sabato 9 marzo 2013

«La via che porta al dispotismo»

«Il principio maggioritario è naturale e ovvio fino a tanto che lo si contrappone al suo assurdo inverso, il principio minoritario. Ma se si riflette quanto numerosi e vari possano essere i mezzi per dare a un gruppo una volontà unitaria, c’è da domandarsi […] se non sia proprio quello della maggioranza il più artificiale di tutti».
La riflessione è di Edoardo Ruffini, uno dei 12 docenti universitari che rifiutò di prestare il giuramento di fedeltà al regime fascista, e sembra far eco al monito kantiano che la democrazia possa anche essere «la via che porta al dispotismo». L’attenzione, tuttavia, va posta ai «numerosi e vari mezzi» a disposizione di chi voglia snaturare il principio maggioritario, che non sarà superfluo rammentare non poggia sull’assunto che «siamo tutti eguali», ma che conviene a tutti che ciascuno abbia eguali diritti: quali sono questi «numerosi e vari mezzi» in grado di coartare l’opinione dei più in favore degli interessi di un despota o di una élite di oligarchi? Ancora: si tratta di strumenti analoghi a quelli coi quali una democrazia seleziona la sua classe dirigente o di tecniche che nel fondo hanno un fine liberticida? Non si tratta di questioni nuove, ma la politica italiana le ripropone da decenni.
Uno dei mezzi è senza dubbio quello che ha dato vita alla cosiddetta partitocrazia, che potremmo definire come l’occupazione degli organi costituzionali ad opera di partiti che hanno perso la funzione di rappresentanza di segmenti della società per acquistare la fisionomia di comitati d’affari tecnicamente attrezzati al depredamento delle risorse pubbliche. Definizione che per molti versi è riduttiva, ma che qui mira unicamente ad identificare un fine nella «volontà unitaria» da dare a «un gruppo».
La fisiologica reazione antipartitocratica non si è rivelata estranea a fini analoghi e nelle sue degenerazioni populistiche e demagogiche il principio maggioritario non ha trovato alcun vantaggio. Qui «la via che porta al dispotismo» è stata un’altra: l’aspirante despota ha risvegliato con indubbia perizia gli istinti più bassi presenti nell’individuo, gli interessi più profondamente egoistici sui quali poggiano famiglia e corporazione come espressioni della comunità clanica, ed è stato capace di comporli in ragioni identitarie, mettendosene non già a capo, ma al servizio, direi quasi all’inseguimento, secondando un plebeismo cui ha cercato di dare forma di blocco sociale interclassista. L’elettore con «l’intelligenza di un ragazzino di 12 anni, e nemmeno dei primi banchi», ha così trovato legittimazione culturale e giustificazione morale: chi creava per lui nuovi bisogni, per lo più riedizioni di bisogni ancestrali, in buona parte già superati dall’emancipazione democratica, ma evidentemente mai del tutto estinti, non ha dovuto far altro che proporsi come soluzione per soddisfarli.
Più sofisticata, invece, «la via che porta al dispotismo» attraverso la cosiddetta democrazia diretta. Si tratta della primigenia forma di democrazia, che infatti mostra tutti i limiti di ciò che è allo stato embrionale. Non c’è da stupirsi che ancora una volta si cerchi il futuro nel passato: è il vizio di tutti i millenaristi.
Le presunte virtù della democrazia diretta sarebbero nel fatto che una cosa buona è tanto più buona quando è al suo massimo grado, qui col rifiuto – però solo formale – del momento della rappresentanza. Di fatto, anche quando si è fatta esperienza di democrazia diretta, si trovò difficoltà a stipare 21.000 ateniesi in un’agorà che ne poteva contenere al massimo 500 e la rappresentanza fu surrogata dal sorteggio. Oggi, si obietta, internet supera l’ostacolo. Rimarrebbe da accertare  – e di fatto è impossibile – quanto vi sia di sorteggio, e quanto di cooptazione, nella scelta dei rappresentanti di questo modello di democrazia diretta (sembra una contraddizione in termini, ma si realizza proprio con la presentazione delle liste del M5S a queste ultime elezioni politiche).
Ammesso e con concesso che internet sia in grado di superare le difficoltà che si posero ad Atene, rimane il fatto che la democrazia diretta presuppone che tutti i cittadini siano – e qui cito Mogens H. Hansen – «persone intelligenti, capaci di prendere decisioni equilibrate riguardo a se stessi e ai propri concittadini; disposti a trascurare il proprio interesse privato in caso di conflitto con l’interesse generale; sufficientemente informati sulle questioni che devono essere affrontate; interessati a partecipare all’insieme delle attività decisionali, piuttosto che a delegarne parti; [e che] una razionale attività di decisione possa essere condotta su base non professionistica, purché si distingua tra la competenza degli esperti necessaria per predisporre e per formulare i provvedimenti, e il buon senso necessario per assumere una scelta tra le alternative prospettate». Premesse che chi ha costruito il M5S ritiene siano già date di fatto dalla promozione antropologica che si acquista nel consegnarsi ai progetti confusi, ambigui e contraddittori della Casaleggio Associati. In buona evidenza, invece, c’è solo il fatto che già dentro il M5S di democrazia se ne vede poca o niente. Più che legittimo supporre che anche stavolta il tribuno della plebe sia il solito malintenzionato di turno.     

venerdì 8 marzo 2013

Ecofeudo


Prima che l’ictus gli storpiasse il grugno e gli affievolisse il rutto, Umberto Bossi minacciò cinque o sei volte di mandare in piazza i suoi a far la secessione armati di schioppo, poi rivelò che non aveva avuto alcuna intenzione di aizzarli, ma che quello era il solo modo per raffreddarne i bollori, e menò addirittura vanto di aver così «fermato trecentomila bergamaschi pronti a imbracciare il fucile» (Il Mattino, 8.4.2008). In pratica, aveva evocato la violenza, sì, ma solo per imbrigliarla, neutralizzarla. Probabilmente si aspettava gliene fossimo grati e offrissimo le nostre figlie al Trota.
È tecnica alla quale ricorre ogni demagogo: far nascere un problema per offrirsi come sua miglior soluzione, creare tensione per proporsi come il solo in grado di ottenere distensione, saturare l’atmosfera di elettricità per mettersi in posa da parafulmine. E Beppe Grillo non è da meno: «Ho incanalato tutta la rabbia in questo movimento. Dovrebbero ringraziarci: se noi falliamo l’Italia sarà guidata dalla violenza nelle strade» (Time, 7.3.2013)
È una variante della strategia della tensione: fomentare il disordine per candidarsi a forza d’ordine. E i gonzi che sono indispensabili all’ascesa di un demagogo che metta in atto tale strategia sono già pronti a crederci. Perciò questo paese merita di sprofondare nella merda: perché non ha memoria storica, vive in un eterno presente, dagli errori ormai non può imparare più niente. 
Anche chi intuisce il pericolo letale rappresentato dai fascio-naïf del M5S sembra non cogliere la natura del fenomeno: si buttano sulle tredici società aperte in Costa Rica dai prestanome di Beppe Grillo come se fossero i diamanti nella cassaforte di via Bellerio, gli appartamenti di Di Pietro, e l’etichetta che ci è appiccicata sopra pare non dir loro un cazzo di niente. Ecofeudo, questo mostriciattolo ucronico si chiama Ecofeudo: suggestione di un medioevo prossimo venturo nel quale dovremmo incamminarci felici e decrescenti. Così è nelle visioni di Giancoso, e tutti dietro.

martedì 5 marzo 2013

Craze

Ho scritto che il leader carismatico risponde ad un bisogno che va dalla più bassa frustrazione dinanzi ad ostacoli che i suoi seguaci ritengono insormontabili alla più alata speranza che essi ripongono nell’essere il sale della terra e di essere destinati a fecondarla col meglio del loro meglio. Parlavo di Beppe Grillo, che di lì a poco avrebbe cominciato ad affermare che il M5S non fosse da intendere più come un movimento, ma come una comunità. Un motivo in più per fare a meno del termine antipolitica, che d’altronde è un assurdo, perché era finalmente chiaro che il leader carismatico del M5S chiamasse i suoi seguaci a darsi struttura organica e a farsi cosa prepolitica, nella quale, come è noto, gli individui sono chiamati a restare essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, proprio al contrario di ciò che si realizza in un partito, dove invece gli individui rimangono essenzialmente separati nonostante ciò che li unisce (cfr. Ferdinand Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft).
A tal riguardo ho scritto che con ciò il grillismo assumeva i caratteri di una minaccia: fascismo allo stato nascente. Di lì a poco seguiva la dichiarazione dell’onorevole Roberta Lombardi, capogruppo del M5S alla Camera, che lodava il Manifesto fascista del 1919, dal quale ha attinto a piene mani pure Casa Pound Italia per il suo programma. Qui, con la dottrina sociale dello stato che è del fascismo quando ancora non si è fatto regime e con le analogie programmatiche tra M5S e Casa Pound Italia che sembrava dovessero trovare una piattaforma comune, mi pare possa chiudersi il cerchio.
Di fatto, le crisi producono miraggi di società e di stati organici. Cosa deve fare il leader carismatico che intenda produrre un miraggio del genere? Innanzitutto deve fanatizzare i suoi seguaci. «Il comportamento fanatico è semplicemente uno sfogo collettivo per lo scontento generale. Nella fase meno visibile, questo comportamento è fatto di speranza, fede, attesa e simili, che si originano dalla credenza in una particolare via di fuga dalle cause dello scontento. Nel loro aspetto palese, questo comportamento consiste in un’azione diretta su questa credenza» (Richard T. Lapiere, Collective Behavior).
Come? «Concentra la folla, che altrimenti sarebbe facilmente dissipata nell’attenzione e nello spazio. Aiuta, cioè, a polarizzare la massa. Dà un nome ai vaghi atteggiamenti e sentimenti della gente e offre loro dei simboli comunicati, che, ripetuti e diffusi, servono in seguito come motivi di stimolo ad agire. […] Utilizza credenze, miti, leggende e dà una interpretazione dei fatti per suscitare emozioni e provocare all’azione. […] Indica la direzione in cui deve orientarsi l’azione di massa, […] anche se in qualche caso preferisce lasciare questa responsabilità a un’altra persona» (Kimball Young, Social Psychology). Un comico, perché no?
«Il comportamento di chi si scatena clamorosamente verso qualcosa onde pensa ricavare piacere lo attribuiremo al craze. Questo comportamento, a prima vista contrario al panico, che implica una fuga precipitosa da qualcosa, non è al cento per cento il suo contrapposto. Formalmente è possibile analizzare il craze secondo lo stesso schema utilizzato per il panico: propensione, tensione, credenze generalizzate, fattori di precipitazione, ecc. In pratica, molti fatti che hanno come conseguenza il craze sono simili, se non identici, ai fatti che portano al panico. Inoltre non è raro vedere il panico accompagnato dal craze» (Neil J. Smelser, Theory of Collective Behavior).
Impossibile ogni previsione sul piano temporale, tanto meno sugli effetti di lunga durata che questa epidemia procurerà, ma landamento del fenomeno è noto: «Il decorso di ogni craze è segnato da certe fasi, che a volte si possono distinguere molto chiaramente e che seguono rigorosamente lo schema di una malattia a carattere epidemico. Prima di tutto si presenta un periodo di incubazione, durante il quale l’idea, benché presente nella mente di alcune persone, non tende a propagarsi. Segue una fase in cui l’idea si diffonde rapidamente. Il numero di persone che accettano l’idea aumenta così velocemente, da presentare talvolta un carattere quasi esplosivo. Appena il numero massimo delle persone influenzabili viene raggiunto, la velocità di diffusione dell’onda incomincia a diminuire. Questa è la terza fase. La quarta fase è caratterizzata dal formarsi di una resistenza all’idea, paragonabile all’immunità acquisita contro un’infezione. Durante questo periodo il craze decresce: nelle persone già colpite l’entusiasmo si indebolisce, mentre si verificano solo pochi casi nuovi. Se dura ancora, nella quinta e ultima fase, l’idea resta stazionaria o viene conglobata nelle usanze occasionali di molte persone o rimane fissa nella mente di alcuni entusiasti. In circostanze favorevoli, essa può rimanere per fiorire di nuovo in qualche epoca futura, quando l’immunità sia scomparsa» (Lionel S. Penrose, On the Objective Study of Crowd Behaviour). Senza dubbio, l’immunità dal fascismo era andata assai scemando in Italia, e da tempo. Cera bisogno solo di una crisi, ma di una crisi grossa, per risvegliare la spora.    

A parte
Analogo riferimento a una leadership carismatica che tenda a trasformare un movimento in una comunità è stato fatto più volte, su queste pagine, a Marco Pannella e ai suoi seguaci. Più che ovvia si pone la questione della sostanziale differenza tra la «cosa radicale» e il M5S, almeno per ciò che attiene agli epifenomeni storici, culturali e politici. Essa va riconosciuta nel diverso modello di comunità prepolitica e nei meccanismi che concorrono a determinare quella che in Kimball Young è definita «polarizzazione di massa». Dobbiamo servirci di ciò che Elias Canetti scrive in Masse und Macht riguardo a ciò che distingue una «massa aperta» da una «massa chiusa»: «Fenomeno enigmatico quanto universale è la massa che d’improvviso c’è là dove prima non c’era nulla. Potevano trovarsi insieme poche persone, cinque o dieci o dodici, non di più. Nulla si preannunciava, nulla era atteso. D’improvviso tutto nereggia di gente. Da ogni parte affluiscono altri; sembra che le strade abbiano una sola direzione. Molti non sanno cos’è accaduto, non sanno rispondere nulla alle domande; hanno fretta, però, di trovarsi là dove si trova la maggioranza. […] Ci saranno parecchie cose da dire sulla forma estrema della massa spontanea. Ove nasce, nel suo nucleo essenziale, essa non è così genuinamente spontanea come appare; ma per tutto il resto, se si prescinde dalle cinque o dieci o dodici persone da cui ha avuto origine, è spontanea davvero. Da quando esiste, vuol essere di più. La spinta a crescere è la prima e suprema caratteristica della massa. Essa vuole afferrare chiunque le sia raggiungibile. Chiunque si configuri come un essere umano può unirsi a lei». È quanto pare in corso. «In contrasto con la massa aperta, che può crescere all’infinito, si trova dovunque, e perciò appunto pretende interesse universale, si pone la massa chiusa. La massa chiusa rinuncia alla crescita e si preoccupa soprattutto della durata. Di essa spicca innanzitutto il confine. La massa chiusa si insedia. Nell’atto in cui si confina, crea la propria sede. […] Forse è necessaria una cerimonia particolare per essere accolti; forse bisogna versare una certa tassa d’ingresso. […] Il confine impedisce un incremento sregolato, ma in compenso ostacola e ritarda il deflusso. La massa guadagna in durata ciò che sacrifica in possibilità di crescita». Chi ha passato anche solo qualche mese in Via di Torre Argentina non ha bisogno di ragguagli. Chi non vi ha mai messo piede può comunque ricavare la differenza che cè tra un corpo elettorale del 25,5% e dello 0,19%.

mercoledì 27 febbraio 2013

lunedì 25 febbraio 2013

[...]

La rinuncia di Benedetto XVI ha dato l’occasione di formulare le più svariate ipotesi su quale potesse esserne il vero motivo a quanti è parso che quello dichiarato dal diretto interessato fosse falso. Così ne abbiamo sentite tante, alcune ai limiti del verosimile, ma quella più cretina in assoluto è senza dubbio quella offertaci da Marco Pannella:


In pratica, Benedetto XVI avrebbe dato corpo al passo evangelico nel quale Gesù raccomanda ai suoi apostoli:  «Non procuratevi né oro, né argento...» (Mt 10, 9-10), che poi sarebbe quello riportato nel fotomontaggio che fa da fondale nello stanzone al terzo piano di Via di Torre Argentina, opera di un garzone della scuola di Oliviero Toscani.  



Se sta lì, c’è un motivo. Da sempre, al pari dei cattolici che lo hanno frainteso, Marco Pannella è convinto che il Concilio Vaticano II sia stato tradito dalle alte gerarchie ecclesiastiche, che avrebbero sviato la Chiesa dal sentiero sul quale laveva messa Giovanni XXIII, per ricondurla nel solco della bimillenaria tradizione simoniaca che sempre ha soffocato, però senza mai spegnerla del tutto, la purezza del messaggio evangelico, che sarebbe tutto spirituale. Siamo dinanzi al «problema millenario» cui fa cenno Marco Pannella, quello che vede contrapposti, in ambito cristiano, quanti sostengono che la fede non debba cedere alle tentazioni del potere mondano e quanti invece ritengono che lincarnazione comporti necessariamente il saper stare al mondo, meglio se comodamente calzati. «Problema millenario» che peraltro si traduce nella contrapposizione, in ambito ecclesiologico, tra quanti sostengono che tra cattolicesimo e democrazia non vi sia alcuna incompatibilità, e nemmeno tra cattolicesimo e liberalismo, e chi invece ritiene che, se Cristo si è detto pastore, il suo popolo non può essere che gregge obbediente ai suoi apostoli, che da lui hanno avuto mandato di mungerlo e tosarlo.  
Con le dimissioni di Benedetto XVI siamo davvero a questo? La Chiesa rinuncia a «duemila anni di averi»? Vedremo vescovi e cardinali a piedi nudi come monaci tibetani? O almeno è questo che il vecchio Ratzinger pensa sia il da farsi? E allora, di grazia, perché ha deciso di abdicare? Il Codice di Diritto Canonico recita che il Sommo Pontefice è «supremo amministratore ed economo di tutti i beni ecclesiastici» (Can. 1273) e che ha «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente» (Can. 331): bastava un motu proprio e in due minuti si liberava del fardello. Un motu proprio, in realtà, è atteso, ma pare servirà soltanto a snellire le procedure per lelezione del prossimo Papa: il vecchio Ratzinger si ritira, ma non vuole esser causa del minimo intoppo nello scorrere della successione da monarca a monarca.   
Ma poi, tra gli ultimi discorsi tenuti da Benedetto XVI, non vi è anche quello in cui è ribadita la condanna dellermeneutica del Concilio Vaticano II che è cara, tra gli altri, anche a Marco Pannella? Aveva già annunciato la rinuncia e diceva: «C’era il Concilio dei Padri, il vero Concilio, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i  media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. […] Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. […] Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie» (Incontro con i parroci e il clero di Roma, 14.2.2013).
Questo sarebbe il Pietro di cui parla Marco Pannella? E allora che cazzo dice? Soprattutto, perché lo dice? La risposta è di una semplicità disarmante. Marco Pannella ha guidato i suoi nel più nero fallimento politico e, ora che il mugugnare di sempre è diventato un coro di critiche sempre più rumorose, tenta di tenerli buoni consolandoli: si va a morire, ma le profezie si avverano, dunque si muoia in allegria.  



venerdì 22 febbraio 2013

Quel grumo di convenienza reciproca

La prima descrizione clinica di un caso di impostura è di Karl Abraham (1925). Scrisse che il millantatore «non si era sentito amato da bambino e sentiva in sé un profondo desiderio di dimostrarsi degno dell’amore di tutti», sapendo bene tuttavia che prima o poi le sue bugie si sarebbero rivelate tali agli occhi del mondo e che ciò avrebbe dato «prova a lui e agli altri di non meritare questo amore» (Opere – Bollati Boringhieri, 1978 – pag. 164). Potremmo dire che la truffa più crudele dell’impostura sia giocata dall’impostore stesso a proprio danno, in cambio di un utile che spesso non è mai goduto appieno e in vista di una punizione che egli sente necessaria perché si ritiene indegno dell’affetto e della stima che pure cerca di lucrare facendo carte false.
Se l’ipotesi di Abraham vi sembra zoppicante proprio su quell’utile che non è mai goduto appieno, il caso di Oscar Giannino ne raddrizza l’andatura: tutto ciò che ha millantato (due lauree, un master e una partecipazione allo Zecchino d’Oro) non gli tornava affatto indispensabile a sostenere la sua reputazione, anzi, avesse dichiarato fin da subito che era un autodidatta, probabilmente l’avrebbe vista accresciuta.
Tutto sommato, ciò che sappiamo è troppo poco per trattare la vicenda come un caso clinico, e tuttavia qualche dato anamnestico ci è fornito dallo stesso paziente: è figlio di genitori tutt’altro che abbienti, aveva una gran premura di rendersi economicamente indipendente, subiva enormemente il fascino del salotto che desiderava gli schiudesse le porte, e tuttavia non se ne riteneva degno. Mentire non gli è servito a entrarvi, ma a farlo coi requisiti che egli a torto riteneva indispensabili. Solo in apparenza v’è contraddizione con la sua battaglia per l’abolizione del valore legale del titolo di studio, perché il meccanismo che porta l’impostore a infliggersi una punizione per il suo inguaribile deficit di autostima è tutto inconscio, mentre cercare di rimuovere il pregiudizio che vede il merito maturare in virtù di un iter burocratico è faccenda tutta razionale.

Sulla vicenda che ha visto per protagonista Oscar Giannino si è detto e scritto tanto, più spesso per cader nell’ovvio e dunque per dar libero sfogo al biasimo e allo scherno, sennò per dargli un soldo di pietà. Poco o niente si è detto di Luigi Zingales, e ritengo sia dovuto a un’autocensura: se si doveva biasimare Giannino, si doveva necessariamente esser grati a chi ne aveva smascherato l’impostura, ma al posto di Zingales quanti avrebbero fatto altrettanto, inguaiando un amico e mettendo a repentaglio gli esiti di una comune intrapresa? Ha vinto il riserbo e sulla sua onestà intellettuale, che era la più puntuale negativa della disonestà intellettuale di Giannino, ha prevalso una sospensione di giudizio: avremmo preferito che a smascherare il millantatore fosse stato un suo avversario o uno che caccia bufale per professione.
L’impostore eventuale che è in ognuno di noi – e parlo della porzione più vulnerabile del nostro Io, quella che nessuna autostima riesce mai a soddisfare – ha dimostrato di non tollerare che la punizione possa esserci inferta dal mondo per il venir meno della complicità che di solito ci aspettiamo da un amico e ancor più, forse, da un sodale. Chi si fosse permesso di dire che riteneva Zingales una carogna avrebbe giocoforza dato voce al Giannino che ha pudicamente celato in seno. Meglio sorvolare.

Sono disposto a scusare la debolezza di Giannino, ma penso occorra dir chiaro che Zingales è stato esemplare nel mostrare una virtù tanto rara da sembrare un crimine: ha sacrificato sull’altare della correttezza quel grumo di convenienza reciproca che per pigrizia – solo per pigrizia – chiamiamo amicizia. Perché sarà pur vero che Plato amicus, sed magis amica veritas. E io nutro la certezza che, passato il peggio, Giannino troverà modo di esser grato a Zingales. 

martedì 19 febbraio 2013

Se ieri era un pericolo, oggi è una minaccia

Il M5S non è più un «movimento» ma è diventato una «comunità». Tutto sommato ha poca importanza se sia vero, e ne ha ancor meno se Beppe Grillo ne sia convinto quando lo dice. La cosa importante è la reazione dei suoi quando lo urla dal palco: sembra ci credano, sembra riescano a trovarci motivo di orgoglio, sembra abbiano trovato risposta a un bisogno di appartenenza.
Questa è l’unica novità dello Tsunami Tour, che per il resto è replica del solito one-man-show: i grillini si sentono «comunità». Così diventa finalmente chiaro di cosa volesse essere embrione il «non-partito» creato dalla Casaleggio Associati: in questione, dunque, non era la struttura del M5S, ma la sua stessa natura, che ora mostra i caratteri distintivi della cosa «prepolitica».
D’altronde, definirla «antipolitica» è sempre stato improprio. In senso stretto, infatti, l’«antipolitica» non esiste: anche il rifiuto più netto delle varie espressioni della dimensione politica di per se stesso è un atto politico, né può trovare forma che non sia politica. Peraltro è definizione che Beppe Grillo e i suoi non hanno mai fatto propria, e che anzi hanno sempre respinto.
In secondo luogo, anche a voler dare al termine il significato che in sé condensa i tratti peculiari del populismo e del qualunquismo, l’«antipolitica» rimane categoria in cui il M5S è sempre stato stretto. È luogo di raccolta, infatti, di numerose suggestioni culturali dalle più varie provenienze (giacobinismo, luddismo, pauperismo, ecologismo, democrazia diretta, un po’ di filosofia New Age) che vi confluiscono perdendone la specificità, pur senza arrivare a una vera e propria sincresi: un guazzabuglio di umori, insomma, più che di idee, nel quale chi ha inclinazione alla deriva qualunquista o quella populista trova modo di sentirsi al servizio della palingenesi.
Alla pars destruens della sistematica grillina («comunque vada, sarà un bagno di sangue») viene così ad aggiungersi quella construens («puntiamo al 100%»). Finalmente è chiaro che la polemica antipartitocratica trovava solo un’occasione nell’analisi del sistema politico italiano, ma che in realtà era mossa da un’urgenza profonda, che potremmo definire esistenziale.
Il «partito», infatti, si dà sempre come «parte» di una società, che legittimamente aspira a farsene maggioranza, mentre tende a farsi coincidente con la «società» o con lo «stato»  solo quando esprime velleità totalitarie. Solo in quel caso assume la forma «organica» della «comunità», che invece si dà sempre come un «tutto», fuori dal quale c’è sempre l’estraneo o il nemico.
Lo statuto di questo «tutto» è necessariamente quello dell’«organismo vivente», sicché l’appartenenza ad esso è strettamente funzionale – possiamo parlare di vera e propria cogenza – alla riproduzione della struttura gerarchica che nel «corpo» lega le parti in quell’unità di fine che comunemente è detta «vita», assicurata dalla piena rispondenza di ogni «membro» al «capo».
Ecco, dunque, che tutte le discussioni sul deficit di democrazia interna al M5S perdono significato: in una «società», in un «partito», in un «movimento» esse hanno sempre un senso, e guai se non lo hanno, ma in una comunità lo perdono inevitabilmente, perché non è dato «corpo (umano)» che si regga sulla relazione democratica delle sue parti: la necessità di un Io genera un vincolo di subordinazione tra le «parti» e, se questo viene a mancare, l’«organismo» smette di essere vitale.
Altrettanto vale per la struttura gerarchica a cerchi concentrici che è tipica della setta e che dà statuto al vincolo di subordinazione. Perciò perde senso anche la critica di settarismo che in tanti hanno mosso a Beppe Grillo, perché non si dà setta senza struttura di tipo «organico». Altrettanto vale per le accuse di gestione proprietaria del M5S: non è data titolarità di un «organismo vivente» senza che l’Io se ne possa dire pienamente padrone.
Così, se guardiamo alla «communio» come carattere fondativo della «communitas», ci troviamo dinanzi al modulo ancestrale di organismo «prepolitico» e, per ciò che riguarda il M5S, che non è più un «movimento» ma è diventato una «comunità», il cerchio si chiude. Qui gli individui sono chiamati a restare essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, proprio al contrario di ciò che si realizza nella «società» e nel «partito» – e in massima misura nella «società» e nel «partito» che siano davvero democratici – dove gli individui rimangono essenzialmente separati nonostante ciò che li unisce.
Siamo dinanzi a una «cosa» che ieri era ridicola e oggi è mostruosa. Se ieri era un pericolo, oggi è una minaccia.   

lunedì 18 febbraio 2013

[...]


Se MPS è banca da sempre in mano al Pci/Pds/Ds/Pd, Fassino non avrebbe dovuto dire a Consorte: «Allora abbiamo unaltra banca»? 

Mattei, Carandini, Rossi...





sabato 16 febbraio 2013

«Nulla sarà più come prima»?

Io la penso in altro modo, ma la rinuncia di Benedetto XVI dà la pressoché unanime sensazione che «nulla sarà più come prima», che qualcosa di enorme sia accaduto, stia accadendo o accadrà di sicuro. In realtà, questo convincimento trova molte sfumature, non solo in relazione alla dinamica di quanto sarebbe ineluttabilmente conseguente alla rinuncia, ma anche alla natura stessa del cambiamento, alla sua portata e agli ambiti che ne saranno toccati. Così, per molti siamo alla «rivoluzione» (già in atto o imminente), per altri invece si tratta di «riforma», mentre altri si tengono sul vago e parlano di «choc», oppure ritengono che adesso – come minimo – sia inevitabile un Concilio. E alcuni sostengono che l’ufficio petrino non sarà più lo stesso, altri ipotizzano un effetto a cascata sull’intero impianto ecclesiologico per come fin qui strutturato, altri addirittura vedono l’innesco a miccia corta o lunga per un rivolgimento dottrinario, che alcuni immaginano fecondo e altri catastrofico, mentre alcuni, tra questi ultimi, vedono erosi perfino i plinti teologici sui quali poggia la Chiesa, perché verrebbe messo in discussione il dogma dell’infallibilità papale.
A leggerle tutte, queste analisi, si rimane un po’ confusi: è evidente innanzitutto che, pur partendo tutte dallo stesso punto, divergono da subito, e accelerando in vario modo, per direzioni perfino opposte, nel campo delle ipotesi. E ognuna lascia dubbi. Non si capisce, in primo luogo, perché il Codice di Diritto Canonico consenta al Sommo Pontefice di poter rinunciare al suo ufficio, se da ciò può conseguire – e la pressoché unanime sensazione è che ora necessariamente ne consegua – lo stravolgimento di ciò che invece intende garantire. In questo caso, poi, siamo dinanzi a un testo che dovrebbe assicurare l’inattaccabilità di una struttura che nella sua dimensione gerarchica trova realizzazione della sua natura «organica», cioè di «organismo vivente» che sopravvive solo nel rispetto della funzione delle parti nel suo tutto, e non parliamo di un qualsiasi «stato organico», ma del «corpo mistico» di Cristo. Non sta scritto, qui, che il Papa ha «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa»? Qualsiasi cambiamento abbia a cuore – sia «riforma», sia «rivoluzione» – non può ottenerlo come e quando vuole? «Non si dà appello né ricorso contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice», chi può impedirgli, dunque, di ottenere ciò che vuole da regnante piuttosto che cercare di ottenerlo abdicando? Se «nulla sarà più come prima», dunque, se qualcosa di enorme è accaduto, sta accadendo o accadrà in seguito alla sua rinuncia, insomma, Benedetto XVI non poteva farlo accadere anche rimanendo dov’era? Non bastava volerlo? Se non l’ha voluto, è accaduto, sta accadendo o accadrà contro la sua volontà, dunque per un calcolo errato.
E allora cominciamo a fare un po’ di chiarezza, anche se di sicuro non arriveremo a stabilire cosa cambierà, e quanto, e come: se il cambiamento si rivelerà positivo per le sorti della Chiesa, a Benedetto XVI non dovrà essere attribuito alcun merito. E invece gliene si stanno attribuendo molti, senza poter esser certi che vi saranno cambiamenti, tanto meno se si riveleranno positivi. Se il cambiamento si rivelerà deleterio? È chiaro che la colpa non potrà essere attribuita a lui, ma a chi ha infilato nel Codice di Diritto Canonico la facoltà di rinuncia, che però è nella piena disponibilità del Papa da quando esiste il Papato. D’altronde la rinuncia di Celestino V quale «rivoluzione», quale «riforma» ha portato? Provocò uno «choc»? Sì, probabilmente. Ma ciò che dal XIII secolo ad oggi è cambiato in relazione all’ufficio petrino in qual misura si deve a quella rinuncia? Gli storici della Chiesa non vi danno alcun conto.
Che bordello, eh? E allora proviamo a sbrogliare il gomitolo tirando il filo in un altro punto. Diamo per pienamente efficaci sul clero e sul laicato gli effetti psicologici di questo evento che di sicuro ha solo il fatto che è relativamente raro, e chiediamoci se può essere in grado di portare alla revoca del dogma dell’infallibilità papale, alla ridefinizione del ministero petrino, alla riforma dell’istituto episcopale o del corpo cardinalizio. Potrebbe accadere solo sulla base di un autoripensamento dell’intera struttura ecclesiale, cosa che, quando accade, impiega tempi così lunghi da assorbire e neutralizzare ogni singolo evento, per quanto traumatico sia. Controprova? Si citi nella storia della Chiesa una sola svolta cruciale che possa dirsi effetto di un evento puntiforme, sebbene fin lì inedito, o di rilevante portata.
La Chiesa cambia solo con la lentezza che le dà la sensazione di essere immutabile: se l’istituto petrino muterà ancora, come d’altronde è andato continuamente mutando da Pietro a oggi, non sarà per ciò che Benedetto XVI ha deciso di fare, e questo lo sa bene innanzitutto Benedetto XVI. E allora? E allora siamo alle solite. Ancora una volta ci scappa di dire che «nulla sarà più come prima» perché l’evento che abbiamo davanti è sovradimensionato dalla vicinanza.

giovedì 14 febbraio 2013

Solo una preghiera


Lui lo conosciamo da decenni, non ci ha sorpreso più di tanto. Di lei, invece, almeno fino a tre giorni fa, non sapevamo niente, potevamo solo tirare a indovinare. Era offesa o divertita? Era imbarazzata o stava il gioco? Si sentiva ferita dalla gratuita volgarità del vecchio sporcaccione o era onorata di star lì a duettare con quel vulcano di simpatia? Ho riguardato la scena una dozzina di volte e sarà che difetto della sensibilità che sarebbe stata necessaria, ma non sono riuscito a cogliere alcun disagio in chi tre giorni dopo avrebbe dichiarato che invece era paralizzata dallimbarazzo, e sì che ero avvantangiato dal guardare il video dopo aver letto la sua dichiarazione. Ovviamente credo alla signora e le chiedo scusa per non essere stato in grado di intuire la paralisi. Solo una preghiera, nel caso dovesse capitarle una disavventura simile: per evitarmi sensi di colpa, potrebbe darmi un cenno di paralisi stando zitta? Non dico arrossire, sbiancare, svenire, ma ammutolire ed evitare di sorridere? 

mercoledì 13 febbraio 2013

Non abbastanza vivo, non abbastanza morto


Tra le tante stupidaggini che ci è toccato sentire a commento della rinuncia di Benedetto XVI spicca quella di quanti l’hanno definita un «atto rivoluzionario». A costoro è inutile far notare che la rinuncia è nella piena disponibilità del Papa da quando esiste il Papato, perché si tratta di quei poveri di spirito ai quali pare ardito ogni gesto che rompe una consuetudine, anche quando si tratta di ciò è contemplato dalla legge.
Altrettanto inutile sarebbe far notare a quanti hanno d’istinto tirato fuori il bignamino, per dire che si è trattato di un gesto di «viltade», che la gran parte dei medievalisti rigetta ormai da decenni la vulgata dantesca del «gran rifiuto» sulla base di solidi argomenti in favore della tesi che Celestino V sia stato costretto a firmare una bolla scritta dal cardinal Caetani, e che quindi l’analogia vale quanto un soldo bucato: insinuare che l’Alighieri possa aver dato una versione infedele dei fatti per costoro sarebbe un trauma, meglio evitarlo.
Come interpretare, allora, la decisione di lasciare il pallio sulla tomba di Pietro da Morrone? Penso si tratti del tentativo di accreditarsi unimmagine che è farlocca solo per chi sa che nella Chiesa convivono senza contraddizione, anzi traendone forza, i Caetani e i Morrone. 

A un livello di stupidaggine appena inferiore a queste due letture stanno le rispettive versioni attenuate.
Per alcuni, infatti, «le dimissioni papali vogliono dire con la forza delle cose un’oggettiva desacralizzazione della sua carica […] che in questo caso suona come un invito a ridefinire le gerarchie delle cose, a stabilire priorità più autentiche, […] da[ndo] una lezione spirituale di segno fortissimo» (Ernesto Galli della Loggia – Corriere della Sera, 13.2.2013); in più, «la decisione di Benedetto XVI si colloca dentro il profondo cambiamento avvenuto nell’autocoscienza ecclesiale ed ecclesiologica con il Vaticano II: è una Chiesa che si pensa secondo una reale storicità» (Serena Noceti – l’Unità, 13.2.2013).
Si tratta della tesi dell’«atto rivoluzionario», però attenuata nella convinzione che la rinuncia di Benedetto XVI sia «seme fertile» di «riforma». Meno stupida, ma non di molto, perché basta riandare all’ermeneutica del Vaticano II, sulla quale il dimissionario ha martellato da Rapporto sulla Fede (Edizioni Paoline, 1985) fino a l’altrieri, per capire che questa interpretazione della rinuncia è pesantemente forzata. L’errore, a mio modesto avviso, sta nel pensare che con l’abdicazione di Benedetto XVI l’ufficio petrino prenda – sia un bene o un male  a secolarizzarsi. In realtà è secolarizzato da sempre, perché il mandato di Cristo che si legge in Mt 16, 18 è il risultato di uno stravolgimento del testo originario.

Versione attenuata del «gran rifiuto» per «viltade», invece, è quella del Cristo che «scende dalla croce» venendo meno al suo dovere di bere l’amaro calice fino alla feccia sul fondo, che pure Cristo pregò il Padre gli fosse risparmiato: è l’interpretazione data dal cardinale Stanislaw Dziwisz, segretario particolare di Giovanni Paolo II, che pure alla feccia si arrestò e chiese di essere lasciato libero di «andare alla casa del Padre». Meno sghemba dell’analogia con Celestino V, ma altrettanto impropria. Perché con un Papa in coma non si può convocare un conclave per eleggerne un altro.
Come ho già detto (vedi il post qui sotto), Benedetto XVI lascia perché sente che gli vengono meno le forze per ribaltare il segno del suo pontificato che è quello del fallimento, che non è solo politico, come tutti concordano nel sostenere, ma anche dottrinario. Con la salute malferma che si ritrova, il vecchio Ratzinger teme di dare a questo fallimento le dimensioni del dramma: quello di una Chiesa con un Papa che un ictus tiene inchiodato in un letto, non abbastanza vivo, non abbastanza morto. Probabilmente non è neppure questa evenienza che teme, perché già adesso si sente in condizione pressoché analoga.

Qualche mese fa scrivevo: «Quello di Benedetto XVI si sta rivelando uno splendido pontificato, almeno per noi anticlericali. Mai tanta merda è venuta a galla dal fondo dell’acquasantiera come in questi anni, immergerci due dita per farsi il segno della croce impone ormai più stomaco che devozione. Lunga, lunga vita a Benedetto XVI». Come interpreto la sua rinuncia? Ha voluto farci un dispetto. 

martedì 12 febbraio 2013

[...]


1. Sulle ragioni che avrebbero spinto Benedetto XVI alla rinuncia dell’ufficio petrino ci tocca sentire le ipotesi più fantasiose, mentre la più banale pare sfugga a tutti: si tratta di un 86enne che soffre da tempo di seri disturbi cardiocircolatori e che in anamnesi ha almeno tre episodi di ischemia cerebrale (Roma, 1988; Bressanone, 1992; Les Combes, 2005). Molto probabilmente morirà per gli esiti di un infarto o di un ictus, ma chi può garantire che non entri in coma e ci rimanga per mesi o addirittura per anni? Da ogni punto di vista, ma soprattutto sul piano giuridico, si tratterebbe di una situazione assai più complicata di quella data oggi con la sua rinuncia.

2. «È immaginabile una situazione nella quale Lei ritenga opportuno che il Papa si dimetta?». Molto citata, in queste ore, la risposta che Benedetto XVI dà alla domanda postagli da Peter Seewald in Luce del Mondo (Libreria Editrice Vaticana, 2010 - pag. 53)

Non basta a fugare i sospetti che la rinuncia sia dovuta ad uno scoramento di Benedetto XVI, ad una sensazione di impotenza dinanzi allirriformabilità della «cosa vaticana» che lo avrebbe frustrato, deluso, intristito e indotto a lasciare. È che al dimissionario non si nega un po’ della benevolenza che volentieri si concede a chi muore. Così gli si concede sia unanima bella piovuta dal cielo in un nido di vipere. Di colpo ci si dimentica che  «in forza del suo ufficio, [aveva] potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che [poteva] sempre esercitare liberamente» (Codice di Diritto Canonico, 331), ma non se n’è servito neppure per rimuovere un po  della  «sporcizia» di cui si lamentava alla vigilia della sua elezione al Soglio Pontificio. Di fatto, allontanava Viganò e si teneva accanto Bertone. Dunque lascia perché si è reso conto di essere inadeguato alla soluzione dei problemi? Macché. Ne era sommerso e diceva:

3. Accade ogni volta che muore un Papa, non fa eccezione un Papa dimissionario: si tende a dimenticare che merda duomo sia stato, chiudendo un occhio sui suoi difetti e costruendo virtù inesistenti. In questo caso, retroproiettando la rinuncia, si è arrivati a dire che non volesse diventare Papa, dimenticando quanto aveva rivelato suo fratello: «Joseph l’aveva sempre sognato, fin da quand’era bambino» (Süddeutschen Zeitung, 21.4.2005). 

[...] 

mercoledì 30 gennaio 2013

Uno spaccato clinico

Qualche settimana fa, commentando un articolo di Luigi Manconi (Il Foglio, 11.12.2012), ho messo in discussione  la più comune accezione di carisma che anch’egli dava segno di intendere come una sorta di grazia di cui può essere dotato un leader: ho scritto che  più correttamente deve essere inteso come una sorta di disgrazia nella quale incorrono quanti si fanno seguaci di un leader dalla personalità severamente disturbata, suggerendo che l’attenzione deve essere spostata dal «convesso» del leader al «concavo» del gruppo che lo accetta come tale (Malvino, 13.12.2012). In pratica, rigettavo la definizione del carisma data da Max Weber in Wirtschaft und Gesellschaft («qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva sugli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali, non accessibili alle persone normali, considerate di origine divina, basate su poteri magici»), per accogliere quella di Otto Kernberg in Ideology, Conflict and Leadership (per il quale il carisma è tra gli «effetti paranoiagenetici» di una psicopatologia di gruppo).
Bene, oggi posso produrre un esempio che credo abbia forza di argomento. Si tratta di un passaggio tratto dall’intervento di Angiolo Bandinelli all’ultima Direzione nazionale di Radicali italiani (radioradicale.it, 29.1.2013). Non aspettatevi unillustrazione teorica dellassunto, si tratta più che altro di uno spaccato clinico. 

martedì 29 gennaio 2013

Formazione a vocazione settaria

Qualche settimana fa, in un’intervista concessa a John Hopper (The Guardian, 3.1.2013), Gianroberto Casaleggio ha azzardato un parallelo tra il grillismo e il cristianesimo primitivo: «It’s like Jesus Christ and the apostles. His message, too, became a virus». L’affermazione rivela un tratto di megalomania, ma in buona sintesi racchiude il fine cui ogni setta aspira, perché quella cristiana rappresenta il modello che ha incontrato maggior successo, e infatti quasi ogni setta riproduce in modo più o meno conscio lo schema che ha trovato fortuna nel cristianesimo: una verità indiscutibile incarnata da un capo carismatico, una ristretta cerchia di apostoli che stanno a difesa della fede e a cura del culto, una schiera di discepoli addetti a far proseliti. Nulla di nuovo, dunque.
Più interessante, invece, un’altra affermazione, stavolta sui malumori che da qualche mese serpeggiano nel M5S: «The statute contains rules. If they want to change the rules, they can create another movement». Il tono è risoluto, come di chi affermi il pieno diritto su una proprietà privata insidiata da illeciti appetiti di loschi malintenzionati, però nella sostanza è la dichiarazione dell’intoccabilità dello statuto. Volendo riprendere il parallelo col cristianesimo primitivo, saremmo alla condanna dei primi eretici, ma qui il parallelo non tiene, perché le eresie cristiane dei primi secoli nascevano sulle interpretazioni di quel testo, mentre lo statuto del M5S è assai meno ambiguo del passo che in Mt 16, 18 darebbe fondamento al primato petrino: «Il nome del M5S viene abbinato a un contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso» (art. 3). E dunque Gianroberto Casaleggio ha ragione: il M5S è proprietà privata e chi ne è proprietario può decidere a suo piacimento chi ne fa parte e chi ne è fuori.
Più che un versetto evangelico, a me l’affermazione ha richiamato alla mente lo sbotto di reazione che un leghista o un cattolico tradizionalista potrebbe avere alle lamentele di immigrati musulmani cui sia stata negata la costruzione di una moschea: «Questo è un paese cattolico: se avete voglia di pregare Allah, tornate a casa vostra». Sono disposto a concedere che ci sono delle differenze, ma l’idea di una religione di stato non stride in egual misura con quella di un partito inteso come un club che abbia regole sulle quali non è ammesso discutere o con quella di un movimento politico il cui statuto non sia emendabile da una maggioranza qualificata? E tuttavia, anche se non si arriva quasi mai a esplicitarlo in modo così secco e liquidatorio, questo modo di intendere un partito non è caratteristico, seppure in vario grado, di quasi i tutti leader politici italiani? In altri termini, di fatto se non di diritto, tutti i partiti e i movimenti politici italiani non sono proprietà privata di una persona sola? È vero, c’è l’eccezione del Pd, che è in mano ad una oligarchia, ma per tutti gli altri partiti non vale la regola che la piena disponibilità della linea politica e delle risorse economiche siano nelle mani di uno solo? E allora cosa fa la differenza con una formazione a vocazione settaria? La risposta è nel carattere carismatico della leadership.
Ma del carisma del leader politico ho già parlato qualche mese fa.

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Due e tre mesi fa ero seriamente intenzionato ad astenermi dal voto. Era una decisione alla quale ero arrivato con grande sofferenza, perché ho sempre pensato che votare sia più un dovere che un diritto e un menopeggio – talvolta perfino un moltomenopeggio – non era mai mancato sulla scheda. Stalvolta no, non riuscivo proprio a vederlo: il voto mi sembrava l’avallo a una finzione di democrazia.
«Non ho smesso di credere nella democrazia – ho scritto – [e] con la decisione di astenermi alle prossime elezioni non ho alcuna intenzione di metter[e] in discussione [il principio democratico]: dico solo che in Italia ne è rimasto solo il guscio vuoto – le elezioni, appunto – ma di fatto col voto non si esercita alcun potere, neppure nell’infinitesima misura che un voto dovrebbe avere su milioni di voti. Il sistema dei partiti ha sospeso il principio democratico e si perpetua nella sua sospensione, che il voto rinnova, dandole legittimità. E nessun partito – nessuna coalizione di partiti, nessun fronte transpartitico – può volere sia diverso da com’è, pena il suo dissolversi».
Continuo a crederlo, ma poche settimane dopo c’era la salita in politica di Mario Monti e, non fosse bastato, la ridiscesa in campo di Silvio Berlusconi. Insomma, il menopeggio mi si materializzava dinanzi all’improvviso nel Pd, cui darò il mio voto, ben sapendo che me ne pentirò fin dal giorno dopo. D’altra parte devo confessare che le primarie, al netto dei mille limiti che le hanno contrassegnate, mi sono parse un merito in positivo del partito guidato da Pierluigi Bersani, ulteriormente valorizzato dalla lealtà fin qui mostrata da Matteo Renzi dopo la sconfitta che ha subìto al ballottaggio. Rimane quel che era, il Pd, e non sarà certo il mio voto a renderlo diverso, ma in due o tre mesi il resto è drammaticamente peggiorato: almeno per quanto mi riguarda, è buon pretesto per fuggire l’astensione nell’aleatoria convinzione del cosiddetto voto utile.
Quanto utile possa risultare, poi, è un altro paio di maniche. Ho già scritto, infatti, che, per «sgombrare il campo dalle velleità di chi lavora a un terzo polo, dalle illusioni revanchiste del Pdl, dalle tentazioni populiste e giustizialiste che spuntano ovunque come funghi, dal fardello di un’alleanza piena di incognite come quella con Sel», il Pd dovrebbe conquistare una larga rappresentanza in Parlamento che però gli sarebbe data solo dal successo in regioni nelle quali io non voto. Di fatto, dunque, il mio voto resta inutile, come sarebbe stata l’astensione. Ma sono grato a Berlusconi e Monti per avermi dato modo di non venir meno a ciò che a torto o ragione continuo a considerare più un dovere che un diritto. 

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L’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) rileva un dato incongruente nella compilazione delle schede di dimissione ospedaliera delle gravide che hanno partorito con taglio cesareo: il numero dei feti in presentazione anomala, una delle indicazioni al parto per via chirurgica, è più alto di quanto statisticamente atteso, sicché nasce il sospetto che in molti casi la diagnosi di presentazione anomala sia fasulla e serva a giustificare il ricorso al taglio cesareo anche quando il parto potrebbe essere espletato in modo «naturale». Si profilerebbe il reato di truffa ai danni dello stato, che sborsa 2.457 euro per un taglio cesareo e solo 1.139 euro per un parto spontaneo, con un aggravio di spesa quantizzabile tra gli 80 e gli 85 milioni di euro ogni anno. Tuttavia parrebbe che allo stato non stia a cuore solo il portafoglio, ma pure la salute della donna, che col taglio cesareo sarebbe messa a rischio in misura assai maggiore di quanto accada col parto «naturale». Donde si tragga questo dato, e quanto sia significativo al fine di lanciare l’allarme, non è dato sapere. In realtà, gli studi statistici non mettono in rilievo alcuna sostanziale differenza di rischio per la donna tra parto spontaneo e taglio cesareo, anzi, per quanto attiene alla morbilità del nascituro, il parto per via chirurgica sembrerebbe addirittura un po’ più conveniente rispetto a quello «naturale». Si sbandierano, è vero, dei dati che vorrebbero il taglio cesareo 37 volte più pericoloso del parto spontaneo, ma si omette che è relativo a complicanze di pertinenza urinaria, di entità non più grave a quella che si riscontra nella cateterizzazione. Sospetto per sospetto, viene da pensare che la tutela della salute delle donne sia solo la foglia di fico a coprire la pur legittima tutela delle casse dello stato. Quando si fa spending review, d’altronde, star dietro al portatore d’handicap per vedere se non sia per caso un falso invalido è più facile che tagliare privilegi alle caste e qui parliamo di 80-85 milioni di euro ogni anno, che fa quanto costano 250 auto blu. Non vorrei essere frainteso: personalmente penso che sarebbe giusto fare entrambe le cose. Di fatto, però, tra le due, risulta sempre più facile la prima rispetto alla seconda, e dunque sia, discutiamo di questo enorme numero di tagli cesarei che sarebbero effettuati anche quando le gravide potrebbero partorire in modo «naturale», senza altra ragione – pare – che il furto di denaro pubblico.
Prima di tutto, però, penso che sia necessario un inciso per spiegare perché metto le virgolette a «naturale». È presto detto: «natura» è termine sommamente ambiguo. Se, infatti, il parto per via vaginale è da considerare «naturale», il taglio cesareo sarebbe da considerare «contro natura». Ma questo non vale anche per ogni altro intervento medico che tenda a correggere un evento «naturale» com’è la malattia o a dilazionarne quanto più possibile un altro, altrettanto «naturale», com’è la morte? Non sto dicendo che la gravidanza o il parto spontaneo siano da intendere come momenti patologici: dico che al pari di ogni evento parafisiologico, anche la gestazione e il parto possono presentare momenti di patologia che il medico è chiamato a risolvere con artifici miranti a correggere la «natura», quando questa sembra opporsi a ciò che è da considerare desiderabile. Il punto è un altro: a chi spetta la decisione e a chi tocca assumersene la responsabilità? Forse sarà il caso di ricorrere a un esempio. Anche la riduzione chirurgica di una frattura, quando si suppone che la sua riparazione spontanea possa procedere in modo insufficiente o irregolare portando ad esiti indesiderati, è da considerare «contro natura». In senso stretto, anche un tutore è artificio innaturale e, in generale, potremmo dire che si ricorre sempre ad una pratica «contro natura» quando in campo clinico prende corpo la supposizione che, a lasciar fare alla «natura», il risultato non sarebbe soddisfacente. E tuttavia, di fronte a una frattura ridotta chirurgicamente, non è mai possibile avere la certezza che lo stesso risultato, se non migliore, si sarebbe ottenuto lasciando fare alla «natura». Per meglio dire, sui grandi numeri è possibile discutere e trarre qualche conclusione, perché si tratta di inferire dati che in campo clinico indirizzano la supposizione in un senso o in quello opposto, ma il singolo caso non offre mai l’assoluta certezza che la scelta scartata fosse la migliore, perché non si presta mai a controprova. Così è anche per il taglio cesareo: sui grandi numeri è possibile supporre che in molti casi sia stato inutile e che lo stesso risultato desiderato si sarebbe ottenuto col parto spontaneo, ma sul singolo caso è impossibile dimostrarlo. In pratica, è impossibile considerare inutile la riduzione chirurgica di una frattura che abbia dato buon esito: si può supporlo, ma senza poterne avere certezza.
Ovviamente parliamo dei casi in cui tutto vada bene, quando l’osso torna a posto, non importa se grazie a un semplice tutore o grazie a un intervento chirurgico di riduzione. Nel nostro caso, stiamo parlando dei casi in cui il parto vada a buon fine, spontaneo o no che sia, lasciando fuori dalla discussione quelli nei quali madre e/o figlio abbiano riportato un danno dall’espletamento di un parto spontaneo, lì dove un taglio cesareo avrebbe potuto evitarlo, o viceversa, ammesso sia possibile esserne assolutamente certi. Tuttavia una differenza c’è nel parallelo tra taglio cesareo e riduzione chirurgica di una frattura, perché l’ortopedico a differenza dell’ostetrico arriva alla decisione di intervenire chirurgicamente sulla base di elementi clinici che solo assai di rado vengono messi in discussione dal Ministero della Salute. Di fatto, il numero di riduzioni chirurgiche delle fratture ossee è andato assai aumentando negli ultimi decenni, ma nessuno solleva il sospetto che dietro ci sia una frode. Non è così col taglio cesareo, dove si dà per altamente probabile che la causa stia nella malafede del medico che l’ha considerato necessario. Nel caso in oggetto, però, e stiamo parlando dei dati riscontrati dall’Agenas, cioè della probabile falsificazione di diagnosi di anomala presentazione fetale, si tratta di un falso che è praticamente impossibile accertare una volta che il feto sia venuto alla luce. Che fare, allora, per evitare la truffa?
Non vedo altra soluzione che in un apposito organo dello stato che avalli o no la decisione di un taglio cesareo che il medico abbia eventualmente concertato con la gravida. Insomma, un apposito timbro di autorizzazione all’intervento chirurgico. Questo dovrebbe valere non soltanto nei casi in cui l’indicazione al taglio cesareo sia stata posta da una anomala presentazione fetale, ma in tutti i casi in cui è altrettanto possibile una diagnosi fasulla. In pratica, lo stato dovrebbe assumersi in pieno la responsabilità di decidere al posto del medico il modo in cui una donna deve partorire e, già che ci troviamo, il modo più conveniente di trattare una frattura ossea. Quanto costerebbe? Se costasse meno di 80-85 milioni di euro ogni anno, sarebbe conveniente. Ma, ammesso pure che lo fosse, sarebbe lecito? A me pare che verrebbero lesi alcuni diritti della donna e l’autonomia professionale del medico. D’altronde non sarebbe la prima volta che lo stato italiano sia chiamato a interferire sulla vita sessuale e riproduttiva dei suoi sudditi, perché non arrivare al punto da mettergli in mano anche la decisione che fino ad oggi è stata del medico, ma che comunque trovava realizzazione solo col consenso della donna? A qualcuno fa paura che sia lo stato a decidere la modalità del parto? Può farsela passare pensando al fatto che il fine sarebbe il bene pubblico, come accade sempre, d’altronde, quando lo stato avanza l’amorevole pretesa di prendersi cura dei propri sudditi, risparmiando loro tutte quelle fastidiose decisioni che implicano l’esercizio della libertà e della responsabilità. Oppure? Se non in questo modo, che potrebbe trovare qualche ostacolo nella nostra Costituzione, come può porsi argine all’alta percentuale di tagli cesarei oggi effettuati in Italia? Le statistiche dicono che siamo i primi in Europa. Non potendo liberarci troppo in fretta di ben più infami primati, non vogliamo provare a far diminuire il numero di tagli cesarei? Sì, ma come?
Tra chi sente l’urgenza del problema – un po’ tutti, tranne le donne che hanno partorito con un taglio cesareo – nessuno sembra avere una soluzione: lamentano «l’inarrestabile medicalizzazione di un evento naturale come il parto» (Assuntina Morresi su Avvenire di sabato 19 gennaio, e come argomento non porta altro che l’aver «partorito tre figli per vie naturali», affermando che il «diritto al parto senza dolore è quantomeno discutibile»); denunciano quello che sarebbe uno «scandalo nazionale» (Roberto Volpi su Il Foglio di martedì 22 gennaio, che approfitta dell’occasione per lagnarsi dell’eccesso di attenzioni diagnostiche in gravidanza, che rappresentano «un fattore di rischio per chi deve mettere al mono un figlio»); addirittura paragonano il taglio cesareo a una «mutilazione genitale femminile» (Angiolo Bandinelli nei suoi senescenti sproloqui nei forum radicale); ma nessuno sa dire quale alternativa ci sia.
Chi può impedire ad una donna che non voglia partorire spontaneamente di optare per il taglio cesareo? Chi può contestare la condotta clinica di un ostetrico che in questo o quel caso decide che il taglio cesareo è da preferire al parto spontaneo? Soprattutto, come si può impedirlo? Non si sa, nessuno azzarda una proposta. E dire che, una volta trovata, andrebbe bene pure per mettere un freno a piercing e tatuaggi.   

Il Dio che non esiste ma è necessario

L’ultimo numero di MicroMega (1/2013) chiude con un breve saggio di George Steiner (La morte sta morendo? – pagg. 205-218) che a stralci è stato ripreso da la Repubblica di giovedì 17 gennaio (Addio alla morte – pag. 37). George Steiner si chiede: «La condizione e la fenomenologia della morte classica, rimasta dominante per moltissimi secoli, è in crisi?». È domanda retorica, d’altronde lo sarebbe con qualsiasi altro oggetto «classico» volessimo considerare al posto della morte. Non è in «crisi» pure il modo di concepire la sessualità che dominò per moltissimi secoli? E il modo di concepire la nascita? E la malattia? Sì, ovviamente, perché la «crisi» riguarda sempre ciò che è «classico». Per meglio dire: è «classico» proprio tutto ciò che è andato in «crisi», e per il fatto stesso di essere andato in «crisi». Ancora: il «classico» diventa tale solo quando una «crisi» costituisce ragion sufficiente di considerarne definitivamente chiusa l’esperienza diretta. Che senso ha, allora, la domanda posta da George Steiner? Vediamo se riusciamo ad individuarne il fine, visto che ogni domanda retorica ne ha uno.
Prima di tutto chiediamoci: i «classici» sapevano di essere «classici»? No, ovviamente, perché la «classicità» è sempre antecedente ad ogni presente. Potremmo dire che l’autopercezione della «classicità» sia una contraddizione in termini: nel presente, il «classico» è solo in potenza. È che ogni presente ha nel suo passato un punto rappresentabile come «classico», cioè esemplare, degno di essere preso a modello, anche se la regola vuole sia inarrivabile. Con ciò siamo dinanzi a una percezione della storia come sequenza di cataratte che di «crisi» in «crisi» porta al progressivo deterioramento di un modello ritenuto ideale. In altri termini, siamo dinanzi al culto della tradizione come modello ideale di esperienza che è irreparabilmente perso. Per dirla in altro modo: siamo alla percezione di una rottura nel continuum.
Per George Steiner questa rottura è una «mutazione», dando così per assodato che «la fenomenologia della morte classica» fosse nel patrimonio genetico umano, non già frutto a sua volta di altre «mutazioni», ma cifra connaturata, sennò punto di arrivo di altre «mutazioni», sì, ma tutte necessarie a determinare un modello ideale, tappe di un processo che aveva per fine quello di portare ad uno stadio di insuperabile perfezione, oltre la quale era possibile solo la corruzione.
Leggere la storia umana in questo modo, però, pone un problema insormontabile. Dal Neolitico alla polis greca, infatti, e dall’antica Roma al Medioevo, dal Rinascimento all’Età dei Lumi, la morte non è mai stata uguale a stessa: quando si moriva al modo «classico»? E quando si è smesso? La risposta di George Steiner non è molto diversa da quella di chi lamenta la secolarizzazione: «Mano a mano che i valori scientifici saturano la nostra coscienza, e che le tecnologie si evolvono con un’accelerazione esponenziale, le fantasie sulla trascendenza si fanno ancora più sbiadite o puramente convenzionali».
Non sfugga che quelle relative alla trascendenza sono «fantasie»: siamo alla tesi del Dio che non esiste ma è necessario.