(qui)
lunedì 17 gennaio 2011
“Ci scusiamo per la povera qualità del suono”
Ogni occasione è buona, quando si è in fuga dalla deprimente attualità delle cronache italiane, ma quella offerta da Fabristol mi è sembrata davvero ghiotta e gli sono grato per avermi fatto svagare per una mezz’oretta.
Secondo la versione ufficiale, il videoclip di All mine dei Portishead utilizzerebbe lo spezzone di una trasmissione Rai del 1968 nel quale una ragazzina canta una canzone che, grazie alla tecnica della sincronizzazione delle labbra (lipsynch), sembra proprio quella cantata dalla cantante del gruppo (Beth Gibbons), e Fabristol chiede: “Sapete di quale trasmissione si tratta? Chi è quella ragazzina? Ma soprattutto qualcuno sa leggere il suo labiale per capire cosa sta cantando?”.
Bene, io penso che le domande non abbiano ragion d’essere, perché la versione ufficiale è fasulla: ritengo che il video in bianco e nero sia stato girato ad hoc nel 1997 e che la ragazzina sia ripresa nel sillabare proprio il testo di All mine in playback. Me ne fa convinto la scritta in italiano che appare in sovrimpressione intorno alla metà del videoclip (1:49-2:06): “Ci scusiamo per la povera qualità del suono”. Quel font non è mai stato utilizzato dalla Rai e il registro lessicale della frase, che tradotta in inglese è invece di uso corrente (“We apologize for the poor sound quality”), non corrisponde ai canoni linguistici della tv italiana negli anni Sessanta: “povera qualità” è espressione assai improbabile in quel contesto, dove si sarebbe preferito, senza alcun dubbio, “cattiva qualità”, “scadente qualità” o addirittura, con la mania degli eufemismi che a quei tempi erano la cifra del galateo mediatico, “non eccellente qualità”.
Il regista ha voluto strafare. Non si è accontentato di far sillabare la ragazzina con la rimarcata meccanica labiale che gli consentisse di darla in suggestione di artefatto del sapiente postprocessing di un video d’epoca, e ha aggiunto un dettaglio di troppo. Siamo dinnanzi ad uno di quegli sgradevoli eccessi di autocompiacimento che sono la damnatio delle regie che si ispirano ai lavori di David Lynch, e dello stesso David Lynch. Ma su questo mi intratterrò quando dovrò fuggire da altri squallori dell’attualità delle cronache italiane.
domenica 16 gennaio 2011
Francamente, questo è troppo
Caro Malvino, non riesco a non chiedermi: ma perchè le stanno così tanto a cuore questa vicenda e, più in generale, il vissuto ed il farneticato dell'Adinolfi? Adinolfi mi pare un personaggio sin troppo privo di autorevolezza, fascino, seguito e spessore da potersi meritare un'attenta rilettura critica. Specie, poi, da parte sua. Per rendere l'idea: faccia un po' il confronto tra il numero ed il tenore dei commenti ad un suo generico post su Adinolfi e di quelli ad uno su Nicola Vendola detto Nichi.
Rocco Maggi
Ha ragione, caro Maggi. Cestino il post e prometto di non interessarmi più al coso.
Vota Yin e Yang
Nel logo di Responsabilità Nazionale è evidente la mano dell’agopunturista che si è a lungo abbeverato alle fonti dell’antica filosofia cinese: un T’ai Chi T’u all’amatriciana.
www.futuroeliberta.com
Adriano e Luca Sofri sarebbero gli amministratori del sito di Futuro e libertà, così rivela Lettera 43, che nella cosa intravvede un “conflitto”, che mio parere non c’è. Solo per dirne una, i Sofri potrebbero aver registrato un dominio con quel nominativo per farci chissà cosa – chessò, un portale dedicato al reinserimento sociale di ex detenuti – ritrovandoselo tra le mani inutilizzabile alla notizia della nascita di un partito che aveva scelto proprio quel nome, decidendo così di cederlo ai finiani, per legittimo lucro o simpatica carineria, però continuando a mantenerne l’attribuzione, solo nominalmente, per le lungaggini burocratiche.
Ipotesi deboluccia? Era la prima che riuscivo a immaginare, applicandomi potrei far meglio, ma dovrei sforzarmi. Inutile farlo, basterà attendere le immancabili spiegazioni dei Sofri e/o di Fini a sciogliere la questione fuor da ogni ipotesi, carte alla mano, contro le inevitabili speculazioni dei malevoli (si pensi solo ai titoli di Libero e il Giornale).
sabato 15 gennaio 2011
L’indelebile
[Il 30 novembre, a Orvieto, Luca Seidita si è suicidato lasciando un biglietto sul quale aveva scritto: “Volevo diventare sacerdote. Tutta la mia vita è stata dedicata a questo. Mi è stato negato”. Mi ha molto impressionato il commento del portavoce della Santa Sede che, interrogato sul rifiuto opposto al giovane, ha detto: “Si tratta di un sacramento e la Santa Sede non può dare spiegazioni sul perché venga dato o non dato. Noi non diciamo niente e non abbiamo niente da dire”. In quei giorni stavo leggendo Preti di Vittorino Andreoli (Piemme, 2009), che fin lì mi era sembrato un libro interessante: di fronte alle parole di padre Federico Lombardi, quelle pagine mi sono sembrate subito insulse. E mi era venuta voglia di affrontare il nodo tra una vita “dedicata a questo” e tutto l’indicibile che sta nel sacramento. Non sono andato oltre la premessa al problema, quella che segue.]
In seminario accadono cose che noi laici non possiamo neanche immaginare, ma qui proviamo. Cominceremo con l’escludere ciò che possiamo immaginare, e che sarebbe bassa retorica affermare di non poter immaginare, che poi è patologia di ogni comunità composta da reclute e addestratori, niente di diverso da quanto accade in caserma. Ci concentreremo su ciò che trasforma la mente di un umano nella mente di un chierico, e qui suppongo che nessuno vorrà smentire che la mente di un qualsiasi chierico ha per evidenza e statuto una peculiarità che la distingue dalla mente di un qualsiasi laico: il chierico ha un’autocoscienza di alter Christus. Obietterete che questa differenza non è poi così peculiare, perché ci sono laici che si credono addirittura padreterni, ma anche questa sarà bassa retorica, perché nel laico questo non avviene lungo quella progressione dinastica (dynasteia), detta apostolica, che assicura l’intatta trasmissione di quel potere (dynasis) che un chierico dovrebbe avere su un laico secondo dottrina (cattolica) e regola (ecclesiastica). Ciò che è inimmaginabile a un laico, anche a un laico credente e devoto, è tale perché fuori dalla progressione verso il diventare e il potersi infine dire alter Christus (dynamai) – senza essere il tramite stesso della trasformazione, voglio dire – nessuno è in grado di poter realizzare un’immagine attendibile di un’autocoscienza di chierico, che poi – a chiudere il cerchio – è ciò che lo fa sentire “in persona di Cristo Capo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1548-1551).
In seminario accadono cose che noi laici non possiamo neanche immaginare, ma psicologi e sociologi ci hanno provato. Con scarsi risultati, e abbiamo detto perché. Non hanno fatto meglio – e come avrebbero potuto? – psicologi e sociologi che erano anche chierici. Hanno studiato epifenomeni, ma la fenomenologia del chierico rimane impenetrabile, salvo a penetrarla però senza più poterne dir niente che non sia ontologia: sono in persona di Cristo Capo, sul laico ho munus docendi e numus regendi (ibidem, 1592), sono cellula di un intellettuale collettivo guidato dallo Spirito Santo, ecc. In realtà – e su questo possiamo convenire, sia cattolici che no – la natura psicologica e quella sociologica della condizione di chierico non spiegano del tutto – non esauriscono – la convinzione che fonda il suo ministero. Egli stesso, in ultima analisi, non può: sa della sua vocazione, sa quello che gli hanno insegnato altri chierici, sa della sua ordinazione, ma ciò che in lui è indelebile in quanto chierico (ibidem, 1582), e che non gli permetterà mai più di dirsi laico (ibidem, 1583) – cos’è? Da fuori non potremo mai capirlo veramente, da dentro non potrà mai spiegarselo pienamente. L’indelebile è ciò che hanno fatto alla sua mente in seminario: processo che non è solo formativo, ma trasformativo.
giovedì 13 gennaio 2011
[...]
Non farà mai un giorno di galera, non sarà mai costretto a scappare all’estero, morirà nel suo letto, per cause naturali, e dopo morto vivrà ancora a lungo nelle conseguenze di tutto ciò che ha detto e fatto. I suoi nemici potranno solo vantare di avergli fatto passare una giornata di merda, ogni tanto, ma poi nemmeno tanto.
Giacché
Giacché sono fra quelli che hanno messo due soldi nell’impresa e ci sono dentro pure con una rubrichina quotidiana, ho pieno diritto – mi pare – di segnalare all’internauta disattento che Giornalettismo ha scavalcato Piovono rane nella classifica di BlogBabel e guarda minacciosamente il culo di Beppe Grillo.
Moderiamo i termini
Cristianofobia è termine al quale Benedetto XVI pare assai affezionato, ma che è tanto improprio a definire ciò che arma la mano di chi ammazza i cristiani da far pensare che Sua Santità voglia confonderci.
Se -fobia vuol dire fifa, infatti, quella è dei cristiani. E a buon motivo, perché chi è fatto oggetto di minaccia è fisiologico l’abbia. Sono i musulmani a metter fifa ai cristiani, in questo caso, e dunque l’unica -fobia che può aver senso in un tale contesto sarebbe un’eventuale islamofobia dei cristiani.
Se poi -fobia sta a indicare qualcosa di patologico (“paura angosciosa per lo più immotivata” – Devoto-Oli), e usando cristianofobia si vuole fare intendere che ad armare la mano contro i cristiani sia solo follia, mossa dalla malata percezione che essi costituiscano una minaccia per il mondo islamico, beh, questo è un poco disonesto.
La Chiesa, infatti, ama definirsi casta meretrix, paragonandosi a Raab, la puttana di Gerico che offrì protezione e complicità alle spie di Giosuè per far cadere la città: anche quando indigeni, i cristiani hanno sempre un’altra patria da servire e neanche lo considerano un tradimento, proprio come Raab, che Paolo cita come esempio di vera fede.
Dal canto loro, i musulmani nutrono un attaccamento morboso a Gerico, pardon, volevo dire alla propria società, un attaccamento che fonde fede, sangue e terra in un solo feticcio: tutta immotivata la loro percezione dei cristiani come nemici in casa? Chi coniò la sprezzante espressione in partibus infidelium, che ha implicito il disprezzo per la fede musulmana, per indicare la sua presenza missionaria nelle terre dell’islam?
“Il forcipe per aprire lo scrigno del mondo islamico”
Se dobbiamo prestar fede a Eusebio di Cesarea, sotto l’impero di Diocleziano vissero e morirono cristiani che avevano un’idea di vita e un’idea di morte assai diverse da quelle che hanno i cristiani d’oggi: la fede li rendeva tanto forti da non dar troppo conto alla vita e anzi li spingeva ad affrontare la tortura e la morte “con contentezza, gioia e ilarità, innalzando canti di ringraziamento a Dio” (Historia ecclesiastica, VIII, 9, 5). Qui, sarà che la fede non è più quella giovane di due soli secoli, ma è quella decrepita di ormai già due millenni, si piange, si urla, si strepita. Non solo: si lanciano appelli, diplomazie si attivano, s’invocano arbitrati internazionali, si arriva addirittura a chiedere un Christian Rights Watch (Il Foglio, 12.1.2011). Dev’essere un indicatore dell’energia di un credo: “pur ormai all’ultimo respiro”, scrive Eusebio, i cristiani non si lamentavano; qui, invece, per la penna che non sappiamo neanche se di un Crippa, di un Meotti o di un Rodari, si sollecita la creazione di un’agenzia sovranazionale, con tanto di uffici, fax e segretarie.
Il nome, poi. Manco in latino. Christian Rights Watch: puzza di peplum girato a Cinecittà e doppiato in un americano dal forte accento texano.
È il sintomo di un irreversibile infiacchimento della fede cristiana, non ci sono dubbi, e tutto sta nel fatto che l’aldilà ha perso ogni attrazione: al pastore preme porre l’attenzione a un vademecum morale, a una ricetta di vita, a un manifesto culturale e politico, a una presenza che si traduca in rilevanza; e al gregge preme un’esistenza decente, serena, fatta di care vecchie abitudini, scandite al ritmo dei sacramenti, come i non credenti le scandiscono al ritmo degli aperitivi.
Dove li trovi più, i bei martiri di una volta? E quale papa potrebbe esortare i suoi ad affrontare il martirio con contentezza, gioia e ilarità? Qui, nella migliore delle ipotesi, ce n’è uno che dalle comode stanze del Palazzo Apostolico incoraggia a stringere i denti e a non mollare, perché la geopolitica vaticana prevede qualche sacrificio umano che la Santa Sede si sforza come può di limitare al minimo, il tanto che procuri un santo, di tanto in tanto, e un po’ di Ratisbona, un po’ di Assisi, un Pizzaballa qui, un Padovese lì, il signor nunzio in trattativa, prefiche a supporto.
In tal senso, un Christian Rights Watch non è idea malvagia. In fondo, di che parliamo? Di libertà religiosa e di democrazia, perché “la libertà religiosa, assieme alla democrazia, è il forcipe per aprire lo scrigno del mondo islamico”, queste sarebbero le intenzioni. Aprire uno scrigno con un forcipe: immagine eloquente, vero? Quasi quanto quella di un musulmano che ti apre il cranio con un candelabro, direi.
mercoledì 12 gennaio 2011
Puf
Avvenire dedica una pagina ai catari: erano manichei, avevano l’ossessione della purezza, vestivano abiti austeri, non mangiavano carne, erano chiamati anche albigesi, pauliciani e bogomili… Indovinate un po’ qual è l’unico dettaglio taciuto? Bravi, proprio quello: neanche un cenno, neanche di striscio, allo sterminio che subirono per mano dei cristiani.
C’è chi dice 60.000 (20.000 solo a Béziers, nel 1209), c’è chi dice 100.000, c’è chi calcola più di mezzo milione lungo l’arco di due secoli. E il giornale dei vescovi, che rompe il cazzo da settimane sulle persecuzioni sofferte dai cristiani in Asia e in Africa, nella pagina dedicata ai catari non riesce a trovare un solo rigo per dire che fine fecero: puf, svaniti nel corso della storia, senza apparente ragione.
[Autore dell’articolo è Franco Cardini, che però non merita alcuna attenzione: “Divagazioni parahitleriane, qualche scriteriata pagina guevarista, un buon numero di dissennate dichiarazioni d’amore per il sottobosco culturale terzomondista e addirittura hippy. Insomma – ammise una volta (Scheletri nell’armadio, Akropolis 1995) – ne ho combinate di tutti i colori”. Non gli manca il senso autocritico, tra qualche anno non mancherà di vergognarsi di quest’articolo: il nostro biasimo è superfluo.]
“Il peso particolare di una determinata religione”
“Il peso particolare di una determinata religione in una nazione non dovrebbe mai implicare che i cittadini appartenenti ad un’altra confessione … siano discriminati nella vita sociale”. L’ha detto Benedetto XVI nel discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, parlava dei paesi nei quali i cristiani sono discriminati. Al posto dei puntini si aggiunga “o a nessuna confessione” e un ateo potrebbe sottoscrivere. Certo, Sua Santità parlava dei paesi nei quali la discriminazione ai danni dei cristiani è particolarmente grave, ma poco oltre ha pure detto che “non si può creare una sorta di scala nella gravità dell’intolleranza”, come a dire che essere perseguitati in quanto cristiani non è troppo più grave che imporre a un non credente “il peso particolare di una determinata religione” nella nazione in cui vive.
Molto bene, dunque, se non fosse che, quando è il cristianesimo ad avere questo peso particolare, al posto dei puntini non si può aggiungere niente: da cittadini appartenenti ad un’altra confessione ci si può aspettare un po’ di tolleranza, da atei no. Alla libertà di credere deve essere dato un minimo che non è mai abbastanza quando si tratta dei cristiani, tutto sarebbe sempre troppo alla libertà di non credere. La libertà religiosa cara a Benedetto XVI è quella che concede il massimo alla religione che abbia un peso particolare, un minimo alle altre e niente a chi vorrebbe essere libero di non credere con gli stessi diritti di chi crede. Infatti, per affermare “il ruolo centrale del rispetto della libertà religiosa nella difesa e protezione dell’alta dignità dell’uomo” si dovrebbe “rifiutare il contrasto pericoloso che alcuni vogliono instaurare tra il diritto alla libertà religiosa e gli altri diritti dell’uomo”. Voilà, di fatto la libertà di credere diventa un obbligo.
Né in nome, né per conto
Massimo D’Alema (Ottoemezzo) e Anna Finocchiaro (Ballarò) hanno posizione analoga sul referendum alla Fiat: voterebbero no, dicono, ma dipende dal fatto che non sono operai, sennò molto probabilmente, quasi certamente, voterebbero sì. È posizione saggia? Dipende da cosa debba intendersi per saggezza. Se infatti quello di Sergio Marchionne è un ricatto, e così pare sia per entrambi, da ricattati sarebbe saggio cedervi, altrimenti no. Il ricatto, insomma, sarebbe cosa odiosa, alla quale non cedere, potendo, ma invece sì, dovendo. È evidente che il problema non è il ricatto, se quello di Marchionne lo è, ma quello che separa il potere dal dovere.
In tal senso la saggezza starebbe tutta nell’adeguare le proprie scelte in modo congruo alla forza della quale si dispone e allora il più saggio di tutti sarebbe Marchionne, tanto forte da poter imporre il limite oltre il quale sarebbe stolto non cedere: “Se vince il no, porto via la Fiat e rimanete senza lavoro: vi conviene?”. Non sarebbe saggio resistere al ricatto contro la propria convenienza e da operaio della Fiat conviene cedere al ricatto che da dirigente del Pd risulterebbe inaccettabile: “Voterei no, ma non sono un operaio della Fiat, e nei suoi panni voterei sì”.
È l’ammissione di non avere alcun diritto di rappresentarlo. Ma D’Alema e Finocchiaro non sono sindacalisti, sono politici: da quando è saltata la cinghia di trasmissione tra Pci e Triplice – praticamente da quanto la Cgil ha perso l’egemonia nella Triplice – i postcomunisti D’Alema e Finocchiaro non rappresentano lavoratori, ma cittadini. Semplicemente non dovrebbero essere interpellati sulla questione o, se interpellati, non dovrebbero rispondere.
martedì 11 gennaio 2011
Amarcord (Corriere della Sera, 8 luglio 2004)
Caro Mieli, mi permetterei di dissentire sul fatto che «quello italiano sia un caso di successo del bipolarismo». Di qua, con una maggioranza parlamentare forte quanto non mai, la coabitazione di liberali con cristiano-sociali, di liberisti con assistenzialisti, di libertari con qualche nostalgico fanfanian-almirantiano, di centralisti con secessionisti in standby, di garantisti con qualche giustizialista a senso unico – e si potrebbe continuare. Di là, un arco di forze che, se vuol essere maggioranza alternativa, deve assommare comunisti e cattolici, europeisti ed euroscettici, atlantisti ed antiatlantisti, proibizionisti ed antiproibizionisti – per nominare solo alcune delle contraddizioni, germi di instabilità per un eventuale governo del centrosinistra, non meno di quanto stiano dimostrando le contraddizioni dell’altro schieramento, che solo la personalità di Berlusconi riesce a nascondere, se non annullare. Il bipolarismo non ha omogeneizzato – e neppure ricondotto a fronti, pur eterogenei, ma compatti – i sempre micellizzati indirizzi culturali, progetti politici, programmi, né di qua né di là. Il risultato è e rimane l’ingovernabilità, se non nell’amministrazione degli affari correnti; e, se i governi non cadono più con la frequenza di prima, è palese l’impossibilità di vere riforme – di qualsiasi segno – per il costante attivismo di perduranti e trasversali forze di inerzia.
Luigi Castaldi, Napoli
La versione di Adinolfi aveva un buchetto, adesso piscia come un colabrodo
Mi è d’obbligo aggiornare il post qui sotto, nel quale sostenevo che l’aggressione subita da Mario Adinolfi non fosse da contestualizzare in “un clima simile [a quello de]gli Stati Uniti, dove sui siti di destra si indicano gli obiettivi, poi arriva il ragazzino pazzo che spara in testa alla deputata”, come suggerito dall’aggredito: sulla base delle indicazioni fornite dallo stesso Adinolfi, ipotizzavo che si fosse trattato “una volgare lite per motivi di viabilità”. Bene, avevo visto giusto. Pare che “Adinolfi [fosse] a piedi e [stesse] attraversando la strada, mentre il ragazzo [stesse] a bordo di un motorino” (ansa.it, 10.1.2011). Versione non perfettamente coincidente con quella riferita da Adinolfi: “Gli otto occupanti dei mezzi decidono di venire a sbarrarmi il passo mentre camminavo sulla piazzola di circonvallazione Gianicolense all’altezza del civico 390”.
Come è evidente dalla veduta aerea di Google Earth, nel tratto di strada attraversato da Adinolfi mancano le strisce pedonali: le più vicine sono a circa 80 metri in direzione sud-est e a circa 60 metri in direzione nord-ovest.
Questo elemento suggerisce una dinamica degli eventi un po’ diversa da quella della versione di Adinolfi, che per sua stessa ammissione ha attraversato la carreggiata di una strada a veloce scorrimento, non troppo illuminata, di notte, lontano dalle strisce pedonali e probabilmente senza avere addosso alcunché di catarifrangente. Può dirsi fortunato a non essere stato messo sotto da un camion con rimorchio. Fortunato anche il ragazzino in motorino ad averlo schivato, perché si sa che il codice stradale dà sempre ragione al pedone anche quando è incauto. Devono essere volati i mortacci, da una parte e/o dall’altra, poi è volato il casco.
Ma non è tutto. Adinolfi ha dichiarato di essersi recato a un pronto soccorso dove gli sarebbero state refertati “ecchimosi, edema, ferite lacero-contuse”, eppure, almeno a quanto riportato dal cronista di ansa.it, “i giorni di prognosi non risulterebbero ancora documentati”. Deve trattarsi senza dubbio di errore, perché in questi casi la prognosi è sempre contestuale alla diagnosi. Qui occorre attendere ulteriori chiarimenti.
Possiamo essere certi, invece, che il lacero-contuso abbia un po’ distorto i fatti nel racontarceli: “Gli otto occupanti dei mezzi decidono di venire a sbarrarmi il passo mentre camminavo sulla piazzola... Anche otto contro uno, per fortuna, ho una mole convincente: sono grosso e so difendermi...”. Bene, non è stata l’aggressione di un branco, e a menarlo è stato solo il ragazzino: unico indagato.
Dimenticavo. Quel “Sallusti è stato accontentato” che introduceva il racconto di Adinolfi pare qualificarsi per ciò che supponevo: strumentale e pretestuosa insinuazione. Alla luce dei fatti, particolarmente meschina.
lunedì 10 gennaio 2011
“In Italia non si potrà mai fare una rivoluzione, perché ci conosciamo tutti”
“Qui da noi può succedere di tutto, ma le rivoluzioni si fanno solo per scherzo. Come diceva Mario Missiroli, una roba seria non si può fare «perché ci conosciamo tutti»” (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 10.1.2011). Nel corso della sua rassegna stampa (Radio Radicale, 10.1.2011), in un veloce inciso a commento, Massimo Bordin ha espresso un dubbio circa l’attribuzione della citazione: non lo diceva Leo Longanesi? Questione interessante, no?
E dunque cominciamo col dire che Google dà ragione a Bordin con prevalenza di voci, ma fra quelle che danno ragione a Ferrara ve n’è una assai autorevole: la Piccola antologia del pensiero breve (Liguori, 2008) di Franco Fontanini, un maestro del florilegio che, dalla gloriosa vetta dei suoi 85 anni, può menar vanto di essere stato amico di Longanesi: se ha attribuito l’aforisma a Missiroli (pag. 119), possono esserci più dubbi?
Per avere conferma ho telefonato a Fontanini, che però non ha potuto fornirmela. Anzi, appena ho posto la questione, ha cominciato a sollevare qualche dubbio sull’attribuzione a Missiroli: “In Italia non si potrà mai fare una rivoluzione, perché ci conosciamo tutti” gli sembrava aforisma tipicamente longanesiano, più nella penna di un Flaiano, eventualmente, che in quella di un Missiroli. E allora com’era stato possibile che così avesse risolto nel riportare quella frase nella sua antologia? Gli appunti dai quali aveva tratto il materiale per il suo libro – mi ha spiegato – attribuivano la frase a Missiroli ma senza recare indicazione della fonte testuale originaria, a differenza della loro gran parte. Nessuna solida conferma e la faccenda rimaneva aperta.
A questo punto, però, mi è venuta una mezza idea e con la dovuta delicatezza gli ho chiesto se per caso gli appunti potessero aver attinto, almeno nei casi in cui non fosse riportato il riferimento testuale, a fonti spurie e non verificate come spesso accade per le citazioni riportate dalla stampa, dove di solito si cita l’autore, ma quasi mai il titolo dell’opera dalla quale è tratta la citazione. Non l’ha escluso, anzi, con disarmante sincerità ha detto fosse assai probabile. “D’altra parte – ha aggiunto – certi aforismi non hanno un padre certo, né un padre solo”. Non ho saputo dargli torto: non di rado prendono vita dal nulla e si mettono in cerca di un autore, così mi pare di aver detto.
Questione che rimane aperta, dunque? Sostanzialmente, sì. Ricapitolando, propendono per l’attribuzione a Longanesi: molte voci su Google (la più datata è relativa ad un numero di Mondoperaio del 1989); Bordin (che però non ha sollevato la questione quando Ferrara ha citato la stessa frase in un editoriale del 10.4.2006, attribuendola ancora a Missiroli); Pietrangelo Buttafuoco (che è fra gli ultimi ad aver citato l’aforisma, nella prefazione a un libro di Carlo Puca: consultato via sms, non ha mostrato indugio a ribadire la paternità di Longanesi); e, a sorpresa, il professor Fontanini. In tutti i casi non è specificata la fonte testuale.
L’attribuiscono a Missiroli, invece: 28 voci di Google (metà delle quali sono relative alle volte in cui la frase è stata attribuita a Missiroli dallo stesso Ferrara, due volte sul Corriere della Sera, nel 1993 e nel 1994, e altre quattro volte su Il Foglio, compresa quella odierna); Antonello Piroso (La7, 29.1.2007); Francesco Scrima, segretario nazionale della Cisl-scuola (Left, 5.9.2008); e due o tre anonimi. Anche qui, nessuno sa precisare donde sia tratta.
Per quanto mi riguarda, ho letto moltissimo di Missiroli, quasi tutto di Longanesi e tutto di Flaiano, anche se sono letture che risalgono a molti anni fa, ma non rammento di aver mai trovato traccia dell’aforisma in questione. C’è nessuno fra i lettori di questo blog che sappia fornire una fonte testuale certa?
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