sabato 7 dicembre 2013

Ratzinger era testo, Bergoglio è gesto






«Cuando os diga un jesuita que ha estudiato mucho,
no lo creáis. Es como si os dijeran que ha viajado mucho
uno de ellos que cada día hace quince kilómetros de recorrido
dando vueltas al pequeño de su residencia»
 Miguel De Unamuno, La agonía del cristianismo


Ratzinger era testo, Bergoglio è gesto. Nel raffronto ci si aspetterebbe di trovare più ambiguità in Ratzinger che in Bergoglio, perché i piani di lettura sono sempre più complessi nel testo che nel gesto, ed è nella complessità dell’interpretazione che solitamente si fa largo l’ambiguo. E invece è tutto il contrario: Ratzinger non dava modo di essere frainteso, Bergoglio pure troppo.
Ora, s’io fossi cattolico, la cosa mi procurerebbe ansia. Così s’io fossi un ateo devoto, basta buttare un occhio ai problemi dispeptici di Giuliano Ferrara, che per digerire Bergoglio ci ha messo nove mesi e ancora di tanto in tanto gli sale in gola un po’ d’acido. Peggio sarebbe, addirittura, s’io fossi uno di quei non credenti che prega Dio perché gli mandi un papa mite e tollerante, possibilmente socialdemocratico. Niente di tutto questo, perciò Bergoglio riesce solo ad annoiarmi, come una telenovela sudamericana.

Di più: rimpiango Ratzinger. C’era da decostruire, cazzarola. Qui, come metti mano, t’invischi nel molliccio che non ha forma, né consistenza. Chiacchiere, Bergoglio è tutto chiacchiere e borsone (con dentro Bibbia e rasoio). Insomma, stavi su un’enciclica di Wojtyla o di Ratzinger per notti intere, smontavi, sezionavi, isolavi… Qui, prendi un’intervista di Bergoglio, leggi, e che ha detto? Un cazzo.
Diciamola tutta: Bergoglio non è cattolico, è un esperto di pubbliche relazioni chiamato dal Vaticano a tappare i buchi che con Ratzinger si erano aperti in voragini. Presto per dire se riuscirà a tapparli, ma la sensazione è che stia mettendo la sporcizia sotto il tappeto buono. Verrà il momento in cui non basterà più, probabilmente sarà col suo successore, e allora sarà più chiaro cos’è accaduto realmente tra febbraio e marzo di quest’anno: quello che è parso un conclave di rimonta si rivelerà per ciò che veramente è stato, disperato tentativo di restare a galla dopo il crollo della diga.

Ho provato a trattare Bergoglio da papa, ma mi è riuscito impossibile. Troverei meno imbarazzo nel riportare su queste pagine le furiose diatribe che a dodici anni incrociavo con la mia zia suora sulla Trinità che a perdermi nell’analisi dei suoi fervorini da parroco piacione. In questi nove mesi non mi son perso una sua parola, ma ogni volta che ho messo mano alla penna l’ho subito riposta dicendomi: «Sii serio, hai di meglio da fare che scrostar vernice fresca dal ferro vecchio».
Così con quel polpettone dell’Evangelii gaudium, di cui mi ero imposto un commento: più andavo avanti a leggerlo, più sentivo in imbarazzo, io al suo posto. «Questo non è cattolicesimo – mi dicevo – e forse non è neanche cristianesimo. “Cristo sorrideva”, dice. E dove cazzo l’ha letto?». Insomma, mi sono sentito solidale con quei poveracci della Tradizione ai quali Ciccio I fa giustamente venire l’orticaria e il torcimento di viscere (consiglio la lettura di un post di Almanacco romano che in tal senso è veramente delizioso). Sicché, salvo sortite occasionali, con questo papa non vi aspettate da parte mia l’assiduo interessamento che ho concesso al suo predecessore: preferisco guardare con mio figlio documentari sui dinosauri su Youtube succhiando ghiaccioli. Lui preferisce quelli allamarena, io quelli al limone.  

venerdì 6 dicembre 2013

[...]



Palazzo. Interno, giorno. Saggi discutono attorno a un tavolo – tavolo bellissimo – di legge elettorale. Tramestio, si spalanca la porta, entra la canaglia e fa carneficina. Qualcuno si lascia andare ad atti di cannibalismo…

Resta solo da scegliere il regista, e questo è un bel problema. Per come tira il mercato, la tentazione sarebbe quella di affidarsi a Tarantino, che però affogherebbe l’allegoria nel sangue, budella appese ai lampadari, tutto già visto. Si potrebbe rimediare con un Greenaway, ma il rischio è che ne venga fuori una robetta troppo algida. Buñuel, peccato, è morto. Lascerei perdere Almodovar, appiattirebbe tutto a melodramma pop. Tra i nostri, non vedo chi (la tentazione sarebbe Sorrentino, ma ormai ha già dato). Insomma, abbiamo questa magnifica sceneggiatura, dialoghi limati a puntino, attori che febbricitano in attesa del primo ciak, una marea di comparse che il produttore neanche ha fatto una piega quando ha saputo il costo dei cestini, e ci manca il regista, puttana la miseria zozza.

giovedì 5 dicembre 2013

Nella puttana



Notiziona: «Papa Francesco, su proposta del consiglio degli otto cardinali ha deciso di costituire una specifica commissione per la protezione dei minori con la finalità di consigliare il Pontefice nell'impegno della Santa Sede nella protezione dei bambini e la protezione pastorale delle vittime degli abusi» (ansa.it, 5.12.2013).
Notizietta: «Il Vaticano si è rifiutato di comunicare a una commissione dell’ONU le informazioni relative a una indagine interna sugli abusi sessuali commessi sui bambini e sulle bambine da parte dei membri del clero» (ilpost.it, 4.12.2013).
Nella puttana, in fondo, cosa si nota di più: il fondotinta o la pellaccia che c’è sotto?

Sul luogo comune dell’«amnistia mascherata»

Mi sono sempre detto a favore di un’amnistia, e non ho cambiato idea, ma ho sempre tenuto a precisare che la considero una soluzione squisitamente emergenziale, resa ormai indispensabile a fronte dell’incapacità dello stato di rispettare i diritti umani di chi è detenuto nelle sue carceri, ma sostanzialmente inadeguata a risolvere in via definitiva il problema che la rende necessaria: senza strumenti di pena alternativi alla detenzione in carcere, senza una revisione della misura di carcerazione preventiva, senza la depenalizzazione di alcuni reati, ci troveremmo in breve a dover considerare indispensabile un’altra amnistia, come d’altronde insegna l’esperienza dei tempi in cui se ne decideva una ogni tre anni, con la stessa filosofia che consigliava la concessione dei condoni edilizi.
Anche per questo ho sempre ritenuto, e non ho mai mancato di rimarcare su queste pagine, che cercare di far forte la necessità di un’amnistia col darle il valore di soluzione definitiva o addirittura «strutturale», come qualcuno si ostina a sostenere con sprezzo di onestà e buonsenso, significa giocare sporco sulla pelle di chi sta in carcere, poco importa se per basso calcolo o vacuo umanitarismo.
Questo insistere sulla necessità di un’amnistia di là dallo stretto necessario che la richiede come soluzione emergenziale, d’altronde, produce anche altri argomenti fallaci, tra i quali il più frequente è quello che ce la propone come sanatoria a fronte di un’«amnistia mascherata», per di più «di classe», dunque tanto più odiosamente ingiusta, che si sostanzia nell’impunibilità dei reati che arrivano ad essere prescritti grazie ad avvocati tanto più costosi quanto più bravi che si può permettere solo chi è ricco. Qui, credo, siamo dinanzi a un singolare sproposito che coniuga un luogo comune, vedremo quanto malamente fondato, con la convinzione che l’equità sociale si ottenga segando le gambe a chi è troppo alto, piuttosto che a dare trampoli a chi è troppo basso.
Lungi da me negare che un buon avvocato costa e che il costo è spesso proporzionale all’abilità sul campo e alla conoscenza delle variabili che lo rendono scorrevole o accidentato, d’altra parte, come ogni luogo comune, anche quello dell’avvocato Coppi che sicuramente ti farà assolvere in Cassazione ha un fondo di verità. Di fatto, i numeri dicono che più di un terzo delle prescrizioni maturano nel corso delle indagini preliminari, fase del procedimento in cui il ruolo dell’avvocato è irrilevante. Non è tutto, perché anche gran parte delle prescrizioni che maturano nel corso del processo sono in gran parte dovute a disfunzioni della macchina giudiziaria (difetti di notifica, assenza dei giudici, cambio del collegio giudicante, testimoni che non compaiono in udienza, ecc.), che è non certo il difensore a causare. In pratica, le prescrizioni che si ottengono grazie alla strategia difensiva sono assai meno di quelle che gli stessi avvocati tendono a far credere ai propri clienti per ovvi motivi, senza voler tener conto del fatto che gli espedienti per cercare di far arrivare a prescrizione un reato li conoscono anche i praticanti dopo due o tre anni di esperienza in un qualsiasi studio legale.

F.Z.

Vent’anni fa moriva Frank Zappa. Io eviterei di ricordarlo col video da Youtube, con la foto in cui è seduto sul cesso, con una pagina dallo splendido saggio di Giordano Montecchi sulla sua prassi compositiva, con un distico da The Torture Never Stops... Mi limiterei a rammentarne il suo laicismo, aprendo la sua autobiografia nel punto in cui contesta la vulgata che il God dei Padri Fondatori fosse pur vagamente cristiano, sottolineando che lo fa in un momento in cui il revival del sacro non era ancora arrivato alle convulsioni cui si è abbandonato dopo l’11 settembre. Zappa cita George Washington («Gli Stati Uniti non sono stati per nulla fondati sulla dottrina cristiana»), Thomas Jefferson («Non vedo alcun carattere di redenzione nella cristianità»), Abraham Lincoln («La Bibbia non è il mio libro e il Cristianesimo non è la mia religione. Non potrei mai trovarmi d’accordo con le lunghe e complicate affermazioni del dogma cristiano»), Thomas Paine («Non aderisco al credo professato dalla Chiesa Ebraica, dalla Chiesa Romana, dalla Chiesa Greca, dalla Chiesa Turca, da quella protestante, né da alcuna Chiesa di cui io sia a conoscenza: la mia mente è la mia Chiesa»), e conclude: «I rivoluzionari che hanno dato vita a questa Nazione non erano un mucchio di svitati fanatici con la parrucca che sbavavano per essere guidati dalla Mano Invisibile»

mercoledì 4 dicembre 2013

Pietra e sangue, nome e profumo...

Questa non è una recensione, mi limiterò a rappresentare il lettore che, arrivato in fondo alle 192 pagine, chiude il libro, tira un sospiro e rimane sospeso in un sorriso di gratitudine, perché Pietrangelo Buttafuoco – sì, quello che può risultare antipatico per mille ragioni, e qualcuna anche buona – è riuscito nel miracolo di una storia tra sogno e memoria, passione e intelligenza, stavolta rinunciando pure, come fu con Le Uova del Drago e con L’Ultima del Diavolo, a qualche eccesso di espediente, sicché Il dolore pazzo dell’amore arriva dritto dove deve, e dove forse neppure l’autore pensava di arrivare, nel cuore stesso della «cosa» fatta di pietra e sangue, nome e profumo, zolfo e ciclamino. Avete presente le foto pubblicitarie di D&G? Bene, la Sicilia aspettava uno che venisse a far giustizia di quello scempio. E tuttavia rimane occasione, perché protagonista è l’Esser-ci. 

martedì 3 dicembre 2013

[...]


Manifestazione non autorizzata, lo stesso reato per il quale Daniela Santanchè è stata condannata a 4 giorni di arresto e a un’ammenda di 100 euro, con commutazione della pena alla sola ammenda, aumentata a 1.100 euro: gli occupanti della sede del Pd in Largo Nazareno hanno commesso lo stesso reato e meritano la stessa pena.    

venerdì 29 novembre 2013

[...]




Federico Perna aveva 34 anni, soffriva di disturbi psichici, epatite C, cirrosi epatica e coagulopatia. È morto tre settimane fa nel carcere di Poggioreale, dove era rinchiuso ventidue ore al giorno in una cella di dodici metri quadrati insieme ad altri dieci detenuti. Sputava sangue da una settimana, dicono. Dicono che il suo avvocato avesse presentato in tre occasioni dei referti medici attestanti la sua incompatibilità con lo stato di detenzione in carcere, tutti respinti dai magistrati di sorveglianza.
Questa, la notizia? Macché, si tratta solo del 146° morto nelle carceri italiane dall’inizio di quest’anno. La particolarità di una morte uguale a tante altre, qui, sta nel fatto che la madre di Federico Perna ha detto, e pubblicamente: «Mio figlio è morto perché non avevo il numero della Cancellieri», con la patente insinuazione che linteressamento mostrato dal ministro della Giustizia nei confronti di Giulia Ligresti sia stato di favore. In pratica, ha rimesso in discussione l’onore della Cancellieri: la notizia è che stavolta la Cancellieri tace.

giovedì 28 novembre 2013

«E che ve site perso!»


Quando il Napoli vinse il suo primo scudetto, nel 1987, un pensiero andò ai nonni morti dopo averlo sognato invano per una vita intera, e allora qualcuno – un poeta, senza dubbio – stese uno striscione sul quale c’era scritto: «E che ve site perso!».
Ieri sera m’è tornato in mente pensando a Indro Montanelli, Enzo Biagi e Giuseppe D’Avanzo.   


In difesa del maramaldeggiare


Se la qualità che vuole esprimere è pars pro toto di un individuo realmente esistito, e in effetti è questa la sua pretesa, quasi mai l’antonomasia regge all’onesto giudizio in sede storica,  perciò è figura retorica che andrebbe evitata, tanto più perché didascalizza la qualità che intende far viva con l’esemplarità del campione, privando questo di ogni profondità psicologica e morale, e quella delle sfumature che la rendono umana: in pratica, la qualità acquista la fissità di una maschera dietro la quale il personaggio storico è costretto a interpretare una parte che raramente è quella sua.
Se tradisce il portato, d’altronde, l’antonomasia tradisce anche il portante: quel che si addebita a La Palisse, ad esempio, si deve solo all’errata lettura della sua lapide tombale, e Vespasiano si limitò solo a tassare l’uso degli orinatoi pubblici che esistevano già da lungo tempo, e Pigmalione non era affatto uno scultore, ecc.
La sorte più emblematica, però, è quella toccata a Fabrizio Maramaldo, diventato antonomasia del vile che infierisce sull’inerme che ha subìto una dura sconfitta o comunque versa in gravi difficoltà. La fama – l’infamia, per meglio dire – gli viene dalla storiella messa in giro da Paolo Giovio, un pretastro sulla cui affidabilità di storico oggi si storce il muso, e che per tutta la sua vita fu a servizio di potenti contro i quali Maramaldo si era trovato in campo avverso: è nella sua Historia sui temporis che la si legge per la prima volta, senza alcuna indicazione della fonte.
Di fatto, pare che la storiella non trovi alcuna conferma: Francesco Ferrucci non sarebbe stato affatto ucciso da Maramaldo, ma da Alessandro Vettori, per giunta non dopo essere stato catturato e disarmato, ma in battaglia, mentre è accertato che invece fu il Ferrucci a macchiarsi di un’azione abominevole, uccidendo un messo inviatogli da Maramaldo con l’invito alla resa, un inerme tamburino.
A ciò deve aggiungersi che sono innumerevoli gli attestati di stima che Maramaldo raccolse dai suoi contemporanei e, sebbene fosse un mercenario, negli scritti coevi lo troviamo ripetutamente onorato come soldato di valore e tra i migliori gentiluomini dei suoi tempi. Tra quello dei posteri, invece, va segnalato il giudizio di Antonio Gramsci: «Storicamente può e deve essere sostenuto […] che Maramaldo possa essere stato un rappresentante del progresso storico e Ferrucci storicamente un retrivo» (Quaderno VI).
E tuttavia, sappiamo bene, ciò che dalla storia passa alla lingua prescinde da ciò che è impossibile pesare a distanza. Se sul piano storico, dunque, la questione rimane aperta solo sull’intenzionalità o meno della diffamazione messa in giro da Giovio, su quello relativo al narrato dal quale attinge la retorica, rimane «maramaldo» – comprensibile rimanga – chi infierisce su un inerme, e l’Historia sui temporis fa testo nel dare forma e sostanza al termine. Qui leggiamo che Maramaldo, prima di sgozzare Ferrucci, gli chiede: «Pensasti mai dovermi venir nelle mani quando crudelmente e contra l’usanza della guerra tu impiccasti il mio tamburino a Volterra?».
Nel caso, dunque, saremmo dinanzi a un «maramaldeggiare» che è punizione di chi ha commesso una turpitudine. Turpe anch’essa, senza dubbio, ma meno odiosa di quanto ci era fin qui sembrata.   

lunedì 25 novembre 2013

[...]


Ci saranno gli estremi del reato di vilipendio del capo dello stato in ciò che Sallusti scrive oggi su il Giornale? L’obbligatorietà dell’azione penale (art. 50 c.p.p.) solleva il caso, la pena sarebbe tra uno a cinque anni di reclusione (art. 278 c.p.), ma ovviamente il capo dello stato potrebbe commutare la pena in sanzione pecuniaria (art. 87 cost.), come ha già fatto, e proprio con Sallusti. Sarebbe un altro giro di valzer.  

domenica 24 novembre 2013

Precedenti

Madonna mia, come piove, oggi!

C’è una particolare forma di ricorso all’autorità, inteso come fallacia argomentativa, che consiste nel dimostrare insostenibile una tesi trovata non pienamente dimostrata in chi se ne faccia autorevole sostenitore. In pratica, si tratta del ricorso ad un difetto dell’autorità che sostenga quella tesi nel tentativo di dimostrare come vera quella opposta. Ora noi sappiamo che argomentare è uno strumento di persuasione e che il fine di persuadere può servirsi di ogni mezzo, retto o scorretto, valido o invalido. Non ci dobbiamo stupire, quindi, se questa particolare forma di fallacia sia pratica comune di chi sostiene tesi opposte riguardo a questioni di consistente rilevanza. Ma forse è meglio ricorrere a un esempio per penetrare il movente psicologico che spinge all’uso di questo strumento retorico, e io penso che la secolare disputa sull’esistenza di Dio sia quello migliore.
Così, chi crede che Dio non esista riterrà argomento estremamente persuasivo il segnalare un difetto di argomentazione in chi è autorevole assertore della sua esistenza, anche laddove questo difetto si manifesti in una più o meno palese incongruenza tra il dire e il fare: è il caso in cui si tenta di dimostrare che Dio non esiste perché il tal gran teologo va a puttane o perché la tal pastorella che ha visto la Madonna mostra franchi sintomi di psicosi. Di converso, chi crede che Dio esista riterrà argomento estremamente persuasivo il segnalare un difetto di argomentazione in chi è autorevole assertore della sua non esistenza. Qui, però, la casistica si apre in un ventaglio assai più ampio: si va dal ritenere dimostrato che Dio esista con la conversione in punto di morte di chi per una vita intera è stato autorevole sostenitore della sua non esistenza, ma pure per il fatto che ancora in vita, sbattendo con lo stinco contro un tavolino, una volta abbia esclamato: «Per Dio!».
Bene, suppongo non occorra produrre documentazione per asserire che, mentre è sempre più raro da parte degli atei il ricorso a questa fallacia, da parte dei credenti è diventato un vero e proprio sport. Ormai sono decenni che intere squadre di esaltati in missione per conto di Dio passano al setaccio le biografie e i testi dei più prestigiosi senzadio della storia alla ricerca, se non della pepita d’oro di una fede inconscia da far splendere ripulendola del fango nel quale era immersa, almeno della scaglia di quarzo che con la luce giusta, vista di sguincio, possa sembrare, se non fede, un suo embrione. È qui che il movente psicologico cui facevo cenno prima si rivela nella sua pienezza, perché in fondo l’ateo che ritiene di poter dimostrare che Dio non esista compilando elenchi di papi sifilitici o di mistici intossicati da pagnotte di segala contaminata da Claviceps purpurea è figura eroica di tempi ormai andati, più unica che rara, mentre invece il credente che ritiene di poter dimostrare l’esistenza di Dio nelle più diafane sfumature di fede intravviste in pensieri, parole, opere e perfino omissioni di famosi miscredenti è tuttora militante in servizio permanente, e lo si trova lungo tutto il carotaggio del pluristratificato mondo cattolico, dal cardinale che sembra un Bacio Perugina, per come è sempre avvolto nel cartiglio di una citazione, al blogger che per testata ha il santino di Padre Pio, e cerca di dimostrarti che in Zarathustra c’è tantissimo di San Giovanni Battista. Con una così ampia campionatura il lavoro è agevole e il risultato non fa fatica ad essere acquisito: il movente psicologico del credente che si prefigge di dimostrare che anche l’ateo – in fondo, in fondo, in fondo – ha fede è quello di esorcizzare ogni suo dubbio e, in generale, fare del dubbio un corollario della prova ontologica di Sant’Anselmo.
Secondario, ma non meno pressante, è il tentativo di neutralizzare l’opinione corrente, a dispetto del revival del sacro, che la fede sia il vicolo cieco in cui va a rifugiarsi la ragione che non ha risposte da dare al mistero, che d’altronde non le pone, perché muto e sordo. È opinione corrente che ha contaminato anche i cattolici, e anche quelli più attrezzati, al punto che ormai alla teologia dogmatica preferiscono la precettistica morale. Capita anche a loro, in qualche modo, quello che capitò ai neofascisti quando divenne egemone la cultura marxista: rimanevano neofascisti, ma si dibattevano come mosche nella ragnatela del materialismo dialettico. Da questo punto di vista, potremmo dire che il fronte più avanzato della secolarizzazione sta proprio in chi vi si oppone.
Ma qui divago, peraltro questo è tema che ci porterebbe lontano, cioè dentro quel cattolicesimo che – mi si conceda il paragone – ormai non è più Oriente di quanto non lo sia l’orientalismo. Torniamo a noi, dunque.
Torniamo a chi ritiene di poter dimostrare che Dio esista (in subordine: che non esista, ma sia necessario) rintracciandone un qualcosa (e non importa cosa) in atei dichiarati, anche se il lavoro è più agevole con gli agnostici o con quanti, pur avendo dichiarato in vita di non credere in Dio, abbiano lasciato traccia di un ruttino metafisico, d’un qualsiasi senso del sacro che possa manipolarsi in una pur incompiuta forma di agnizione del divino, d’un «Madonna mia, come piove, oggi!». Non importa cosa fossero in vita, l’importante è che siano famosi, per farsi esemplari, e via a pettinarne le chiome nella speranza di trovare il Gran Pidocchio. Lena uguale e contraria che si osserva in chi ritiene che la legittimità della scelta omosessuale si faccia più legittima nell’elenco di famosi omosessuali come Socrate, Leonardo, Michelangelo, ecc. Così nel caso de Il Foglio, che, dopo Camus e Lacan, ieri ci provava con Sciascia. Il quale, a onor del vero, si è fatto lavorare assai più malleabilmente.
«Ho sempre pensato che non è facile essere atei, totalmente e rigorosamente atei»: se era difficile per lui, con quale ottusa arroganza puoi dichiararti tale, tu? «Mi sento cristiano, checché ne dicano i preti»: detto come l’avrebbe detto Benedetto Croce, ma, insomma, fa brodo. Voilà, pur sempre in qualcosa credente, «lo scettico Sciascia». Hai voglia a dire che «c’è un solo, vero e fervido segno di religiosità, di religione che mi pare scenda oggi nel cuore degli uomini ed è il desiderio e la speranza della pace»: anche in quelli, gratta e gratta, non può esserci che Dio.

venerdì 22 novembre 2013

Perdindirindina

«Mio figlio riceve l’offerta di lavoro da Fonsai il 25 maggio 2011 e nel successivo mese di giugno inizia il suo rapporto di lavoro con la stessa società. In quel periodo io avevo già cessato le funzioni di commissario straordinario presso il Comune di Bologna ed ero una tranquilla signora in pensione che mai avrebbe pensato di poter diventare ministro dell’Interno nel successivo governo», così Anna Maria Cancellieri in un passaggio del discorso da lei tenuto in Parlamento, lo scorso 5 novembre. Ancorché implicito, l’argomento sembra forte: perché i Ligresti avrebbero dovuto fare un favore al figlio se in cambio non potevano più avere nulla dalla madre, ormai avviatasi a lasciare ogni carica pubblica?
L’argomento, in realtà, è davvero forte ad una sola condizione: che tra il maggio e il giugno del 2011, pochi mesi prima che Mario Monti la mandasse inaspettatamente al Viminale, Anna Maria Cancellieri considerasse davvero chiusa la sua carriera e non nutrisse più alcuna ambizione a ricoprire incarichi più impegnativi e qualificanti di quelli ricoperti fino ad allora.
Bene, sembra che le cose non stessero affatto a questo modo, perché il comunicato del 20 novembre 2013 col quale il portavoce di Anna Maria Cancellieri si precipita a smentire le dichiarazioni fatte da Salvatore Ligresti nel corso dell’interrogatorio del 15 dicembre 2012 presso la Procura di Milano, si legge: «È surreale pensare che abbia potuto chiedere un interessamento per rimanere a Parma, potendo ricoprire incarichi più impegnativi e qualificanti».
Non si capisce, insomma, se poco prima d’essere chiamata a fare il ministro dell’Interno, quando era ancora commissario prefettizio di Parma, si sentisse davvero a fine corsa, come diceva due settimane fa, o invece, come dice oggi, corresse ancora, e di gran voglia, e con grandi aspettative. Anche su questo punto, perdindirindina, il caso Cancellieri sembra voler trovare soluzione solo nellambiguità.