«Chi
non va a votare ha le sue rispettabili ragioni, e il diritto di non farlo. Ma
perde il diritto di lamentarsi per quanto accadrà, e acquisisce il dovere di
tacere e subire, perché ha taciuto e subito nel giorno delle elezioni» (la
Repubblica, 30.10.2012). La pensavo anch’io così, ma ho cambiato idea. Oggi
penso che la logica che informa il fervorino di Michele Serra – la logica che
per decenni mi ha portato a votare il meno peggio piuttosto che astenermi – non
sia affatto ferrea come mi è sembrata fino a ieri. Meglio: può darsi fosse
ferrea fino a ieri – «fino a ieri», quando? – senza dubbio ha smesso d’esserlo.
Il suo punto debole sta nell’assunto democratico che col voto, anche se nella
infinitesima misura di un voto su milioni di voti, si eserciti un potere. Con
la decisione di astenermi alle prossime elezioni non ho alcuna intenzione di
metterlo in discussione, non ho smesso di credere nella democrazia, dico solo
che in Italia ne è rimasto solo il guscio vuoto – le elezioni, appunto – ma di
fatto col voto non si esercita alcun potere, neppure nell’infinitesima misura che
un voto dovrebbe avere su milioni di voti. Il sistema dei partiti ha sospeso il principio democratico e si perpetua nella sua sospensione, che il voto rinnova, dandole legittimità. E nessun partito – nessuna coalizione di partiti, nessun fronte transpartitico
– può volere sia diverso da com’è, pena il suo dissolversi. Ecco perché l’astensione preoccupa seriamente il sistema partitico: sebbene possa «ugualmente sommare i voti che gli restano dentro il cerchio magico del cento per cento», l’astensione erode la sua sola rendita di legittimità.
Sembrerà un paradosso, ma il voto si
è ridotto all’avallo di questa finzione: la democrazia è rappresentata – è data mera rappresentazione della democrazia – da
quanti vogliono convincersi e convincere che la democrazia stia nell’andare a
votare di tanto in tanto. Tra chi vota e chi si astiene c’è ormai una sola
piccola differenza: i primi sono convinti che la finzione mantenga in vita il
principio, i secondi si rifiutano di crederlo. Per quanto mi riguarda, mi è
diventato intollerabile prestarmi alla finzione. Se le regole del gioco sono
queste, preferisco non giocare. Con ciò, come scrive Serra, perdo il diritto di
lamentarmi per quanto accadrà? Non credo, né credo che astenersi dal voto sia
un tacere e un subire che mi impegni a tacere e subire dopo, tutt’altro: se «si può far politica anche senza essere eletto», si può farla anche senza essere elettore.
Se «sono
tutti uguali» è il giudizio che porta all’astensione chi guarda la politica
italiana con occhio assai superficiale, anche aguzzando la vista e arrivando alla più
interna conoscenza delle parti e del tutto, il giudizio non può essere diverso:
al netto di ogni implicazione d’ordine morale, che può dare carattere
fuorviante a questa formula liquidatoria – perfino ingiusta nel mettere dei
poveracci ubriachi di buone intenzioni d’accanto a veri e propri delinquenti – «sono
tutti uguali», tutti hanno gravi deficit di democrazia interna che ha tempo tolto ai partiti, se mai
l’hanno svolta appieno, la funzione assegnata loro dalla Costituzione. Sarà che «le ideologie sono morte» e le maschere sono cadute, sarà che il sistema maggioritario ha accentuato la natura proprietaria dei partiti rendendoli mere proiezioni dei loro proprietari, sarà che l’accelerazione dei processi di acquisizione e perdita del consenso hanno costretto i soggetti politici ad un pleomorfismo che toglie loro identità culturale per omologarli, ma il meno peggio è introvabile. Almeno per quanto mi riguarda.