martedì 25 ottobre 2016

La Pala Radolovich


Una trentina danni fa, nellArchivio Storico del Banco di Napoli, fu trovata una commissione di pagamento per 200 ducati, datata 6 ottobre 1606, che Nicolò Radolovich disponeva in favore di Michelangelo Merisi, il Caravaggio, come acconto per una «pittura che lha da fare et consignare per tutto dicembre prossimo venturo daltezza palmi 13 e mezzo et larghezza di palmi 8 e mezzo con le figure cioè di sopra, lImagine della Madonna col Bambino in braccio cinta di cori dAngeli et di sotto S. Domenico et S. Francesco nel mezzo abbracciati insieme dalla man dritta S. Nicolò et dalla man manca S. Vito».
In fuga da Roma, il Caravaggio era stato preceduto a Napoli dalla sua fama, e quella del Radolovich era solo una delle commesse che lavrebbero tenuto impegnato nei mesi successivi al suo arrivo in città. Incassò e depositò lanticipo, prelevandone la gran parte una ventina di giorni dopo, ma della Pala Radolovich non si è mai più saputo nulla. Fino allaltrieri, almeno.
Laltrieri, infatti, i responsabili del Cartastorie, il Museo dellArchivio Storico del Banco di Napoli, hanno annunciato che giovedì 27 ottobre il mistero sarà svelato. Caricando di suspense levento, ildenaro.it resta sul vago: «Una conclusione del tutto inaspettata». Qualcosa in più si apprende da ilmattino.it: «Grazie alle moderne tecnologie verrà mostrata al pubblico la pala o almeno come avrebbe dovuto essere il dipinto». Sembra si possa escludere il ritrovamento dell’opera o la sua identificazione in un dipinto fin qui attribuito ad altro autore: probabilmente sarà presentato al pubblico un collage, ritagli di altre opere del Caravaggio assemblati a comporre il gruppo descritto dalla specifica di commessa, e non c’è da dubitare che il risultato potrà pure avere un qualche fascino, giacché a costruirlo si saranno certamente chiamate delle eccellenze, sia in quanto a conoscenza della pittura del Seicento, sia in quanto a impiego di Photoshop. Operazione che merita comunque un plauso, e prim’ancora di aver avuto modo di vederne il risultato, perché in fondo è meglio buttar via denaro a questo modo piuttosto che al modo di Banca Etruria e del Monte dei Paschi di Siena.
Ciò detto, credo che per la fin qui introvabile Pala Radolovich possa tornar utile il rasoio di Occam, rammentando che di un’altra opera del Caravaggio, anchessa composta a Napoli tra la fine del 1606 e linizio del 1607, e che oggi è esposta a Vienna (Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie) non si è mai saputo chi fosse il committente o a quale altare fosse destinata, né si è mai trovata notizia di pagamento per la sua realizzazione: parlo della Madonna del Rosario. L’ipotesi che qui mi appresto ad argomentare è che molto probabilmente la Pala Radolovich altro non sia che la Madonna del Rosario.
Rammentando che nel Seicento, a Napoli, il palmo equivaleva a 26,45 cm, comincerei col dire che le sue dimensioni (cm 364,5 x 249,5) corrispondono più o meno a quelle pattuite col Radolovich, e che in essa è effettivamente presente «lImagine della Madonna col Bambino in braccio» richiesta dal committente. Da qui in poi, le possibili obiezioni, che concedo non siano poche: nella Madonna del Rosario non vi sono i «cori dAngeli» che voleva il committente; i santi, che dovevano essere quattro, sono solo due; al posto dei due santi mancanti, sono presenti, inginocchiati, tre lazzari, una donna con suo figlio, un gentiluomo con gorgiera e, in piedi, alle spalle del santo a destra, due personaggi non bene identificabili. Come spiegare queste vistose incongruenze rispetto a quanto era stato concordato col Radolovich?
Il Caravaggio arriva a Napoli in condizioni economiche assai precarie e la commessa del Radolovich arriva nei primi giorni in cui il pittore mette piede in città, quando ancora non gli era stato consegnato lanticipo per metter mano alle Sette opere di misericordia e ben prima che lo strepitoso successo ottenuto da questopera gli procurasse altre richieste e corposi incassi: quel denaro gli era indispensabile, non poteva rifiutare lofferta.
Al momento di accettarla era già intenzionato a prendersi delle libertà rispetto alle indicazioni del committente? Non lo sappiamo, di certo non si sarebbe trattato della prima volta che un committente poi rimanesse contrariato, si pensi a cosa era successo a Roma con la prima versione di Matteo e langelo e con la Morte della Vergine.
Di fatto, il Caravaggio non aveva mai dipinto «cori dAngeli», sebbene proprio per la Morte della Vergine gli fossero stati espressamente richiesti, né ne avrebbe mai dipinti successivamente. Cè da dire, poi, che una composizione come quella richiesta dal Radolovich non consentiva al Caravaggio di dare allopera la forte tensione scenica alla quale non avrebbe mai rinunciato: il quadro avrebbe avuto una dimensione troppo statica, mentre invece il brulicar di vita che aveva trovato nei vicoli di Napoli aveva ulteriormente acuito la sua predilezione per figure in movimento, colte in istantanee di gesti di umanissima quotidianità. Tutto gli sarebbe stato possibile, tranne il santino devozionale col quale il Radolovich pensava di poter ornare la sua cappella a Polignano a Mare, dove però, guarda caso, ancora oggi è viva la devozione alla Madonna del Rosario, cui da secoli è dedicata una festa che si tiene ai primi di ottobre, e la commessa del Radolovich arriva proprio in quei giorni.
Non ci sarebbe da stupirsi se il Caravaggio si fosse preso, come al solito, un po’ troppa libertà e il committente avesse rifiutato lopera, che probabilmente ai raggi X potrebbe pure rivelare qualche successivo aggiustamento allo scopo di destinarla ad altro acquirente. In tal senso si giustificherebbe leventuale aggiunta del personaggio con gorgiera inginocchiato ai piedi di San Domenico e col viso rivolto verso chi guarda il quadro: potrebbe trattarsi della persona che avrebbe dovuto acquistare lopera rifiutata dal Radolovich.
Come dicevo, si tratta solo di unipotesi, ma penso che darebbe risposta a tutti gli interrogativi, attualmente senza risposta, relativi alla Pala Radolovich (fu veramente dipinta? se sì, che fine ha fatto?) e alla Madonna del Rosario (chi la commissionò? perché non si ha traccia di commessa e di pagamento?).

Nota Un lettore mi fa presente che la Madonna del Rosario è stata analizzata ai raggi X, ma che i risultati tenderebbero a escludere che lopera abbia subito aggiustamenti tali da lasciar credere che l’impianto originario rispondesse a quello richiesto dal Radolovich per elementi successivamente modificati (la fonte, tuttavia, non entra nel dettaglio, dunque non è dato sapere su quali argomenti poggi un’affermazione tanto categorica). Mi pare che questo non faccia cadere comunque lipotesi da me avanzata: anche per altre opere del Caravaggio che furono rifiutate dal committente, l’esame radiografico non rivela modifiche che siano motivabili dal rendergli accettabile il dipinto o dall’accomodarlo al gusto di un altro acquirente.    

lunedì 24 ottobre 2016

Ansvald il Piccolo


La mano è senza dubbio quella di Ansvald il Piccolo (Bruges, 971? - Lione, 1028), basti il raffronto coi miniati di attribuzione certa, in particolar modo col Libro di Giona (British Library). La gascromatografia dei pigmenti, poi, conferma che la tavolozza è indubbiamente sua, che i materiali sono quelli da lui solitamente impiegati (cfr. H. Voeller, Ansvald, Losanna 1940). È il supporto, tuttavia, a porre il problema, e problema non irrilevante, perché la miniatura è dipinta sul margine di pag. 347 di una copia de Lape latina, un manualetto Hoepli stampato nel 1911, lì dove l’Indice di alcune cose notevoli rimanda al «sunt lacrimae rerum...» di Virgilio (Eneide, I, 462): miniatura racchiusa in una striscia di poche lignes, che a occhio nudo sembrerebbe uno sbavo d’inchiostro, ma che alla lente (≥ 50) rivela la sublime arte del pennellino a un sol pelo, della quale «il Piccolo Grande Ansvald», come era solito chiamarlo il compianto Oreste Federzoni (Ansvald il Piccolo, Firenze 1952), fu insuperabile maestro. Siamo dinanzi ad un’allegoria, è evidente: un povero blogghero (proparossitono, equivalente medievale del moderno blogger) annaspa nel lapislazzulo di uno sconfinato oceano di ignoranza dal quale emerge qui e lì l’ematite di alcune isole di malafede, e, a esprimerne lo stato danimo, ecco un cartiglio svoltolato sul suo capo, a mo di fumetto, recante iscritta la seconda parte del verso di Virgilio («… et mentem mortalia tangunt»). 

lunedì 17 ottobre 2016

Non segue

Lart. 56 della Costituzione è fra quelli risparmiati dalla riforma che il 4 dicembre sarà sottoposta al vaglio referendario, e dunque, anche nel caso in cui fossero i Sì a prevalere, al suo terzo comma continuerà a recitare: «Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno della elezione hanno compiuto i venticinque anni di età». Nel caso in cui fossero i Sì a prevalere, però, al Senato entrerebbero 95 amministratori locali (74 consiglieri regionali e 21 sindaci) eleggibili al compimento del 18° anno di età, sicché potremmo avere dei senatori anche di sette anni più giovani dei deputati, e questo in barba al fatto che in latino «senator» significa «più vecchio».
È col segnalare questa assurdità che intendevo aprire il seguito di Una merda di riforma costituzionale (Malvino, 3.10.2016), ammettendo che sostanzialmente fosse irrilevante e tuttavia emblematica di quel patente analfabetismo istituzionale che ha dato il peggio di sé in assurdità ben più rilevanti sul piano pratico. E ad analizzare queste mi disponevo quando un déjà vu mha paralizzato: mi sono rivisto alla tastiera del pc ai tempi dei referendum sulla legge 40, e ho ripensato a tutti i post scritti a quei tempi. Sono andato a rileggerli, e vi ho trovato tutti gli argomenti che sarebbero stati fatti propri dalle sentenze che in questi ultimi dieci anni hanno fatto a pezzi la legge, ma che a quei tempi su queste pagine potevano tuttal più aspirare a rinsaldare nella propria convinzione chi già fosse convinto che quella legge fosse cretina e crudele.
Non è tutto, perché poi è accaduto un fatto decisivo nel togliermi ogni residua motivazione nel continuare la mia personale rassegna degli spropositi contenuti nella riforma: ho scoperto che non ero stato il primo a notare lassurdità dei senatori più giovani dei deputati, laveva già segnalato Emanuele Rossi (Una costituzione migliore? – Pisa University Press, 2016). Ecco, mi son detto, non c’era certo bisogno che lo facessi notare io. 
E qui ho tirato i fili: su alcune questioni, e in certi contesti, la ragione è impotente, e i suoi tentativi di farsi valere possono aver senso solo come contributo testimoniale, e solo a futura memoria, dunque nellatto di fede, assurdo come tutti gli atti di fede, che la ragione abbia un futuro. Atto di fede, questo, che oggi pare assai più assurdo che in passato: già da tempo la discussione pubblica è impermeabile alla logica della retta argomentazione, e la persuasione è sempre più spesso affidata allo strumento delle più rozze fallacie, che oggi, molto più di quanto sia stato in passato, risultano straordinariamente efficaci in un foro animato da impulsi primordiali che spesso rivelano la neutra cogenza che domina la materia inorganica.
È tempo di decidere, mi son detto: mettersi in posa da martiri o ritirarsi in un discreto silenzio su tutte le questioni che esigerebbero uno sforzo di intelligenza, inesigibile da unopinione pubblica ormai abbrutita dalla paura e dallignoranza.
Io credo che a prevalere saranno i Sì, credo che sia del tutto inutile discutere della riforma costituzionale sulla quale si voterà il 4 dicembre, credo che nel merito interessi a pochissimi, e che dunque il voto la toccherà solo come pretesto. Daltronde, via, siamo onesti, questo paese merita di essere governato da Matteo Renzi, e chi siamo noi, sparuta minoranza di irriducibili cultori della democrazia parlamentare e della divisione dei poteri, per poter pretendere di togliergli dal grugno quelle smorfie da dittatorello in erba?

lunedì 10 ottobre 2016

lunedì 3 ottobre 2016

Una merda di riforma costituzionale / 1

«Correggere una costituzione
non è impresa minore
del costruirla la prima volta»

Aristotele, Politica IV, 1 (1289 a 5) 



«La costituzione di un paese
non è un atto del suo governo,
ma del popolo che costituisce il governo»

Thomas Paine, I diritti delluomo (1791)



I. Al referendum che si terrà il 4 dicembre gli italiani saranno chiamati a esprimersi su una riforma che modifica più di un terzo degli articoli della Costituzione ai titoli I, II, III, V, VI della sua Parte II.
Già qui mi pare si ponga un problema non irrilevante, quello relativo alla libertà del voto, di fatto negata su ciascuno dei tanti articoli toccati dalla riforma, per lasciare allelettore solo la possibilità di esprimere un parere complessivo su un pacchetto quanto mai disomogeneo nei suoi contenuti, con ciò disattendendo allindicazione più volte espressa dalla Consulta circa la necessità che ogni progetto di legge debba rispettare i caratteri di omogeneità e autonomia riguardo ai contenuti e quello di coerenza riguardo alla loro sistematicità. Non cè da stupirsene, perché ad approvare questa riforma è stato un Parlamento eletto con una legge elettorale poi riconosciuta incostituzionale, e della quale avrà voluto dimostrarsi allaltezza.
Al dubbio sulla legittimità giuridica, se non morale, che un tale Parlamento potesse metter mano a una riforma costituzionale si è soliti opporre il fatto che la Consulta non ha dichiarato illegittimi gli atti legislativi licenziati dalle Camere elette con una legge elettorale che pure dichiarava incostituzionale, ma si dimentica che il principio sul quale si reggeva quella che al buon senso suona come una contraddizione era quello della prorogatio che la Costituzione concede al Parlamento solo al fine di riempire il vuoto che a seguito di nuove elezioni si crea in attesa che vengano convocate le nuove Camere (art. 61) oppure, e perciò espressamente chiamate a supplenza, per la conversione in legge di decreti prossimi a scadenza (art. 77): una prorogatio, dunque, finalizzata esclusivamente al disbrigo di affari correnti, non per darsi tempi e compiti da Assemblea Costituente.
Ma così – si obietta – si sarebbe andati alle elezioni con il proporzionale del cosiddetto Consultellum. Bene, anzi benissimo, quale altro sistema avrebbe potuto rappresentare al meglio tutto il Paese in Parlamento al fine di dare un segno di condivisione ad una nuova legge elettorale e ad una revisione della Carta della quale i partiti politici si facessero esplicitamente promotori col loro programma elettorale? O è da ritenersi più corretto che, sul piano politico, questa riforma sia nata per liniziativa di un partito che non la contemplava nel programma col quale chiedeva voti agli elettori e che, sul piano istituzionale, sia stata promossa da un governo che non si è risparmiato in colpi di mano in Commissione e in Aula per farla approvare in via definitiva da soli 361 deputati su un totale di 630?
Si risponde fosse una riforma non più prorogabile, e dunque non importa troppo come si sia arrivati alla sua approvazione, l’importante è che al più presto venga meno il bicameralismo perfetto, che d’altronde non piaceva nemmeno a Piero Calamandrei, del quale probabilmente si ignora quanto scrisse sulla necessità che un governo si tenga fuori dal processo di revisione costituzionale: «Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana» (Come nasce la nuova Costituzione, 1947).
Date queste premesse, la riforma sulla quale gli italiani sono chiamati a esprimersi il 4 dicembre non si sarebbe dovuta neppure scrivere. Per votare no, potrebbe bastare anche solo questo.

II. Laddove non si considerassero valide le ragioni fin qui esposte, basta rammentare i passi salienti che hanno segnato il suo iter parlamentare, a cominciare dall’impulso datole da Giorgio Napolitano come condicio sine qua non dell’accettare la sua rielezione al Quirinale, che non è esagerato definire una vera e propria mostruosità istituzionale, forse il punto più basso nella storia dell’istituto della Presidenza della Repubblica, peraltro già ampiamente stravolto nel settennato che si era appena chiuso: il Capo dello Stato prendeva un’iniziativa che andava ben al di là delle prerogative assegnategli dalla Carta, sulla quale poneva una vera e propria questione di fiducia al Parlamento, arrogandosi il diritto di poter chiedere al governo di cui avrebbe nominato il Presidente del Consiglio un impegno vincolante in tal senso, per poi spendersi giorno dopo giorno, quasi sempre in forma assai irrituale, come dominus delliter parlamentare.
È il pressing del Quirinale a fare degli esecutivi di Enrico Letta, prima, e di Matteo Renzi, poi, dei governi di scopo, e lo scopo è fissato da Giorgio Napolitano. Il cosiddetto cronoprogramma di Enrico Letta trova perplessità in seno al suo stesso governo con gli interventi critici di Emma Bonino e di Andrea Orlando, che tuttavia non trovano voce in capitolo: «Non ho intenzione di tirare a campare – dichiara Letta – e tra diciotto mesi tirerò una riga: se sulla riforma non c’è nulla, ce ne andiamo tutti a casa». Ma c’è chi scalpita per prenderne il posto, perché non corre abbastanza: «È un incapace», dice Matteo Renzi, intercettato a colloquio telefonico con Michele Adinolfi, generale della Guardia di Finanza, e dopo il noto #enricostaisereno va a chiederne la testa alla Direzione del Pd, che gliela concede.
Ora Napolitano può contare su uno che i cronoprogrammi se li mangia: pronta rimozione dei parlamentari del Pd che avevano espresso qualche riserva nella Commissione Affari Costituzionali del Senato; rimozione del relatore di minoranza, Roberto Calderoli, con una motivazione (il patto del Nazareno si è esaurito) che dovrebbe far rizzare i capelli in testa a chiunque sappia che le procedure di revisione costituzionale non possono essere alterate per congiunture di natura politica; su iniziativa del senatore Roberto Cociancich, una ventina d’anni prima capo-scout di Matteo Renzi, passa un emendamento che annulla il voto segreto su tutte le votazioni che il governo riteneva a rischio; pur di non rivedere il testo della riforma, che avrebbe fatto perdere tempo prezioso, passa nella stesura definitiva della modifica dell’art. 57 la patente contraddizione tra il comma 2 (i membri del nuovo Senato saranno eletti dai Consigli Regionali) e il comma 5 (tale elezione dovrà avvenire in conformità alle scelte degli elettori).
Approvata in via definitiva a tempo di record, ma senza ottenere i voti dei due terzi delle Camere, la riforma si avvia giocoforza al vaglio referendario previsto dall’art. 138 della Costituzione, che Renzi si sente in diritto di spacciare come gentile concessione del suo governo con una motivazione che ha dell’incredibile («l’avremmo indetto comunque»), ma sulla quale è probabile ritiene offesa che si abbia qualche dubbio. In fondo, via, si tratta di un uomo di parola.
Ma sarà il caso di passare al merito della riforma.

[segue]


domenica 2 ottobre 2016

venerdì 30 settembre 2016

[...]



Qualche notte fa ho scoperto che, dalluna alle cinque, La7 manda in replica le puntate di Ottoemezzo, L’aria che tira e Tagadà andate in onda il giorno prima, e probabilmente la percezione sarà stata amplificata dalleffetto di compressione causato dal guardarle di seguito, ma ho trovato estremamente fastidiosa, fino a punte di forte irritazione, la faziosità di Lilli Gruber, Myrta Merlino e Tiziana Panella, una faziosità insopportabilmente sfacciata per quel certo maldissimularla che mi è parso fosse intenzionale, studiato, quasi a voler suggerire al telespettatore che, anche a cercare di imporsela per salvare le apparenze, limparzialità rispetto alle due opposte posizioni da moderare in sede di confronto fosse umanamente insostenibile, anche se formalmente rispettata. Nello specifico, mi è parso che, con un insistente ricorso a spudorati ammicchi, didascaliche smorfiette e battutine del cazzo, le tre signore intendessero comunicare al telespettatore qualcosa del tipo: è pacifico che il referendum sulle riforme costituzionali sia una sfida tra il coraggio dellinnovazione e l’ottuso istinto di conservazione, ma a me tocca, e che fatica, trattare alla pari entrambi i contendenti che oggi ho invitato nel mio salottino. Così per le faccende riguardanti il M5S: caro telespettatore, fosse per me, nemmeno l’avrei invitato questo bifolco d’un grillino, ma qui mi sta a rappresentare un terzo dell’elettorato e devo impormi di trattarlo alla pari dei rappresentanti degli altri due terzi, ed è dura, sono certa che comprenderai quanto mi costa.
Un renzismo così odiosamente strisciante, quello delle tre signore, che il renziano di turno, pur ributtante com’è per la media dei renziani che in tv ripetono a pappagallo gli hashtag del capo, finiva regolarmente per risultarmi assai più dignitoso della conduttrice di cui era ospite (e in un caso si trattava di Fabrizio Rondolino, il che è tutto dire).
Quattro ore di propaganda di regime malcamuffata da equilibrato confronto tra le parti, e con la quasi compiaciuta strafottenza sulla pessima qualità del camuffamento. E non si tratta della Rai ormai per tempo militarmente occupata dagli sgherri di Matteo Renzi, né si tratta delle reti Mediaset che ormai da mesi sembrano seguire più la linea di Denis Verdini che quella di Renato Brunetta: si tratta di La7, quella che il giovedì manda in onda Corrado Formigli, e il martedì Giovanni Floris, che risaputamente non smuovono un voto, ma che cinque giorni a settimana, nelle ore in cui trentanni fa la Fininvest preparava casalinghe e pensionati a diventare elettorato di Forza Italia, regala un spot di quattro ore al Partito della Nazione. 

[...]

Ieri il manifesto ha mandato in pagina unintervista a Rino Formica sulla quale mi pare sia utile meditare


mercoledì 28 settembre 2016

[...]

Del ponte sullo Stretto di Messina, ovviamente, non se ne farà nulla, ma, ammesso e non concesso che domani, con un semplice schiocco di dita, fossero superati gli ostacoli di natura burocratica che si frappongono alla sua realizzazione (pare sfugga che nel 2011 il Parlamento ha messo in liquidazione l’azienda autorizzata a soggetto d’impresa, che nel 2013 il Governo ha decretato in favore del pagamento delle penali alle parti che si erano assunti gli oneri del progetto, che sul loro effettivo ammontare è in corso un contenzioso non più superabile da un accordo bonario tra le parti) e che dopodomani sbucassero, chissà da dove poi, gli otto miliardi e mezzo necessari (al netto del resto che immancabilmente lo diventerebbe dopo, in corso d’opera, come da costume consolidato), sicché a tre giorni da oggi si desse veramente avvio ai lavori, e nulla li rallentasse, il risultato sarebbe comunque diverso da quello che suona in bocca a chi afferma che la cosa si può fare (tutto è già ampiamente documentato: non darebbe lavoro a più di due-tremila persone, non costituirebbe alcun vantaggio significativo per l’economia del paese, il rapporto tra spese di gestione e utili di ricavo porterebbe inevitabilmente al deficit, il rischio sismico imporrebbe un’imponente copertura assicurativa, ecc.), ma, soprattutto, non lo si vedrebbe prima di dieci anni, e a voler essere ottimisti.
E allora com’è venuto in testa a Renzi di dirsi pronto a farsi carico di quanto spetterebbe al suo Governo per rendere possibile la costruzione del ponte? Non immaginava che così sarebbe stato fatto oggetto degli strali di quanti, pur favorevoli alla cosa, gli avrebbero fatto notare che sul piano procedurale non gli era affatto consentito farla così facile, pur di agghindarsi del solito annuncio a effetto? Non aveva calcolato che gli sarebbe stato rinfacciato che in passato si era sempre dichiarato contrario all’opera, e che esserne a favore oggi, ed entusiasticamente a favore, gli avrebbe procurato l’accusa di volersi guadagnare voti in vista del referendum di dicembre? Non aveva previsto che avrebbe provocato imbarazzo allo stesso Pd? Più di tutto, non aveva messo in conto che riaprire la questione del ponte sullo Stretto di Messina avrebbe dato modo ai suoi detrattori di trovare la più emblematica delle conferme che il renzismo altro non sia che la continuazione del berlusconismo con analoga ma diversa faccia di culo? Insomma: Renzi è un cretino?
Non proprio, anzi, è molto probabile che la sua uscita mirasse proprio a provocare tutto questo – chi a cercare negli archivi cosa dicesse nel 2010 e nel 2012 per denunciare questa sua ennesima spregiudicata piroetta, chi a condannare il suo inguaribile vizietto dei regalini pre-elettorali, chi a pensare sia finalmente prova provata che siamo al Berlusconi 2.0 – per sollevare il polverone necessario a coprire il fallimento della sua politica economica. Diciamo che è bravissimo a fare il cretino quando è necessario, ma cretini, e cretini veri, sono quanti ci cascano e accettano che la discussione si esaurisca di continuo nella puttanata quotidiana che impone come ordine del giorno. Siamo allarte del governo come branca della patafisica.

lunedì 26 settembre 2016

Jihad as Maladjustment to Modernity

Qui sotto propongo un brano tratto da Jihad as Maladjustment to Modernity (in Italia: Radicalizzarsi – Ed. Abbecedario, 2016) di Amin Madani, che insegna Storia contemporanea alla Queen’s University di Kingston, nell’Ontario (Canada), ma a scanso di equivoci ritengo necessario far presente, come l’autore tiene a precisare della Avvertenza in avantesto (pag. 5), che l’uso del termine «jihadista» qui «non rimanda con rigore di attinenza concettuale alljihad così come illustrato dalle diverse scuole di dottrina coranica, ma fa riferimento a quell’eterogeneo insieme di individui che in comune ha solo il dichiararsi tale [...] come sempre più spesso accade dopo un processo che non è di radicalizzazione dell’Islam, ma di islamizzazione del radicalismo” (Oliver Roy)». Buona lettura.



Ci siete cascati? Voglio dire: filava liscia come descrizione del disadattato che diventa jihadista? E allora diciamo pure che Amin Madani non esiste e che la pagina qui sopra riprodotta è tratta da Alla ricerca della Gnosi di Henri-Charles Puech (Adelphi, 1985), ma lho modificata: dove c’era «lo gnostico» ho messo «il jihadista», lasciando intatto tutto il resto.
L’espediente aveva il fine di offrire un parallelo tra il disagio esistenziale che percorse il mondo a cavallo tra il III e il IV secolo e quello lo percorre oggi, per evidenziare il ruolo che può assumere la religione – ieri il cristianesimo, oggi l’islam – nel darsi come soluzione a unepoca che con i suoi troppo rapidi e drastici mutamenti genera angoscia in tanti.
L’idea di un post concepito in questo modo mi è stata suggerita da un articolo a firma di Franco Focherini su un vecchio numero di MondOperaio (4-5/2002) dal titolo Disagio di vivere, risveglio della gnosi e terrorismo (pagg. 89-94).


giovedì 22 settembre 2016

Beatroce

«Al netto delle polemiche, di cui mi faccio carico, ma solo quando non sono strumentali, ci sono i fatti. E i fatti sono che abbiamo settecentomila persone in Italia che vogliono avere un bambino, e non ci riescono». Detto da un Ministro della Salute che con le sue linee guida sulla legge 40 ha dato segno di un patente ostruzionismo alle sentenze che lhanno smontata pezzo a pezzo, viene il sospetto che strumentali non siano le polemiche di cui è stato fatto oggetto il suo Fertility Day, ma le ragioni che ne hanno suggerito la necessità. 

[...]

La Corte Costituzionale rinvia il giudizio sull’Italicum per dar modo al Parlamento di rimettervi mano, ma il Parlamento traccheggia aspettando l’esito del referendum sulla riforma costituzionale, sulla cui data il Governo ha già cambiato idea tre o quattro volte, ogni volta rinviandolo, perché le sue sorti sono legate all’esito del voto, ma a fronte di tutto ciò c’è più di un saggio – ci sia concessa l’ironia – che ci esorta a non dispercepire: i poteri della Stato sono sempre autonomi ed indipendenti, siamo sempre una Repubblica parlamentare, non c’è alcun nesso tra riforma costituzionale e legge elettorale, si commette un errore a voler trasformare il referendum in un voto sul Governo. Quando è ben disposto, te lo dice come se a pensarlo rischieresti di rimediare una brutta figura, sennò, quando gli gira storto, con la piena potestà che gli conferisce la saggezza, ti liquida come paranoico o, peggio, come un avvelenatore di pozzi. 

«Ma non è qualcosa di fisico»


Intervistato da Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 22.9.2016), Camillo Ruini ci offre, nel passaggio qui riportato, un esemplare saggio di come si possa dissimulare in pienezza di responso quellelusione dellonere argomentativo che, riguardo a un dogma come la risurrezione della carne, è da considerare un grave imbarazzo della fede. Chiamato, infatti, a dar conto di una certezza sulla quale un cattolico come si deve non può affatto vacillare, Sua Eminenza comincia col darsi forza in quel «di più» che parrebbe voler conferire al dogma il carattere di inequivoca intellegibilità assegnatogli dalla dottrina («i nostri corpi mortali riprenderanno vita»Catechismo della Chiesa Cattolica, 990), per passare invece, e subito, a sottrarglielo, per poi arrivare addirittura a negarne levidenza, che è esplicita nella sua formulazione («ma non è qualcosa di fisico», e come fa a non esserlo se la cosa riguarda «corpi»?). E con ciò possiamo avere ulteriore conferma dellirreparabile degrado cui è andato incontro il deposito di fede: il cattolicesimo si è ridotto a un vademecum morale. 

mercoledì 21 settembre 2016

[...]

Fino a ieri sembrava che a scoraggiare gli investimenti esteri in Italia fossero lottusità della burocrazia, la lentezza della giustizia, lo strapotere dei sindacati, laggressività della mafia, lasfissiante regime fiscale, la carenza di infrastrutture. Analisi superficiale: il problema è sempre stato la Costituzione, e infatti pare che ci sia un fottio di potenziali investitori che per venire ad investire in Italia non attendano altro che la vittoria del Sì al referendum che si terrà ad ottobre, cioè a novembre, pardon, a dicembre, eventualmente a gennaio, comunque non più tardi di febbraio o marzo, al massimo ad aprile. E allora perché di settimana in settimana la data in cui dovrà tenersi continua a slittare? La domanda rivela lingenuità di chi non conosce il mercato: slitta per eccitare chi non vede lora che la riforma passi, così, quando passerà, l’investitore estero sfogherà tutta la sua brama di investire, e investirà dimpeto. Non sarà mica perché i sondaggi danno in vantaggio il No? Qui la domanda rivela la malizia dellingenuo che si crede furbo con ciò dimostrando di essere più fesso che ingenuo. Uno statista del calibro di Renzi dà retta ai sondaggi? Ma non diciamo sciocchezze. 

martedì 20 settembre 2016

Signora mia

Che tempi, signora mia, che tempi. In Belgio si consuma la barbarie delleutanasia di un minore, e Il Foglio che mi fa? Praticamente tace. LAnnalena intervista la dottoressa Franca Benini (parente?), esperta in cure palliative, per rammentarci che cè pure «unaltra via», il Matzuzzi intervista un pretonzolo fiammingo che da qualche tempo s’offre come alternativa (mano nella mano, pregando insieme, il malato terminale rinuncia all’eutanasia, pare gli riesca nel 50% dei casi), il Meotti scacazza la solita reductio ad Hitlerum, e poi che altro? Zero. Il nichilismo avanza e per Il Foglio pare non ci sia altro da temere che il M5S. Ma li ricorda i bei tempi in cui bastava che cedesse un chiodino, cadesse un crocefisso, ed erano subito paginoni su paginoni? Come dice? No, signora mia, pure il nostro Giulianone tace, è tutto preso dalle Presidenziali ameregane, je sta sur cazzo l’Hillary ma fa fatica a farsi piacere er Trump, che i numeri li avrebbe tutti per essere un Our Love, ma è che je manca la finezza del Cav., può darsi riuscirà a farselo piacere più in là, ma solo se vince. Manco il Maurizio? Manco il Maurizio, signora mia, non oggi almeno, speriamo bene per domani, può darsi stia buttando giù qualcosa proprio mentre stiamo a disperare. Certo, però, che è brutto sentirsi abbandonati proprio da chi giurava che avrebbe pugnato in difesa dei principi non negoziabili fino all’ultima goccia di sangue. Gli sarà già finito o era tanto per dire? Non ci si può più fidare di nessuno, signora mia, di nessuno.

giovedì 15 settembre 2016

Orgoglio dell’indecenza



Quante ne ha dette, Silvio Berlusconi, e quante se ne è rimangiate, ricordate? Un merito, però, bisogna riconoscerglielo: sapeva che, a rimangiarsi quanto aveva detto, il rischio fosse quello di ricavarne una figura di merda, e cercava di evitarla, anche se non riusciva a farlo in altro modo che negando levidenza, quindi rischiandone regolarmente una anche più grossa. Così, una volta pretendeva di convincerci che gli fosse stata attribuita una frase che in realtà, a suo dire, non aveva mai detto, anzi, che nemmeno si fosse mai sognato di dire, e invece la frase era lì, inoppugnabilmente documentata, e un’altra si affannava nel tentativo di persuaderci che si fosse voluto forzare il senso delle sue affermazioni, che fosse stato frainteso, anzi, si fosse voluto fraintenderlo, e con intento malevolo, anche se quanto aveva detto era inequivocabile.
Ma cè di più: Silvio Berlusconi dava limpressione di tenere molto a risultare convincente, e sembrava che per poter essere sicuro di riuscirci avesse bisogno di convincere innanzitutto se stesso. Non manteneva gli impegni presi, cambiava idea continuamente, non era mai disposto a riconoscere un errore, e tuttavia aveva enormemente a cuore che di lui si pensasse fosse un uomo di parola. Una faccia da schiaffi, senza dubbio, ma con un residuo senso dellonore. Ma forse onore è parola grossa, limitiamoci a dire: un residuo senso della decenza.
Matteo Renzi è tutta unaltra cosa: rimangiarsi quel che ha detto non gli pone alcun problema, e infatti quasi mai si sente in dovere di darne spiegazione, tanto meno di negarlo. Quel che dice è in ragione solo delleffetto che ritiene abbia a sortirne entro il tempo che precede la smentita, che per lui è del tutto irrilevante se dovrà trovare modo nel sostenere il contrario di quanto ha sostenuto in precedenza o col venir meno di fatto al dargli conseguenza. Una faccia da schiaffi pure lui, dunque, ma senza neppure unombra di scrupolo. Direi si tratti di un vero e proprio orgoglio dell’indecenza, che è da considerare un significativo salto evolutivo per la specie dell’uomo di merda.

lunedì 12 settembre 2016

Una droga, praticamente


Quando chiudeva a questo modo quella che nel sottotitolo presentava come Unautobiografia politica (Dal Pci al socialismo europeo – Editori Laterza, 2005), chi avrebbe potuto sollevare il sospetto che Giorgio Napolitano non fosse sincero? Aveva appena compiuto 80 anni, verosimile si fosse posto già da tempo proprio quella meta a scadenza del suo lungo impegno politico, comprensibile si sentisse come un pesce fuor dacqua in «unepoca di sfrenata personalizzazione della politica, di smania di protagonismo, di ossessiva ricerca delleffetto mediatico».
A sentirlo oggi – parlo dellintervista concessa a Mario Calabresi (la Repubblica, 10.9.2016) – un sospetto, però, viene. Di lì a qualche mese, infatti, il settennato di Carlo Azeglio Ciampi sarebbe giunto a termine, si sarebbe dovuto cercare un nuovo inquilino per il Quirinale, la scelta si sarebbe inevitabilmente ristretta alla cerchia di quanti fossero più super partes, o almeno apparissero tali in modo convincente: col ritratto offerto di sé in quelle memorie, e ancor più col momento per mandarle in stampa, non è più probabile che Giorgio Napolitano stesse lanciando la sua candidatura a Presidente della Repubblica?
Certo, non si nascondeva che il tentativo di restare in campo potesse risultare «difficile e ingrato», ma il «sapiente precetto di Plutarco» consentiva che si ricorresse a qualche «expediency». Se così fosse, dovremmo riconoscere che quella di dichiararsi ormai extra partes, pronto a darsi interamente ai nipotini, sortì il risultato. «Non ho mai cessato di sentirmi legato alla politica», scriveva, e il decennio successivo avrebbe dimostrato che non poteva farne a meno. Una droga, praticamente.
Ricorrendo allormai logora metafora calcistica – il lettore chiuda un occhio, «limpoverimento culturale che la politica ha subìto» lha resa insostituibile – diremmo che solo da arbitro, e dopo una lunga carriera da grigio mediano, attento quasi esclusivamente a non riportare infortuni e a non perdere il posto di titolare, Giorgio Napolitano fosse destinato a scoprire in sé la vocazione di centrocampista, capace di pennellare cross precisi al centimetro.
Dismessa la casacca da arbitro, eccolo in tuta da allenatore. Mai seduto in panchina, sempre a bordo campo, ora a segnalare un fuorigioco inesistente («Le firme per chiedere il referendum le hanno raccolte i fautori del sì mentre quelli del no non hanno avuto la forza di raggiungere il numero minimo», ma non si sarebbe dovuto tenere comunque, il referendum, visto che la riforma costituzionale non è passata coi voti dei due terzi del Parlamento?), ora a pretendere lespulsione per un fallo di reazione ad un’assassina entrata a gamba tesa sulla quale invece si può chiudere un occhio («Non ho condiviso la iniziale politicizzazione e personalizzazione del referendum da parte del Presidente del Consiglio, ma specie all’indomani del sia pur lento sforzo di correzione di questo approccio da parte di Renzi, nulla può giustificare la virulenza di una personalizzazione alla rovescia operata dalle più diverse opposizioni facendo del referendum il terreno di un attacco radicale a chi guida il PD e il governo del Paese»).
Il gioco non gira nel modo giusto, puttana Eva, «non c’è respiro, non c’è visione ampia, manca lo sguardo lungo...». Poi, visto che la partita non mette bene, andrebbe rivista la regola dei 3 punti a chi vince: «Rispetto a due anni fa lo scenario politico risulta mutato in Italia come in Europa. Ci sono nuovi partiti, alcuni dei quali in forte ascesa che hanno rotto il gioco di governo tra due schieramenti, con il rischio che vada al ballottaggio previsto dall’Italicum e vinca chi al primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col voto popolare. Si rischia di consegnare il 54% dei seggi a chi al primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti», ma non era così anche prima, quando ai sondaggi il ballottaggio era dato tra centrodestra e centrosinistra?
Niente da fare, l«expediency» ce lha nel sangue, il gioco è tutta la sua vita, troverà pace solo nella tomba. 

venerdì 9 settembre 2016

«Verrei»



Credo che la reazione di Alessandro Di Battista allo svarione grammaticale di Luigi Di Maio meriti un po più di attenzione di quanta gliene è stata riservata.
Mi pare che la mimica faciale renda esplicito che quasi immediatamente colga che «verrei» non sia corretto, ma che per esserne sicuro abbia bisogno di ripeterlo a fior di labbra come a controllare se suoni bene o meno, che quindi si guardi attorno per vedere se qualcun altro si sia accorto della cosa, e sempre a fior di labbra provi a sentire se più opportunamente ci volesse un «venissi», per poi assumere unespressione di palese disagio alla quasi piena convinzione che di strafalcione si sia trattato.
Ora noi sappiamo che Di Battista è stato fatto oggetto fino allaltrieri di feroci prese per il culo per lessere inciampato più volte nello stesso errore. Possiamo immaginare che ne abbia sofferto al punto da sentirsi in dovere di rimetter finalmente mano alla grammatica italiana, che tuttavia, si sa, impone un po di pratica perché il rispetto delle sue regole diventi automatico. Lindugio che segue al «verrei» di Di Maio può così esser letto come un rapido ripasso della regoletta, mentre il labiale allapplicarla al caso.
Quello che tuttavia mi pare assai più degno di attenzione è il disagio che segue alla constatazione che quello di Di Maio è stato uno sproposito: è un disagio nel quale vi sarà pure un riverbero dello scorno che Di Battista deve aver provato le volte in cui ha commesso lo stesso errore e glielo si è fatto notare con una pernacchia, ma non sera detto che tra lui e Di Maio vi fosse unagguerrita competizione per lalmeno formale leadership del movimento? Chi ha modo di cogliere in castagna il proprio rivale non dovrebbe esserne anche solo un pochino soddisfatto? Comè che a Di Battista non scappa neppure unalzata di sopracciglio? Comè che, al posto di un pur contenuto cenno di ironia, si nota quello che pare un genuino rincrescimento, per giunta venato di una qualche apprensione, quasi a immaginare le immancabili canzonature che ne sarebbero seguite? In altri termini, possiamo prestar fede a tutte le indiscrezioni giornalistiche che della vita interna al M5S ci danno un quadro assai simile alla Battaglia di Anghiari?
Per meglio dire: quanto di ciò che ci torna utile per nutrire la convinzione che «non sono poi così diversi da tutti gli altri» corrisponde alla realtà di fatto e quanto invece è mera proiezione del nostro bisogno che così realmente sia? 

mercoledì 7 settembre 2016

[...]

Suppongo sia superfluo spiegare al mio lettore, che mediamente è assai colto, la differenza tra uniscrizione nel registro degli indagati (più correttamente, iscrizione della notizia di reato) e un avviso di garanzia (più correttamente, informazione di garanzia), sta di fatto che nessuno dei due atti obbliga un eletto del M5S a doverne rendere personalmente conto quando questo non sia a suo carico, ma invece a carico di chi egli abbia scelto come collaboratore, consulente o (nel caso in cui leletto sia un sindaco) assessore.
Per meglio dire, questobbligo non è contemplato da alcun documento fin qui redatto allo scopo di normare la vita interna del movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio: non ve nè traccia dellatto costitutivo, né nel programma, né nel cosiddetto non-statuto, né in alcuna delle versioni del codice etico che i candidati e gli eletti sotto il simbolo del M5S sono tenuti ad impegnarsi di rispettare. È evidente che il forcaiolismo dei grillini non arriva al punto da attribuire una proprietà transitiva della personale responsabilità penale, che daltra parte nelliscrizione nel registro degli indagati e nellavviso di garanzia è ancora tutta in ipotesi.
Altra cosa, ovviamente, quando uno dei due atti sia a carico di un candidato, ancor più nel caso sia a carico di un eletto, dove il doverne dar conto non si limita al doverne dare tempestiva comunicazione agli organi direttivi del movimento, ma di regola comporta la somministrazione di drastiche sanzioni, ancorché intese come misure di preventiva sterilizzazione di eventuali condotte configurabili la continuazione del reato fino a quel punto solo in ipotesi. Qui il forcaiolismo è patente, ma si esplica in un momento di autoregolamentazione che assume i caratteri di una sfida alle altre forze politiche che lasciano leletto dovè anche quando sia stato condannato in primo grado, un po come accade con lautoriduzione dello stipendio di parlamentare e con il rifiuto del finanziamento pubblico: sfida sul piano morale, e dunque pesantemente retorica, ma in fondo legittimamente provocatoria.

Ciò detto, a me paiono del tutto strumentali le accuse che in questi giorni piovono su Virginia Raggi: non è lei ad essere iscritta nel registro degli indagati e nulla la obbligava a rendere pubblico che Paola Muraro lo sia, né nei confronti di chi lha votata, e in fin dei conti neppure nei confronti dei vertici del M5S, perché quelliscrizione non era a suo carico, e a conoscenza dellatto poteva essere a corrente solo lindagata, e solo nel caso in cui questultima si fosse attivata per venirne a conoscenza. Ora è accaduto che Paola Muraro si sia appunto attivata in tal senso; e che così sia venuta a conoscenza che a suo carico uniscrizione vi fosse (da rammentare che per reati di un certo rilievo all’indagato che ne faccia richiesta si può dare una risposta che in sostanza la rigetta: «non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione», come a dire «non ve n’è alcuna di cui l’esserne a conoscenza possa attivare l’iscritto a frapporre qualche ostacolo all’indagine»); e che di questo abbia subito informato Virginia Raggi, la quale – questo quanto le si rimprovera – non avrebbe reso pubblica la cosa. Domanda: perché avrebbe dovuto?
A norma del codice di comportamento degli eletti sotto il simbolo del M5S da lei sottoscritto prima essere candidata, non era tenuta a farlo. In ossequio al codice etico del movimento, neppure. Risulta, inoltre, che, seppure con qualche settimana di ritardo, abbia informato almeno due dei membri del minidirettorio romano che gli organi direttivi centrali le hanno affiancato: solo di questo ritardo deve rendere conto, e non al paese, non a chi l’ha eletta, nemmeno ai militanti del M5S, ma eventualmente solo a Beppe Grillo e alla Casaleggio Associati, visto che in Italia partiti e movimenti non hanno personalità giuridica e possono darsi le regole che vogliono.
Altrettanto strumentali mi paiono le accuse di doppia morale che vengono rivolte al M5S, come daltronde è di pacifica evidenza per i casi che sono presi in considerazione per dimostrarla: a Parma, Federico Pizzarotti è stato sospeso per non aver reso pubblica uniscrizione nel registro degli indagati che era a suo carico, non a carico di un suo assessore; a Quarto, Rosa Capuozzo è stata espulsa per non aver denunciato i tentativi messi in atto da un consigliere comunale per condizionarne le decisioni; altrove, ogniqualvolta il M5S ha chiesto le dimissioni di eletto sotto il simbolo di un altro partito, era a questi, e non ad altri, che era ascritto il reato di cui vera notizia negli atti che precedevano il rinvio a giudizio, se non nella stessa imputazione.


Ai vertici del M5S potrebbe bastare far presente questo, ma si può capire perché abbiano una fottuta paura che possa non bastare, e perché dunque si preparino a dare spiegazioni di quanto è accaduto a Roma rinunciando ad argomenti ragionati, preferendone altri, di quelli che non richiedono troppo sforzo per essere ritenuti convincenti da chi solitamente fatica a ragionare: cè da attendersi che spiegheranno la loro posizione tagliando due o tre teste (Muraro, Marra e De Dominicis), cosa legittima e forse opportuna, e, non dovesse bastare, anche quella del sindaco, il che sarebbe peggio di un suicidio. Sarebbe un errore madornale, perché rivelerebbe che la ratio messa a fondamento dellonestà che vogliono al centro della politica non è una logica, ma un umore. Quel che è peggio, non lumore della base grillina, ma quello che ad essa è attribuito da chi a vario titolo e da diversa posizione vuole il fallimento dellesperienza romana.
In definitiva, direi che quello di Roma è un importante stress test per il M5S: o accetterà di indossare la caricatura che in tanti tentano di calcargli addosso, e allora sarà la fine, il che non sarebbe neppure tutta questa gran perdita, o riuscirà a darsi una credibile coerenza che non sia la semplice proiezione di quello per i detrattori spiegherebbe il consenso che fin qui ha raccolto.