martedì 9 agosto 2016

[...]

Quando la Costituzione recita che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49), viene spontaneo pensare che faccia obbligo ai partiti di darsi regole di vita interna che sul metodo democratico abbiano il loro fondamento. In sostanza, si è portati a credere che la Costituzione imponga ai partiti di seguire una linea politica democraticamente decisa dai propri iscritti a scadenze tali da poterla ritenere in ogni istante espressione della loro volontà, di assegnare ruoli e incarichi al proprio interno sulla base di norme certe e trasparenti che consentano di poterli considerare espressione di scelte democraticamente condivise, di arrivare alle candidature da presentare agli appuntamenti elettorali seguendo procedure di selezione che diano agli iscritti il pieno controllo sulle liste, di gestire le proprie risorse economiche rispondendone come di beni comuni, anche quando esse siano a saldo di una lunga storia.
Tutto sbagliato, non è così, e non a caso il testo dell’articolo è ambiguo, consentendo una lettura riduttiva che nel «diritto di associarsi liberamente» contempli la libertà di un partito di darsi le regole interne che meglio creda e nel «metodo democratico» semplicemente quello della competizione elettorale, sicché il concorso di «tutti i cittadini» a «determinare la politica nazionale» troverebbe nell’iscrizione a un partito semplicemente un modo di sostegno più attivo che non il solo votarlo: fu il Pci a pretendere che l’art. 49 non specificasse in modo chiaro che sulla vita interna di un partito potesse efficacemente ricadere un giudizio esterno, in modo che fosse così fatta salva la regola del «centralismo democratico», formula che, secondo Lenin, assicurava «libertà di discussione, ma unità d’azione». È errato dire, dunque, che l’art. 49 della Costituzione resta inattuato: semplicemente non fu scritto per essere attuato nel modo in cui tutti – si fa per dire – dicono andrebbe attuato, e se, per come fu scritto, sembrò potesse tornar comodo solo al Pci, la storia della Prima Repubblica mostra in modo assai eloquente che tornò comodo a tutti, perfino a chi si proclamava antipartitocratico e intanto si costruiva un partito in cui su soldi e linea politica non era lecito a nessun iscritto poter mettere becco.
I partiti italiani – tutti, quindi non fa differenza se rigettano la denominazione, preferendo quella di movimento – sono enti di fatto, non persone giuridiche, e come tali non hanno da dover render conto a chicchessia dei loro statuti, né di come è retta la loro vita interna. Ne consegue che, se non si procede prima a ridefinire la loro natura giuridica, ogni discussione sull’art. 49 della Costituzione lascia il tempo che trova: rimarranno associazioni private, e come tali potranno fottersene alla grande del «metodo democratico» che si vorrebbe imporre loro. La loro linea politica continuerà ad essere tracciata a dispetto delle tesi congressuali e dei programmi elettorali, potendo così continuare a tradire la volontà dei loro elettori e degli stessi iscritti. Ruoli e incarichi continueranno ad essere assegnati per cooptazione, sulla base del solo merito di una fedeltà da ottusi gregari, che è il miglior modo per selezionare la peggior classe politica. A compilare le liste elettorali continueranno ad essere i membri di segreteria. A disporre della cassa, per lo più piena di denaro pubblico, continuerà ad essere chi di fatto – e in sostanza anche di diritto – è padrone del partito.
Per questo, un editoriale come quello che ieri apriva la prima pagina del Corriere della Sera, a firma di Ferruccio de Bortoli, pur pieno di assennate considerazioni, non è più efficace di un buco nell’acqua. Certo, «i partiti sarebbero più credibili se mettessero mano, senza indugi o ambiguità, alle proprie norme interne». «Se si vuole tutelare la democrazia rappresentativa, occorre rendere meno oscure e insindacabili le liste dei candidati o dei nominati che i leader dei partiti propongono agli elettori», certo. E, certo, «conoscere meglio i partiti, il loro finanziamento, le modalità di scelta dei vertici, il ruolo delle fondazioni, contribuisce a sciogliere quella patina di sospetto e pregiudizio [pregiudizio?], a volte esagerato [esagerato?], che alimenta il populismo e l’astensione e indebolisce nelle fondamenta una democrazia rappresentativa già troppo sfibrata», ma non ci si illuda possa riuscirci una legge ordinaria come quella che de Bortoli pensa faccia al caso, nella fattispecie quella che ha come primo firmatario Matteo Richetti, già approvata alla Camera e ora arenatasi al Senato: senza dare ai partiti l’onere della persona giuridica, ogni impegno preso sulla carta potrà bellamente essere aggirato o addirittura eluso.

4 commenti:

  1. Chiedo scusa ma già negli statuti o atti costitutivi di qualsiasi associazione culturale senza fini di lucro vi sono compresi gli strumenti affinché ogni socio possa adire l'autorità giudiziaria per fare valere i propri diritti si discriminato o se lo statuto stesso viene violato dagli organi dirigenti.
    RP

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non trattandosi di persona giuridica, quanto sale sulla coda è messo per sanzione a ogni violazione? Poi, lasciando a parte l'ironia, il problema non è se lo statuto sia violato o meno, ma se rispetti o meno il metodo democratico. Perché violarne uno che non lo adotti non solleva il problema qui posto.

      Elimina
  2. Però non capisco perché il PD si opponga a una proposta del genere (intendo fare dei partiti una persona giuridica).
    Il tesserificio a uso deleghe non è cosa arrestabile a norma di legge: avrebbero solo da guadagnarci tutti i partiti dell'attuale maggioranza. E Grillo dovrebbe smetterla con la buffonata del 'garante'.

    RispondiElimina
  3. A naso mi viene da dire: il metodo democratico è obbligatorio in base al codice civile. Chi non lo rispetta viene punito ed è forse ravvisabile il reato di associazione per delinquere per i soci. Del resto Grillo sembra stia spostando la responsabilità del suo movimento ai gruppi parlamentari proprio per evitare di dover pagare salate sanzioni in caso di soccombenza nei vari processi in corso intentati dai suoi associati ingiustamente espulsi.
    Rp

    RispondiElimina