Trovatemi
uno cui non piaccia la musica. Non importa se fanciullo o vegliardo,
facoltoso o indigente, colto o zotico, non importa se bianco, nero o
giallo, e neppure se maschio, femmina o altro: a chiunque chiederete
«ti piace la musica?», la risposta sarà immancabilmente un
«sì», cui spesso seguirà qualcosa del tipo «certo»,
«è ovvio», «e a chi non piace?», eventualmente
«che cazzo di domanda è?».
Si
obietterà che un’eccezione c’è: in Afghanistan, nel 1996,
insieme a pittura, scultura, danza, cinema e tv, i talebani non
proibirono anche la musica? E questo non è accaduto anche a Mosul,
con gli uomini dell’Isis? Per la Sunna la musica crea una
sorta di ottundimento dei sensi e corrompe le menti, dunque – sarà
l’obiezione – qualcuno c’è a cui la musica non piace.
Eccezione apparente, perché i talebani hanno sempre ritenuto
indispensabile salmodiare il Corano con quella particolare
modulazione vocale, il taghanni, che in sostanza è canto, e
dunque musica. In quanto all’Isis, ha mai diffuso un solo video di
propaganda che a corredo non avesse una colonna sonora?
È
evidente, quindi, che la musica piaccia anche a chi sostiene che
andrebbe proibita, e la contraddizione si scioglie nel fatto che gli
piaccia solo un certo tipo di musica, che in questo caso è quella
dei maqamat ascendenti e discendenti per quarti di tono o per
un tono e mezzo, particolarmente adatta ad accompagnare testi in
lingua araba.
Diremmo
che in questo caso siamo al grado estremo di quella generale
propensione a preferire alcuni generi musicali ad altri: grado
estremo perché qui se ne tollera solo uno, ma sul gradiente che in
altri casi vede tollerarne due, tre, dieci o, molto raramente, tutti.
Se infatti a «ti piace la musica?» tutti rispondono «sì»,
le cose cambiano notevolmente a chiedere «ti piace Richard
Wagner?» o «ti piace Iggy Pop?»: lì le risposte
saranno le più svariate, nell’ampia gamma che va dal «sì, lo
adoro» al «no, mi fa cagare». E tuttavia non c’è
dubbio che musica è il preludio del Tristan und Isolde e
musica è Lust for life. Altrettanto evidente, allora, che col
chiedere «ti piace la musica?» abbiamo sollevato una
questione oziosa.
La
stessa cosa accade col buonsenso, che, a citare la definizione a mio
parere più esaustiva, sarebbe la «capacità
naturale dell’individuo di valutare e distinguere il logico
dall’illogico, l’opportuno dall’inopportuno, e di comportarsi
in modo giusto, saggio ed equilibrato, in funzione dei risultati
pratici da conseguire» (Gabrielli,
Hoepli 2018): chi mai dirà che non lo apprezza? Di più: chi mai
dirà di non averne a sufficienza?
Cartesio
dice che «ognuno pensa di esserne così ben dotato che perfino
quelli che sono più difficili da soddisfare riguardo a ogni altro
bene non sogliono desiderarne più di quanto ne abbiano» (Discorso
del metodo), va’ a capire poi se è ironia o è fede in quella
ragione che per quelli come lui è innanzitutto percezione immediata
e intuitiva, già tutta in nuce a quel «sum» di cui
dovrebbe essere capace anche l’ultimo dei fessi. Sta di fatto che
anche a Cartesio dà da pensare la grande varietà di idee e azioni
mosse da questo buonsenso che «fra le cose del mondo [sarebbe]
quella più equamente distribuita», salvo l’essere
costretti a stupirsi di «quante diverse opinioni su uno stesso
oggetto possono essere sostenute dai dotti, senza che ce ne possa
essere mai più di una soltanto che sia vera», trovandone
spiegazione nel fatto che «la diversità delle nostre opinioni
non dipende dal fatto che alcuni siano più ragionevoli di altri, ma
soltanto da questo, che facciamo andare i nostri pensieri per strade
diverse».
C’è
modo di mostrare a tutti, fessi e dotti, la sola strada giusta, di
modo che il buonsenso possa diventare cosa universalmente condivisa,
non già nel solo ritenere di averne a sufficienza, ma anche nel
trarne idee e azioni che vengano universalmente ritenute
ineccepibili? Almeno per Cartesio, no. E infatti dice: «Non
intendo insegnare qui il metodo che ciascuno deve seguire per ben
giudicare la propria ragione, ma solo far vedere in che modo ho
cercato di guidare la mia».
Parrebbe
non esserci via d’uscita: tutti ritengono di essere in possesso
della capacità di valutare e distinguere il logico dall’illogico,
l’opportuno dall’inopportuno, e di comportarsi in modo giusto,
saggio ed equilibrato, ma poi dobbiamo constatare che su nulla
troviamo universale accordo, tanto meno in funzione dei risultati
pratici da conseguire.
Come è
possibile? È presto detto: nel rispondere «sì, è ovvio» a
chi ci chiede «ti piace la musica?» c’è di implicito che
la sola musica che possa piacermi sia quella che in effetti mi piace;
allo stesso modo, nel pensare di avere buonsenso a sufficienza c’è
la convinzione dell’ineccepibilità di ciò che si ritiene logico e
opportuno.
C’è
una bella differenza, si dirà, che è quella relativa al fatto che
«piacere»
attiene
al gusto, cosa eminentemente personale, mentre invece
sull’«opportunità»
suggerita
dalla «logica»
non
ci dovrebbero essere margini di discrezionalità. In realtà, la
differenza si riduce ad un nonnulla considerando che «quod
oportet mihi» può
non «oportere
tibi».
Un nonnulla che acquisterebbe, invece, un peso enorme laddove fosse
possibile stabilire «quod
oportet omnibus».
Di fatto, questo non è possibile, perché ogni rappresentazione di
«bene comune» è
funzionale a legittimare lo status
quo esitato
da un conflitto tra opposti interessi, facendosi espressione di
quell’equilibrio che chi ne è uscito vincitore ritiene possa
servire a perpetuare i vantaggi acquisiti con la vittoria. Perciò
potremmo azzardarci a dire che la tanto richiamata contrapposizione
tra buonsenso e senso comune non sia altro che la prefigurazione di
un nuovo conflitto nel progressivo venir meno di un equilibrio che
comunque per il momento ancora regge: al buonsenso viene a mancare il
potere di imporsi come «quod
oportet omnibus» conservando
solo quello acquisito dalla consuetudine o dal credito che gli
riserva l’ancora dominante autorità morale o politica, con ciò
degradandosi lentamente a senso comune; di pari passo, viene
progressivamente a imporsi l’istanza di un’opportunità che
risponda a più pressanti interessi, animati da una logica che trova
modo di affermarsi come meglio rispondente al perseguimento di un
«bene comune»
che
sembra cominciare ad essere diversamente
inteso, ma che in realtà risponde solo al fine di dare solidità di
assetto a un nuovo ma comunque transitorio equilibrio.
Sto
cercando di dire che buonsenso e senso comune sono la stessa cosa, ma
colta in due diversi momenti della sua storia? Sì, ma il mio lettore
avrà visto che sto largheggiando in cautela, perché anche lui sarà
convinto di avere un più che solido buonsenso, e insinuare che tale
solidità è aleatoria potrebbe offenderlo. Se il buonsenso, infatti,
è la «capacità
naturale dell’individuo di valutare e distinguere il logico
dall’illogico, l’opportuno dall’inopportuno, e di comportarsi
in modo giusto, saggio ed equilibrato, in funzione dei risultati
pratici da conseguire»,
affermando brutalmente che la «natura»
è
un concetto eminentemente culturale, e dunque storico, cioè del
tutto contingente, che «logico»
e
«opportuno» non
designano realtà autoevidenti, che «giusto»,
«saggio» e
«equilibrato»
subiscono
nel tempo incessanti ridefinizioni – tutte in una: rilevare nel
buonsenso il senso comune da venire – avrei qualche speranza di
passarla liscia? Come minimo correrei il rischio di beccarmi
l’imputazione di relativismo.
Già
sento muovermi la più pesante delle contestazioni: «Ma
tu non eri quello che credeva nell’infallibilità della logica?
Cosa ti impedisce, adesso, di ammettere che il buonsenso non sia
altro che il suo buon uso?».
Provo a difendermi chiedendo: il significato che è da dare a
«logico» nella
definizione di «buonsenso»
del
Gabrielli è quello che procede dagli assiomi su cui regge la logica
argomentativa o quello dell’accezione che l’aggettivo acquista
come sinonimo di «ragionevole»?
E dunque: il buonsenso sta nella persuasione che una ragione riesce
ad ottenere in una quota maggioritaria dell’uditorio
chiamato a dare assenso a un certo status
quo
o nell’intrinseca
ineccepibilità del procedere argomentativo che supporta la ragione
proposta all’uditorio?
In altri termini: perché il buonsenso non riesce a superare i secoli
restando inalterato? Perché nel IV secolo a.C. può darsi come
«giusto, saggio
ed equilibrato» il
dichiarare «logico»
e
«opportuno»
che
io possegga degli schiavi, per poi smettere d’esserlo?
Se
ancora non è chiaro questo procedere
di senso comune in senso comune attraverso il loro incessante
contendersi la palma di buonsenso, conquistandola e perdendola, potrà
tornarci utile un articolo che qualche tempo fa è apparso in rete
col titolo Come
abbiamo perso la guerra del buonsenso,
di
cui qui non ha importanza dire chi sia l’autore,
come d’altronde
non ne ha avuta dire chi ritenesse cosa di sano buonsenso possedere
schiavi nel IV secolo a.C.: ha importanza sottolineare quanto
disperatamente si possa rimanere aggrappati al senso comune che un
tempo poté menar vanto di buonsenso. Stessa disperazione di chi il 5
maggio piangeva «non
per la maldestra perdita di uno scudetto, e neppure perché finisce
il sogno politico di questo Pd e della sinistra dei quarantenni, ma
perché finisce un mondo che è fatto di letture e buone maniere, di
educazione e di civiltà»
(la
Repubblica,
6.3.2018); qui, con due etti appena di compostezza in più, «mentre
si inseguiva il cambiamento ai piani alti della politica e delle
istituzioni […] qualcosa cambiava per davvero. E cosa? Non sarà
forse il buonsenso [...] ma è senz’altro il senso comune».
In entrambi i casi mi pare evidente che «la
guerra del buonsenso» sia
considerata persa per la sconfitta di chi ne sarebbe stato, e
continuerebbe ad essere, il solo legittimato a rappresentarlo, direi
quasi ad incarnarlo, per una sorta di superiorità antropologica: non
già il corrente avvicendarsi di vittoriosi persuasori dell’uditorio
in forza di argomenti più efficaci, ma la catastrofe della ragione
nella sconfitta di chi la deteneva per un’autoinvestitura
a vita. Non il fisiologico corso del «ragionevole»
che da incontestabile buonsenso diventa sempre più intollerabile
senso comune, ma indefettibile e inemendabile senso del vero, del
bello e del giusto che collassa nel venir meno della
capacità persuasiva dell’élite che ne era espressione.
Come
rappresentare questa élite? C’è chi ha provato a farlo a questo
modo: «Il
medico, l’insegnante universitario, l’imprenditore, i dirigenti
dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli
avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di successo,
molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli
d’amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno
in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri... Le
élites sono loro, son quegli umani lì».
Poi, al capoverso seguente: «Riassumendo:
una minoranza ricca e molto potente».
Anche qui non ha importanza chi sia l’autore
del virgolettato, piuttosto c’è
da chiedersi se tra
i più di 500 libri che certamente ha in casa ce ne
sia
almeno uno di Mosca, Pareto o Michels, di Mannheim, Burnham o Djilas,
di Hunter, Dahl o Bachrach, insomma anche di uno solo degli autori
che da un secolo in qua hanno affrontato il problema delle élites.
Ricchi e potenti, chi? Gli insegnanti universitari e i preti? I
medici, i giornalisti e gli avvocati? Ma questo è tutt’al
più ceto medio, se non addirittura medio-basso. Perché darci
dell’élite
una rappresentazione così vicina, perfino coincidente, a quella del
ceto medio? Il fine è scoperto nella descrizione che ci è data del
sistema che fino a poco tempo fa rendeva il ceto medio il più fedele
esecutore delle politiche decise dalle élites. È il sistema che, su
queste pagine, ho in due o tre occasioni stretto nella sintesi di
«più pietanze alle élite, più
avanzi al ceto medio, più briciole ai poveri».
La sintesi, qui, è assai più elegante: «La
gente concede alle élites dei privilegi e perfino una sorta di
sfumata impunità, e le élites si prendono la responsabilità di
costruire e garantire un ambiente comune in cui sia meglio per tutti
vivere... Che piaccia o no, le democrazie occidentali hanno dato il
meglio di sé quando erano comunità del genere: quando quel patto
funzionava, era saldo, produceva risultati. Adesso la notizia che ci
sta mettendo in difficoltà è: il patto non c’è più».
Finché ha funzionato, c’era
un oggettivo interesse del ceto medio a far proprie le ragioni delle
élites, che d’altronde
avevano il loro interesse a rinnovarsi cooptando di tanto in tanto
nei loro ranghi chi nel ceto medio eccelleva per meriti, peraltro
funzionali alla conservazione dello status
quo. Il
meccanismo che assicurava stretta relazione tra produzione di
pietanze e distribuzione di avanzi consente oggi di insinuare che
élites e ceti medi appartenessero alla stessa classe: stesso errore
che a Versailles si sarebbe fatto considerando nobili i lacché per
la ricchezza delle livree che indossavano. Ma come sono, questi
lacché che sembrano conti e marchesi, «osservati
da vicino»?
«Studiano molto, impegnati
socialmente, educati, puliti, ragionevoli, colti. I soldi che
spendono li hanno in parte ereditati, ma in parte li guadagnano ogni
giorno, facendosi un mazzo così. Amano il loro Paese, credono nella
meritocrazia, nella cultura e in un certo rispetto delle regole.
Possono essere di sinistra come di destra. Una sorprendente cecità
morale impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che
tengono in piedi il sistema in cui credono. Dormono dunque sereni,
benché spesso con l’ausilio di psicofarmaci. Forti di questo
andare per il mondo vivono in un habitat protetto che ha poche
interazioni con il resto degli umani: i quartieri in cui vivono, le
scuole a cui mandano i figli, gli sport che praticano, i viaggi che
fanno, i vestiti che indossano, i ristoranti in cui mangiano: tutto,
nella loro vita, delimita una zona protetta all’interno della quale
quei privilegiati difendono la loro comunità, la tramandano ai figli
e rendono estremamente improbabile l’intrusione, dal basso, di
nuovi arrivi».
A chi si attaglia meglio una descrizione del genere, oggi? Ai veri
padroni del mondo o a quanti negli ultimi decenni sono riusciti, in
un modo o nell’altro,
a resistere all’impoverimento
del ceto medio cui appartenevano? Una descrizione del genere si
attaglia meglio agli otto uomini che posseggono la metà di tutta la
ricchezza mondiale o agli otto amici, iscritti al circolo Pd dei
Parioli, che prendono l’aperitivo
lamentandosi della bruttura dei tempi?
Sembra
sfuggire, qui, che l’élite
è il cavallo, mentre i pidocchi che sono ospitati nella sua criniera
sono del tutto irrilevanti, anche quando presi dal delirio di averne
in mano le redini. Sia come sia, il patto è saltato. E perché? C’è
stata la crisi economica: «Intanto le
élites non l’avevano prevista. Poi hanno tardato ad ammetterla.
Infine, quando tutto ha iniziato a franare, hanno messo al sicuro se
stesse e hanno rimbalzato i sacrifici sulla gente. Possiamo dire,
ripensando alla crisi del 2007-2009 che sia accaduto veramente
questo? Non lo so con certezza, ma è vero che la percezione della
gente è stata quella. Dunque, superata l’emergenza, la gente si è
presentata a regolare i conti, per così dire. È andata,
letteralmente, a riprendersi i propri soldi: il reddito di
cittadinanza, o il cancellamento delle cartelle di Equitalia, non
sono altro che quello. Non sono politica economica o visioni del
futuro: sono riscossione crediti».
Perché stupirsi che tutto questo abbia bisogno di un nuovo buonsenso
a dichiararlo «logico» e
«opportuno»?
E cosa salva dall’essere
degradato a senso comune quel che ha perso autorevolezza, ma reclama
rispetto in forza di una ragionevolezza che ha perso tutte le sue
ragioni?
Una
domanda come «ti piace la musica?»,
l’uso
di una categoria come quella del «buonsenso»
per rappresentare la storia in progresso o in regresso, il
conferimento del
titolo di «élite»
all’odierna
versione di quella che Lenin definiva «aristocrazia
operaia»:
dove voglio andare a parare illustrando l’insulsaggine
della domanda che nel reparto cd e vinili della Feltrinelli il
quarantenne rivolge alla sbarbina per attaccar bottone, la
malcelata ansia del
filosofo da intrattenimento preoccupato per l’imprevisto
ricambio del pubblico in platea, l’assai
confusa idea di «élite»
che nutre lo scrittore che invece sa descrivere tutte le cento
sfaccettature di un aggettivo di Gadda?
Prim’ancora:
cosa hanno in comune questi tre infortuni di tutta millantata
disinvoltura? Direi che in tutti e tre i casi sia evidente la mancata
percezione di uno slittamento del buonsenso a senso comune. Di cosa
sia espressione questo slittamento, s’è
già detto, ma converrà ripeterlo: al mutare dell’uditorio,
un argomento può perdere forza di persuasione. Può conservare tutta
la sua validità sul piano dell’assiomatica
che regge la logica formale, ammesso che prima l’avesse,
ma perde la capacità di apparire «logico»
nell’accezione
che gli dà il Gabrielli: perde il potere di dimostrare «opportuno»
quel che
intende persuadere lo sia in funzione dei «risultati
pratici da conseguire».
Le ragioni che si fanno carico di rappresentare come «giusto,
saggio ed equilibrato» l’interesse
diventato preponderante chiedono e ottengono di essere dichiarate
ragionevoli. In modo forse un po’ brutale potremmo dire che il
buonsenso cambia padrone.
Sento
tornare l’imputazione
di relativismo. Se poi ho trovato il mio lettore poco disposto a
concedere che ogni norma risponde alla necessità di far sembrare
conveniente a tutti ciò che conviene a uno, a pochi o a molti, e
solo per quello lasso di tempo in cui si è in grado di ottenerlo,
può darsi mi si sia addebitata pure l’aggravante
di una strisciante forma di nichilismo. Cercherò di difendermi da
queste accuse producendo un esempio che a mio modesto avviso illustra
a dovere la perenne fluidità di quella che Machiavelli chiama
«realtà
effettuale della cosa»,
dimostrando quanto sia folle pensare di poterle dare un durevole
invaso.
Due
o tre settimane fa, una prestigiosa accademia che per unanime parere
«si
è sempre distinta per lo strenuo impegno a mantenere “pura” la
lingua italiana»
si è lasciata tentare dal definire «lecita»
la «costruzione
transitiva di sedere» non
vedendo alcun «motivo
per proibirla e neppure, a dire il vero, per sconsigliarla»:
nell’eterna
contesa tra «prescrittivisti»
e «descrittivisti»,
un punto decisamente a favore di questi ultimi. Dal popolo del web,
che è tanto «descrittivista»
da
esser solito bollare con l’epiteto
di «grammar
nazi» anche
il più mite «prescrittivista»
si è prontamente, quanto inaspettatamente, levato un coro di
proteste che ha costretto il presidente onorario dell’accademia
a molto imbarazzate precisazioni, fra le quali spiccava quella di non
avere alcuna autorità nell’«“emettere
verdetti” su determinate espressioni, “prescrivendole” o
“mettendole al bando”».
In sostanza, nella persona del suo più autorevole rappresentante,
l’accademia
– insieme – rigettava il tradizionale ruolo di arbitro indiscusso
nelle controversie in questioni relative all’impiego
della lingua italiana e negava che ci fosse violazione nella
costruzione transitiva di un verbo intransitivo, tanto più patente
per la contraddizione in termini: nello stesso tempo, veniva meno un
certo tipo di «élite»
e un certo tipo di «buonsenso».
A fronte delle istanze di quale uditorio? Il pamphlet che dovrebbe
seguire a questa introduzione, ma che non sarà mai scritto,
risponderà a questa domanda, con ciò facendo luce – mi auguro –
sulle tre questioni cui i nostri tempi ancora stentano a dare
soluzione: se la norma debba scendere dall’alto o salire dal basso, se la democrazia sia ancora possibile, se una guerra civile che non faccia neanche un morto possa mai finire.
Prego
il mio lettore di mettersi comodo per leggere con la massima
attenzione tutto quello che non sto per scrivere.