Le
schifezze che Matteo Renzi si rivela in grado di far approvare da un Parlamento, la cui maggioranza è stata eletta con un programma che non le conteneva, sono le
stesse che erano nel programma di un centrodestra che non era in grado di
farle diventare leggi, nemmeno quando stravinceva le elezioni, perciò, se Silvio
Berlusconi riesce a mettere insieme il quanto basta per avere una concreta possibilità
di battere Matteo Renzi, faccio un serio pensierino all’eventualità di dargli
il mio voto, e so che suona come una bestemmia, non è il caso di farmelo presente, ma meglio sorbirsi in ascensore la scoreggia di uno che mangia solo topi morti o essere suo ospite a colazione?
giovedì 26 febbraio 2015
Dedalo di specchi
Daniele
Luttazzi non ha ancora pienamente elaborato il trauma della gogna che subì
cinque anni fa, ma pare sia intenzionato a risolvere la cosa sublimando
piuttosto che rimuovendo e poi fare i conti con una fastidiosa nevrosi, almeno
questa sembra l’operazione che affida a Bloom
(Edizione Il Fatto Quotidiano, 2015), plagio (che non può dirsi plagio) di un
Omero che si riprende il suo Ulisse dal
plagio (che non può dirsi plagio) di Joyce. Gioco di specchi, anche molto ben
fatto, in cui ci si dovrebbe ritrovare, ma solo a patto di perdersi davvero, onestamente
incapaci di dire dove finisca l’aedo e dove cominci il rapsodo. D’altronde
neanche si è certi che Omero sia davvero esistito, tutto il nero su
bianco l’avrà messo uno che ha spizzicato qui l’orecchiamento di un inno, lì il passaparola di
un mito. Ora, se usiamo lo strumento che ci consente di parcheggiare l’auto in un dedalo di specchi senza sfiorarne neanche uno (e qui cito lo spot pubblicitario
di una nota casa automobilistica, meglio dichiarare che la paternità della
metafora non è mia), toccherebbe a Joyce riprendersi l’Omero di Daniele
Luttazzi, e a Daniele Luttazzi toccherebbe stare zitto, senza lamentarsi d’essere
stato plagiato. Il cerchio quadrerebbe e potremmo finalmente riavere quello che
abbiamo perso cinque anni fa, che oggi è ancora perso in 105 pagine di note al
testo e in 103 voci bibliografiche.
L’avviso è il seguente
L’avviso
è il seguente: «A partire dal 23 marzo
2015 non sarà possibile condividere pubblicamente immagini e video sessualmente
espliciti o che mostrano nudità su Blogger. Le immagini di nudità sono
consentite se il contenuto è di pubblica utilità, ad esempio in un contesto
artistico, didattico, documentario o scientifico».
È uno di quei casi in
cui legislatore e giudice coincidono e quindi ogni possibile interpretazione della
norma non ammette contestazioni. Perché solo «immagini e video»? Se posto il file audio di un porno, altrettanto
«sessualmente esplicito», non incorro
in alcuna sanzione? E se il contenuto «sessualmente
esplicito» sta in un testo scritto? E quali sono i parametri che delimitano
i confini di ciò che è «artistico»
rispetto a ciò che non lo è? Chi avesse l’intenzione di postare un ciclo di
lezioni sul coito anale, naturalmente con supporto video, può legittimamente ritenersi
in ambito «didattico»? Saremmo ancora
in ambito «documentario o scientifico»
con un post che avesse l’intenzione di smontare la bufala della minzione
spacciata per squirting, giocoforza utilizzando spezzoni di film a luci rosse? E
poi quand’è che «immagini di nudità»
sono o meno «di pubblica utilità»?
Domande che naturalmente non ha senso porsi a
priori, perché a posteriori ha
forza di legge la discrezionale libertà di giudizio, che Blogger si riserva
grazie all’inevitabile ambiguità della norma. Inevitabile perché la materia ha
per sua natura contorni oggettivamente indefinibili, ma soggettivamente
nettissimi, anche se pure la soggettività è estremamente mobile sull’oggetto in
questione.
Penso sarebbe stato più onesto formulare l’avviso in questo modo: «A partire dal 23 marzo 2015 Blogger si
riserverà di censurare quanto ritenga possa provocarle noie. Giacché il sesso,
anche latamente inteso, è materia assai sensibile, comportatevi di conseguenza, ché
non vi sarà consentito sollevare obiezioni. D’altronde la pagina vi è offerta a
gratis, dunque cercate di non rompere il cazzo».
mercoledì 25 febbraio 2015
Massimo Fini, Una vita, Marsilio 2015
È
il suo libro migliore, davvero molto bello, a tratti commovente, ma d’una
commozione mai umida, mai ruffiana. Alla scrittura, da sempre d’ottima qualità,
qui s’unisce la materia, ricchissima, estremamente varia, sapientemente
ricomposta. Come per ogni autobiografia, e anche questa non fa certo eccezione,
si potrebbe, volendo, star lì a perdere un’infinità di tempo a dissezionare e a
catalogare reticenze che velano e iperboli che sparacchiano, ma la compiutezza
del narrato fa passare la voglia: Massimo Fini si racconta e si fa prendere
sulla parola. Una pessima copertina, occorre dire. Un sottotitolo fin troppo
indisponente, che scimmiotta – chissà se ironicamente o no – lo Zarathustra
nietzschiano, e dunque è civettuosamente depistante. Un indice dei nomi, poi, che in fondo a un’autobiografia sta sempre troppo come a piedistallo. Tolto questo, un libro eccezionale. Complimenti. E grazie.
martedì 24 febbraio 2015
O-oh!
O-oh!
A chi gli fa presente che sta a Palazzo Chigi senza essere passato per le urne,
il Cazzaro risponde che la nostra è una democrazia parlamentare, e che il
Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo, ma nominato dal
Presidente della Repubblica. Non sono passati neanche due anni da quando, a
Daria Bignardi che gli chiedeva: «Lei non
vorrebbe governare questo Paese?», rispondeva: «Sì, ma passando dalle elezioni, non dagli inciuci di Palazzo» (Le Invasioni Barbariche, 17.4.2013):
deve aver scoperto che non è indispensabile, ma solo dopo aver inciuciato il
necessario. Ora – o-oh! – scopre che la nostra è una democrazia parlamentare, ma
solo dopo aver scritto una riforma del Senato e una legge elettorale che
riducono il Parlamento a un vidimatore di decreti del Governo, per giunta con l’obbligo
di doverli vidimare prim’ancora di poterli leggere, sennò tutti a casa, e niente
ricandidatura, perché nella lista bloccata c’entri solo se vuole il Segretario
del Partito, che incidentalmente è pure Presidente del Consiglio: scopre che la
Costituzione esiste solo dopo averla ignorata, il Cazzaro. Come in certi paesini
siciliani, come presso certe tribù afghane: prima stupri la ragazza che ti
piace, e poi la chiedi in sposa.
lunedì 23 febbraio 2015
Li accarezzava come figli
Volevo
scherzare un po’ sulla faccenda confezionando uno di quei video della durata di
uno o due minuti ai quali mi lascio andare di tanto in tanto, ma poi ci ho
ripensato e ho buttato nel cestino tutto il materiale, salvando solo un fotogramma,
quello che ho riprodotto qui sopra. La faccenda nasce dall’Ansa Magazine #49 dello scorso 17 febbraio, a firma di Michela
Suglia, dal titolo Li accarezzava come
figli (Viaggio tra libri e cimeli del fondo Fallaci), e in particolare dall’intervista
al bibliotecario della Pontificia Università Lateranense, depositaria del
lascito che Oriana Fallaci ha espressamente destinato a quell’ateneo prima di
morire: «li accarezzava come figli» è
frase che esce di bocca proprio a lui e, almeno nel contesto in cui è
pronunciata, sembra che abbia a oggetto tutti i volumi della biblioteca della
scrittrice.
Ora non è che io voglia mettere in discussione l’amore che la
Fallaci potesse realmente avere per quei libri, ma credo che considerasse figli
solo quelli scritti da lei, peraltro presenti in diverse traduzioni tra i 627
volumi del fondo, sicché è lecito pensare che quelli di altri autori non superino i 500-550. L’espressione, d’altronde, torna in due interviste del 1990 e
del 1991 che è facile trovare su Youtube e in cui la scrittrice racconta, più o meno con le stesse parole, di come abbia inizialmente perso tempo prezioso nella sua lotta contro il cancro per dedicarsi alla traduzione
in inglese del suo Insciallah, ma che
non se ne pente, perché «tra me e i miei
libri c’è un rapporto materno e, tra la propria salute e quella del proprio
figlio, quale madre non sceglie la salute del proprio figlio?». Possibile
che tale affetto fosse pari a quello riservato ai libri di cui era in possesso
e di cui non era autrice? Non si può escludere, ma è più verosimile che la
Fallaci abbia espresso lo stesso concetto anche al bibliotecario della
Lateranense e che questi abbia equivocato l’affermazione come estesa a tutti i
volumi della sua biblioteca.
Sia lecito stupirci, en passant, del fatto che
fossero assai meno di quanti ci saremmo aspettati in possesso di chi posava a
vestale della civiltà giudaicocristiana. Neppure sulla qualità dei volumi, poi, sembra si possano rilevare elementi notevoli, se il volume più prezioso è una
malconcia copia del Delle rivoluzioni d’Italia
di Carlo Denina, per giunta in un’edizione posteriore alla morte dell’autore.
Il valore del lascito, insomma, sembra tutto e solo nel fatto che questi libri
siano stati di proprietà della Fallaci, e che qualcuno rechi qualche nota
autografa, qualche altro un post-it a far da segnalibro. Il sospetto è che si
voglia accrescerne il pregio spacciandoli come figli, mentre dei veri figli erano
tutt’al più compagni di scaffale.
[...]
Se
non avesse rotto il patto del Nazareno, «errore
blu» che lo ha lasciato senza uno «scudo»
politico, ora Silvio Berlusconi non rischierebbe «la gogna della galera» che la Procura di Milano potrebbe
infliggergli con una nuova accusa, quella di aver pagato i testi chiamati a
deporre nel processo d’appello sul caso Ruby, «coriacea e subdola riproposizione del teorema dell’Arcinemico, del
male assoluto, dell’uomo da sfasciare», che alla vigilia della pronuncia
della Cassazione sull’assoluzione impone una «nuova intimidazione con procedure oggettive, ai sensi del codice»,
il che implica necessariamente «il “pentimento”,
cioè la resa al pm, di qualche teste utile a reimpostare il caso».
Così Giuliano
Ferrara (Il Foglio, 23.2.2015), ma
chi vuol bene a Silvio Berlusconi può star sereno, perché a difenderlo, nel
caso venga incriminato, sarà quasi certamente Franco Coppi, il quale si
guarderà bene dall’inguaiarlo con argomenti così idioti. Provate a immaginare: «Signori della Corte, il mio assistito è
chiamato a rispondere delle accuse che gli vengono mosse solo perché ha avuto
qualche ruggine con Matteo Renzi, sennò col cazzo che il pm avrebbe osato metterlo
in galera, sarebbe bastata una telefonatina e oggi non sarebbe in quest’aula,
ma a riscrivere la Costituzione insieme al Royal Baby». C’è da supporre che il processo non avrebbe storia.
[...]
Nel
caso dei tweet di Gasparri in risposta alle dichiarazioni di Renzi sulla
ventura riforma della Rai, c’è da rammaricarsi che, dalla preistoria ad oggi, la
disputa a colpi di selce aguzza con la quale i nostri progenitori si sfondavano
a vicenda il cranio sia diventata un inoffensivo scambio di battute: invece
della povertà dei rispettivi argomenti sarebbe assai più edificante veder da quelle zucche schizzare la pupù, così non rimarremmo nel dubbio su quale ne contenga di più.
Dominus Iesus, 15 anni dopo
Al
pari di ogni altro strumento, anche la parola muta nel tempo la specifica funzione
per la quale è stata creata per l’ampliarsi o il ridursi delle occasioni in cui
ne è richiesto l’uso. Così è per la vis
che sta in violentus, dove l’-olentus è quasi pleonastico ad indicare
l’eccesso di energia. A differenza della fortia,
infatti, che si esprime nella capacità di sostenere un peso e di resistere ad
una spinta, e perciò trova sinonimo nella solidità e nella fermezza che
implicano uno sforzo isometrico, la vis
è eminentemente dinamica, sicché la violenza
non sta in una forza che sia solo «soverchia,
[ma che sia pure necessariamente] messa
in moto» (Niccolò Tommaseo), per lo più nell’impeto di un attacco potenzialmente
distruttivo di tutto ciò che le si oppone.
Ciò detto, come altrimenti che
violenta potremmo definire la fede che si dà mandato di far trionfare una
verità su tutte? Non si ha, questo trionfo, senza che ogni altra verità venga distrutta
riducendola a menzogna, e questo rende ineluttabilmente violento il mezzo
efficace al conseguimento di tal fine, anche quando è dichiarato esclusivamente
persuasivo.
Si prenda il Corano: «Non v’è
costrizione nella religione, giacché la retta via ben si distingue dall’errore»
(2, 256); «Se Dio volesse, tutti
crederebbero in Lui. Tu pensi sia necessario costringerli?» (10, 99); «A chi porta la parola di Dio spetta solo il
trasmetterla» (5, 99). Si tratta di versetti che solo in apparenza
contraddicono i tratti dell’jihad che si fa truculento quando da lotta
interiore per raggiungere il perfetto grado della fede diventa guerra santa
contro gli infedeli, perché il dinamismo della vis proselitaria è sempre per sua natura pleomorfo e opportunista.
Si pensi al Manuele II Paleologo caro a Ratzinger: afferma che «chi vuole condurre qualcuno alla fede ha
bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece
della violenza» (Dialoghi con un persiano,
VII, 93), ma nella storia del cristianesimo questo sta senza eccessivo
imbarazzo accanto ai battesimi forzati di ebrei, indios e neonati.
Tutto sta,
in fondo, nella forma che assume la violenza e nella sensibilità a coglierla
quando è dissimulata. Così, mentre si preferisce definire «guerra santa» la
catena degli eventi che scuotono il mondo islamico, dimentichiamo che tra
qualche mese ricorre il 15° anniversario della Dichiarazione «Dominus Iesus» della Congregazione per
la Dottrina della Fede, riaffermazione della legittimità della vis proselitaria che la Chiesa di Roma
non ha mai rinunciato a esercitare al fine di estendere κατά όλος il suo credo, giacché la sua missione non si esaurisce
nell’annuncio evangelico, ma nell’«instaurarlo
tra tutte le genti» (18).
Certo, «al
termine del secondo millennio cristiano questa missione è ancora lontana dal
suo compimento» (2), per giunta certi strumenti del passato sono diventati
inutilizzabili. Si pensi a come, per secoli, colonialismo ed evangelizzazione sono
andati a braccetto e si prenda atto che non è più possibile: occorre che la vis perda il dinamismo
della conquista militare e potenzi il carattere isometrico della fortia che resiste alla conquista
militare dei competitori.
«Circa il modo
in cui la grazia salvifica di Dio […] [possa] arriva[re con profitto] ai
singoli non cristiani [in queste mutate condizioni storiche]» (21), occorre
constatare che le cose si son fatte assai più difficili: giocoforza si deve ripiegare
sul dialogo, ma senza dimenticare che «la
parità, presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle
parti, non ai contenuti dottrinali» (22). Siamo alla constatazione che «lavorare per il Regno vuol dire riconoscere
e favorire il dinamismo divino», ma che i tempi costringono al sospiro del «vorrei ma non posso». Poi, come sempre, ci si può far prendere dall’abbrivio, e allora si può arrivare a bestialità del tipo «la Chiesa non fa proselitismo» (Ratzinger, 13.7.2007).
[...]
Più
di mille musulmani, a Oslo, fanno da scudo umano ad una sinagoga, scandendo lo
slogan «no all’antisemitismo, no all’islamofobia». È una ben strana guerra di
religione, quella in corso.
domenica 22 febbraio 2015
Graziano Delrio, finissimo biblista
«Il
Signore gli disse: “Questa è la terra che ho promesso ad Abramo, a Isacco, a
Giacobbe, e che darò alla tua discendenza. Ho voluto che i tuoi occhi la
vedessero, ma tu non vi entrerai”. […] Quando morì, Mosè aveva centoventi anni»
Dt
34, 4-7
Radiomonitor
Pauroso
calo degli ascolti di Radio Maria. Fatta eccezione per il programma mattutino
di quel maestro della satira agrodolce che è padre Livio Fanzaga, sempre seguitissimo, pare che il restante
palinsesto abbia scassato la uallera a una discreta percentuale di
radioascoltatori.
sabato 21 febbraio 2015
Altro che figlio di Silvio Berlusconi
Abbiamo fatto un grosso torto a Matteo Renzi nel ritenerlo un cazzaro privo di una qualsiasi Weltanschauung: i decreti attuativi del suo Jobs Act rivelano che una visione del mondo ce l’ha ed è quella del ragazzotto che ha visto il babbo condannato sette volte tra cause civili e del lavoro per contributi non pagati, licenziamenti illegittimi, lavoro irregolare e roba simile. Da ingenui stavamo lì a tenerlo sotto la lente per cogliere i tratti genetici che lo rivelassero come figlio di Silvio Berlusconi, lasciandoci sfuggire l’ovvio, cioè che il nostro Presidente del Consiglio altro non è che il figlio di un furbastrello di provincia, uno che la sera, tornato a casa, affliggeva moglie e figli coi mugugni per le rotture di cazzo che gli procuravano i dipendenti. Altro non è che il figlio di Tiziano Renzi, il nostro Presidente del Consiglio, la Weltanschauung è quella.
Immaginate che uno storico...
Immaginate
che uno storico vi faccia una lezioncina sul ventennio che ha insanguinato l’Irlanda
del Nord nella seconda metà del Novecento spiegandovelo come una feroce disputa
tra cattolici e protestanti sulla natura della Grazia, sull’esistenza o meno
del Purgatorio e sull’argomento dell’autorità sufficiente delle Scritture:
suppongo che lo mandereste a fare in culo, vero? Avreste tutta la mia
comprensione, ma per un attimo fate finta di essere personcine educate, di quelle
che non mandano mai a fare in culo nessuno, e dite: come controargomentereste?
Probabilmente
direste che in campo, in quel caso, c’erano senza dubbio cattolici e
protestanti, ma che da qui ad affermare che tutto quel sangue – oltre tremila
morti su poco più di un milione di irlandesi – sia stato versato per motivi
religiosi ci vuole una gran testa di cazzo, perché pure per le personcine
educate, alla fin fine, est modus in rebus. Cattolici e protestanti, in Irlanda del Nord, si
sono massacrati a vicenda per contendersi un territorio, né più né meno come
hanno fatto nel resto d’Europa per oltre due secoli, tra il XVI e il XVII.
Passano alla storia come guerre di religione, certo, ma c’è qualche storico che
azzarda a dire siano state combattute tra chi sosteneva che per la salvezza
eterna può bastare la sola fede e chi affermava che invece sono indispensabili
le opere?
Ora, se lo sforzo di immaginazione non vi affatica troppo, fate finta
di essere a Parigi all’alba del 24 agosto del 1572, quando le strade erano
ingombre dei cadaveri di oltre 8.000 protestanti sgozzati dai cattolici (almeno
altri 15.000 saranno massacrati nei giorni seguenti, in città e nel resto della
Francia), e dite: definireste quella carneficina il risultato di una contesa
teologica? Certo, nella cattedrale di Notre Dame si canta il Salmo 138 («Non
odio forse, o Signore, quelli che ti odiano e non detesto forse i tuoi nemici?
Li detesto con odio implacabile come se fossero miei stessi nemici»), ma questo
vi può bastare per poter ragionevolmente concludere che la strage degli
ugonotti consumatasi la notte prima sia espressione di una fede barbara e
sanguinaria? Se il conflitto che oggi va consumandosi tra sciiti e sunniti vi
pare trovi ragion sufficiente in alcuni passi di alcune sure del Corano, vi
potrà bastare. Ma poi chiedete scusa allo storico che avreste mandato a fare in
culo.
venerdì 20 febbraio 2015
«Santità, che bell’anello!»
La
notiziola del bambino autistico di Valmontone cui si è impedito di seguire il
resto della scolaresca in visita al Vaticano mi fa tornare in mente la
barzelletta del ragazzo gay che il parroco non vuole portare all’udienza papale
temendo che le sue eloquenti movenze possano causare qualche increscioso imbarazzo, ma che alla fine
riesce a strappare il consenso, giurando che saprà contenersi. Tutto fila liscio fino a quando il ragazzo non
arriva dinanzi al papa, s’inginocchia e, baciandogli la mano, esclama con tono fin troppo esageratemente effeminato:
«Santità, che bell’anello!», e il papa gli risponde: «Non me ne parlare, sapessi come sono belli gli orecchini che gli fanno da parure, ma questi stronzi non me li fanno mai mettere». Nel caso del bambino
autistico, il motivo del divieto alla visita in Vaticano è stato il fatto –
dicono – che il caso fosse ingestibile. Come se Bergoglio non desse alla Curia
le stesse preoccupazioni.
[...]
Dovremmo
essere contenti della sentenza che dichiara illegittima l’espulsione di Luigi
Lusi dal Pd, ma ormai siamo abituati a considerare i partiti politici come ditte,
e Luigi Lusi è stato condannato in primo grado a otto anni di reclusione per
essersi indebitamente appropriato di oltre 25 milioni di euro di fondi pubblici
destinati alla ditta di cui era il tesoriere, dunque ha il marchio del ladro, e
quindi il Pd ha espulso un ladro, e allora siamo contenti che l’abbia espulso,
o almeno riteniamo fosse sacrosanto, e la sentenza ci sconcerta, e a leggerla
ci sembra assurda. Già, ma cosa dice, la sentenza? Dice che l’espulsione deve
considerarsi illegittima perché non è stata preceduta dalla contestazione in
ordine agli addebiti sui quali l’irrogazione della sanzione si fondava. In
sostanza, Luigi Lusi è stato espulso dal Pd in violazione della procedura che
un partito politico è tenuto a seguire in questi casi. Oibò, cosa obbligherebbe
un partito politico al rispetto di questa procedura? È presto detto: l’art. 49
della Costituzione, il quale riconosce a tutti i cittadini il diritto di associarsi
liberamente in partiti, ma obbliga questi ultimi a darsi uno statuto che
rispecchi il metodo democratico, il quale, non sarà superfluo rammentarlo,
contempla ben precise garanzie, non ultima quella del diritto di difendersi da
addebiti che prevedano una sanzione.
C’è poco da stracciarsi le vesti per
scandalo, dunque. La sentenza non dichiara che Luigi Lusi sia innocente,
e nemmeno che il Pd non avesse il diritto di espellerlo: si limita a
considerare che la procedura di espulsione è stata illegittima ai sensi della norma costituzionale
che obbliga un partito politico a rispettare le regole del metodo democratico
nelle topiche della sua vita interna. Di converso, e di fatto se non di diritto, potremmo arrivare a dire che nella violazione di queste regole non c’è partito politico, ma associazione privata, con quanto ne consegue, in primis per quanto attiene al finanziamento pubblico. Ecco perché dovremmo essere contenti
della sentenza, soprattutto se costituisce un precedente: ce n’è di che poter dichiarare
illegittimo quanto in un partito neghi la democrazia interna. Ancora una volta siamo dinanzi ad un’azione vicariante della magistratura a colmare un vuoto, che in questo
caso è quel deficit di democrazia interna che ha ridotto tutti i partiti a
comitati d’affari, a imprese private, e di questa azione vicariante ovviamente ci sarebbe
di che lamentarsi. Ma dove la politica si dimostra incapace di rispettare la
legalità, ben venga la magistratura a rammentargliela.
[...]
Digitando
nella finestrella di Google «tifoseria
Napoli vandalismo», ottengo paginate e paginate di episodi a dir poco
disdicevoli attribuibili ai tifosi del Napoli, in casa e in trasferta, d’altronde
sono certo che avrei ottenuto risultati analoghi per qualsiasi altra squadra di
calcio italiana, perché non ce n’è una che non abbia al seguito, più o meno
nutrito, il suo bravo manipolo di esaltati per i quali ogni scusa è buona per
lasciarsi andare ad atti di violenza su cose e su persone. Stando così le cose,
non si capisce proprio cos’abbia potuto autorizzare Il Mattino a uscirsene bel bello, stamane, con una prima pagina
come quella che ho riprodotto qui sopra. Per meglio dire: si capisce, ed è in
linea con la tradizionale politica del giornale, ma quanta malafede è
necessaria per decidere di aprire un numero in questo modo?
mercoledì 18 febbraio 2015
[...]
Di
Michel Houellebecq ho letto solo Le
particelle elementari, appena uscì in Italia, e poi più nulla, perché quel
libro – uso un eufemismo – non mi piacque affatto. Trovai balorda la trama, irritante
la scrittura, e infine, a chiudere definitivamente la faccenda, non ricordo più
se in un risvolto o in quarta di copertina, c’era quella faccia da omino viscido
e dinoccolato che probabilmente m’avrebbe reso difficile anche la lettura di un
capolavoro, ammesso e non concesso che Le
particelle elementari, come pare, lo siano. Non sono neanche sicuro di
essere arrivato alla fine, di certo non ho più riaperto quel libro, e insomma
prima di Sottomissione, che ho
acquistato oggi, a Michel Houellebecq ho associato in tutti questi anni l’idea
di un tizio insopportabile, per giunta sopravvalutato dalla critica, a
rafforzare ulteriormente, se possibile, la mia ultraventennale idiosincrasia
per la letteratura contemporanea, salvando solo Philip Roth e Ian McEwan.
Non
ho ancora iniziato a leggere Sottomissione,
probabilmente lo metterò a stagionare per qualche mese, perché non c’è niente
di peggio, ritengo, che leggere un libro mentre ancora se ne parla, e troppo. Non escludo che anche questa «fiction
politica», com’è nella definizione dell’autore, non mi piacerà affatto, anzi,
ne ho come la certezza, però nella ragione che mi ha spinto ad acquistarlo c’è
ben poco dell’investimento che si fa per un genere voluttuario. C’è che ieri
sera, a Ballarò, Michel Houellebecq ha detto due o tre cose sulle quali sono
perfettamente d’accordo e che in buona sostanza dovrebbero scoraggiare una
lettura strumentalmente reazionaria della prognosi sociologica che affresca nel
suo romanzo, anche se ha tenuto a precisare che non gli importa molto se
dovesse accadere, come in realtà già accade, che la Francia del 2022 da lui
immaginata sia usata come spauracchio da chi nell’Isis cerca un pretesto per
favorire la deriva autoritaria, già da qualche tempo in atto in Europa, che
mira allo smantellamento dello stato di diritto.
Michel Houellebecq ha detto che
a minare la società francese non è il nichilismo, epiteto col quale sempre più
spesso si diffama la laicità dello stato, ma la mancanza di democrazia. Ha
detto che i partiti non rappresentano più nulla e che dunque il voto non ha
più senso, che il dibattito pubblico si è trasformato che da qualche tempo in
una rancorosa contesa che oppone i privilegi delle élites alla rabbia e alla frustrazione
della gente comune. E ha detto che per quanto attiene all’Isis il problema non
è il Corano, che al pari della Bibbia, assai poco letta dai cristiani, è assai
poco letto dai musulmani, e ancor meno dai jihadisti, che ha degnato d’un solo aggettivo:
stupidi. Il problema non è il Corano – ha detto – ma il ruolo degli imam,
perché tutti i musulmani che hanno compiuto violenze sono di regola passati per
le mani di guru spirituali che hanno loro indicato la via. E ha indicato nel
passato coloniale di questo o di quel paese l’elemento che lo rende più o meno
odioso all’Isis, anche quando quel passato è ormai alle spalle, e con ciò mi
pare abbia centrato in pieno il movente psicologico che muove il sogno del
califfato: quello del riscatto da una storia vissuta come umiliazione. E tutto
questo l’ha detto con una faccia che, tre lustri dopo, era assai diversa: un
mix di Céline e di Iggy Pop, con una zazzera rada e spiovente, un po’ alla
Ceronetti, una specie di clochard tra il misantropo e lo strafottente. Simpatico.
martedì 17 febbraio 2015
lunedì 16 febbraio 2015
Puff!
Ogni volta che so di cristiani perseguitati o
uccisi in terra d’islam, qui sgozzati, lì bruciati vivi, l’istinto mi muove a
compassione. L’istinto, tuttavia, come ben sa chi ne ha studiato la natura, sta
tutto in meccanismi riflessi, non mediati, nient’affatto ponderati, sicché a
lasciarlo fare si può esser certi di sbagliare. Allora in mio soccorso chiamo
la ragione, che non si fa pregare e prontamente accorre col suo cassetto degli
attrezzi. Per la compassione che d’istinto mi prende per i cristiani
perseguitati o uccisi in terra d’islam, ne usa uno che somiglia a un regolo
millimetrato, col quale mi dà sempre misura esattamente coincidente tra il martire
e il pezzo di merda. Detta così, però, mi rendo conto che la cosa possa
sembrare poco chiara, e allora passo all’esempio.
I copti decapitati dall’Isis, avete presente? Quando ho saputo, il cuore mi si è stretto da far male: «Povera gente», mi son detto, e giù a commiserare, afflitto da una pena immensa. Non fosse accorsa la ragione – e qui vi prego di credermi, non esagero – temo sarei morto dal dolore. Ma per fortuna non s’è fatta attendere: è subito arrivata e m’ha messo sotto il muso un post di Berlicche.
I copti decapitati dall’Isis, avete presente? Quando ho saputo, il cuore mi si è stretto da far male: «Povera gente», mi son detto, e giù a commiserare, afflitto da una pena immensa. Non fosse accorsa la ragione – e qui vi prego di credermi, non esagero – temo sarei morto dal dolore. Ma per fortuna non s’è fatta attendere: è subito arrivata e m’ha messo sotto il muso un post di Berlicche.
«È
fuori di dubbio che, in Libia come in Danimarca, stiamo raccogliendo quanto
abbiamo seminato. Un tempo si diceva Horror vacui per indicare che, quando
esiste un vuoto, c’è qualcosa che lo riempie. La natura aborrisce il vuoto. Ma
talvolta ciò che lo riempie non è così piacevole. Se non ci fosse il vuoto, non
fosse stato creato il vuoto tutto sarebbe stato molto diverso. È difficile
occupare quanto è già pieno. È molto più semplice svuotare. Svuotare di ordine,
svuotare di senso, svuotare di Dio. Un tempo Dio riempiva tutto il cosmo con la
Sua presenza, tramite le sue creature. Poi si è deciso che erano le creature ad
importare, e non Dio. E un creatore è diventato inutile e imbarazzante, perché
stava là a ricordare che una creatura non può tutto: ad esempio, non può farsi
da sé. Le cose imbarazzanti dapprima le si nasconde, perché non siano viste dagli
ospiti; poi ci si libera di loro. Dio occupava uno spazio bello grosso. Grande
è il vuoto che si è fatto. I nichilisti dicono che è grande come l’universo
stesso e si sa, sono i nichilisti che oggi dominano le nazioni. Ma un
nichilista non ha difese contro chi questo suo vuoto ipotetico, questo suo
nulla mentale lo vuole occupare. Può solo continuare a ridere ebete,
rivendicando la superiorità del niente, sperando che l’ingombro che ha usurpato
il suo nulla cessi di esistere. Sciocco. Niente che esiste cessa di esistere.
Né Dio, né ciò che ha preso il suo posto. Così l’orrore del vuoto si è
trasformato in un altro orrore. Dal Dio che ha dato la vita per ciò che è, a
ciò che sceglie di non essere, a chi toglie la vita di ciò che è per riempirlo
di altro. Qualcuno che non sarebbe mai entrato se non l’avessimo fatto entrare,
se non gli avessimo creato spazio, non avessimo creato un vuoto. Perché
l’abbiamo già detto: quando c’è un vuoto qualcosa lo riempie. Noi siamo gli
uomini vuoti, ci ricordava un poeta molti anni fa. E ciò che ora viene per noi
ci riempie di orrore».
«Ma che carogna!», ho esclamato. E la ragione s’è limitata ad aggiungere: «Cristiano. Non copto, ma della stessa pasta». E allora, in un istante, la compassione – puff! – scomparsa.
«Ma che carogna!», ho esclamato. E la ragione s’è limitata ad aggiungere: «Cristiano. Non copto, ma della stessa pasta». E allora, in un istante, la compassione – puff! – scomparsa.
domenica 15 febbraio 2015
[...]
Prima
di giustiziare il premier con una pernacchia, misero davanti a un muro tutti quelli
che avevano detto: «Lasciatelo lavorare, lo giudicherete dai risultati», e li massacrarono
di risate in faccia.
martedì 10 febbraio 2015
[...]
È
lecito nutrire più di un dubbio sul fatto che il ritratto di Isabella d’Este che
si trovava nel caveau di un istituto fiduciario svizzero con sede a Lugano e sequestrato
da Carabinieri e Guardia di Finanza nell’ambito di un’indagine coordinata dalla
Procura di Pesaro sia attribuibile a Leonardo da Vinci e, anche se di pessima
qualità, già le riproduzioni del dipinto che circolano in rete a corredo della
notizia dell’operazione bastano a sollevare serie perplessità al riguardo. Ce n’è
una, per esempio, che rivela alla luce del flash una superficie incompatibile
con la distribuzione del pigmento caratteristica dei dipinti leonardeschi,
sicché, laddove il quadro sia veramente opera di Leonardo da Vinci, è lecito supporre abbia subìto, nel corso del tempo, interventi tali da guastare senza pietà la qualità dell’opera. In tal senso, potrebbe avere spiegazione un altro elemento che salta subito all’occhio, e cioè l’uniformità di tono dello sfondo, che non è mai presente nei ritratti di Leonardo da Vinci, neanche in quei pochi che hanno sfondo scuro, il cui esame radiografico ha peraltro costantemente rivelato elementi di ambientazione: nel caso di questo ritratto di Isabella d’Este lo sfondo sembra assorbire la figura, che sembra affondare nell’oscurità piuttosto che emergerne.
sicché, laddove il quadro sia veramente opera di Leonardo da Vinci, è lecito supporre abbia subìto, nel corso del tempo, interventi tali da guastare senza pietà la qualità dell’opera. In tal senso, potrebbe avere spiegazione un altro elemento che salta subito all’occhio, e cioè l’uniformità di tono dello sfondo, che non è mai presente nei ritratti di Leonardo da Vinci, neanche in quei pochi che hanno sfondo scuro, il cui esame radiografico ha peraltro costantemente rivelato elementi di ambientazione: nel caso di questo ritratto di Isabella d’Este lo sfondo sembra assorbire la figura, che sembra affondare nell’oscurità piuttosto che emergerne.
Anche laddove il dipinto avesse subìto tali guasti per
interventi posteriori, tuttavia, c’è ben altro a far sollevare dubbi sull’attribuzione.
È evidente, infatti, che saremmo dinanzi alla realizzazione dell’opera per la
quale Leonardo da Vinci preparò il cartone che oggi è conservato al Louvre,
fatto sta che non c’è alcuna fonte che comprovi che il ritratto sia mai stato
realizzato. Di nessun significato probante, inoltre, ha il fatto che il
supporto abbia rivelato alle analisi fin qui condotte una datazione computabile
tra il 1460 e il 1650, perché in quest’arco storico vengono dipinti ritratti di
Isabella d’Este a dozzine e dozzine, per suo espresso volere, quasi tutti eseguiti
in absentia, giacché non desiderava fossero somiglianti ma idealizzati (per
questa ragione ne rifiutò uno eseguito dal Mantegna), per lo più ispirati a
ritratti preesistenti, anch’essi eseguiti prendendo come modello altri
ritratti, primi fra tutti i medaglioni e il busto di Gian Cristoforo Romano. Sarebbe
così strano che il dipinto in questione non sia altro che un ritratto ispirato
al cartone di Leonardo da Vinci, che d’altronde nei suoi salienti tratti
formali non si discosta troppo dal modo in cui il soggetto era abitualmente riprodotto
in quegli anni (di profilo, con capigliara e coroncina, veste ad ampio scollo)?
Ma poi, considerando che tra cartone preparatorio e opera definitiva in
Leonardo da Vinci vi è di solito strettissima correlazione di linee e
proporzioni, l’Isabella d’Este del cartone è così uguale a quella del dipinto?
Anche a voler considerare gli elementi che fanno la differenza come aggiunte decise
in corso di trasposizione, la linea del profilo, il taglio dell’occhio, il
volume delle labbra, l’impianto del collo, non sono del tutto dissimili, al
punto da far credere che l’ispirazione al modello leonardesco si sia tutto
esaurito nella riproposizione della posa? Il pannato, poi, è leonardesco? E quella
mano?
Così, a naso, io sarei propenso ad attribuire il dipinto a un autore di
scuola milanese, molto probabilmente a cavallo tra Cinquecento e Seicento,
assai posteriore a Leonardo da Vinci.
[...]
A
Raqqa, in Siria, per interessamento dell’Isis, qualche giorno fa è stato
decapitato un uomo accusato di stregoneria, capo d’imputazione che nel solo
1562, e nella sola Germania, per interessamento dell’Inquisizione, portò al
rogo 417 poveracci, 300 ad Oppenau, 63 a Wiesensteig e 54 ad Obermachtal. Solo
ignoranza o malafede possono farci perder tempo a discutere se a Raqqa sia
stato correttamente interpretato il dettato coranico, se cioè il Corano
prescriva l’eliminazione fisica di chi pratichi la stregoneria, e dunque se l’Isis
sia la vera faccia dell’islam o una sua degenerazione. È che le religioni –
tutte, ma soprattutto i monoteismi – si offrono con grande plasticità, momento
per momento, alle contingenti necessità degli affiliati. Niente di più stupido che
spiegarsi l’Isis come fenomeno religioso: le religioni sono sovrastrutture,
sotto ci sono bisogni materiali, tanto più luridi quanto più la religione è
dichiarata fine ultimo. Così, nel proporre una lettura di ciò che accade in Medioriente
come chiamata in guerra per la difesa dell’occidente cristiano, si oppone
luridume a luridume.
sabato 7 febbraio 2015
Sedici minuti
A
costo di dare l’ennesimo duro colpo alla mia già pessima reputazione, confesso
d’aver comprato l’ultimo libro di Filippo Facci. Nel tentativo di attenuare il
colpo, tengo a precisare che ci ho messo sedici minuti: quindici per arrivare a
pag. 58 – non sono riuscito ad andare oltre – e uno per spostare il divano e
riporlo in uno degli scaffali che ci sta dietro, dove metto i libri che mi vergogno di aver
comprato.
Mattarelliana / 3
La
durata media di un intervento pubblico di Sergio Mattarella nell’arco temporale
preso in oggetto (crf. Mattarelliana / 1) è di 21'09", bassa se rapportata
alla prolissità dei politici della Prima Repubblica, bassissima se rapportata a
quella degli esponenti della Sinistra democristiana. Almeno per la parte fin
qui trattata (1986-1989), sono anni in cui l’intervento pubblico di un politico,
soprattutto se democristiano, ha i tratti tipici della retorica largamente
impiegata nella Prima Repubblica: periodi lunghi e infarciti di proposizioni
secondarie, insistito uso della perifrasi, costante ricorso all’eufemismo e,
soprattutto, come carattere che a mio modesto avviso può essere considerato tra
i più significativi del fine ultimo cui si consegna il discorso, tendenza a
bilanciare ogni asserzione con tutti i «benché», i «sebbene» e i «purtuttavia»
sui quali esso intende dimostrarsi rettamente validato per un’onesta
ponderazione. Sergio Mattarella non è un caposcuola di questa retorica, né si
contraddistingue per una di quelle singolarità di stile che pure sono
rintracciabili nell’uniformità del discorso data dai suddetti caratteri: è un
retore minore, non brilla per incisività, non ha coloriture degne di nota, in
più è penalizzato da un eloquio poco fluido, da una dizione che sembra subire
un’urgenza di affrettarsi e che costantemente lo induce a microfratture che
sacrificano per lo più le sillabe finali delle bisdrucciole. Anche sui
contenuti, niente di notevole: è il caratteristico esponente della sinistra
democristiana che declina come meglio può, e meglio sa, la Dottrina Sociale
della Chiesa, meno vibratile di una Rosy Bindi, senza i cromatismi di un
Pierluigi Castagnetti, ma soprattutto assai al di sotto della versatilità di un
Leopoldo Elia o di un Nino Andreatta. E tuttavia c’è un punto, che a me pare di
poter datare tra il 1990 e il 1991, in cui si evidenzia uno scarto di un certo
significato, oltre il quale rimane retore minore, ma acquistando un peso
polemico: non è Sergio Mattarella a diventare meno opaco, ma è il contesto in
cui i suoi interventi pubblici vanno a calare a renderlo più incisivo, almeno per
l’uditorio del momento. Sono gli anni in cui monta il malcontento del paese
contro il malcostume dei partiti e la Dc, com’è ovvio per un partito che è al
governo da quasi mezzo secolo, è tra quelli maggiormente fatti oggetto di una
critica che spesso assume i toni dell’aggressione. La reazione è quella
dell’arroccamento, d’altronde già adottata in passato (si pensi al «non ci
faremo processare nelle piazze» di Aldo Moro), ma i tempi ormai sono cambiati e
il sistema manda sinistri scricchiolii che annunciano la prossima implosione.
Sergio Mattarella, qui, mostra le energie di chi è in politica da nemmeno dieci
anni, e dunque non dà per acquisite le rendite di posizione: insiste sulla
necessità di un rinnovamento della Dc, che deve riscoprirsi partito popolare,
abbandonando gli intrecci col malaffare e riguadagnando il credito che la rese
centrale nel paese. Pochi anni prima sarebbe stata una proposta da anima bella,
nel 1991 diventa un posto da vicesegretario. Ed è proprio nel 1991, ad un
convegno su Crisi del sistema politico e ruolo dei partiti, tenuto a Chianciano,
il 18 ottobre, che in uno dei suoi discorsi più lunghi (56'11") Sergio
Mattarella si offre in una summa. L’eloquio ha un tratto che gli conferisce un
piglio spiccio e sbrigativo, mentre i contenuti, e perfino certi passaggi,
certi modi di dire, certe formule sintattiche, sono i soliti.
Quello
non è un gretto incontro di corrente, dice. Se appena l’anno prima la sinistra
democristiana era una forza di opposizione, oggi è guida, almeno come
patrimonio di valori tutti intatti, e si fa carico delle istanze di tutto il
partito, anche se ci sono rigurgiti della posizione che fu a lungo maggioritaria
per mettere la sinistra in una «riserva indiana». I tempi cambiano, e cambiano velocemente:
accade quello che si pensava non sarebbe mai potuto accadere, e non solo per la
caduta del comunismo, non solo per il riaccendersi nel mondo di focolai di
guerra che ci mettono un niente ad allargarsi (il Golfo Persico, i Balcani), ma
anche per una «forte messa in discussione della centralità della Dc», e quando s’era
visto mai, puttana Eva. Il cittadino è cambiato: è un concentrato di delusione
e attesa, di sfiducia nel passato e di un bisogno di rinnovamento morale che lo
spinge ad atteggiamenti demolitori. I nodi vengono al pettine, e uno riguarda
la Dc, come partito dei cattolici. La questione non è quella dell’unità
politica dei cattolici, l’ha detto il Papa a Loreto, l’ha detto Ruini nell’ultima
prolusione, ma delle ragioni storiche di una classe politica che si ispira alla
Dottrina Sociale della Chiesa, giacché nessuno ha scelto di essere democristiano
per un altro motivo. Viene meno il Pci, almeno nel nome, che sembra poco ma è
più di molto, però questo non deve in alcun modo significare che vengano meno
le ragioni della Dc, cui spetta ribadire il suo ruolo di promozione del rispetto
della persona umana e a tutela dei più deboli. Ridare corpo al popolarismo,
come coinvolgimento della società che crede nel processo di perfezionamento
della «città dell’uomo», nella quale l’uomo non potrà mai realizzarsi pienamente
(sottinteso: questo potrà accadere solo nella «città di Dio»), senza perciò
dover rinunciare a renderla più vivibile. Questa è la dimensione della laicità
sulla quale insiste: il temporale è autonomo, ma non può non guardare al
magistero della Chiesa, che qui si è da poco rinnovato nella Centesimus Annus,
che cent’anni dopo la Rerum novarum rideclina la terza via tra capitalismo e
socialismo, offrendo un compromesso inservibile. D’intanto, tutto d’attorno è bufera. Si fa strada – dice
– un modo di far politica che consiste nella denigrazione dell’avversario,
mentre l’opinione pubblica mostra un’urgenza di una condanna di tutto e di
tutti, come per una palingenesi che non risparmi nulla. E i partiti hanno le
loro colpe, e le élites finanziarie pure, e il potere per il potere porta al
peggio, e contro il popolarismo c’è solo il plebiscitarismo, e certo sbranarci
di tra di noi non reca alcun vantaggio: cose così, con continui richiami alla
Cei. E una democrazia senza valori equivale ad un totalitarismo subdolo, e la
classe politica si è chiusa man mano che aumentava la voglia di partecipare, e
la forma di partito è superata, e sì alle privatizzazioni, ma non si può
demolire il patrimonio pubblico: cose così, e l’uditorio applaude.
L’anno
dopo, alla Festa dell’Amicizia che si tiene a Pesaro, più che un anno, sembra
passato un secolo: Mani pulite ha scoperchiato la fogna e Sergio Mattarella può
lamentare che s’è perso un anno. Non presente che la Dc è ormai agonizzante, ma
già è pronto per diventare il custode di un pezzo della reliquia. Non si sa mai, dovesse tornar comodo.
[segue]
venerdì 6 febbraio 2015
Caro Fabristol
Vangeli
e Corano sono così imbottiti di contraddizioni che non c’è affatto da stupirsi
possa trarsene ogni cosa e il contrario, però su un punto sono inequivoci, accomunando
i due monoteismi a quello che con un termine mutuato dalla storia potremmo
chiamare programma di conquista, e questo punto è l’universalismo: cristiani e
musulmani hanno il mandato divino di conquistare il mondo, se con le buone o le
cattive maniere è questione certo importante, ma tutta contingente alla storia,
al momento che produce il mezzo per inverare il fine, sicché se oggi abbiamo
una frattura tra cristianesimo e colonialismo che ci consente di considerare
almeno momentaneamente chiuso l’arco storico che ha visto ogni fazione
cristiana lottare per il predominio sulle altre e per la conquista di spazi
sempre più ampi, mentre invece l’islam mostra in certe sue espressioni la
velleità di espansione politico-militare, questo non deve indurci a dimenticare
che nel bruciante desiderio di ogni buon cristiano e di ogni buon musulmano c’è
il mondo intero assoggettato ad una sola legge morale, eternamente e
universalmente valida; così, se questo ci fa orrore, siamo senza dubbio tenuti
a fare i conti in modo decisamente diverso tra mezzo e mezzo, ma a non
dimenticare che in entrambi i casi il fine è identico, sicché la cosa più
idiota che possa ritenersi idonea a debellare una fede armata di kalashnikov
sia quella di scendere in campo armati di una fede che oggi, almeno a chiacchiere,
predica la tolleranza, ma nel programma ha «ut unum sint» e per statuto «qui
non est mecum contra me est».
Viene
dal Corano la devastante furia degli uomini dell’Isis? Senza dubbio. Ma non è
lo stesso Corano in cui sta chiaramente scritto che «non c’è costrizione nella
religione»? Senza dubbio. Ma è che ogni testo sacro, per poter sfidare i
secoli, deve essere necessariamente contraddittorio e ambiguo, meglio se poi
qui e lì è oscuro, per offrirsi a interpretazioni opposte, una utile oggi, l’altra
domani. Sicché conviene, caro Fabristol, non insistere troppo sul fatto che
dietro la bestialità dell’Isis ci sta un libro. Ci sta, senza dubbio, ma la
questione è tutta nella ragione storica che oggi ne fa un potenziale strumento
di conquista. Non devo farti alcuna lezioncina, perché tu sei persona colta:
sai bene per quali motivi Hassan al-Banna propose una lettura del Corano che
consentisse questo, nel 1928, e sai bene perché abbia potuto trovare un consistente
seguito solo cinquant’anni dopo, perché ce ne siano voluti altri venti per diventare un’onda. Che teologia e politica siano mischiate tra di
loro, senza dubbio, è un fatto. Ma la realtà si legge meglio, credo,
separandole.
giovedì 5 febbraio 2015
[...]
«Chi risparmia il bastone
odia suo figlio,
chi lo ama è pronto a
correggerlo»
(Pr 13, 24)
«Non risparmiarti di
correggere tuo figlio.
Se lo bastoni, non
morirà. Anzi, se lo bastoni,
lo salverai dalla
perdizione»
(Pr 23, 13-14)
Spendendo una buona parola in favore delle punizioni corporali ai bambini, Bergoglio rivela che di tanto in tanto, tra una passerella e l’altra, trova il tempo per rileggere la Bibbia. Meno male, va’.
martedì 3 febbraio 2015
Mattarelliana / 2
A
pag. 654 degli Atti del XV Congresso Nazionale della Dc (Roma, 2-5 maggio 1982)
è registrato l’ingresso ufficiale di Mattarella nella vita politica: è tra nomi
della terza delle tre liste dei candidati alla Direzione Centrale del partito,
quella che sostiene la «dichiarazione d’intenti» di De Mita (la prima sostiene
la mozione di Fanfani, Piccoli e Andreotti, la seconda quella di Forlani). Non
interviene, ma non ce n’è bisogno, De Mita ha deciso che sarà lui il suo uomo
in Sicilia, e poi con quel cognome, con quel fratello…
Mattarella sarà devoto a
De Mita fino in fondo: sette anni dopo, al Congresso che metterà fine alla
lunga segreteria di De Mita, Mattarella è il solo a prenderne le difese, a
stigmatizzare quanti festeggiano come per la liberazione da un tiranno, e cita
le Lamentazioni, le Lezioni americane di Italo Calvino, vibrando un monito
solenne e dolente a quanti pensano che con la nuova segreteria, quella di
Forlani, la crisi elettorale del partito possa trovare soluzione nella mera
rivendicazione dell’anticomunismo di sempre. Il comunismo ha fallito, certo, ma
la Dc non è stata solo anticomunismo: aveva ed ha valori alternativi che rischiano di
esser persi a pensare fossero strumentali a un mero antagonismo. Sono i valori
che traggono ispirazione dalla Dottrina Sociale della Chiesa e che trovano
nuovi avversari nei poteri che possono far della politica una sovrastruttura. È
ancora un po’ fumoso, ma due o tre anni dopo i concetti saranno più articolati
e in un convegno organizzato dall’Istituto Aldo Moro punterà il dito sul
rampantismo e sul carrierismo: mantenendosi sul vago, senza fare nomi, leva il
monito contro chi interpreta l’impegno politico «in modo arbitrariamente
esistenziale», senza pensarlo come servizio temporaneo. Dice che l’impegno
politico deve essere gratuito e spende parole dure contro la corruzione di cui
la politica – la vera politica – finisce per diventare vittima per quel
connubio che la stringe al mondo degli affari, dal quale mutua la convinzione
che le sorti delle battaglie si decidono sulla base di chi abbia «il miglior
consigliere pubblicitario». È la condanna della politica come spettacolo, delle
tv commerciali che propongono modelli che rischiano di produrre una «classe
politica mutata in peggio».
Ancora più esplicito due anni dopo, ad un dibattito
che si tiene durante una Festa dell’Amicizia, ma è già il febbraio 1994, la
macchina propagandistica di Berlusconi scalda i motori e tutto è ormai
tremendamente chiaro: le tv di Berlusconi – dice – promuovono una
radicalizzazione dello scontro con un «bipolarismo informativo» che fa leva su «toni
forti e intolleranza», con l’uso di «suadenti tattiche di pubblicità applicate
alla politica che sacrificano programmi e idee». Sarà ancora più duro dopo la
vittoria di Berlusconi alle Politiche, ma questo lo vedremo alla prossima
puntata.
C’è
da supporre che Mattarella abbia già un suo pensiero politico al momento di
scendere in politica, d’altronde è moroteo per dinastia familiare, di certo è
che riesce a dargli articolazione soprattutto dal 1986 in poi. Niente di
particolare, sia chiaro, si tratta del canonico armamentario della sinistra
democristiana – personalismo, visione organicistica della società, solidarismo,
sussidiarietà come ricetta alle pecche del pubblico e del privato,
rivendicazione del laicato come espressione del sensus fidelium che dà corpo al
magistero, ecc. – ma, com’è noto, in esso è possibile distinguere sfumature di
accenti che consentono di delineare profili caratteriali che fanno capo a subcorrenti interne all’area. Mattarella non ne fonda una nuova, va ad
apparentarsi con quella che nella sinistra democristiana ha già fatto filone in
cui sono confluiti via via Moro, Zaccagnini, Gui, Galloni, Bodrato, ecc. Non
proprio demitiano, diciamo, tanto meno assimilabile alla sinistra di Base dei
Marcora o a Forze nuove dei Donat Cattin. Più Lazzati che Dossetti, si potrebbe dire, e più
De Gasperi che Sturzo.
Parametro essenziale a cui bisogna ispirarsi per le riforme
è quello di coinvolgere la società. Riforme necessarie perché i tempi impongono
velocità di decisione, e la velocità, se non è controllata dalle istituzioni,
va a favore di chi nella società è più forte. Perciò – udite, udite – marcatamente
contrario ad un Parlamento che si limiti a ratificare le iniziative del Governo,
dice che questo è contrario alla Costituzione. Inoltre il Parlamento deve essere libero
dalle pressioni delle lobby e – udite ancora, udite – si dichiara a favore del
dissenso di un parlamentare rispetto al suo gruppo, purché esplicito.
Emblematico l’intervento che tiene nel settembre del 1988 ad un convegno
siciliano organizzato da padre Sorge: parole di fuoco contro la cultura
dell’indifferenza e dell’egoismo (racconta di un ragazzo in motorino investito
da un camion al centro di Palermo, al quale nessuno ha prestato soccorso, e
dice che l’episodio l’ha vivamente colpito), elogio del comunitarismo (parla di
Gerusalemme e delle sue case attaccate le une alle altre, come immagine
plastica di una continuità solidaristica), società come impegno alla
partecipazione (dice di aver molto apprezzato un prete che si è rifiutato di
battezzare un bambino, perché il battesimo è inserimento in una comunità, e lì
il prete affermava che comunità non c’era), politica come esercizio di
immaginazione (lo slogan sessantottino che recita «l’immaginazione al potere» –
dice – gli piace da morire), riforme sì, ma non come «capriccio» (devono dar
voce alle persone e avvicinarle allo Stato, sennò non hanno senso).
Decisamente
obbediente alla dottrina cattolica, il nostro Mattarella, soprattutto sulle
questioni bioetiche. Ad un convegno che si tiene a Montecatini Terme, verso la
fine del 1989, mette sullo stesso piano mafia, droga, guerra e aborto, e dice
che la scienza è bella, come no, ma la politica deve metterle un freno, perché
ha saputo che ultimamente un bambino è nato dall’utero della propria nonna e
questo non sta affatto bene. Dice che su questi temi gli fa da vangelo Scienza
e saggezza di Maritain.
Piccola parentesi: state ancora applaudendo al suo anodino discorso di insediamento?
Piccola parentesi: state ancora applaudendo al suo anodino discorso di insediamento?
[segue]
lunedì 2 febbraio 2015
[...]
Il
prolife che arriva al selfie col bambino Down è al penultimo scalino dell’abiezione,
più in basso c’è solo sparare al ginecologo non obiettore.
Postilla
Prima
di passare alla seconda puntata della mia Mattarelliana, occorre dedicare due
righe a quanto oggi è riportato dal Corriere
della Sera (chi ha letto le bozze del discorso che Sergio Mattarella terrà
al suo insediamento dice che in esso vi è un richiamo ad innovare la
Costituzione, ma senza tradirla) e da la
Repubblica (Matteo Renzi dichiara che «l’elezione
del Capo dello Stato mette il turbo, non rallenta le riforme»). Sarà
interessante vedere come questo Presidente della Repubblica possa dare un’accelerazione,
per esempio, al varo dell’Italicum, che patentemente tradisce la Costituzione,
e proprio nei punti che l’apparentano strettamente al Porcellum, già bocciato con
voto unanime dalla Corte Costituzionale, di cui Sergio Mattarella era membro. Dunque
v’è da porre una clausola estensiva ai limiti temporali posti in premessa al
mio studiolo, perché, almeno per quanto attiene al sistema elettorale, la
nostra conoscenza di Sergio Mattarella non si ferma al 2008: nel dicembre del
2013 la pensava ancora come ai tempi in cui scriveva il Mattarellum. Poi,
ripeto, il Quirinale ti trasforma e ogni previsione diventa più aleatoria di un
oroscopo. D’altronde, il Nostro ha nel tema natale un Marte in Ariete leso da
una quadratura con Mercurio in Cancro…
[...]
«Si è sempre pensato – mi spiega Armando
Massarenti (Il Sole-24Ore, 1.2.2015 –
pag. 23) – che la Retorica […] fosse
stata composta da Aristotele nel suo secondo periodo ateniese, quando egli era
un maturo docente nel celebre Liceo. L’interpretazione di Ingemar Düring, che
ha modificato l’intera cronologia delle opere dello Stagirita, invece, fa oggi
risalire la stesura di questo testo al primo periodo ateniese, ovvero alla gioventù
del filosofo…». Qui mi fermo e faccio due conti: nasce nel 384 a.C., entra
nell’Accademia a 17 anni, cioè nel 367 a.C., e per i primi tre anni, come da
programma, studia matematica, per passare solo dopo alla dialettica, dunque nel
364 a.C., quando ha vent’anni. Vabbe’ che Aristotele è Aristotele e poteva aver
scritto la Retorica anche quand’era
ancora in fasce, ma come si spiega che, in I (A), 1, 1355a, scriva: «… come dicemmo anche nei Topici…»? Quando
cazzo li ha scritti, i Topici, per aver
scritto la Retorica, come Massarenti
dice sia «affascinante immaginare», «ancora giovanissimo»? Per carità di
Dio, il Düring non si mette in discussione. Turbare, poi, l’incanto di
Massarenti sarebbe da villani. Ma è credibile che Aristotele abbia scritto i Topici prima di apprendere i rudimenti
della dialettica? Se poi la Retorica
viene dopo i Topici – e su questo mi
auguro non ci piova – è credibile che «fresco
di studi […] mett[a] in pratica le raccomandazioni del maestro
Platone», peraltro lontano da Atene al momento in cui lo Stagirita entra nell’Accademia, per farvi ritorno solo tre anni dopo? Cerchiamo un compromesso, via, diciamo che, per essere stata scritta dopo i Topici, che peraltro a loro volta vengono dopo gli Analitici, la Retorica non può esser stata scritta prima dei 24-25 anni. Nella Grecia di allora, era età matura.
domenica 1 febbraio 2015
Mattarelliana / 1
Qui
parlo del Sergio Mattarella di cui posso avere un giudizio argomentato sulla
base dei suoi interventi pubblici (congressi, convegni, comizi, interventi
parlamentari, ecc.) recuperati dall’archivio storico di Radio Radicale e
relativi a un arco temporale di circa vent’anni (dal maggio del 1986 al settembre
del 2005), per un totale di 18h49'36" (5 sessioni di ascolto di circa 4h
ciascuna, da venerdì 27 gennaio a domenica 1 febbraio), dal quale ho escluso solo
gli interventi da lui tenuti nelle sedute delle Commissioni parlamentari di cui
è stato membro, ad eccezione di quelle della Commissione sulle riforme
istituzionali, che mi è sembrato potessero tornare di grande utilità, come in
effetti è stato. Quello di cui parlo, dunque, non è il Sergio Mattarella che
negli ultimi dieci anni è stato notoriamente avaro di dichiarazioni pubbliche,
tanto meno è il Sergio Mattarella che sarà, visto che l’esperienza insegna che il
Quirinale trasforma anche drasticamente l’inquilino che vi si insedia, a volte
da subito, più spesso nel giro di due o tre anni. Do per scontato, insomma, che
Sergio Mattarella sia ancora, e possa continuare ad essere per qualche tempo,
quello che era da esponente di spicco di una Dc morente e di un Ppi nascente,
tra i fondatori dell’Ulivo e i padri di un Pd da venire. Mi sento autorizzato a
questa congettura per la straordinaria omogeneità dei contenuti espressi nei
vent’anni che ho preso in oggetto, vent’anni che hanno costretto più di un
politico a rivedere anche profondamente le proprie convinzioni, anche se
dimostrando grossa difficoltà nell’ammetterlo: l’azzardo, perché sono disposto
a concedere che di azzardo si tratti, è di ritenere che Sergio Mattarella non sia
cambiato o, se è cambiato, non lo sia poi di molto, mantenendo immutato fino ad
oggi l’impianto del credo politico professato in quegli anni.
Bene, se
materiali e metodo non sono scorretti, comincerei col dire che l’elezione di
Sergio Mattarella sarà pure questo grande capolavoro di Matteo Renzi, come si
va dicendo, ma ora al Quirinale siede uno che, se dovesse essere coerente con quel che è stato, non gli tornerebbe affatto comodo, tutt’altro. Non risultano dichiarazioni di Sergio Mattarella a commento dei passaggi che hanno portato Matteo Renzi alla segreteria del Pd e alla Presidenza del Consiglio, tanto meno a commento delle iniziative del governo in merito a riforme istituzionali e legge elettorale, come d’altronde era da attendersi da un membro della Corte Costituzionale, che ogni giudizio su tali punti è abituato a esprimerlo solo ai suoi pari e quando l’organo di cui è membro viene chiamato a discuterne: probabilmente è stato questo, solo questo, a renderlo spendibile per una partita che Matteo Renzi giocava innanzitutto contro l’opposizione interna al suo partito, per non essere costretto a cambiare la maggioranza che lo sostiene in Parlamento trasformando il patto del Nazareno in una trappola per lui mortale. Se Sergio Mattarella non è cambiato da quel che è sempre stato fino a quando, nel 2008, si è ammutolito, non è difficile immaginare cosa possa pensare di Matteo Renzi. A costo di risultare un
tantinello ellittico, direi che, rispetto a Rosy Bindi, Sergio Mattarella ha in
più solo dieci anni e un pisello: l’universo etico-estetico è identico.
[segue]
Iscriviti a:
Post (Atom)