Non riesco a godermi niente troppo a lungo, sarà quel cazzo di Mercurio in Gemelli che mi rende volubile, sempre in cerca di nuovi stimoli. La scorsa settimana, per esempio, non mi sono perso una sola mancata messa in onda di Qui Radio Londra: alle otto e mezzo in punto ero su Raiuno per la fine del tg, il blocco pubblicitario e l’inizio di Affari tuoi. Molto bello, devo dire. Eccitante, se vogliamo. Già venerdì, però, ho sentito che la tensione calava. Ho insistito lunedì, martedì mi è scappato uno sbadiglio, ieri non sono riuscito ad arrivare alla sigla di testa di Affari tuoi: Giuliano Ferrara mi annoiava anche da assente.
giovedì 4 ottobre 2012
Non mi quadra
«Nel
decreto di sequestro della procura di Roma sui beni di Franco Fiorito, è stato
disposto che le tre auto, la Jeep, il Bmw e la Smart, siano affidate alla
Guardia di Finanza per attività di polizia giudiziaria. Mentre il denaro dei
conti correnti italiani sarà trasferito al Fondo Unico per la Giustizia»
(ansa.it, 4.10.2012). Sarò tonto, ma non mi quadra.
Il
denaro che Franco Fiorito ha sottratto dalla cassa del gruppo consiliare del
Pdl della Regione Lazio, a chi apparteneva? Insomma, ha rubato allo Stato o al
Pdl? Se non erro, si trattava di fondi che venivano erogati al suo partito in
base ad una legge dello Stato, nella misura stabilita da un decreto della
Giunta regionale approvato a maggioranza. Allora ripeto: ha rubato allo Stato o
al Pdl? Perché il decreto di sequestro dispone che il maltolto torni alle casse
dello Stato invece che a quelle del Pdl? Forse neppure così ho reso l’idea,
provo a spiegarmi meglio.
Vi fa differenza se la banconota che vi sfilo dalla tasca con destrezza io la spendo in ostriche e champagne o per l’acquisto del biglietto aereo che mi porterà in una capitale europea dove si tiene un meeting internazionale contro la tortura? Se il denaro che vi ho costretto a darmi puntandovi un coltello alla gola lo do a una puttana per un pompino o a un mendicante cieco perché suona da dio il suo violino, vi fa differenza? Vedo cadervi dalla giacca il portafogli, non vi avverto, lo raccolgo e lo svuoto: vi fa differenza se spendo quanto vi era contenuto per l’acquisto di due lussuose cravatte o se lo do a un prete perché celebri una messa cantata in suffragio de li mejo mortacci mia? A me no, non farebbe alcuna differenza, ma devo essere un’eccezione, perché, su quanto va emergendo riguardo ai fondi che la Regione Lazio erogava ai gruppi di tutti partiti politici rappresentati in seno al Consiglio Regionale, senza eccezioni, rilevo tanta indignazione sul modo in cui stato speso il maltolto, ma ne rilevo assai poca sul fatto che quello fosse denaro pubblico.
Non voglio trascurare il fatto che in un moto d’animo come l’indignazione l’elemento morale sia inevitabilmente destinato a giocare un ruolo primario, ma questo non riesce comunque a darmi piena spiegazione del perché a chi gira la tangente al proprio partito o drena una fetta dell’erario alla propria chiesa, almeno in Italia, sia concessa l’attenuante che di solito si nega a chi commetta lo stesso sopruso ma a esclusivamente a proprio beneficio.
Ci eravamo espressi in stragrande maggioranza contro il finanziamento pubblico della politica, ma siamo ancora disposti a chiudere un occhio se quello che ci viene tolto contro la nostra volontà va alla politica, ci incazziamo a morte solo se apprendiamo che un politico se l’è messo in tasca: ci sentiamo anticlericali solo per la parte che se ne va in camauri foderati in ermellino, mentre quella spesa in due minestrine alla mensa dei poveri non ci sembra più refurtiva. Finanziare un partito di tasca nostra? Mettere mano alla borsa per sfamare un indigente? Sì, probabilmente lo faremmo e ma se ci è tolta la libertà di farlo o di non farlo, pazienza, il furto si sopporta meglio.
Vi fa differenza se la banconota che vi sfilo dalla tasca con destrezza io la spendo in ostriche e champagne o per l’acquisto del biglietto aereo che mi porterà in una capitale europea dove si tiene un meeting internazionale contro la tortura? Se il denaro che vi ho costretto a darmi puntandovi un coltello alla gola lo do a una puttana per un pompino o a un mendicante cieco perché suona da dio il suo violino, vi fa differenza? Vedo cadervi dalla giacca il portafogli, non vi avverto, lo raccolgo e lo svuoto: vi fa differenza se spendo quanto vi era contenuto per l’acquisto di due lussuose cravatte o se lo do a un prete perché celebri una messa cantata in suffragio de li mejo mortacci mia? A me no, non farebbe alcuna differenza, ma devo essere un’eccezione, perché, su quanto va emergendo riguardo ai fondi che la Regione Lazio erogava ai gruppi di tutti partiti politici rappresentati in seno al Consiglio Regionale, senza eccezioni, rilevo tanta indignazione sul modo in cui stato speso il maltolto, ma ne rilevo assai poca sul fatto che quello fosse denaro pubblico.
Non voglio trascurare il fatto che in un moto d’animo come l’indignazione l’elemento morale sia inevitabilmente destinato a giocare un ruolo primario, ma questo non riesce comunque a darmi piena spiegazione del perché a chi gira la tangente al proprio partito o drena una fetta dell’erario alla propria chiesa, almeno in Italia, sia concessa l’attenuante che di solito si nega a chi commetta lo stesso sopruso ma a esclusivamente a proprio beneficio.
Ci eravamo espressi in stragrande maggioranza contro il finanziamento pubblico della politica, ma siamo ancora disposti a chiudere un occhio se quello che ci viene tolto contro la nostra volontà va alla politica, ci incazziamo a morte solo se apprendiamo che un politico se l’è messo in tasca: ci sentiamo anticlericali solo per la parte che se ne va in camauri foderati in ermellino, mentre quella spesa in due minestrine alla mensa dei poveri non ci sembra più refurtiva. Finanziare un partito di tasca nostra? Mettere mano alla borsa per sfamare un indigente? Sì, probabilmente lo faremmo e ma se ci è tolta la libertà di farlo o di non farlo, pazienza, il furto si sopporta meglio.
mercoledì 3 ottobre 2012
lunedì 1 ottobre 2012
Lana e latte
Il decreto emanato la scorsa settimana dalla Conferenza episcopale tedesca poteva destare sorpresa solo in chi ignorasse che in Germania non è mai venuto meno l’obbligo di decima che per oltre un millennio il laico ha dovuto versare al chierico: i vescovi tedeschi non hanno fatto altro che mettere meno su bianco una regola da tempo scolorita in usanza, tuttavia messa in discussione solo da chi ai tempi della Riforma da cattolico diventava protestante. Qui da noi l’obbligo di decima è venuto meno nel 1887, sarà per questo che in Italia i commenti alla notizia sono stati più scandalizzati che in Germania. La cosa più strana, però, è che nessun vaticanista ha spiegato cosa sia davvero la Kirchensteuer che prima del 20 settembre era usanza ed ora è regola: ho letto due o tre dozzine di articoli sull’argomento, ma non ho trovato un solo cenno alla decima, che ne è la sostanza.
Non vi annoierò col trattatello di storia, vi rimando alla pagina che mi pare sintetizzi meglio i termini della questione così come s’è venuta a delineare nel corso dei secoli. Vorrei però richiamare l’attenzione su ciò che spiega perché una tassa di franca impronta feudale sia riuscita a residuare proprio in Germania. Le due gambe con le quali la Riforma mosse i suoi primi passi furono la Bibbia in volgare e il rifiuto dell’autorità romana nelle sue emanazioni ecclesiastiche coincidenti e spesso sovrapposte a quelle civili: un cristiano che intendesse rimanere cattolico in una terra in cui il protestantesimo diventava confessione maggioritaria non aveva altro modo per ribadire la propria fedeltà a Roma che nel continuare ad accostarsi ai testi sacri adeguatamente interpretati da un chierico al quale versare quella tassa che fin dal XII secolo a. C. (Lv 27, 30-32) era stata fissata per la mediazione tra cielo e terra. Già sei o sette secoli dopo abbiamo prova che tra gli ebrei più di un furbetto la evadesse: promettendo «benedizioni sovrabbondanti» se il tributo fosse regolarmente versato, minacciando di mandare «insetti divoratori» a distruggere i raccolti se non fosse fatto, il Signore ingiungeva: «Portate le decime intere nel tesoro del tempio perché ci sia cibo nella mia casa» (Ml 3, 10). Il problema di sempre: i sacerdoti devono pregare, non hanno tempo per lavorare, qualcuno deve pur pensare a riempir loro la pancia. Siamo al nocciolo del problema: se tra cielo e terra c’è bisogno di un ponte, c’è bisogno anche di un pontifex e del pagamento di un pedaggio.
Nel IV tomo della sua Istoria del Concilio di Trento, il cardinale Pietro Sforza Pallavicini registrava quanto la Conferenza episcopale tedesca avrebbe ribadito alcuni secoli dopo, niente di più: «Le decime si paghino interamente alle chiese alle quali toccano. Chi le sottrarrà o le impedirà, si scomunichi».
In Germania non s’è consumato alcuno scandalo, si è solo riaffermato che il gregge deve al pastore quanto è necessario in lana e in latte. Magari si facesse la stessa chiarezza nei paesi di tradizione cattolica come il nostro: alla Chiesa di Roma andrebbe dal 3 all’8 per cento del reddito netto di ogni cattolico intenzionato a restar tale, per tutti gli altri verrebbe meno l’obbligo che di fatto, invece, pesa su tutti.
La Prestigiacomo lascia il Pdl: «Sono disgustata»
Come disse quella che facendo la doccia dopo il bukkake trovò un pelo di cazzo sulla saponetta.
venerdì 28 settembre 2012
Una vita fa
Sarà che andarono vendute solo 48 copie, questa
l’avevo completamente rimossa. Trovato il ritaglio de Il Mattino tra le pagine di un libro, mi sono messo alla ricerca del cofanetto. Ahimè, l’ho trovato.
giovedì 27 settembre 2012
[...]
Certe volte, mentre leggo, mi prudono le mani, mi vien voglia di impugnare un nodoso randello. Dura il tempo che la pagina scorra via, poi tutto torna a posto. Talvolta, tuttavia, rileggo, rileggo e rileggo, e sogno ad occhi aperti: ho lì davanti chi ha scritto quella pagina, e mi gratto.
Il reato c’è
Il reato c’è, la sentenza definitiva pure, il condannato è recidivo, dunque non capisco perché ad Alessandro Sallusti dovrebbe essere risparmiato il carcere e penso che il suo vittimismo sia fuori luogo. Quello che però mi dà davvero fastidio è la solidarietà di tutti o quasi, anche di chi solitamente manderebbe in galera chiunque sia raggiunto anche solo da un avviso di garanzia. Sarà che siamo in Italia, il paese dove di giorno ci si sgozza e la sera si va tutti a cena insieme, e Alessandro Sallusti è della tavolata.
In carcere abbiamo decine di migliaia di imputati in attesa di giudizio, decine di migliaia di ragazzi pizzicati con una decina di grammi di hashish in tasca, decine di migliaia di poveracci arrivati in Italia su barconi sfondati, e pare debbano rimanerci, ma Alessandro Sallusti non può andarci. Ha diffamato, non ha mai rettificato, non ha soddisfatto la parte lesa prima della sentenza, rifiuta l’affidamento ai servizi sociali come alternativa al carcere, aspetta la grazia dal Quirinale, ma a chiederla non ci pensa nemmeno: sa che in galera non può andarci e quasi certamente non ci andrà.
martedì 25 settembre 2012
Camillo Ruini, Intervista su Dio, Mondadori 2012
«Eminenza, visto il ruolo che lei ha avuto nella Chiesa italiana, e data la maggiore libertà di cui ora gode, molti si aspetterebbero un libro di memorie o sull’attualità ecclesiale o su temi pastorali. Lei invece parla di teologia e parla nello specifico di Dio. Perché?».
Intervista su Dio (Mondadori, 2012) apre con una domanda che il lettore non smetterà di ripetersi fino a pag. 277, dove il cardinal Camillo Ruini finalmente spiega: «Il libro è scritto per aiutare chi crede ad avere una consapevolezza più esplicita delle ragioni della propria fede […] È scritto inoltre per chi vorrebbe credere, ma è incerto e perplesso […] Non mi illudo che un libro di questo genere possa far cambiare la scelta di chi ha deciso di non credere, o comunque preferisce non pronunciarsi riguardo a Dio».
Era meglio dirlo subito, così il giudizio non sarebbe stato troppo severo: sembrava avesse l’ambizione di rimettere filosofia e scienza sotto le natiche della teologia, questo libro, e invece si tratta solo di un vademecum ad uso del bravo propagandista. Sua Eminenza deve essersi ispirato a quelle dispense che il Pci distribuiva ai suoi attivisti sul finire degli anni Cinquanta, in particolar modo a Il materialismo dialettico in 100 domande, prezioso manualetto che l’attivista modello mandava a memoria per sentirsi forte nei battibecchi da osteria.
Si possono scusare le tirate da bignamino di filosofia a Sua Eminenza, si può chiudere un occhio sulle sue grossolane semplificazioni di Kant, Hegel, Heidegger e Wittgenstein, sulle sciocchezze che desume dagli assunti della meccanica quantistica, su ciò che rinfaccia all’illuminismo addomesticando le tesi di Horkheimer e Adorno (che peraltro non cita) alla critica del secolarismo del suo Lonergan: non è un libro, è un prontuario.
domenica 23 settembre 2012
L’anniversario a cifra tonda
L’anniversario,
soprattutto l’anniversario a cifra tonda, è il momento meno indicato per
discutere proficuamente di un evento, di cosa veramente sia stato, di cosa
possa avere ambiguamente significato: il rito della celebrazione spinge le
analisi di comodo a cercare l’ufficializzazione senza farsi scrupoli nel metodo
e nel merito, e la sequenza delle revisioni, che è la sostanza stessa della
storiografia, si cristallizza. Potremmo dire che gli anniversari sono un
ostacolo all’analisi storiografica.
Col
Concilio Vaticano II è già accaduto nel gennaio del 2005, per il 40° della sua chiusura,
e non c’è dubbio che accadrà tra qualche settimana, in ottobre, per il 50°
della sua apertura: anche stavolta, come allora, si confronteranno senza esito
proficuo le analisi di comodo che non hanno mai smesso di contendersi
polemicamente il titolo di retta ermeneutica dell’evento.
C’è a
chi torna comodo, infatti, che il Concilio Vaticano II abbia rappresentato un
momento di rottura: è quanto sostengono – con opposto giudizio in merito,
ovviamente – i cattolici «tradizionalisti» e quelli «progressisti». Poi c’è a
chi torna comodo che il Concilio Vaticano II non volesse rompere niente, né lo
potesse, né l’abbia fatto: è quanto sostengono – con giudizio pressoché unanime
– le alte gerarchie ecclesiastiche e i cattolici che negano la legittimità di
categorie come «tradizionalismo» e «progressismo».
Posizioni
inconciliabili, ovviamente, ma ve n’è una terza che potrebbe metterli d’accordo,
se non fosse che è scomoda per questi e per quelli. È la tesi che abbozzai nel
paginone che il 19 gennaio 2005 fu pubblicato su L’Indipendente di Giordano
Bruno Guerri (lo allego in appendice): il Concilio Vaticano II fu frainteso da
tutti, dagli stessi padri conciliari; quando i segni del
fraintendimento furono evidenti, e non ci volle molto, si capì che era stato possibile per le ambiguità
disseminate nei documenti conciliari; la rottura stava nel volerli prendere
alla lettera, la continuità stava nell’ammettere che tutto si era consumato nell’infelice
tentativo di sincretizzare «tradizionalismo» e «progressismo».
Di questo infelice tentativo si è molto parlato su queste pagine, negli anni passati. Tutte le volte che l’incarnazione dell’ossimoro «cattolico-liberale» apriva bocca per calare nel dibattito politico la carta del Concilio Vaticano II come espressione di un rinnovamento ecclesiastico che rendeva possibile, anzi auspicabile, la concordia tra credenti e non credenti – ed era incarnazione ubiquitaria:
il «cattolico-liberale» è dappertutto, a destra, a sinistra, lo si trova pure tra i radicali –
per dimostrare che quella carta era truccata ho più volte usato argomenti che poi, nel 2009, ho trovato coincidenti nel Iota unum di Romano Amerio. Così mi sono fatto convinto che il cattolico «tradizionalista» è intellettualmente più onesto di quello «progressista». Che il cattolico «progressista» –
il cattolico che si ostina nel fraintendimento del Concilio Vaticano II
col suo credere (ancor più, col suo voler far credere) che cattolicesimo e democrazia siano compatibili
–
è il maggior responsabile del degrado culturale e civile dell’Italia.
Non è stato sempre così. Una pagina delle quattordici che aprivano il numero de il Mulino l’indomani della chiusura del Concilio Vaticano II (XIV/12 - pag. 1109) era onesta.
Poi, non ho capito ancora quando, il
«cattolico-liberale» ha capito che sul fraintendimento del Concilio Vaticano II poteva costruire una posizione da spendere. Male, a guardare i risultati.
Appendice
Il Concilio
Vaticano I (1869-1870) si tenne tre secoli dopo il Concilio di Trento. Sancì il
dogma della infallibilità pontificia e, in forma d’anatema, emise la condanna
del materialismo e del razionalismo. Il secolo capì? Macché. A Fatima (1917)
s’era detto: «Se non smetteranno di offendere Dio [...] comincerà una guerra
ancora peggiore. Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia
al mio Cuore Immacolato [...]. Se accetteranno le mie richieste, la Russia si
convertirà e avranno pace, altrimenti spargerà i suoi errori per il mondo,
promovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. (...) Il Santo Padre mi consacrerà
la Russia, che si convertirà. E sarà concesso al mondo un periodo di pace». Vennero
Lenin e Stalin, invece.
Perché,
in piena Guerra Fredda, fu deciso il Vaticano II? Il mondo fraintese, pensò a
un’offerta d’armistizio: prese in mano l’enciclica Pacem in Terris, lesse il
sottotitolo (Sulla pace fra tutte le genti nella verità, nella giustizia,
nell’amore, nella libertà) e fraintese. Pace, giustizia: erano parole d’ordine
scandite anche dalla Pravda. Amore, libertà: se ne parlava anche nei campus di
Berkeley. Quel lessico, poi: diritti, poteri pubblici, partecipazione,
solidarietà, sussidiarietà...
Fu l’enciclica più letta e più fraintesa, la
Pacem in Terris. Qualche fesso vi vide addirittura socialismo, colse distorta
l’eco della «condizione eguale» di san Paolo, dell’«apparente ineguaglianza» di
san Basilio. L’immagine bonaria del papa contadino produsse un effetto prismatico:
di qua questo «papa buono», che pure non rinunciava a farsi portare a spalla
dai suoi dignitari in alta uniforme, com’era stato sempre; di là questa Chiesa,
intenzionata a non perdere il treno della Storia – parve, e male
–
eppure così
saldamente ancorata ad una Verità immobile. L’enciclica parlava di un Cristo
piantato nelle cose: ma alle cose, poi, si concedeva movimento? Leggiamo.
«La pace
in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire
instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio»
(Introduzione, 1). «Sennonché il Creatore ha scolpito l’ordine anche nell’essere
degli uomini: ordine che la coscienza rivela e ingiunge perentoriamente di
seguire» (ibidem, 3). «La convivenza umana, venerabili fratelli e diletti
figli, deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale» (I, 19).
«L’ordine morale – universale, assoluto ed immutabile nei suoi principi – trova
il suo oggettivo fondamento nel vero Dio, trascendente e personale» (I, 20). «L’autorità
umana [...] può obbligare moralmente soltanto se è in rapporto intrinseco con
l’autorità di Dio, ed è una partecipazione di essa» (II, 29).
Nulla, davvero
nulla che si spostasse di una sola spanna da quanto scritto cent’anni prima da
Leone XIII. Ma, senza nulla togliere all’inflessibilità del Magistero, si attenuavano
le passate posizioni d’intransigenza, fino a offrire una sovrana ragione di
fraintendimento: peccato e peccatore erano distinti, e con ciò s’introduceva il
principio del confronto con le false teorie: «Non si possono [...] identificare
false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e
dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e
politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e
da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. […] Inoltre chi può negare
che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta
ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi
siano elementi positivi e meritevoli di approvazione? Pertanto, può verificarsi
che un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non
opportuno o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa divenire domani.
Decidere se tale momento è arrivato, come pure stabilire i modi e i gradi
dell’eventuale consonanza di attività al raggiungimento di scopi economici, sociali,
culturali, politici, onesti e utili al vero bene della comunità, sono problemi
che si possono risolvere soltanto con la virtù della prudenza» (V, 84-85).
Tatticismo: gli uomini di buona volontà sono dove meno te li immagineresti,
l’ateo è un uomo in attesa della fede, prima o poi si convertirà, a Dio la via.
Il seme del fraintendimento era piantato. E subito se ne avvidero, perché i
segnali preoccupanti non tardarono, coloro che a Roma si resero fautori della «restaurazione»
tuttora in atto, con Paolo VI gemmante e con Giovanni Paolo II a pieno regime.
Il nodo fu stretto attorno al Sinodo straordinario del 1985 che si proponeva di
«celebrare, verificare, promuovere il concilio Vaticano II». «Promuovere» e «celebrare»
si può capire, ma «verificare»? Come può un Sinodo «verificare» un Concilio? È un
paradosso, e il paradosso contiene il richiamo a quanti hanno frainteso il
Vaticano II: «Il concilio deve essere interpretato nella sua continuità con la
grande tradizione della Chiesa», perché «la Chiesa è lei stessa in tutti i
concili» (Sinodo dei Vescovi, 1985).
Nel solco tridentino tutta la produzione
pontificia tende a ribadire una genealogia, un’ontologia ed una fenomenologia
del Male, dalle quali il Vaticano II pare allontanarsi, per esservi ricondotto
dal Sinodo dei Vescovi del 1985. Già Paolo VI aveva detto: «Credevamo che dopo
il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È
venuta invece una giornata di nuvole e di tempeste, e di buio, e di ricerche e
di incertezze, si fa fatica a dare la gioia della comunione» (Omelia,
29/6/1972). Ora comincia a parer chiaro a molti che la crisi che ha colpito il
cristianesimo europeo non è più principalmente o solo una crisi ecclesiale. La
crisi è più profonda: è divenuta la crisi di Dio, della Rivelazione. Se la
lezione del Vaticano II intende distinguere tra ateo e ateismo, «l’ateismo di
oggi può in realtà già di nuovo riprendere a parlare di Dio distrattamente o
tranquillamente - senza intenderlo veramente. Anche la Chiesa ha una sua concezione
della immunizzazione contro le crisi di Dio» (J.B. Metz).
È tempo di suonare la
carica, dunque. E con la solita spietata chiarezza il cardinale Joseph Ratzinger
dà a ogni cosa il suo nome: «Il Vaticano II voleva chiaramente inserire e
subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, voleva proporre
un’ecclesiologia nel senso propriamente teo-logico, ma la recezione del
Concilio ha finora trascurato questa caratteristica qualificante in favore di
singole affermazioni ecclesiologiche, si è gettata su singole parole di facile
richiamo e così è restata indietro rispetto alle grandi prospettive dei padri
conciliari». È necessario restituire a Dio la dimensione che lo inscrive nella
dimensione di Mistero, riportando il credente nella posizione di appartenente
alla comunità ecclesiale, figlio obbediente. La Chiesa riprende centralità
(Lumen Gentium) nel suo essere comunione, non community, corpo del Cristo
vivente. E don Luigi Giussani mette il sigillo: «Si apre per noi un nuovo inizio:
dimostrare, ridimostrare l’evidenza della verità di quello che seguendo la
Tradizione della Chiesa ci siamo sempre detti».
Potrà il successore di Giovanni
Paolo II fare altrimenti? No, anche volendo. Questi 40 anni dal concilio
Vaticano II sono stati la storia di questo no. Papa Luciani stava offrendo il
fianco della Chiesa a un altro fraintendimento, il «Dio mamma», e la
Provvidenza provvide. Non saranno tollerate altre distrazioni, siamo alla resa
dei conti. O la Chiesa ne esce trionfante o perisce.
sabato 22 settembre 2012
[...]
L’anno scorso baciò la teca contenente il sangue di San Gennaro, quest’anno no. La teca era la stessa, il sangue pure, e stessa chiesa, stesso cardinale, solo Luigi De Magistris era diverso: l’anno scorso devoto al Santo, quest’anno no. Oppure: l’anno scorso rispettoso della tradizione, quest’anno no. O forse: ipocrita l’anno scorso, quest’anno no. O ancora: avrà deciso di baciare un anno sì e un anno no, accontentando questi e quelli con la geniale trovata del bacio ad anni alterni.
venerdì 21 settembre 2012
"L'ipocrita pensa che nessuna verità sia davvero innocente"
Chissà da quanto tempo avete un blog, ma rammentate l’emozione che
vi diede il primo commento a un vostro post? Vi precipitaste a rispondere o l’emozione vi paralizzò?
[...]
Una vignetta di Vincino (Il Foglio, 20.9.2012) è finora sfuggita all’attenzione
di quanti lamentano la viltà delle offese arrecate alla sensibilità dei
cristiani e sfidano i blasfemi ad offendere quella dei musulmani.
[...]
Il frammento di papiro che la dottoressa Karen King ha presentato al X Congresso Internazionale di Studi Copti (Roma, 17-22 settembre 2012) mi torna utile nel rispondere a quel tale che due settimane fa mi ha scritto per dirsi stupito del fatto che «neanche mi pongo il problema se Cristo sia davvero esistito o sia solo un mito» (Frammenti di un necrologio – Malvino, 4.9.2012).
Qui siamo dinanzi al brandello di un testo che risalirebbe al IV secolo, quasi certamente d’ispirazione gnostica, nel quale, com’è per il vangelo apocrifo di Filippo, si fa esplicito riferimento ad una moglie di Gesù. Dimostrerebbe che Gesù era sposato? Niente affatto. Dimostra che, nel corso della mitopoiesi del Gesù canonico, alcuni elementi si sono rivelati inadatti allo scopo che il mito doveva servire, e sono stati scartati, mentre quelli che potevano tornare utili, e si sono rivelati adatti, hanno avuto miglior destino.
Qui sta scritto: «E Gesù disse: “Mia moglie…”», ma è una moglie destinata ad analogo destino dei suoi fratelli, quando vince il modello dell’unigenito. Stessa sorte di parthènos, che da ragazza diventa vergine, quando torna utile che Maria sia madre di Dio.
Discorso a parte merita la genuinità del frammento, che sul retro reca solo caratteri molto sbiaditi, pressoché illegibili. Simonidis o Artemidoro?
giovedì 20 settembre 2012
[...]
«Muslims must learn that if they make belligerent and fanatical claims upon the tolerance of free societies, they will meet the limits of that tolerance»
Cadfael
Arrivo a Cadfael da sentiero tortuoso. Nei giorni scorsi m’imbatto nell’ennesimo strafalcione grammaticale di uno che si reputa un novatore della lingua italiana, e che stavolta ha messo per titolo a un suo post Essere sempre stupidi, diventa noioso (soggetto-virgola-verbo), roba che ai miei tempi stavi dietro la lavagna, faccia al muro, per tre anni. Oggi è trendy, o forse è un trabocchetto per incastrare un nazigrammar.
Meglio lasciar perdere, meglio trarne spunto per riflettere su un argomento poco dibattuto anche se di notevole importanza, almeno a mio parere: la scelta del titolo a un post. Ci sarebbe da scriverne per pagine e pagine. La cosa rimanda, più in generale, alla scelta del titolo per un qualsiasi altro componimento e questo mi porta alle Postille a Il nome della rosa di Umberto Eco. Doveva avere un altro titolo, all’inizio: I misteri dell’abbazia. D’un passo, così, sono a Cadfael, una serie tv che ha proprio I misteri dell’abbazia per sottotitolo e che attualmente è in programmazione su Tv2000 (già Sat2000), la tv del Papa. Ieri sera andava in onda una puntata alle 21.20, sono andato a curiosare.
Arrivo nel bel mezzo d’una scena madre. Un tizio abbigliato da crociato racconta a un sempronio abbigliato da priore benedettino la sua triste infanzia. In breve, come in una telenovela brasileira, s’intuisce che il babbo, mai conosciuto, è – mi scuso del bisticcio – proprio il priore.
Stacco brutale, spot che annuncia un ciclo de L’ispettore Derrick, che sappiamo essere sempre stato (insieme a Il commissario Rex) nelle grazie di Benedetto XVI fin da quando era cardinale. Figlio di sbirro, comprensibile. L’immaginazione mi correva al suo vecchio appartamentuccio nel Rione Pio IX: il faldone recante la scritta Leonardo Boff sulla scrivania, il gatto addormentato su uno spartito di Mozart e lui in poltrona, alla fine di una dura giornata d’Inquisizione, a guardare Horst Tappert e Fritz Wepper che incastrano l’assassino. Ah, i vantaggi d’essere Papa: invece di comprarti i dvd di Derrick, metti Dino Boffo alla direzione della tua tv e quello ti fa un palinsesto con la cura che un sarto mette nel cucirti il cavallo.
Si torna in abbazia, la stanza del cardinale svapora. Una telenovela, è proprio una telenovela. D’un tratto, serio serio, padre Cadfael fa: «Voi – pausa – siete un bravo giovane». Vorrà mica dire che in quella pausa ci va una virgola?
Metti Maometto...
Capita sempre più spesso che l’attualità riproponga questioni che ho già affrontato in altre occasioni – ed è il caso delle violenze che hanno fatto seguito alla diffusione del trailer di The Innocence of Muslims riaprendo la discussione sulla libertà di espressione, soprattutto sui suoi limiti – e questo mi procura un certo imbarazzo. Appuntare l’attenzione sulla specificità del caso eludendo la questione di fondo? Riciclare il già detto? Rimandare con un link al post in cui ritengo di aver spiegato meglio la mia posizione al riguardo? Soluzioni zoppe, sicché sempre più spesso preferisco «bucare la notizia». Senza scrupoli, devo dire, perché stare dietro all’attualità è un’ansia che mi ha abbandonato da tempo. Talvolta, quando mi prende nostalgia di quell’ansia, risolvo con una citazione, una foto, un video, e affido al titolo un commento laconico, che non di rado sono costretto a constatare troppo ambiguo, almeno stando a quanto mi ritorna dalle reazioni dei lettori.
Con la parodia del Profeta che ha sollevato tanto tumulto da parte dei musulmani più zelanti volevo proprio incorrere in questo genere di infortunio e stavo costruendo un rebus parecchio blasfemo (M etti Mao M etto…), tanto per ribadire che la permalosità di un credente non fa argomento circa il rispetto che egli pretende sia dovuto al suo Dio da chi lo ritiene un aborto psichico. L’ho lasciato perdere dopo aver letto un post di Leonardo. Non già perché convinto dalle sue ragioni, anzi. Insomma, sono costretto a ripetermi, a riciclare il già detto. Ed eccomi qui.
Con la parodia del Profeta che ha sollevato tanto tumulto da parte dei musulmani più zelanti volevo proprio incorrere in questo genere di infortunio e stavo costruendo un rebus parecchio blasfemo (M etti Mao M etto…), tanto per ribadire che la permalosità di un credente non fa argomento circa il rispetto che egli pretende sia dovuto al suo Dio da chi lo ritiene un aborto psichico. L’ho lasciato perdere dopo aver letto un post di Leonardo. Non già perché convinto dalle sue ragioni, anzi. Insomma, sono costretto a ripetermi, a riciclare il già detto. Ed eccomi qui.
Sforzandomi di non banalizzarle, sintetizzerei le ragioni di Leonardo in questo modo: sbeffeggiare Maometto non mina la fede dei musulmani, anzi la rafforza, ed è causa di una violenza che fa più vittime tra i musulmani che tra i non credenti. Ad una occhiata superficiale, regge. Poi basta porsi qualche domanda e l’argomento implode. La satira religiosa, per esempio, ha per fine il minare la fede altrui? La satira religiosa può ragionevolmente essere considerata causa della violenza in questo caso e in quelli analoghi? Se a Bengasi sono morti più musulmani che addetti all’ambasciata degli Stati Uniti, si è errato un calcolo? E questo calcolo – il calcolo che legittima o meno la satira – deve tener conto delle possibili vittime della possibile violenza, oltre che mirare a prevederne i numeri che cadono in questo o quel campo?
Delle feroci pene alle quali sono stati sottoposti per secoli i blasfemi nell’occidente cosiddetto giudaico-cristiano residua solo il paternalistico «scherza coi fanti ma lascia stare i santi», pallida ombra lunga della lapidazione prescritta dal Levitico. Suona come formula di convenienza, dove ciò che conviene è il risparmiarsi noie. Non troppo lontano sta Leonardo: lascia stare Maometto, sennò procuri danni innanzitutto ai maomettani. Dietro questo tipo di calcolo mi sembra di intravvedere una visione pedagogica della satira: gli umoristi dovrebbero essere la quinta colonna di un partito progressista transnazionale. Spiace dirlo, non si può pretendere.
Delle feroci pene alle quali sono stati sottoposti per secoli i blasfemi nell’occidente cosiddetto giudaico-cristiano residua solo il paternalistico «scherza coi fanti ma lascia stare i santi», pallida ombra lunga della lapidazione prescritta dal Levitico. Suona come formula di convenienza, dove ciò che conviene è il risparmiarsi noie. Non troppo lontano sta Leonardo: lascia stare Maometto, sennò procuri danni innanzitutto ai maomettani. Dietro questo tipo di calcolo mi sembra di intravvedere una visione pedagogica della satira: gli umoristi dovrebbero essere la quinta colonna di un partito progressista transnazionale. Spiace dirlo, non si può pretendere.
venerdì 14 settembre 2012
Agli antipodi
Riporto uno scambio di battute che ho letto qualche giorno fa sulla pagina di un social network, così mi risparmio e vi risparmio una premessa che sarebbe stata lunga e noiosa.
Uno diceva: «Questo governo, che in teoria è composto da persone che non aspirano a future elezioni e in pratica non ha temuto di mettersi contro sindacati, professionisti, Confindustria e disoccupati, è pronto a fare un ricorso internazionale su una legge non sua, solo perché glielo chiedono rappresentanti di una piccola monarchia assoluta, per di più in preda a complicate e devastanti lotte interne. Non ha alcun senso».
Senza averne colto l’ironia, un altro rispondeva: «Il rettore dell’Università Cattolica ai Beni Culturali, un docente della stessa Università ai Rapporti col Parlamento, il presidente di un movimento ecclesiale alla Salute, il leader di un movimento ecclesiale alla Cooperazione, un relatore al Convegno di Todi allo Sviluppo, alla Giustizia l’ex avvocato dello Ior. Detta tra noi, il ricorso ha perfettamente senso».
Pur se in ellissi, mi pare qui sia colto il dato in comune – se ve n’è solo uno – tra il governo Monti e tutti quelli precedenti: gli interessi della Cei sono intoccabili, sempre, comunque. Sull’Imu s’era voluto vedere un momento di rottura col passato, ma i fatti si sono incaricati di dimostrare che si trattava di chiacchiere: fanno fatica a diventare operative le annunciate riduzioni degli sgravi fiscali di cui il clero ha sempre goduto e, quando lo saranno sulla carta, rimarranno sempre ampi i margini per continuare a goderne, mentre tutti gli altri privilegi rimangono.
Tra questi quell’enorme flusso di denaro che dalle casse dello Stato finisce ogni anno nella ragnatela delle scuole private cattoliche. Il loro numero va diminuendo (sono 7.000, la metà rispetto a 25 anni fa), ma il denaro che ricevono aumenta (manca poco, tutto compreso, per toccare gli 850 milioni di euro). Con una Costituzione che ne garantisce l’esistenza, ma specificando a chiare lettere che non debbano comportare oneri per lo Stato, assistiamo da due decenni al drenaggio delle risorse pubbliche dalla scuola di tutti alla scuola dei preti, rassegnati al fatto che così debba essere.
Due giorni fa, su L’Osservatore Romano, notizia di come si affronta la questione agli antipodi: «Il Governo dello Stato del New South Wales, in Australia, ha in programma di tagliare milioni di dollari alle scuole cattoliche. Una decisione che è stata definita come una minaccia senza precedenti a un intero sistema educativo. Senza alcuna consultazione, i tagli previsti dal Governo comporteranno un duro colpo per i genitori, molti dei quali dipendono da queste scuole a basso costo».
Superfluo dire che definirla la «minaccia» è il direttore dell’Ufficio per l’istruzione cattolica dell’arcidiocesi di Sydney, che per «intero sistema educativo» non deve intendersi la scuola australiana ma la rete di scuole private in mano ai preti in Australia, che il «basso costo» di queste scuole è la somma della retta pagata dai genitori cui si aggiunge il finanziamento pubblico. Scuole pagate due volte, per erogare un servizio che organismi internazionali giudicano di qualità inferiore a quello assicurato dalla scuola pubblica, ormai da anni.
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