A me pare che il video diffuso ieri da Gianfranco Fini sia buono, molto buono, però penso che potesse fare anche meglio, molto meglio, e mi riferisco in particolar modo al punto in cui ha detto: “Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la Presidenza della Camera” (5:35-5:42). Invece di quel “lasciare la Presidenza della Camera”, io ci avrei messo un semplice “rompergli il culo”, con ciò ribadendo la sostanza di quanto sta nei fatti, e solo in quelli certi, rigettando dunque tutte le suggestioni sulle quali è imbastita la tesi di Vittorio Feltri, che ha finito per guadagnare qualche credito di legittimità solo perché insistentemente riproposta all’opinione pubblica, sensibile all’insistenza con la quale è avanzata una tesi e refrattaria al dubbio sulla solidità degli argomenti che dovrebbero dimostrarla.
Tale credito di legittimità è in qualche modo riconosciuto anche da Fini nel contemplare, qui per la prima volta, l’eventualità delle sue dimissioni e di fatto – ripeto: di fatto – poco importa se con ciò voglia ammettere di essere alle prese con una questione morale o non sia piuttosto costretto a concedere che tale sia diventata pur non essendolo mai stata: “non esiterei a lasciare la Presidenza della Camera”, dice, e con ciò fa sua la tesi alla quale Feltri è stato capace di dare legittimità. È un cedimento che non avrei concesso: fuor d’ogni suggestione, la questione non è politica, tanto meno istituzionale, ma solo familiare, dunque privata. Intendo dimostrarlo, naturalmente, tanto più che su queste pagine non ho mai neppure sfiorato la vicenda, ma prima voglio sgombrare il campo da quanto lo rende fertile alle suggestioni.
Inizierei col dire che l’immobile fatto oggetto di tante attenzioni in questi mesi non è un bene pubblico: gli può esser data attenzione come proprietà di An, si possono sollevare dubbi sulla sua vendita, ma, ammesso e non concesso che Fini ne abbia tratto qualche utile diretto o indiretto ai danni di An, la questione diventa pubblica – perché Fini è persona pubblica – solo quando questo sia processualmente dimostrato, e ci siamo ancora assai lontani.
Ora, “se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario”, sarebbe dimostrato che “la mia buona fede è stata tradita”, non già che a Fini sia tornato un utile ai danni di An: per dimostrare questo c’è bisogno di una sentenza che lo dichiari colpevole di furto, truffa, ecc. Qui sarebbe dimostrato che Fini è penalmente colpevole e moralmente abietto: potrebbero esserci gli estremi per la decisione di dimettersi, laddove ne sentisse il dovere in ossequio alla coerenza che gli ha fatto dire in più occasioni che un servitore dello Stato non deve avere macchie, né godere di impunità (eventualmente qualche “scudo”). Ma prima di una sentenza del genere, se mai vi si giungerà, che senso ha promettere di dimettersi? Dov’è dimostrato che sono moralmente abietto se “la mia buona fede è stata tradita”? Dov’è dimostrata la macchia che mi rende indegno di continuare a servire lo Stato?
Ciò detto, veniamo al punto cruciale. Fini ritiene di essere fatto oggetto di una campagna denigratoria mirante a sollevarlo dalla carica che ricopre e ritiene che gli strumenti usati siano quelli del “metodo Boffo”. In realtà, nel caso dell’ex direttore di Avvenire, certo consensualmente, il Giornale fu usato nella partita dell’Istituto Toniolo, peraltro ancora aperta. E tuttavia, estrapolando il solo strumento tattico, eravamo in presenza di un dato reale (una condanna per molestie) sulla quale veniva costruita una trama poi rivelatasi falsa (“noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato”): il dato reale non avrebbe sortito alcun effetto, se non l’avesse sortito quello falso, ed è questo che ancora oggi non rende del tutto chiare le ragioni di quelle dimissioni, se non chiamando in causa la guerra ancora in corso tra bertoniani e ruiniani. Ma se di “metodo Boffo” si è trattato anche nel caso della campagna contro Fini, non c’era miglior modo per neutralizzarlo che rigettare la logica che fa debole alla calunnia, piuttosto che farla propria perché la si vede trovar credito pubblico. Perché nel primo caso si cade in piedi, nel secondo si batte di testa.
E dunque: “Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a rompergli il culo. Sfido chiunque a dimostrare che io abbia tratto vantaggio dai suoi eventuali maneggi e intanto rimango alla Presidenza della Camera perché mi so innocente di quanto calunniosamente mi si accusa sulla base di quella eventualità”.