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Google, saprete, consente di tradurre un testo da una lingua a
un’altra delle 103 che elenca nella sua homepage, tra le
quali trovate pure il Malgascio, il Tagiko e l’Uzbeco,
l’Esperanto, il Maori e il Punjabi, ma non il
Pretenzioso e il Troglodita, il che è un vero peccato,
perché basterebbero due click per constatare quanto i pomposi
pipponi che Ferrara ci ha inflitto per anni corrispondano in tutto e
per tutto ai cupi rutti che oggi ci infligge Salvini: lingue diverse, ma idem sentire, a piacere, su famiglia tradizionale e declino
demografico, multiculturalismo e politicamente corretto, islam e
radici cristiane, «abbasso la droga!» e «giù le tasse!», la
magistratura che fa politica e la Costituzione un po’ troppo
comunista. C’è che però Ferrara riusciva a tirarsi dietro solo due dozzine di disadattati, mentre Salvini catalizza tra un quarto e un terzo del paese. Tutta colpa della lingua utilizzata, perché quello italiano è un popolo alla buona, così, se per dire che sei contro il matrimonio gay, citi il Simposio di Platone, il Liber Gomorrhianus di Pier Damiani e la Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali del cardinal Ratzinger, non puoi aspettarti l’ovazione che invece puoi essere sicuro ottieni con un bel «cazzo in culo non fa figlio, solo sugo di coniglio». A un popolo così sai quanto gliene può fregare che la religio che proponi ad instrumentum regni non è depositum fidei ma dimensione etico-estetica, collante comunitario, retaggio di cultura e gusto: guarda quanti rosari pendono dallo specchietto retrovisore delle utilitarie parcheggiate sotto casa, calcola che neppure il 5% di chi le guida saprebbe recitarti per intero un Pater noster dall’inizio alla fine, così capisci che il cattolicesimo puoi proporlo solo come feticcio, perché come feticcio funziona, non come milieu esistenziale. Poi c’è che Ferrara è venuto prima, ma dalla sua nicchietta non è riuscito mai ad uscire, un Crippa a preparargli la tisana e un Cerasa a porgergli il portapillole, e ora ecco che arriva questo zotico, incolto, irsuto e gradasso, e dai balconi gli piovono petali di rosa, sbarbine gli strusciano le tettine sulla panza, giovanottoni palestrati lo chiamano «capitano», e ingozza tutto il bendidio di lipidi e carboidrati che a te, dopo quel mezzo coccolone, hanno vietato... Un pizzico d’invidia, un velo di risentimento, via, ci sta. E allora fiato al trombone: «I
cattolici democratici ci esorcizzavano e scomunicavano
come una nuova Action française, e attribuivano oscure trame fra
trono e altare alla ricercata “rilevanza” ruiniana di una fede
capace di ragione, e ora si ritrovano sbertucciati sulla pubblica
piazza, e fischiati, da presunti cristiani devoti, in realtà
feticisti e ubriachi, che smerciano in politica le litanie dei santi
sul palco patibolare di una strana internazionale nazionalista che
porta la mozzetta del cardinale Burke»
(Il Foglio, 21.5.2019). O moesta senectus, povero Ferrara!
venerdì 24 maggio 2019
lunedì 20 maggio 2019
La tragica fibrillazione, la farsesca tachicardia
Nell’intervista
che Jean Ziegler ha concesso ad Aline Wüst e che Blick
ha
mandato in pagina la scorsa settimana («Die
Kinder müssen nun das System angreifen») c’è
un passaggio che mi ha inflitto un blando riverbero della
fibrillazione che l’anno
scorso m’assalì
alla rilettura delle ultime pagine del secondo di tre libroni della
Utet che non toccavo da decenni. Solo un riverbero, stavolta, e
blando, ripeto, ché con gli epigoni dei Grandi Vagolitici accade che
la tragica fibrillazione si ripresenta come farsesca tachicardia, e
tuttavia la mano a un certo punto è corsa al petto.
Un
pugno di multinazionali fa la metà del pil mondiale, dice lo
Ziegler, siamo a uno strapotere che ci mette davanti a bivio: o
distruggiamo il capitalismo o il capitalismo ci distrugge. Ok, dice
la Wüst,
vada per distruggerlo, ma poi? E qui lo Ziegler: «Boh, si vedrà! In
fondo, la mattina che fu presa la Bastiglia nessuno aveva idea di
cosa sarebbe venuto dopo...».
Bell’esempio
del cazzo, faccio tra me e me, nessuno lo sapeva quella mattina,
certo, ma noi lo sappiamo, eccome: al posto di un re si ebbe un
imperatore. E sempre tra me e me: se è lecito inferire, dove siamo
andati a finire tutte le volte che siamo
partiti
per distruggere il capitalismo? Vertigine, affanno, m’è
d’uopo un controllino: 182/84, frequenza 102, meno male, va’,
pensavo peggio. Comunque è meglio prendere qualcosa, chessò,
qualche milligrammo di Prezzolini... Dove ho messo quell’appunto?
Ah, sì, sta nel librone della Utet.
Non
fa una previsione, Prezzolini, quando dice – siamo alla fine degli
anni Sessanta – che, «se il progressista è l’uomo
del domani, il conservatore è l’uomo
del dopodomani»: non dice che a una stagione di entusiastica
adesione a un moto di rinnovamento ne segue necessariamente una di
disillusione e di pentimento (eventualmente di resipiscenza, semmai
pure operosa): niente di tutto questo (peraltro tiene a precisare che
il «conservatore» – il «vero conservatore», dice – non è un
«reazionario», né un «tradizionalista»): no, Prezzolini si
limita a evocare l’obiezione
che è in radice alla sfiducia nel progresso, quella basata sulla
convinzione, espressa in forma di timore saldamente motivato, che da
un domani migliore del presente (sospesa la questione se poi lo sarà
davvero o no) possa discendere un dopodomani che ne risulti assai
peggiore, peraltro dandola come ipotesi altamente probabile, se non
certa: è la sfiducia che non fa mistero di trovare ragione in una
visione dichiaratamente pessimistica della natura umana, stolta più
che malvagia (la via che porta all’inferno,
eccetera), considerata ineluttabilmente incline a far guai: visione
che però implica anche un giudizio di merito sul presente, qualunque
esso sia: quand’anche
sembri pessimo, perfino al punto da far credere che qualsiasi domani
diverso non possa che essere migliore, il peggio è sempre possibile,
anzi è così gravemente incombente da essere pressoché sicuro: dal
progredire, insomma, si avrebbe sempre qualcosa da perdere e, se pure
non si avesse altro da perdere che le proprie catene, se pure questo
fosse assicurato per il domani, c’è
il caso – probabilità che per il «conservatore» abbiamo
visto essere prossima alla certezza – che dopodomani ci si
possa ritrovare molto più strettamente avvinti in catene molto più
pesanti, e tutto questo – dice il «conservatore» –
trova
conferma nell’esperienza:
l’esperienza mostra che alla lunga ogni progresso tradisce sempre
le sue promesse, e spesso in modo tragico: tanto gli basta per poter
vantare merito di una lungimiranza protetta dall’insidiosa
minaccia degli entusiasmi che menano a rovina il «progressista»,
sempre incapace di vedere oltre la punta del proprio naso, e perciò
incline all’avventura,
fonte d’ogni genere di disastro.
Gesù, come m’è uscita ’sta glossa? Sembra una parafrasi speculare del Totò che sbotta: «Poi dice che uno si butta a sinistra!». Basta, basta, devo tenermi alla larga dagli Ziegler, sennò il 26 maggio finisco per votare +Europa.
* * *
«Nelle
cose economiche e sociali, la via diritta,
salvo
eccezioni rarissime, è la via falsa.
Solo
la via storta, lungo la quale gli uomini cadono,
ritornano
sui propri passi, esperimentano,
falliscono
e ritentano e talvolta riescono,
è
la via sicura e, di fatto, più rapida»
Luigi
Einaudi,
Prediche
inutili
domenica 19 maggio 2019
[...]
Quando
il nobile decaduto porta il quadro al monte dei pegni, i contorni del
rettangolo
che sul muro rivela i tre o quattro punti di clarté
in più che la carta da parati aveva originariamente corrispondono a
quelli della cornice, non della tela. Così è accaduto con la
definizione del fascismo uscita dal XIII plenum del Comintern,
perché, caduta in disgrazia, la sinistra ha smesso di pensare al
fascismo come alla «dittatura
terrorista aperta agli elementi più reazionari, più sciovinisti,
più imperialisti del capitale finanziario» e
ha cominciato a percepirlo come «un
modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una
nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni»,
l’abietta
antropologia borghese che incorniciava il
fascismo inteso come mero strumento del capitale in funzione
antioperaia, a dar per implicito che il più genuino antifascismo
potesse essere solo anticapitalista, e cioè comunista: svenduta la
lotta di classe, sulla parete del salone in cui
il Partito invitava l’intellighenzia
a prodursi nei suoi deliziosi valzer è rimasto l’alone
della condanna
morale. Niente affatto antitetiche, d’altronde,
le due interpretazioni del fascismo, perché, dal canto suo, la
borghesia ha sempre amato darsi precursori nella natura umana più
che nella storia, pienamente convinta che il mercato sia dimensione
innata all’uomo,
che la proprietà privata stia scritta nel dna specie-specifico,
offrendosi così a chi l’avversava
come incubatrice di quel «fascismo
eterno»
che è innanzitutto metafisica della bestia.
Ora, però, c’è
chi ha raggranellato il necessario per riscattare il quadro al monte
dei pegni, me ne dà notizia il buon Luca Massaro, segnalando
l’editoriale
del n. 16 della rivista tedesca Exit
a firma di Thomas Meyer (Criseet critique de la société marchande)
e una sua traduzione in italiano a cura di Franco Senia (Capitalee Fascismo):
il salone è ancora in pessime condizioni, ma è evidente
l’intenzione
di tornare ai fasti del passato, quando un invito del Partito alla
serata di ballo era motivo di orgoglio per ogni intellettuale – sia
lode alla feconda contraddizione! – borghese.
Nemici della
classe operaia, in quanto liberaldemocratici, noi non siamo invitati.
Poco male, perché non sappiamo ballare. In quanto alla scena
mitologica ritratta in quel dipinto – il fascismo come invenzione
del capitale finanziario in risposta al Biennio rosso – ci è
sempre sembrata farlocca. Toccherà rimetter mano a Le
interpretazioni del fascismo
di Renzo De Felice per argomentare sulla natura socialistoide del
mussolinismo?
venerdì 10 maggio 2019
Pretesto imperdibile
[La
polemica che montò intorno al brano che Joseph Ratzinger trasse
dalla settima διάλεξις di Manuele II Paleologo e ficcò
nella lectio tenuta a Ratisbona nel 2006 oscurò il tema che
affrontava in quel testo con la logora riproposizione del trucchetto
tardo-ellenistico di mettere la maiuscola a λόγος
(pensiero) per farlo diventare Λόγος
(Dio) e così costringere la ragione a far la colf della fede: le
isteriche reazioni nel mondo musulmano e l’indecorosa
marcia indietro che portò a ben tre riscritture del passaggio misero
in ombra il numero da treccartaro di scuola agostiniana.
Così è
accaduto con gli «appunti»
destinati alla pubblicazione su Klerusblatt:
imputare al Sessantotto la pedofilia dei preti e ringraziare Dio per
aver fatto crepare Franz Böckle prima che potesse contestare
la Veritatis splendor hanno fatto velo alla questione
affrontata in quel testo che in buona sostanza riafferma la pretesa
del primato etico della Chiesa come indefettibile interprete del
dettato morale intrinseco all’ordine
creaturale.
Pretesto imperdibile per un quarto d’ora
di evasione da Twitter.]
Quando
parliamo dei principi cui le nostre azioni devono aderire per
perseguire il bene, siamo nel campo della morale, mentre invece siamo
in quello dell’etica, quando parliamo delle modalità con cui
questi principi devono essere messi in pratica. In entrambi i casi si
può avere la sensazione di stare a discutere di norme antecedenti e
superiori all’uomo, sennò intrinseche alla sua natura, comunque
universali ed eterne, valide per tutti, ovunque e sempre, e tuttavia
siamo costretti a fare i conti, fin dall’etimo, col fatto che i
mores che fanno la morale e l’ethos che fa l’etica
altro non sono altro che usanze, consuetudini,
abitudini: che usus è participio passato di uti,
che è trarre utilità da, servirsi di, avvantaggiarsi
da; che cum-suetum è quanto di proprio, cioè di suum,
sta in ciò che solemus, diverso da quello che in passato
altri solebant, quasi certamente diverso da quello che in
futuro altri ancora solebunt; che habitus è abito,
costume, non quello che c’è dentro. Siamo costretti,
insomma, a prendere atto della natura eminentemente culturale delle
regole che una data società in una data epoca si dà come ottimali.
Non dovrebbe darci da pensare che per quanto così spesso siamo
inclini a considerare universale ed eterno – cosa sia il bene, come
esso sia efficacemente perseguibile – abbiamo a disposizione solo
termini che rimandano al particolare e al temporaneo? Sembreremmo
essere alle prese con un assoluto, mettiamo la maiuscola a Bene, ma
le nostre parole rimandano alla relatività di un ethos che
nel suo significato originario è il posto in cui si vive (dunque
ambito, contesto, che dà un senso a ciò che, fuor
d’esso, ne ha un altro, o addirittura non ne ha alcuno) e a quella
di mores che in radice sono misure dell’agire (e
dunque ne caratterizzano il valore parametrandolo, dandogli
significato in funzione di incidenza, distribuzione, frequenza,
durata, ecc.).
Basterebbe questo a smascherare l’impostura che si
cela nella cosiddetta teologia morale, «la scienza
procedente dalla divina rivelazione che ordina gli atti umani alla
beatitudine soprannaturale», dove già la definizione mostra un
altro controsenso, perché la rivelazione cade giocoforza in un certo
posto e in una certa epoca, e dunque non può esser recepita che nei
modi dati come possibili in quel luogo e in quel tempo,
cristallizzandosi in usanze, consuetudini, abitudini,
che possono ragionevolmente trovare senso presso una tribù di
pecorai sprofondata nel medioriente di due millenni fa, ma
altrettanto ragionevolmente non trovarne alcuno altrove, né prima,
né dopo.
È che, al pari della «legge di Natura», anche la
«legge di Dio», che spesso le è coincidente per la cogente
relazione tra Creatore e Creato, e che diventa addirittura inferenza
di «immagine e somiglianza» nella Creatura, è un prodotto
storico, precettistica che può pretendere obbedienza solo al
perpetuarsi delle condizioni che l’hanno resa funzionalmente
efficace quando è stata adottata. Dovrebbe bastare questo a rendere
evidente che la pretesa di un sistema morale valido per tutti, sempre
e ovunque, cela in realtà il disegno di perpetuare il tipo di
società che l’ha prodotto, a dispetto di ciò che ineluttabilmente
la trasforma.
Ma cosa la trasforma? In sostanza a trasformarla è
l’insorgenza di nuovi bisogni, individuali o collettivi, che
riescono ad acquistare forza fino a porsi come problemi, e a chiedere
soluzioni adeguate, cioè conformi a una ratio, che, prima di
essere ragione, è calcolo, misura, proporzione.
A ben vedere, tutti i momenti dell’insanabile conflitto tra fede e
ragione, cui tante anime pie si affannano vanamente a trovar rimedio,
sono già tutti in nuce a questo inevitabile conflitto tra una
morale che si pretende universale ed eterna e una morale che si
dichiara autonoma e razionale: tra una morale che si esaurisce nelle
interpretazioni della rivelazione, anzi nell’interpretazione che è
stata capace di imporsi su tutte le altre, e una morale che trae
consapevolezza (cum-sapio) interrogando la coscienza
(cum-scio). Una morale, quest’ultima, specularmente opposta
alla teologia morale, che – dicevamo – è «la scienza
procedente dalla divina rivelazione»: qui è la scientia che
procede dalla sapientia, che ovviamente è quella somma di
Dio, ma è tenuta a procedere con la permanente assistenza della
Chiesa, che «è il luogo della conoscenza dello Spirito Santo»
(Catechismo della Chiesa Cattolica, 688).
La situazione
cui Joseph Raztinger fa cenno nella prima delle tre parti di cui si
compone il testo destinato alla pubblicazione su Klerusblatt
fotografa il momento storico in cui la tradizionale soluzione del
conflitto tra ragione e fede, da Tommaso risolta nell’assegnare
alla prima il ruolo di ancella della seconda, comincia ad essere
avvertita come inadeguata perfino nel mondo cattolico e, incredibile
a dirsi, addirittura nella cerchia dei teologi morali, in particolar
modo quelli di scuola tedesca. Il più autorevole esponente di questa
scuola, Franz Böckle, sostiene che «la coscienza esige dall’uomo
un giudizio ben fondato, perciò la decisione può essere presa solo
sulla base di motivi ragionevoli [sicché] le norme morali
insegnate dal Magistero obbligano solo nella misura in cui la
coscienza viene convinta dalla ragionevolezza degli argomenti posti a
loro sostegno». In sostanza, è come dire che sono valide solo
le norme morali che la coscienza ritiene razionalmente fondate: un
cattolico potrebbe rifiutarsi di obbedire ai precetti della Chiesa di
Roma, laddove non ne fosse persuaso, in forza di quell’autonome
Moral che non è mera opinione personale, ma rifiuto
razionalmente argomentato dell’interpretazione che il Magistero dà
del dettato evangelico; oppure, pur persuaso dell’interpretazione
che ne dà il Magistero, potrebbe ritenere legittimo uno scarto tra
principi generali e norme concrete.
Non è difficile immaginare come
possano suonare questi tesi all’orecchio di chi, facendo propria la
lezione di Tommaso, trova disobbediente pure il cattolico che segua,
sì, gli insegnamenti della Chiesa, ma solo perché trova che essi
coincidano con le proprie opinioni: l’obbedienza vera si realizza
pienamente nel non averne di proprie, né prima, né dopo la
ricezione del Magistero.
Qui possiamo cedere il racconto a Joseph
Ratzinger: «Papa Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la
situazione della teologia morale e la seguiva con attenzione, dispose
che s’iniziasse a lavorare a un’enciclica che potesse rimettere a
posto queste cose».
Si sarebbero rimesse a posto in questo modo:
«Sono sorte le obiezioni di fisicismo e naturalismo contro la
concezione tradizionale della legge naturale: questa presenterebbe
come leggi morali quelle che in se stesse sarebbero solo leggi
biologiche. Così, troppo superficialmente, si sarebbe attribuito ad
alcuni comportamenti umani un carattere permanente ed immutabile e,
in base ad esso, si sarebbe preteso di formulare norme morali
universalmente valide. Secondo alcuni teologi, una simile
“argomentazione biologista o naturalista” sarebbe presente anche
in taluni documenti del Magistero della Chiesa, specialmente in
quelli riguardanti l’ambito dell’etica sessuale e matrimoniale.
In base ad una concezione naturalistica dell’atto sessuale,
sarebbero state condannate come moralmente inammissibili la
contraccezione, la sterilizzazione diretta, l’autoerotismo, i
rapporti prematrimoniali, le relazioni omosessuali, nonché la
fecondazione artificiale. Ora, secondo il parere di questi teologi,
la valutazione moralmente negativa di tali atti non prenderebbe in
adeguata considerazione il carattere razionale e libero dell’uomo,
né il condizionamento culturale di ogni norma morale. Essi dicono
che l’uomo, come essere razionale, non solo può, ma addirittura
deve decidere liberamente il senso dei suoi comportamenti. Questo
“decidere il senso” dovrà tener conto, ovviamente, dei
molteplici limiti dell’essere umano, che ha una condizione corporea
e storica. Dovrà, inoltre, prendere in considerazione i modelli
comportamentali ed i significati che questi assumono in una
determinata cultura. Questa teoria morale non è conforme alla verità
sull’uomo e sulla sua libertà. Essa contraddice gli insegnamenti
della Chiesa». (Veritatis splendor, 47).
Li contraddice,
perché insinua che «la Parola di Dio si limiterebbe a proporre
un’esortazione, una generica parenesi, che poi solo
la ragione autonoma avrebbe il compito di riempire di determinazioni
normative veramente “oggettive”,
ossia adeguate alla situazione storica concreta [e questo non è
ammissibile, perché] un’autonomia così concepita
comporta anche la negazione di una competenza dottrinale specifica da
parte della Chiesa e del suo Magistero circa norme morali determinate
riguardanti il cosiddetto “bene umano”»
(ibidem, 37), il quale deve essere considerato sempre
uguale a se stesso e, ciò che più conta, avere una sola possibile
interpretazione, che dunque non può essere messa in discussione
perché sussunta nel depositum fidei...
Ops, stavo sforando il quarto d’ora. Torniamo all’avvincente derby fascisti-antifascisti su Twitter.
martedì 7 maggio 2019
Tanto va il peplo a Cesarino che gli tocca la corsa in quadriga
«...
segna e depenna Ben Hur...»
La
laudatio funebris tratta il morto da faraone. Comincia con
l’eviscerarlo, lasciandogli solo il cuore, sempre
straordinariamente grande. Poi, lo imbalsama con una lunga serie di
procedimenti retorici che gli conferiscono una fissità assai poco
naturale, ma in compenso lo rendono profumatissimo. Quindi, lo ficca
in un sarcofago sul quale ne è dipinto il volto, tanto idealizzato
da risultare spesso irriconoscibile. Sempre riconoscibilissima,
invece, la mano del ritrattista, che in questo modo cerca di
scroccare al morto un’oncia dell’eternità cui mira il
trattamento.
Tutto
nelle migliori intenzioni, sia chiaro, perché corpo e memoria, senza
adeguata procedura di conservazione, sono parimenti oggetto di
decomposizione. Dopo la laudatio funebris, tuttavia, di quello
che fino a ieri era un uomo – con quanto di contraddittorio e
ambiguo c’è sempre in ogni uomo, e insieme di ineffabile e
scontato, e di tragico e comico, e di dio e bestia (ingredienti
fissi, da uomo a uomo cambiano solo le proporzioni) – resta solo
una carcassa vuota, chiusa nell’affettazione di un mummificatore,
spesso seriale.
Con
Massimo Bordin l’operazione è stata assai più semplice, perché
già in vita, almeno ai più, si offriva eviscerato d’ogni
intimità, lasciando dietro di sé una profumatissima scia di
balsamiche virtù, bello d’una bellezza già idealizzata di suo.
Direi che lavorasse alla sua laudatio funebris da almeno un
quarto di secolo, ma «direi» sta a cerniera tra quanto ha fin qui
fatto da premessa e ciò che segue, perché una volta mi capitò di
dirglielo, più o meno come l’ho detto qui: «Bordin, lei si sta
costruendo il monumento da vivo».
Eravamo
al Ghetto, da Piperno, alla seconda grappa postprandiale, e al
tavolo si avvicinò un tizio sulla settantina per chiedergli se
potesse avere l’onore di stringergli la mano, e stringendogliela
disse quello che hanno detto tutti in questi ultimi giorni: «Mi
sveglio con la sua voce, lei è la preghiera laica del mattino,
ecc.». Ringraziò schermendosi con la sua abituale ironia: «Mi
pagano», rispose, e il tizio parve estasiato dalla risposta, perché
il commento fu: «Sublime!».
«Bordin,
lei si sta costruendo il monumento da vivo», dissi appena il tizio
si fu allontanato, e lui: «Allora mi toccherà il guano dei
piccioni», e io, imitando il tizio appena andato via, cercando di
farlo imbestialire: «Sublime!». Inutilmente. Come sempre. Tutt’al
più scrollava il capo, come a esprimermi il suo biasimo. «Bordin,
ho come l’impressione che certi suoi colpi di tosse siano studiati,
come a mettere la firma sotto un passaggio che intende sottolineare»,
e lui: «Non me ne rendo conto, ma sì, può darsi». Una volta sola
– fu quando gli rammentai la sviolinata che aveva fatto a Scalfaro
nel ’91 per quell’assegno da cinque milioni a Radio Radicale
che ipotizzai potesse spiegare perché di lì a poco Pannella si
fosse speso per mandarlo al Quirinale – al biasimo diede forma
compiuta: «Castaldi, lei è molto più stronzo di quanto si dice».
Non
venimmo mai meno alla regola di darci del lei, tacitamente stipulata
fin dal primo incontro. Fu all’Hotel Ergige, sull’Aurelia, al I
Congresso di Radicali Italiani del 2002, che quell’anno, a
differenza dei successivi, si tenne a luglio. Da qualche tempo
mandavo letterine a Il Foglio che riteneva degne di infilare
nella sua rassegna stampa accompagnandole a qualche commento che
trovai inspiegabilmente lusinghiero. Solo qualche tempo dopo venni a
sapere che quelle letterine avevano goduto dell’anticipo di
simpatia che ai suoi occhi avevo guadagnato nei miei scambi con Welby
sulle pagine del forum di radicali.it.
Mi
è d’obbligo premettere gli estremi di quel primo incontro. Ero
arrivato al web appena un anno prima e intrattenere rapporti con
perfetti sconosciuti, ancorché di sensibilità affine alla mia
com’era per i frequentatori di quel forum, mi dava le vertigini.
Quel congresso era l’occasione per conoscerli di persona. Mettendo
in conto il rischio di un impatto che avrebbe potuto sconvolgere le
impressioni così pazientemente, seppur molto arbitrariamente,
costruite su di loro, avvisai che sarei stato lì, ero curioso di
sapere che faccia, che voce avessero.
Fu
meno traumatico di quanto avessi temuto. L’unica sorpresa fu
sentire: «Bordin ha saputo che sei qui, mi ha chiesto se ti
conoscessi di persona e se ti avessi visto», e poi: «Ah, ma eccolo
lì... Bordin, qui c’è Castaldi!». Ci venimmo incontro e a due
passi di distanza, quasi avessimo concordato, ci scappò in sincrono
la parodia di un reverenziale inchino.
Ci
appartammo in una saletta a fumare due o tre sigarette, tempestandoci
a vicenda di domande. L’incidente probatorio incrociato fu
interrotto da qualcuno che ci annunciò: «Sta per parlare Pannella».
Qualche
mese dopo, mi pare fosse a settembre, ero a Roma. Due o tre anni
prima avevo scoperto una libreria in Corso Vittorio Emanuele che
vendeva a prezzi stracciati giornali e riviste del tempo che fu e di
tanto in tanto andavo a riempirci il trolley. Arrivo prima
dell’apertura, intorno alle 8.30, e in cuffia ho il finale di
Stampa e Regime. Lì mi salta in mente la cosa inopportuna:
aspetto che la trasmissione finisca, telefono alla radio e chiedo di
Bordin.
«Che
sorpresa!».
«Tanta
sfacciataggine sorprende anche me, comunque era che mi trovavo a Roma
e mi chiedevo se per caso lei accettasse un invito a pranzo».
«Ma
certo, con piacere».
«Per
lei va bene a Santa Maria in Trastevere, alle 13.00?».
Prese
strada a questo modo l’abitudine che per uno o due lunedì al mese
durò per ben dieci anni. Poi c’erano i congressi e i comitati
nazionali di Radicali Italiani, che a quei tempi, da direttore
di Radio Radicale, non si poteva ancora concedere di
disdegnare. Due o tre volte ci incontrammo a Napoli, e un Natale lo
passammo assieme, a casa sua, con Teodori, Pellicani e relative
signore, cena preparata dalla Bartoccelli, io e lui addetti allo
sparecchio. Nonostante questo, non ho mai avuto l’ardire di
considerarla un’amicizia e, se lo fu, avemmo entrambi il buon gusto
di non farvi cenno: una premura di natura estetica, in tempi in cui
l’amicizia è siglata con un clic tra due nickname. Per qualche
tempo ci fu un po’ di reciproca confidenza, ecco, niente di più.
Poi nel 2011 mi nacque un figlio, i lunedì romani appassirono di
botto, le lunghe chiacchierate si striminzirono in sempre più
laconici sms. La memoria del mio cellulare data l’ultimo scambio
diretto al 10 gennaio 2016, una domenica: aveva contestato a Pannella
l’uso del termine «magistratura» riferito a organi deliberativi e
io gli rammentavo che nell’Antica Roma la figura del «magistratus»
era associata alla funzione di governo. Uno indiretto, invece,
l’ultimo in assoluto, data al 2 giugno dello stesso anno, quando su
Il Foglio scrisse che uno solo era arrivato ad augurare la
morte a Pannella, ma ora era forse tra i più dispiaciuti, perché si
trattava di un «falso cinico»: fu la prova che ci eravamo del tutto
persi di vista, perché né a Pannella avevo augurato la morte (mi
ero limitato a twittargli che morire poteva essere un contributo a
rimuovere un ostacolo alla formazione di un polo laico), né ero
dispiaciuto fosse morto (e dunque «falso cinico» era un’offesa
gratuita).
Leggo
l’ermetico
«segna
e depenna Ben Hur»
in
Don
Giovanni di
Panella-Battisti in questo modo: «non sono l’eroe che credete,
cancellate l’immagine
che vi siete fatti di me». Qui ho messo in esergo il verso a dar
voce al Bordin che ho conosciuto io, assai diverso da quello dipinto
sul sarcofago, più Oblomov che Bartleby. Ma è possibile che negli
ultimi anni abbia voluto arrendersi a quell’immagine,
si sa come va il mondo: tanto va il peplo a Cesarino che gli tocca la
corsa in quadriga.
sabato 13 aprile 2019
Vi invitassero al Colosseo...
Ricordate
la Giornata
del Perdono?
Fu celebrata nel corso del Grande
Giubileo del 2000
e voleva dar da credere che Wojtyla intendesse ammettere le colpe che
la Chiesa aveva cumulato fino ad allora lungo secoli e secoli di
scempi ed efferatezze. In realtà, la Chiesa chiedeva perdono a Dio,
non alle vittime dei suoi crimini, e di avere quel perdono era
sicura, sicché chiederlo poteva ben ridursi a una formalità.
Si
sarebbe pure chiuso un occhio – cosa pretendere da quel monumento
all’ipocrisia
che è la Chiesa? – se non fosse che Wojtyla esordì a questo
modo: «Perdoniamo
e chiediamo perdono!».
Proprio così: prima «perdoniamo»
e poi «chiediamo
perdono».
In quanto al pentimento, tutto si riduceva a questo insuperabile
esercizio di eufemismo: «Chiediamo
perdono per le divisioni che sono intervenute tra i cristiani, per
l’uso
della violenza che alcuni di essi hanno fatto nel servizio alla
verità, e per gli atteggiamenti di diffidenza e di ostilità assunti
talora nei confronti dei seguaci di altre religioni».
I dieci volumi della Storia
criminale del cristianesimo
di Karlheinz Deschner sintetizzati in cinque righe.
Altre
responsabilità? Non essere stati in grado di imporre il proprio
credo a tutti in cambio di un’ostia
ai sazi e di una ciotola di minestra ai morti di fame: «Dinanzi
all’ateismo,
all’indifferenza
religiosa, al secolarismo, al relativismo etico, alle violazioni del
diritto alla vita, al disinteresse verso la povertà di molti Paesi,
non possiamo non chiederci quali sono le nostre responsabilità».
Vi
invitassero al Colosseo per guardare come i leoni sbranano un tal
mascalzone, rifiutereste?
Troppo
impegnato a scendere da un aereo per salire su un altro, Wojtyla non
aveva tempo per scriversi i discorsi. Chi era il suo ghostwriter? Non
si sapesse, basterebbe una scorsa al testo che Ratzinger ha di
recente firmato per Klerusblatt
per riconoscerlo come autore del discorso tenuto da Wojtyla
diciannove anni fa: il modulo è lo stesso, la pedofilia di tanti
preti pare più un’offesa
a Dio che un crimine ai danni dei minori affidati loro; straziante
sofferenza per ciò che il clero ha patito e patisce da imputato di
abuso, favoreggiamento, connivenza, mentre alle vittime va a stento
un pigro sospiro di rincrescimento, quasi fossero stati complici, in
solido con chi ne ha devastato corpo e mente, nell’arrecare
offesa
al Sesto Comandamento.
Ripeto: vi invitassero al Colosseo per guardare come i leoni sbranano un tal mascalzone, rifiutereste?
[...]
[Non
so se tornerò su questo testo: molto altro ancora andrebbe detto, ma
in fondo Ratzinger è sempre uguale a se stesso, e su di lui ho detto
tanto, per anni. Nel caso non ci tornassi più, vorrei segnalare un
dettaglio che mi pare sia sfuggito a tutti: si firma «Benedetto
XVI», come se ancora fosse assiso in trono. Dunque lasciate
perdere quell’ipotesi
di invito al Colosseo, le mancava una solida base: i leoni non mangiano
merda.]
venerdì 12 aprile 2019
L’alito del coccodrillo
Se
questa mia Le sembrerà fluviale, gentile Li Ruiyu, sappia che è
solo perché in ossequio alla saggezza che trabocca da un proverbio
delle Sue parti, quello che recita: «在告诉鳄鱼他的呼吸发臭之前你必须过河»
(«Devi attraversare il fiume prima di dire al coccodrillo che gli
puzza l’alito»). In sostanza, vorrei intrattenerla su quel che
accadde in Polonia tra il XVI e il XVII secolo, per mettere in
guardia, tramite Lei, chi in Cina pensa di poter trarre qualche
vantaggio da un accordo con la Santa Sede: se mi dà modo di
illustrarLe quel che accadde, comprenderà quanto imprudenti siano
stati i passi finora fatti dal Suo paese in tal senso. Tanto
imprudenti da sollevare un dubbio: dov’è andata a finire la
leggendaria lungimiranza del politico cinese che da come scoreggia
il bruco – si dice – sa prevedere quali colori avrà la farfalla? E dunque.
Nei
primi decenni del XVI secolo, la piccola e media nobiltà terriera
polacca godeva di un’invidiabile condizione rispetto a quella del
resto d’Europa, che invece già da qualche tempo pativa i primi
effetti di quello che di lì a poco avrebbe preso piena forma di
Stato assoluto. L’avanguardia di questo processo aveva testa d’ariete nella cattolicissima dinastia asburgica, che non aveva mai fatto
mistero delle sue mire sulla Corona polacca. In difesa dei privilegi
che fin lì erano riusciti a conquistare, i signorotti del latifondo
polacco trovarono nella Riforma protestante il più naturale sbocco
alla loro avversione agli Asburgo e al Papato che li spalleggiava, e
così, intorno alla metà del XVI secolo, la Polonia divenne per tre
quinti luterana.
Tutta sovrastruttura, Lei capirà, compagno Li
Ruiyu, fatto sta che, nei venti, trent’anni successivi, col montare
del sentimento di identità e di indipendenza nazionale, la cosa
divenne sempre più marcata, convertendo al Protestantesimo anche la
stragrande maggioranza dell’aristocrazia polacca, e appendicolare plebe
tardo-feudale (o popolino pre-borghese che dir si voglia) a seguire.
Abituati, come oggi siamo, a considerare quello polacco un popolo che
il cattolicesimo ce l’ha nel sangue, e da sempre, dà un poco di
vertigine pensare a una Polonia che a quei tempi avrebbe di gusto
impiccato il Papa con le budella dell’Asburgo, e tuttavia questa
era la situazione: a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, i polacchi
rimasti fedeli a Roma erano tre gatti, mentre nella vicina Ungheria,
per ragioni in tutto simili a quelle fin qui descritte per la
Polonia, per il cattolicesimo le cose andavano anche peggio, con
qualche vescovo sgozzato e monaci a cagarsi addosso sotto il saio.
Robe brutte,
gentile ambasciatore, ma proprio brutte brutte. Così brutte che, al
confronto, le vostre robette ai tempi della Rivoluzione culturale
possono essere tranquillamente rubricate come innocenti intemperanze.
Bene,
Lei cosa si sarebbe aspettato da parte del Papato? Le do un aiutino?
Il piano fu in tutto simile a quello che da qualche tempo è messo in
atto con le autorità della Repubblica Popolare Cinese. Al momento
Lei ne può vedere solo le premesse, per sapere come butterà in
futuro ci tocca tornare alla Polonia di cinquecentoedispari anni fa.
Semplifico la cosa dando viva voce alla posizione della Santa Sede
nei confronti della Corona polacca: «Vabbè, Maestà, è andata come
è andata, la Polonia è protestante e rinunciamo alla pretesa del
primato spirituale sul popolo polacco. Però, Maestà, noi siamo pure
un’entità statuale: un minimo di relazioni diplomatiche dobbiamo
averle, eccheccazzo! Faremo in questo modo, se Lei consente: daremo
insegne di ambasciatore a quello che chiamavamo “nunzio apostolico”
e che fino all’altrieri aveva la funzione di esattore per la
riscossione delle decime dal gregge che ora ci è scappato per sei
settimi dall’ovile; continueremo a chiamarlo “nunzio apostolico”,
giusto per evitare le spese che ci comporterebbe cambiargli la carta
intestata...».
No,
vabbè, qui m’ingarbugliavo nel parallelismo, sarà il caso di
continuare fuori dalle virgolette.
La
richiesta fu accettata, d’altra parte che fastidio poteva dare un
legato del Papa in un paese in cui il Trono era arrivato addirittura
ad assumere il controllo sulla nomina dei vescovi? E qui viene il
bello, perché da quel momento il Papa affida il da farsi in terra polacca alla
Compagnia di Gesù. Tanto per intenderci, sono gli stessi anni in cui
a Pechino cominciano a vedersi in giro «gesuiti euclidei vestiti
come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia
dei Ming». Quelli che sul finire del 1564 arrivano in Polonia sono vestiti da addetti di ambasciata, però, si sa, quando l’entità
statuale sta in mano al capo di una confessione religiosa, va’ a
capire dove finisce il temporale e dove inizia lo spirituale nel
maneggio dei suoi funzionari. Puoi negare al signor ambasciatore di
avere una biblioteca? Se glielo concedi, puoi negargli di averci
dentro il personale che ordina, cataloga, copia, studia? E che
differenza c’è tra un siffatto cenacolo culturale e una vera e
propria scuola? Se c’è chi trova interessante le materie di
studio, perché negare ai dotti chierici di strutturarsi in corpo
docente e darsi assetto in collegio? E se non c’è nulla di male nell’avere un collegio di gesuiti tra un castello e l’altro, che male c’è nell’averne due? Ma poi che
differenza c’è tra l’averne due e l’averne tre, o cinque, o sette, o
undici?
Il
bordo dell’unghia, l’unghia con tutta la falange, e il dito, e la
mano, e il braccio – con la pazienza che il ragno mette nel tessere
la sua tela, ecco che nel giro di dieci o quindici anni sulla Polonia
si stende una rete di scuole che copre tutti i gradi d’istruzione
presenti nella società del tempo. Scuole che ovviamente sono ad
appannaggio dei rampolli della nobiltà, ma è quello il terreno più
fertile in cui piantare idee che possono rivoltarti come un guanto il
comune sentire di un popolo, almeno nel XVII secolo.
La faccio breve, gentile Li Ruiyu, ché ormai vedo il
coccodrillo a una distanza di poche bracciate, e l’alito si sente:
lo dico? Lo dico: in breve fu monopolio dell’istruzione e, nel giro
di una generazione, la società polacca tornò più cattolica di
quanto fosse stata un secolo prima, e sorvolo sulla fine che fecero i
protestanti. Ha presente quella simpatica ambiguità della doppia fedeltà al Trono e all’Altare che dalla Lettera ai Romani, passando per la Lettera a Diogneto, ti trasforma un devotissimo a Maria, mosso da ardente amore per Gesù crocifisso, in un sindacalista di Solidarnosc, che con una mano sgrana il rosario e con l’altra piglia la mesata da monsignor Marcinkus? Ma sì che l’ha presente, via.
Chiudo
con una domanda: ma voi cinesi siete sicuri-sicuri-sicuri di essere più previdenti dei polacchi? Non sia precipitoso nel darmi una risposta affermativa, ché nulla ci dà fretta.
Cordialmente, Suo
giovedì 11 aprile 2019
«Certi pregiudizi, diventati nazionali...»
«In
Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi»,
scrive Michele Serra (la
Repubblica,
9.4.2019), sicché «eventuali
eredi del vecchio Adolf avrebbero certamente provveduto a cambiare
cognome», mentre
«in
Italia, si sa, le cose sono molto diverse»,
e il fatto che qualcuno, che di cognome fa Mussolini, non soltanto
non abbia provveduto a cambiarlo, ma addirittura ne faccia motivo di vanto, al punto da servirsene per far politica senza altro merito da offrire (il riferimento, qui, è a un Caio
Giulio Cesare Mussolini, che le cronache di questi giorni danno
candidato alle prossime Europee nelle liste di Fratelli d’Italia),
è il più emblematico dei segni che qui da noi «i
conti con il fascismo non sono stati mai fatti per davvero».
Non si può pretendere che un corsivo possa dar spiegazione di questo dato, che è incontestabilmente vero, e tuttavia Michele Serra sembra volerne attribuire la ragione a un vizio tutto italiano. Se, infatti, «l’omone col fez è presente in molte case, e in molte strade, con assoluta naturalezza, come gli acquerelli delle zie, il limoncello nella credenza o il ficus sul pianerottolo» (sapiente parodia delle gozzaniane «buone cose di pessimo gusto» che ingombrano il salottino de L’amica di nonna Speranza), è perché siamo tragicamente privi di pudore: non ci risparmiamo l’ostensione dell’orrido feticcio che è in quel cognome, «incapaci anche di quei piccoli e confortanti ritocchi a un quadro largamente compromesso» dalla presenza di «tre partiti neofascisti (più la cospicua componente fascista della Lega)».
Non si può pretendere che un corsivo possa dar spiegazione di questo dato, che è incontestabilmente vero, e tuttavia Michele Serra sembra volerne attribuire la ragione a un vizio tutto italiano. Se, infatti, «l’omone col fez è presente in molte case, e in molte strade, con assoluta naturalezza, come gli acquerelli delle zie, il limoncello nella credenza o il ficus sul pianerottolo» (sapiente parodia delle gozzaniane «buone cose di pessimo gusto» che ingombrano il salottino de L’amica di nonna Speranza), è perché siamo tragicamente privi di pudore: non ci risparmiamo l’ostensione dell’orrido feticcio che è in quel cognome, «incapaci anche di quei piccoli e confortanti ritocchi a un quadro largamente compromesso» dalla presenza di «tre partiti neofascisti (più la cospicua componente fascista della Lega)».
Due
pregiudizi sono evidenti in questa analisi.
Il
primo è relativo a quel carattere
italiano che a ogni tentativo di definizione rivela essere
mera invenzione letteraria, ma che secondo molti sarebbe il primum
movens
della nostra storia patria, le cui origini sarebbero di almeno sei secoli antecedenti
all’Unità
d’Italia. Nel variegato spettro dei suoi tratti
peculiari spiccherebbe un connaturato deficit di responsabilità
individuale e collettiva, e allora ecco spiegata quell’incapacità
di fare i conti col passato che rimuove di ogni senso di colpa,
rendendoci insensibili a tutto ciò che la evoca.
Tanto
più deprecabile, quest’irresponsabilità,
se si fa proprio anche il secondo pregiudizio, quello che nel
fascismo vede «un
modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una
nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni» (Umberto
Eco): tratti peculari anch’essi
del carattere
italiano,
se è in Italia che per la prima volta sono stati in grado di dar
vita ad un regime politico.
[Nell’epoca
in cui la lotta ai pregiudizi metteva in discussione tutto, un
illuminista ammoniva: «Certi
pregiudizi, diventati nazionali, devono essere risparmiati da ogni
uomo retto»,
e aggiungeva: «Chi
si cura più del bene degli uomini che della propria gloria non farà
trapelare la propria opinione su questi pregiudizi»
(Moses Mendelssohn). Sulla pagina trovo un tratto di matita a
sottolineare il «diventati
nazionali»
nella prima frase e, a fianco, un punto esclamativo: puoi anche
staccar dal muro il crocifisso, ma non t’azzardare
a toccare l’autopercezione
di un popolo, soprattutto quando espressa da un moralista. Un punto
interrogativo, invece, trovo a fianco alla seconda frase: che gloria
ci si procura a mettere in discussione le convinzioni che non hanno saldo fondamento, ma che pure sono care a tanti? L’odio,
piuttosto, o, peggio, il ludibrio. Proseguiamo, dunque, ma consci del
rischio che si corre col mettere in discussione Michele Serra. I suoi
sono pregiudizi «diventati
nazionali»,
anzi, per meglio dire, sono pregiudizi già da tempo cari alla parte
più qualificata della nazione, quella che al carattere
italiano ha da tempo offerto occasione di riscatto con la sua «protezione
paterna e padreternale»
(Antonio Gramsci) alternando, alla bisogna, pietà e disprezzo,
esortazione e biasimo. Proseguiamo con cautela, perché a voler
proporre una tesi alternativa alla ragione per la quale in Italia i
conti col passato non si sono fatti come in Germania, e a provarci suggerendo che
nazismo e fascismo sono due cose assai differenti, il pericolo è
grosso.]
Perché
«in
Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi»,
mentre in Italia «i
conti con il fascismo non sono stati mai fatti per davvero»?
La differenza sta tutta nella diversità caratteriale tra tedeschi e
italiani? Non è possibile, invece, che la ragione stia in quella «profonda
differenza» che
Renzo De Felice segnala tra fascismo e nazismo, e che al netto di
tutto ciò che li accomuna sul piano storico, destinando entrambi a
una condanna senza possibilità di appello (sottolineo e
risottolineo: condanna senza possibilità di appello), è innegabile
sul piano culturale, su quello ideologico e soprattutto su quello
psicologico? Non è possibile che proprio questa differenza possa
spiegare quel che altrimenti si spiega solo facendo propri
i pregiudizi paternamente e padreternalmente offertici da Michele
Serra?
Rileggendo
Intervista
sul fascismo,
più che possibile, pare necessario: fascismo e nazismo nascono da
condizioni diverse, servono istanze diverse, e hanno diversa visione
dell’uomo
e del mondo, diversa rappresentazione della società e della storia, diversa dimensione psicologica in cui si muovono; diversa è la natura del rapporto che Duce e Führer mirano a
stabilire con le masse, diverse le liturgie che allestiscono, diverso il disegno totalitario cui mirano; c’è più differenza tra nazismo e fascismo di quanto ce ne sia tra tedeschi e italiani, perché in ultima analisi il nazismo fu un tentativo di uscire dalla storia, in parte riuscito, mentre il fascismo fu un tentativo di progresso, platealmente fallito. Non è difficile capire cosa possa far più paura, dopo aver tentato, ed è questo che spiega perché «in Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi», mentre in Italia «non sono stati mai fatti per davvero».
domenica 7 aprile 2019
Il lemma trendy
«I
comunisti che stanno in carcere?
Sarebbero
peggio dei fascisti. Perché almeno questi
sono
dei cialtroni e le bestialità che hanno in testa
le
fanno male, mentre quelli sono onesti e rigorosi
e
le bestialità le fanno bene»
Vitaliano
Brancati, Il
bell’Antonio
Anche
se il nostro patrimonio lessicale comprende un numero di voci che il
computo dei linguisti stima tra le 215.000 e le 270.000, raramente ci
si imbatte in chi correntemente ne impiega più di 7.500, mentre in
media se ne usano poco più di un migliaio, e il dato è in calo,
perché negli ultimi decenni è considerevolmente aumentato il numero
di quanti riescono a farsene bastare 300, a dispetto del tanto
digitare sulle tastiere di pc, tablet e smartphone, da cui ci si
poteva attendere che gli italiani traessero un arricchimento del
lemmario personale, come solitamente accade quando la comunicazione
si amplia e diventa più frequente. Attesa vana: si scrive assai più
di un tempo, ma in una lingua sempre più povera, refrattaria alla
scelta del più appropriato sinonimo di cosa, del verbo che
dia precisione al vago fare, dell’aggettivo che chiarisca se
con grande sia da intendere voluminoso o rilevante,
abbondante o importante.
Ai
lemmi d’uso più comune, ridotto a numero tanto esiguo, si
aggiungono, però, di tanto in tanto dei termini che godono di
un’improvvisa ed estesissima ancorché effimera fortuna, per
riaffondare di lì a poco, più o meno lentamente, nelle profondità
dell’inconsueto o del desueto dal quale erano stati pescati. In
questo modo accade che in un discorso pubblico sempre più piatto e
opaco, anonimo e incolore, caschi un termine che fin lì aveva avuto
incidenza solo episodica, per giunta assai datata.
Si
prenda fuffa, per esempio. Fino a vent’anni fa, era ignorata
perfino dal Treccani e dal Sabatini-Coletti. La si
trovava sul Devoto-Oli, dove però se ne contemplavano solo le
accezioni di «merce dozzinale, ciarpame, paccottiglia» e di
«chiacchiera senza alcun fondamento o significato»,
considerandola «voce onomatopeica di origine lombarda», con
ciò disconoscendo il significato originario di «ingarbugliamento
dei fili di una matassa» dal toscano «fuffigno», come
correttamente segnalato solo dal De Mauro. Poi, d’un tratto,
il termine appare in ogni dove, e così per due o tre lustri, mentre
oggi, invece, s’usa assai meno. Diremmo stia lentamente scivolando
nel démodé.
Démodé?
Possiamo sussumere nelle leggi della moda il processo che traccia la
parabola di popolarità di questi termini? Se sì, non è difficile
capire cosa ne decreti il declino: il lemma non ha le caratteristiche
necessarie per diventare un classico e, al pari del capo di
vestiario che non riesce a diventare un must nel guardaroba,
viene dismesso appena ha smesso di esser trendy. Ma cosa ne
decreta il successo? Qui le leggi della moda sono imperscrutabili,
consentono solo di essere intuite. Per fuffa, restando al
nostro esempio, deve aver senza dubbio avuto un peso il fatto che il
lemma suona bene, è insieme buffo e incisivo, dà efficace colore al
suo significato. In tal senso si apparenta alla locuzione francese à
gogo, che ebbe grande popolarità nei primi anni Settanta, basta
sfogliare i quotidiani e le riviste dell’epoca per ritrovarsela
dovunque. Ma cosa decreta il successo di termini che non hanno queste
caratteristiche? Perché d’un tratto escono dall’ombra per vivere
la loro breve stagione di gloria? Se mi si fa passare la metafora,
accade che dal baule degli abiti sotto naftalina ne venga tirato
fuori uno preconfezionato che riserva la piacevole sorpresa della
vestibilità di quello su misura. Fuor di metafora: è la
costellazione dei tratti che fanno il significato a cercare un
significante, e a trovarlo, quasi per caso, scoprendolo
sorprendentemente aderente. In altri termini, la realtà produce un
evento, dà vita a un modello, si struttura in una situazione, che
non riescono a farsi bastare nemmeno in perifrasi i 300 o i 1.000
lemmi più comunemente usati per darsi un’adeguata definizione;
poi, all’improvviso, dal dizionario spunta il lemma che in due o
tre sillabe riesce a darne la sostanza per intero.
Anche
qui non sarà inutile ricorrere a un esempio. Prenderemo il termine
cialtrone
che da alcuni mesi furoreggia dappertutto.
Nella
persona del cialtrone
confluiscono ben sei caratteri, e tutti ben distinti, come è reso
evidente dall’impossibilità
di trovare sovrapposizione o interscambialità tra i relativi
sinomini:
- è
innanzitutto persona che mostra assai poca correttezza nei confronti
del prossimo, e senza farsi scrupolo di arrivare al dolo (è
imbroglione,
mascalzone,
furfante,
lestofante,
ecc.);
- né
si dà cura nel conferire almeno un minimo di plausibilità
all’impostura,
che è lo strumento di cui fa più frequente uso (è impudente,
volgare,
sfacciato,
villano,
ecc.);
- impostura
che è quasi interamente affidata alla sua ciarla (è linguacciuto,
parolaio,
vaniloquente,
ecc.);
- un
ciarlare che per lo più è un millantare (è spaccone,
pallista,
borioso,
spocchioso,
ecc.), e che si rivela tale nella vistosità di due difetti:
- il
cialtrone
è sciatto,
trasandato,
pasticcione,
abborracciatore,
ciabattone,
ecc.;
- ed
è indolente,
fannullone,
poltrone,
scansafatiche,
ecc.
D’etimo
incerto, c’è
chi ipotizza sia un incrocio tra ciarlone
e poltrone
(De
Mauro,
Devoto-Oli,
Casalegno-Goffi),
ma è evidente che la sua persona non possa esaurirsi in questi due
soli aspetti, sicché, se fosse esatta l’ipotesi,
si dovrebbe supporre che la persona del cialtrone
sia venuta a costruirsi attorno a quel nucleo. Cosa le avrebbe
conferito il resto? Dar carriera a quei due vizi morali: da ciarlone
farsi ciarlatano,
riscoprire in poltrone
la variante di paltone
(accattone),
diventare impostura ambulante per il mondo, tra immeritate fortune e
rovinosi rovesci, per guadagnare l’infamia
della persona «di
volgarità sudicia e moralmente vile»
(Tommaseo),
«volgare
e spregevole, priva di serietà e correttezza nei rapporti umani o
che manca di parola negli affari»
(Devoto-Oli),
che «ricorre
a trucchi scoperti per giustificarsi»
(Sabatini-Coletti).
Tanto
scoperti, i suoi trucchi, da rendere di regola la sua impostura assai
irritante, ma talvolta anche divertente. Nel primo caso, il cialtrone
è
sentito come minaccia sociale, perché della risma dei gabbapopoli
(un esempio ne Il
viaggio di un ignorante
di Giovanni Rajberti, del 1854, dove il cialtrone
è per la prima volta accostato al populista,
ovviamente ante
litteram);
nel secondo, la maldestrezza dei suoi mezzucci muove a una sorta di
tenerezza (si pensi al «sofisticato
cialtrone»
affibbiato a Vincino nel necrologio de Il
Foglio).
Diremmo che l’abiezione
che bolla il cialtrone
mira a condannare innanzitutto l’offesa
che ci fa col ritenere di poterci abbindolare con eccessiva facilità:
è un impostore che sottovaluta le nostre capacità di difesa
all’impostura,
e dunque merita due volte il nostro disprezzo.
Qui
possiamo richiamare l’assunto
relativo alle ragioni che decretano l’improvviso
ed enorme successo che un termine inconsueto o desueto viene a
riscuotere in un determinato momento, chiedendoci quale sia l’evento,
il modello, la situazione che trovano in cialtrone
la felice soluzione lessicale. Domanda superflua, basta considerare
in quale contesto si registra la più frequente ricorrenza del
termine: cialtroni sono i grillini: imbroglioni e villani, parolai e
spacconi, fannulloni e pasticcioni.
Se il lettore ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, potrà dare un senso al brano tratto da Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati posto in esergo, chiedersi se la soluzione lessicale, di cui qui si è cercato di spiegare la ragione, non esprima nel profondo un bisogno di «bestialità fatte bene».
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