunciabile, perché corrispettivo del divieto di uccidere, indispensabile a qualsiasi forma di convivenza. Tanto indispensabile, tanto irrinunciabile, da diventare indiscutibile. Tanto indiscutibile da meritare una mitopoietica che lo rendesse trascendente a storia, società e cultura, che si sarebbero limitate a riconoscerlo, piuttosto che a costruirlo.

Non diversamente è accaduto con gli altri diritti che definiamo umani, e il cui numero è venuto a crescere col ritenere di poter riconoscere in molti di quelli civili una natura trascendente del principio che li informa, in realtà conferendogliela. Si pensi, per esempio, al diritto di migrare, di cui non si ha traccia nel Bill of rights del 1789, né nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1793, e che trova una sua prima formulazione solo con la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 («Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese», art. 13): evidente prodotto di un contesto storico, sociale e culturale, entro il quale la libertà di movimento prende ad assumere un valore pari ad altre libertà, come quella di espressione, di credo religioso, ecc., ma, una volta dichiarato diritto umano, chi potrà mai mettere in dubbio che sia stato Dio a rendere luomo libero di muoversi in lungo e in largo per il mondo o che questa libertà nasca con lui come espressione di unesigenza insopprimibile, insita alla sua natura, che è poi la fattispecie umana della Natura? Eppure si è sempre migrato. Del fenomeno si ha ampia documentazione fin dalla preistoria, che poi altro non è che storia cui manca una documentazione scritta, dunque più povera di informazioni, comunque sufficienti a poter dar per certa, fin da allora, lesistenza di pur embrionali forme di società e cultura.
Se il fenomeno ci accompagna da sempre, perché cè voluto tanto a capire che si trattasse di un diritto umano? Perché per un problema come quello del pericolo di morte per mano di un proprio simile si è fatto tanto in fretta a trovare accordo su un divieto di uccidere che quasi subito si è dato forza in diritto alla vita, mentre per un problema come quello delle migrazioni si è impiegato tutto questo tempo per concepire come diritto la libertà di «lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio»? La risposta a questa domanda impone un sacrificio in tutto simile a quello di rinunciare a immaginare un Deus sive Natura o una Natura sive Deus come scaturigini di diritti umani: la mera «libertà di» (ma per molti versi questo accade anche per «libertà da») non diventa un «diritto» fino a quando non riesce ad essere percepita come propria libertà da parte di chi ha il potere di decidere per tutti, investito dellautorità che gli è conferita dal consenso di chi lo elegge a garante dei propri interessi. È in questo modo che si spiega perché quello di migrare divenga un diritto solo nel 1948: dopo limmane massacro, il mondo ha bisogno di sterilizzare il concetto di nazione e di desacralizzare il limes.

Cè stato chi ha colto il problema che si pone col conferire la «trascendenza» dell«umano» all«immanenza» del «civile» (per quanto fin qui detto mi auguro che le virgolette diano il dovuto senso ai termini), ma neanche vale la pena di dire chi sia, perché non è andato più in là dellindorare il paradosso con lespediente retorico di un immaginifico «diritto naturale storicamente acquisito», temerariamente proposto come nuova categoria giurisdizionale. Il patetico tentativo, tuttavia, è degno di nota, perché emblematico del fallimento cui si va incontro quando si chiama la morale che informa ogni giusnaturalismo in soccorso di un principio che non abbia la necessaria forza politica per imporsi o per conservare le posizioni precedentemente conquistate, il che sul piano pratico traduce quel che sul piano logico è la debolezza delle tautologie che pretendono il crisma dellautoevidenza che non necessita di argomenti per persuadere, e che di regola, quando la pretesa non è soddisfatta, evocano lantitesi tra legge e giustizia.
Sono questi fallimenti che lasciano il campo libero agli pseudoargomenti che invece riescono a persuadere in forza dellappello a suggestioni e a pregiudizi. Ed è questo che in buona sostanza è accaduto con lappello alle ragioni umanitarie per cercare di persuadere lopinione pubblica a quell«accogliamoli tutti» che al momento pare aver la peggio con l’opposto «porti chiusi», se è vero, come è vero, che una vicenda come quella della SeaWatch, pure chiusasi con un clamoroso scacco inflitto a Salvini, ha segnato un sensibile incremento dei consensi in favore della Lega, che i sondaggi danno ormai al 38%. In ultima analisi, infatti, è accaduto che, almeno nella sua declinazione del dovere di soccorso a migranti in pericolo di vita, il diritto di migrare ha vinto in virtù di presidi giurisdizionali nazionali e sovranazionali, correttamente recepiti dai dispositivi giudiziari che hanno infine consentito il buon esito della vicenda; e tuttavia, seppur di poco, si è ulteriormente indebolita l’autoevidenza di quel «restiamo umani» che chiama Dio e Natura a proclamare inviolabile il «diritto naturale storicamente acquisito» di poter lasciare il proprio paese, a maggior ragione, poi, se in forza del bisogno di sfuggire a guerra o fame; Salvini ha perso, insomma, e ha perso contro la legge e contro la giustizia, ma continua a vincere, nel senso che continua ad accrescere il consenso alla sua scellerata azione di governo, che in sostanza pretende di sospendere gli effetti che il diritto naturale ha fin qui sortito su quello positivo.

Giustamente gli si rinfaccia di tradire il Vangelo che sbandiera, ma si fa il torto di non capire che anche nel punto dove la morale cristiana non fa sconti e recita che «le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere lo straniero...», non può fare a meno di concedere che a quest’obbligo esse sono tenute «... nella misura del possibile» (Catechismo, 2241), un «possibile» di cui solo chi è chiamato al governo della cosa pubblica può rispondere. Traslando dalla dottrina morale alla pastorale, «si tratterà di coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la 97ª Giornata del Migrante e del Rifugiato): «valutazione» che giocoforza non potrà che essere politica, con quanto ne consegue sul modello dimpiego delle risorse pubbliche che ottiene il maggior consenso da parte dellelettorato. Un elettorato che, da un lato, sembra sempre più incline a considerare assai ridotta la «misura del possibile» e, dall’altro, non pare cogliere alcuna contraddizione tra levangelico «ama il prossimo tuo» e il salviniano «prima gli italiani», anche qui grazie a ciò la dottrina morale concede come scappatoia: è significativo infatti che Dio detti lobbligo di onorare i propri genitori subito «dopo di lui» (Catechismo, 2197), imperativo che pretende estensione ai «doveri dei cittadini verso la loro patria» (Catechismo, 2199), riproducendo un gradiente di carità che nel proximus distingue un propior. Né le cose sembrano andar molto meglio presso l’elettorato che si dichiara «di sinistra», qualunque cosa possa ormai dire: un sondaggio che alcuni giorni fa faceva capolino tra le chiacchiere di un talk show su La7 li dava per un 15% in favore della condotta tenuta da Salvini sul caso SeaWatch.

Ma questa, ovviamente, è solo la premessa a un discorso che voglia azzardarsi a far chiarezza su cosa esattamente voglia dire «restiamo umani», e a cosa possa ragionevolmente aspirare sul piano politico, il che mi pare sia possibile solo dopo aver fatto chiarezza sull’uomo. In tal senso non ritengo sia superfluo rammentare che chi ha coniato il motto che sembra essere la soluzione di ogni cosiddetta crisi umanitaria sia morto per mano di chi, a stretto rigor di logica, gli doveva gratitudine. I suoi assassini appartenevano a una cellula terroristica «impazzita», così si affrettarono a definirla gli assennati terroristi di Hamas, ma erano palestinesi non meno di tutti gli altri palestinesi alla cui causa si era votato fin da una decina danni prima. Cosa tradì la grande nobiltà danimo e il generoso entusiasmo che portarono Vittorio Arrigoni a spendersi senza riserve in favore del popolo palestinese? Probabilmente il fatto che ogni crisi umanitaria è sempre più complessa di quanto appare a chi ritiene che il proprio impegno possa contribuire ad attenuarne la gravità, sennò, di là dall’effettivo contributo portato, almeno a dar risposta a quell’urgenza morale che impone un qualsivoglia mettersi in gioco. Ogni crisi umanitaria, infatti, non sta solo nei problemi che solleva, ma anche in quelli che l’hanno generata, e risolvere gli uni senza risolvere gli altri serve certamente a far fronte a un’emergenza – se non del tutto, almeno in parte, che comunque non è poco – ma anche a perpetuarla, come in fondo accade con l’elemosina, che è cosa bella, buona e giusta, ma non risolve affatto il problema della povertà, anzi, per certi versi lo rende insuperabile. 


sabato 22 giugno 2019

Recensione di una recensione


«Dopo aver accompagnato moglie e figlio alla stazione ferroviaria mandandoli in vacanza nel Maine per farli sfuggire allafa estiva metropolitana di Manhattan, Richard Sherman rincasa», così recita lincipit della trama di The Seven Year Itch (Billy Wilder, 1955), che in Italia arrivò sugli schermi col titolo Quando la moglie è in vacanza. Canovaccio in tutto simile a quello dello scorso venerdì, eccezion fatta per il rincasare: certo che Marilyn Monroe non potesse aver preso in affitto lappartamento sopra il mio, non mi sono affrettato e, bighellonando in auto per la città, mi son trovato nei pressi del Palazzo Serra di Cassano, sede dellIstituto Italiano per gli Studi Filosofici, dove ho appresso si stesse tenendo la presentazione di un libro, Storia dellItalia corrotta di Isaia Sales e Simona Melorio, edito da Rubbettino.
Niente di comparabile allo spettacolo di una biondona che dà il fresco alle sue grazie su una grata daerazione, certo, ma la cosa si è rivelata dun certo interesse, sicché ho comprato il volume, un bel librone di 322 pagine che illustra tutti gli episodi di corruzione noti succedutisi in Italia dallUnità allaltrieri: doviziosa documentazione, ineccepibile trattamento delle fonti, insomma, un onesto lavoro di scavo, tanto più encomiabile per la cura riservata ai casi poco noti ai più, incontestabili sul piano degli elementi addotti a prova ed emblematici della diffusione del fenomeno proprio perché sottratti all’effetto mitopoietico della dimensione dello scandalo pubblico di più grande portata. Citarne qui qualcuno, se questa fosse una recensione di Storia dellItalia corrotta, potrebbe tornar utile a consigliarvene lacquisto, ma il titolo del post non lo concede: questa vuol essere la recensione di una recensione, quella che trovate a pag. 2 de Il Foglio di venerdì 21 giugno, a firma di Massimo Adinolfi (“La storia dellItalia corrotta” che non spiega niente della nostra storia).
Recensione oltremodo malevola, il che di per se stesso non sarebbe biasimevole, perché la stroncatura è quasi sempre un genere più interessante della marchetta, oltre ad essere assai più nobile. Il problema sta nel fatto che una stroncatura devessere argomentata in modo stringente, senza lasciare il ben che minimo appiglio al sospetto che la critica sia preconcetta o, peggio, sia piegata a un fine diverso da quello di dimostrare che il libro in questione non valga la pena di essere acquistato, mentre quella che Massimo Adinolfi riserva a Storia dellItalia corrotta è argomentata in modo così sgangherato da offrire innumerevoli appigli ad altrettanti sospetti. E non è tutto, perché questa sgangheratezza saddobba della sciagurata spocchia che pretende considerazione in cambio della ruminazione di qualche garzantina.
Quello che pare aver maldisposto Massimo Adinolfi nei confronti del libro, non sappiamo se impedendogli di andar oltre le prime quattro pagine, le uniche che prende in considerazione, è l’«accumulazione», figura retorica che si presenta in forma di elenco, e qui l’elenco è quello di «re, capi di governo, ministri, parlamentari, presidenti di Provincia, presidenti di Regione, presidenti della Repubblica, sindaci, assessori comunali, assessori provinciali, assessori regionali, consiglieri regionali, consiglieri comunali, consiglieri di circoscrizione, consiglieri di quartieri, consiglieri provinciali, membri delle Comunità montane» coinvolti in episodi di corruzione.
Non dovrebbe irritare il fatto che di questi episodi siano stati protagonisti uomini che, a vario titolo, erano tenuti alla tutela del bene comune, venendo poi meno a questobbligo istituzionale per perseguire, a discapito dellinteresse pubblico, quello privato, senza avere in alcun conto le leggi dello stato e quelle morali? No, quello che irrita Massimo Adinolfi è il fatto che la lista «viene giù fitta e insistente come una pioggia monsonica», anzi, come un «diluvio». Ma questa non è la sola «accumulazione» che lo irrita, perché c’è pure quella fastidiosa sequenza di «se», che apre ben 25 protasi («se le società, pubbliche e private... se i manager, pubblici e privati... se i grandi gruppi... se le grandi opere... se i concorsi... se i partiti... se le professioni... se le banche... se la magistratura...»), ma che gli pare «chied[a] di essere letto come un “se è vero, come è vero, che”», per arrivare ad insinuare in forma di domanda retorica un assunto che in realtà sarebbe fallace («come si può pensare allora che la corruzione non sia un dato capillare, un elemento di lunga durata della storia italiana, un problema del nostro stato nazione?»).
Neanche sarebbe un’«accumulazione», quest’ultima, perché in realtà è un’anafora, ma Massimo Adinolfi ne è comunque tanto disturbato da non riuscire a produrre neppure la schifezza della schifezza della schifezza di un’obiezione che sia degna di dirsi obiezione a quell’assunto, se non quella che, a fronte delle 322 pagine zeppe di fatti circostanziati e documentati, obiezione non è: tutta roba percepita, questa corruzione, e «Sales e Melorio non fanno nulla per diminuire la distanza fra realtà e rappresentazione».
Cosa avrebbero dovuto fare per diminuirla? Probabilmente sfoltire, sfoltire, e su quello che restava essere più indulgenti, come solitamente sulla corruzione è Il Foglio, il cui fondatore ha sempre sostenuto che la corruzione è un ingrediente ineliminabile dalle forma di vita associata, concedendo possa essere combattuta, ma senza metterci troppa indignazione, arrivando addirittura a teorizzare che «in politica non si tratta affatto di avere la capacità di “ricattare” gli altri, di condizionarli ed eventualmente ricattarli, dove il termine va inteso in senso politico, paralegale. Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile»; in senso «paralegale», ovviamente, dove il «para-» sembra essere proprio il margine di indulgenza da concedere a una rete di rapporti che senza l’ineliminabile ingrediente della corruzione può addirittura correre il rischio di lacerarsi.
Prendete Micromega 1/2002 e andate a pag. 139-140, è il punto in cui, conversando con Piercamillo Davigo, Giuliano Ferrara illustra magistralmente questa sua teoria del «paralegale» come statuto della politica: «La politica è senza dubbio il regno dell’ambiguità. Si distingue dalla dimensione etica privata, personale, individuale, di coscienza. E si distingue anche da una concezione lineare e non ambigua della legalità. In altri termini: la politica, che è rapporto di forze, ricerca del consenso, una delle manifestazioni del modo di organizzarsi e convivere degli uomini, forse la più rilevante, è un’altra cosa rispetto alla concezione lineare e autoreferenziale della legalità». Riesponendoci alla «pioggia monsonica», diremmo che «re, capi di governo, ministri, parlamentari, presidenti di Provincia, presidenti di Regione, presidenti della Repubblica, sindaci, assessori comunali, assessori provinciali, assessori regionali, consiglieri regionali, consiglieri comunali, consiglieri di circoscrizione, consiglieri di quartieri, consiglieri provinciali, membri delle Comunità montane» sono in qualche modo a legibus soluti: sembra corruzione, quella in cui vengono sorpresi, quando accade che vengano sorpresi, ma la percezione è fallace, perché la rappresentazione è ben distante dalla realtà, e la realtà è che non è corretto calcare a forza sugli episodi di corruzione di cui si macchiano i parametri adottati per quelli di cui si macchiano i comuni cittadini. In questo, allora, sì, «Sales e Melorio non fanno nulla per diminuire la distanza fra realtà e rappresentazione».
Ecco perché non è ricevibile la controbiezione che Simona Melorio anticipava venerdì scorso, quando teneva a far presente che nello scrivere Storia dellItalia corrotta si era deciso di rinunciare ad ogni approccio di tipo statistico, inevitabilmente soggetto alle inferenze di tipo percettivo: non è ricevibile perché è il semplice parlare di corruzione, ancorché documentata e relativa a casi reali, a mettere in discussione lo statuto che rende a legibus soluti chi è chiamato dalla politica a rivestire un ruolo istituzionale.
In tal senso, forse, andrebbe rivisto il senso della recensione di Massimo Adinolfi: più che una stroncatura di Storia dellItalia corrotta, è una marchetta alla teoria di Giuliano Ferrara, ovviamente col ritardo dovuto al fatto che fino a uno o due anni fa era consulente del Ministero della Giustizia. Questo consente, da un lato, di trovare appiglio a ogni sospetto e, dallaltro, di spiegare laltrimenti inspiegabile chiusa della recensione: «Rimane il fatto – scrive – che con la corruzione e il suo carattere endemico non si spiega quasi nulla della storia italiana: non si spiega né il fascismo né la democrazia, né la scelta atlantica né il terrorismo, non il miracolo economico e neppure le mafie. E allora a cosa serve questa percussiva “Storia dell’Italia corrotta”?».
In quale punto del volume è dichiarata l’intenzione di spiegare la storia italiana con la corruzione e il suo carattere endemico? Gli autori non si azzardano a farlo neppure in modo implicito, si limitano a considerare che i casi di corruzione trattati coprano un arco temporale coincidente a quello che va dall’Unità d’Italia ai nostri giorni, senza lasciare buchi, quasi sempre con ampie aree di sovrapposizione ed intersecazione. Quando poi scrivono che la corruzione è da ritenersi «un elemento connaturato al senso prevalente dello stato che si è affermato lungo tutta la storia della costruzione della nazione», dove si legge, come crede di poter fare Massimo Adinolfi, che la corruzione ne sarebbe «costitutiva»? Costitutivo è ciò che concorre in modo essenziale alla formazione di qualcosa; connaturato è al più ciò che vi radicato dentro ab initio; insito ad essa, certo, ma donde se ne dovrebbe trarre che ne informa ratio e sviluppo?
Qui non possiamo glissare come abbiamo fatto sulla confusione tra accumulazione e anafora, qui di «percussivo» ci par essere solo la malafede di Massimo Adinolfi. Perché questa Storia dell’Italia corrotta ci racconta episodi di corruzione verificatisi negli ultimi 150 anni, ma in quale passaggio del libro si afferma che fu la corruzione a dare forma e/o sostanza a fascismo, democrazia, scelta atlantica, boom economico, mafia e terrorismo? E sì che in più di un caso alla tentazione si potrebbe anche cedere. L’assassinio di Giacomo Matteotti, che per consenso unanime degli storici segna una svolta dei tratti offerti dal fascismo, non si ebbe per impedirgli di rendere pubblica la tangente intascata dal fratello del Duce? Rompere l’alleanza di governo con comunisti e socialisti, in cambio di qualche milionata di dollari gentilmente offerti ad Alcide De Gasperi, non configura un atto corruttivo? Il denaro dato a brigatisti e camorristi perché fosse salvato il culo a Ciro Cirillo, e a meno di tre anni di distanza da quando con Aldo Moro era prevalsa la linea della fermezza, lo rubrichiamo a investimento pubblico?  

venerdì 7 giugno 2019

Che invidia!


Ero troppo preso dal ricostruire le circostanze che mi hanno mandato fuori strada circa lidentità del «rivoltoso sconosciuto» di piazza Tienanmen, per poter prestare la dovuta attenzione, ma anche e soprattutto la necessaria disposizione danimo, alle circostanze che qui in Italia e, primancora, in mezzo mondo, a partire dal Regno Unito, hanno mandato fuori strada molti organi dinformazione circa la morte di Noa Pothoven, sicché solo in queste ultime ore ho recuperato gli estremi della faccenda per come realmente ha avuto svolgimento, e preziosi in tal senso mi sono stati gli interventi succeditisi nelle ultime 48 ore sulla pagina Facebook di Marco Cappato, tra i primi a smentire la notizia che in un ospedale olandese fosse stata praticata leutanasia su una minorenne perché depressa, e con tanto di placet clinico e legale, tra i primi a chiarire che invece si era lasciata morire di fame e di sete, e a casa sua, proprio perché quel placet era mancato.
Reduce da un infortunio che in sostanza era della stessa natura (superficialità nel trattamento delle fonti), potete immaginare con quanta curiosità mi sia interessato al modo col quale vi mettevano riparo le prestigiosissime testate e le autorevolissime firme che ne avevano subìto uno uguale, constatando che però tutto andava come al solito, con chi faceva finta di niente, passando subito a parlar daltro, chi dava conto dellerrore, ma en passant, come si fosse trattato di un refuso tipografico, e chi se ne assumeva la responsabilità, ma solo per lasciar spazio a giustificazioni ed attenuanti che in sostanza la rigettavano: nessuno che ammettesse lerrore, chiedesse scusa e si impegnasse a non ripeterlo. In generale, mi è parso che si intendesse dire al lettore: «Guarda che nel rilanciare la bufala non sono stato vittima meno di quanto lo sia stato il lettore che se lè bevuta, perché la storia dava corpo a quellipotesi di piano inclinato che è tra più suggestivi espedienti retorici di chi si oppone a una legislazione che riconosca il diritto alleutanasia, e che dà sostanza anche alle riserve di non vi si oppone per ragioni di principio, ma solo perché ne teme le derive. Cerca di essere indulgente, dunque: cascarci era facile, e in fondo anche in te lorrore ha lasciato poco spazio allincredulità». Sempre meglio di un «ci hai creduto, faccia di velluto», e già è tanto.
Poi cè Il Foglio, ma si sa che Il Foglio fa categoria a parte. Mercoledì 5 giugno: «La morte on demand è realtà, l’Olanda pratica l’eutanasia su una minorenne depressa. Una ragazza olandese di 17 anni, Noa Pothoven, ha ottenuto l’eutanasia, legale nei Paesi Bassi, a seguito di una violenza sessuale subita all’età di 11 anni». Notevole è quell«a seguito», che lega violenza a violenza, stupratore ad assassino. «Qui c’è una riflessione da fare. [...] L’eutanasia era iniziata come metodo estremo per porre fine alle sofferenze dei malati incurabili, condannati a morte certa, per abbreviarne il calvario. “Compassione”, si disse. Gli oppositori avevano evocato lo slippery slope, il tema del piano inclinato. Non ci saremmo fermati ai malati incurabili. [...] La vicenda di Noa questo ci dice: una volta che si accetta di camminare sul piano inclinato si finisce contro il muro della “death on demand”. La morte su richiesta. Come un qualunque altro servizio sanitario».
Giovedì 6 giugno? Ok, Noa non ha ricevuto leutanasia, ma «avrebbe potuto riceverla». Anche se sè saputo che le era stata negata? Poco importa, la ragazza aveva deciso di lasciarsi morire di fame e di sete e «lo stato olandese aveva acconsentito alla sua morte decidendo, in accordo con la famiglia, di non intervenire». E questa è eutanasia? Non stiamo troppo a sottilizzare: la notizia era una bufala, ma in fondo, in fondo, in fondo, non lo era.
Come non restare incantati di fronte a tanta disinvoltura nel trattare i propri infortuni? Averne almeno un po, di tanta faccia tosta, che invidia!

giovedì 6 giugno 2019

Heautontimorumenos

Si ha il diritto di essere severi con gli errori altrui, quando si sa essere spietati con i propri, come mi tocca fare con quello da me commesso nel post qui sotto, segnalatomi da un lettore che nella pagina dei commenti ha prodotto argomenti solidi e ben documentati a smentire la perentorietà con la quale ho dato per certa l’identità del «rivoltoso sconosciuto» che il fermo immagine di un video della rete britannica Itn ha immortalato a icona dei sanguinosi eventi di piazza Tienanmen: la sua identità è tutt’altro che certa, sono stato precipitoso nel ritenere che lo fosse, peraltro appoggiandomi a una fonte che ho interpretato in modo superficiale. Nella risposta al commento del lettore, che si firma DKS, ho cercato di dare una spiegazione dell’errore nel quale sono incorso, evitando di acconciarla ad attenuante, e porgendo le mie scuse, ringraziando per la segnalazione. Giacché, però, l’errore è stato fatto in homepage, ritengo sia necessario che in homepage ne sia riportata l’ammissione, estendendo anche a voi le mie scuse, con l’impegno a sorvegliare con maggiore attenzione i dati che daranno spunto alle mie riflessioni, cui darò corso appena avrò superato l’imbarazzo.

martedì 4 giugno 2019

Signoroni della nostra molto sussiegosa informazione



Nel trentennale degli incidenti di piazza Tien An Men, doppio paginone de la Repubblica, a firma di Ezio Mauro. Tra le foto, immancabile, quella che è diventata il simbolo della protesta che fu affogata nel sangue, luomo in camicia bianca che sfida la colonna di carrarmati: il «rivoltoso sconosciuto», così nella didascalia.
Il Corriere della Sera ci aveva pensato ieri, articolo di Marco Del Corona e boxino ad annunciare per oggi, in allegato al giornale, Piazza Tienanmen, raccolta di saggi e reportage a cura di Marcello Flores, in copertina una rielaborazione grafica della foto (XxYstudio). Lo sfoglio: normale non trovare il nome di quelluomo da pag. 48 a pag. 232, si tratta di articoli coevi ai fatti, ma non ve nè traccia neppure in quelle che precedono (presentazione di Marcello Flores, articoli di Fabio Lanza e Guido Santevecchi), scritte al più una settimana fa.
La Stampa, invece, aveva anticipato a domenica il ricordo del massacro del 4 giugno 1989: Gianni Vernetti, inviato a Hong Kong, intervistava Han Dongfang, uno dei capi della protesta. Anche lì, la «foto simbolo»; anche lì, il protagonista non trovava un nome.
Come daltronde non lo trovava sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, che nello stesso giorno mandava in pagina un articolo a firma di Roberta Zunini e la foto dobbligo, però in bianco e nero, un po sgranata: chi è quelluomo? «Il ribelle sconosciuto».
Non diversamente con il Giornale, che lunedì 3 giugno, a corredo di un articolo a firma di Roberto Fabbri, pubblicava la foto, dove al «tank man» non riusciva a dare un nome: anche qui era il «rivoltoso sconosciuto».
Ben quattro pagine, invece, su il manifesto oggi in edicola (articoli di Tommaso Di Francesco ed Alessandro Russo, con due reprint dellepoca, Rossana Rossanda ed Edoarda Masi); anche qui la foto, anche qui non si ha modo di sapere chi sia leroe che sbarra la strada ai quattro blindati.
Giornaloni, giornalini e giornaletti on line? Idem con patate.

Ora, non è per star qui a rompere il cazzo a qualcuno in particolare, ma agli eccellentissimi direttori di queste testate vorrei chiedere: su Mark Caltagirone avete sguinzagliato intere redazioni e un po di pace lavete trovata solo quando avete potuto avvertire i vostri lettori che il tizio non esisteva, Pamela Prati vaveva preso per il culo, eccetera, eccetera, possibile che il ditino vi si anchilosava a cliccare qua e là per scoprire che il ribelle, o rivoltoso che dir si voglia, un nome ce lha e, se lo onorate dandogli il titolo di «icona», meriterebbe pure fosse scritto in pagina?
Si chiama Wang Lianxi, e per giunta è ancora vivo (*). Fu arrestato nelle settimane successive al massacro di piazza Tienanmen e condannato a morte, ma poi la pena gli fu commutata in ergastolo perché «malato di mente». Ospedale psichiatrico, ma poi nel 2007 fu rilasciato. Tornò a casa, trovò che i genitori erano morti e la casa era stata distrutta. Un comitato di quartiere gli procurò un posto dove dormire. Poi, nel 2008, alla vigilia delle Olimpiadi tenutesi a Pechino, fu di nuovo arrestato e internato nell’ospedale psichiatrico Pingan nel distretto Xizhimenwai, a Pechino, dove nel 2009 unassociazione per i diritti umani in Cina, la Chinese Human Rigths Defenders, ebbe modo di incontrarlo, trovandolo un po intontito per gli psicofarmaci, ma in discrete condizioni fisiche. Più in salute di Mark Caltagirone, insomma, signoroni della nostra molto sussiegosa informazione

lunedì 3 giugno 2019

[...]



Ieri: «Non metto il link per risparmiarvi la pubblicità di un preservativo che si piglia un terzo della pagina, il banner sotto la testata sul quale scorrono i prezzi di caffè, prosecco e detersivo distribuiti da un ipermercato e il pop-up che reclamizza una società di spedizioni, che è quello che dà il maggior fastidio perché bisogna chiuderlo due volte ogni dieci secondi, però volevo segnalarvi lo stesso...» (Malvino, 5.12.2014).
Da oggi in poi, non più: nel caso dovessi commentare un post de Il Post, potrò linkarvelo tranquillamente, perché, andando di là, non troverete più limpiastro che descrivevo quattro anni e mezzo fa. Prima, però, cè da sbrigare una piccola formalità: 80 euro. Proprio così, per soli 80 euro allanno (in alternativa, 8 euro al mese) Il Post vi sarà offerto «senza nessun annuncio». [Qui immagino che al solito grammar-nazi venga distinto: «Semmai “senza alcun annuncio”». A torto, stavolta, perché a «senza nessun annuncio» segue «salvo in qualche occasione particolare»: la doppia negazione, dunque, qui non casca male, via.]
Comè venuta, stideona? Il malpensante azzarderà che la baracca stesse a far acqua, ma ci mettiamo un niente a scornarlo: «Mi fermavano per strada – rivela Luca Sofri – per chiedermi come mai non avessimo ancora lanciato gli abbonamenti». [Forse voi no, perché siete aridi dentro, ma io non faccio alcuna fatica a immaginarmela, la scena: «Ohilà, Sofri, comè che posta a gratis? Quelle delizie di soggetto-virgola-verbo, per esempio, non crede sia venuto il momento di farcele pagare?»; e lì il povero Sofri a capitolare: «Ok, ok, vedrò di accontentarla, caro fan!»; giorni a pensarci, e infine – riverbero renziano, eureka! – 80 euro.]
Abbonamento, dunque, ma a una versione spot-free, perché «dal 2010 gli articoli del Post sono sempre stati gratuiti e accessibili a tutti, e lo resteranno: perché ogni lettore in più è una persona che sa delle cose in più, e migliora il mondo». Tutto sta a voi, dunque. Non avete voluto sganciare 60 euro allanno per continuare a far vivere Radio Radicale, e vabbè, avevate visto giusto, è quasi fatta, la convenzione sarà rinnovata, e continuerete a godervela a gratis, non era il caso di fare neanche il gesto di metter mano alla tasca. Ma qui cè uno che da nove anni migliora il mondo e, abbonamento sì o abbonamento no, assicura che continuerà a migliorarlo: non vi viene di getto un gesto di liberalità? Ma allora siete bestie, fatevelo dire


domenica 2 giugno 2019

Morettiana





In Isole, secondo episodio di Caro diario (Nanni Moretti, 1993), c’è un indimenticabile Antonio Neiwiller nei panni del sindaco di Stromboli, un sindaco animato da un entusiasmo prossimo all’esaltazione, che senza sosta partorisce visionari progetti di valorizzazione delle bellezze paesaggistiche del luogo, robe del tipo «chiedere a Morricone una musica da diffondere per tutto il giorno come colonna sonora del paese», «la luce dell’isola a cura di un grande maestro della fotografia: Storaro che cura l’illuminazione e i tramonti di Stromboli», in un più vaste programme che mira a «un nuovo modo di vivere, una nuova luce, nuovi abiti, nuovi suoni, un nuovo modo di parlare, nuovi colori, nuovi sapori, tutto nuovo», insomma, «ricostruire da zero Stromboli», peraltro con l’aspirazione a ben più ampi orizzonti – «ricostruire da zero l’Italia» – fino ad offrirsi da modello al mondo, come d’altronde ben promette il fatto che «sta per arrivare dal Giappone lagronomo responsabile dei 28.000 ettari che circordano Tokyo, vuole parlare con me, dei miei progetti, vuole capire il segreto del nostro equilibrio tra crescita e benessere». È un sindaco, quello interpretato da Neiwiller, che però vive il dramma di non riuscire a trasmettere il suo entusiasmo agli isolani, che a tanto fuoco sacro sembrano opporre un’apatia altamente ignifuga, insensibili a tante geniali idee, forse perfino un po’ terrorizzati da tanto anelito palingenetico: «eppure il materiale umano ci sarebbe», ma niente, «tante potenzialità vanno sprecate», e il poveretto deve dolorosamente prendere atto che «qua sono tutti così ostili», ma senza riuscire a farsene una ragione – «perché sono tutti così ostili?» – senza poter far altro che abbandonarsi ad uno sconsolato «che peccato!».

Cambiando quel cè da cambiare, lapologo morettiano calza come un guanto alla parabola di Mimmo Lucano. Da cambiare cè che, pur non sapendo se il sindaco di Stromboli sia poi stato rieletto, Nanni Moretti ce ne fa fortemente dubitare, mentre la narrazione che i media hanno costruito attorno allormai ex sindaco di Riace ci rende inspiegabile perché il 26 maggio sia stato così crudelmente trombato: chi ci ha illustrato la sua grande passione, le sue ottime intenzioni, le sue geniali idee, chi ha esaltato lesempio di accoglienza da lui realizzato a modello da adottare in tutta Italia e in ogni paese meta di migranti, chi è arrivato addirittura a immaginarlo come leader di un centrosinistra che aveva da espiare la tavolata di un Salvatore Buzzi e un Giuliano Poletti, l«aiutiamoli a casa loro» di un Matteo Renzi, le derive securitarie di un Marco Minniti, non ha saputo darci neanche come lontana ipotesi che alle Comunali di Riace, lo scorso 26 maggio, Mimmo Lucano avrebbe preso solo 21 voti, né oggi sa darcene spiegazione. Nemmeno tenta, in realtà, e preferisce tacere. E più di tutti tace chi di Mimmo Lucano ci ha offerto una narrazione prossima allagiografia di un santo che aveva compiuto il gran miracolo di cavare una formidabile opportunità da due enormi problemoni come lemergenza posta dallarrivo dei migranti in Italia e la drammatica crisi economica, demografica, culturale, eccetera, di tanti paesini del profondo Sud. È a quella fonte che ci eravamo precitati ad abbeverarci, ma siamo rimasti a bocca asciutta.

Parlo di Propaganda live, che di Mimmo Lucano ci ha offerto il dittico in gloria e in martirio. Sapre la puntata del 27 maggio, quella dello speciale post-elettorale, e il duetto iniziale tra Diego Bianchi e Marco Damilano nutre qualche speranza che la spiegazione venga data.
D.B.: «Si è votato, e ne dobbiamo parlare. Non vedevamo lora, no? Del resto, finché le cose vanno così, ce nè da dire, ce nè da fare. Allora cominciamo con il buon vecchio spiegone di Marco Damilano...»
M.D.: «Sì...»
D.B.: «... se ancora ne ha da spiegare...»
M.D.: «No, spiegare no... Qualcosa...»
D.B.: «No, devi spiegare, bisogna spiegare un sacco di cose. Please, on stage!»
Ok – uno si dice – da Diego Bianchi nessuna spiegazione, ma questo è comprensibile, perché da cocchiero del carrozzone satirico antigialloverde gli spetta di diritto limitarsi allarguta glossa di contorno, come da regola introdotta da Serena Dandini alla guida dei carrozzoni antiberlusconiani, e ormai diventata canone del bon ton che caramella ogni palla di letame antigovernativa. Poi Diego Bianchi è meglio non sazzardi a fare lanalista, scivolerebbe ineluttabilmente negli sdoppiamenti in cui si produceva nei video dei suoi esordi: «ce nè da dire, ce nè da fare», ma, beninteso, da topo nel formaggio. E allora porgiamo orecchio a Marco Damilano, che non rimuove, anzi, dà conto che di Stromboli ce nera più duna, e che per tutte è stata una Riace: «Pioveva... “acqua di spilli fitti / dal cielo e dai soffitti”... a Lampedusa è arrivata prima la Lega di gran lunga, con il 45%... la Lega ha conquistato il Comune di Ventimiglia... e poi ha preso il 35% a Rosarno... e anche nella Riace di Mimmo Lucano ha preso il 30%...». Ok, ma perché? Niente, è che «cè un vento che soffia in tutta Europa e poi arriva anche nei posti dove meno te lo aspetteresti... e allora ti dici “ma da dove arriva tutto questo?”... perché non lhai sentito arrivare?...».

Capisci che neanche da Marco Damilano potrà venirti una spiegazione seria: dice che a Riace il vento è arrivato da fuori, risulta assai più acuto Nanni Moretti, che non si nascondeva le ostilità degli stromboliani alle progressistissime levate di genio del loro sindaco. Ma gli sia dato modo di spiegarci il vento e la pioggia: dove nascono, come nascono? Zero, nessuna spiegazione, passiamo a consolarci con lo scoppolone preso dal M5S. Che di voti ne ha persi sei milioni. Che non sono certo defluiti tutti nel Pd. Che, anzi, a dispetto del suo 22,7%, ha perso in assoluto un bel po di voti rispetto alle Politiche dellanno scorso. Sei milioni di voti in parte andati a Salvini e in parte rifugiati nell’astensione. Per i primi, non vale la pena di darsi troppo pensiero: sottoproletariato e piccola-borghesia, roba fascistoide di suo. Per gli altri, poco male, perché è dall’astensionismo – ci assicura Wu Ming  che arriverà la rivoluzione. Tutto bene, dunque, se non sarà sereno si rasserenerà, passiamo al varietà. Ohi, gente, avreste dovuto vedere la faccia di Giggino agli exit poll e, a seguire, proiezione dopo proiezione... Prego, Makkox, vai con una delle tue, e che sia bella puntuta, così la Constanze può regalarci il suo squillante coccodè!
Ora, sia chiaro, non è che uno si aspetti da Propaganda live una seria e approfondita analisi di cosa sia l’Italia dell’Anno Domini 2019, di come la sinistra abbia sbagliato tutto nel declamare dai Parioli la bellezza di un’integrazione da promuovere però a debita distanza dai suoi viali alberati dove la differenziata e la paletta per la pupù dei cani sono undicesimo e dodicesimo comandamento, sì da poterne trarre grato compiacimento dal reportage di Zoro in terra di Calabria, in cui è evidente quanto il bonghetto del ghanese piaccia alla vecchina di Riace. Il guaio è che pure il re cui Propaganda live fa da giullare non sa darsi spiegazioni diverse da quelle di Marco Damilano: “acqua di spilli fitti / dal cielo e dai soffitti”, prima o poi passerà, da fuori è venuto il vento e fuori andrà.
Nanni Moretti? Un gigante. E perciò da tempo tace. 


Nota Mia moglie, che è la più severa critica delle mie riflessioni ad alta voce, poi riversate in pagina, dice che ultimamente sono in preda ad uno scrupolo cui andrebbe bene la definizione di «le ragioni del nemico», me lo ripete dopo aver letto questo post, ed è da qui che preferisco risponderle: se al posto di ragione ci va ratio, accetto la critica, il «nemico» va innanzitutto capito, non lo si può liquidare come incarnazione del Male o come parentesi regressiva in un ineluttabile cammino verso un radioso avvenire.