lunedì 27 settembre 2010

5:35-5:42



A me pare che il video diffuso ieri da Gianfranco Fini sia buono, molto buono, però penso che potesse fare anche meglio, molto meglio, e mi riferisco in particolar modo al punto in cui ha detto: “Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la Presidenza della Camera” (5:35-5:42). Invece di quel “lasciare la Presidenza della Camera”, io ci avrei messo un semplice “rompergli il culo”, con ciò ribadendo la sostanza di quanto sta nei fatti, e solo in quelli certi, rigettando dunque tutte le suggestioni sulle quali è imbastita la tesi di Vittorio Feltri, che ha finito per guadagnare qualche credito di legittimità solo perché insistentemente riproposta all’opinione pubblica, sensibile all’insistenza con la quale è avanzata una tesi e refrattaria al dubbio sulla solidità degli argomenti che dovrebbero dimostrarla.
Tale credito di legittimità è in qualche modo riconosciuto anche da Fini nel contemplare, qui per la prima volta, l’eventualità delle sue dimissioni e di fatto – ripeto: di fatto – poco importa se con ciò voglia ammettere di essere alle prese con una questione morale o non sia piuttosto costretto a concedere che tale sia diventata pur non essendolo mai stata: “non esiterei a lasciare la Presidenza della Camera”, dice, e con ciò fa sua la tesi alla quale Feltri è stato capace di dare legittimità. È un cedimento che non avrei concesso: fuor d’ogni suggestione, la questione non è politica, tanto meno istituzionale, ma solo familiare, dunque privata. Intendo dimostrarlo, naturalmente, tanto più che su queste pagine non ho mai neppure sfiorato la vicenda, ma prima voglio sgombrare il campo da quanto lo rende fertile alle suggestioni.

Inizierei col dire che l’immobile fatto oggetto di tante attenzioni in questi mesi non è un bene pubblico: gli può esser data attenzione come proprietà di An, si possono sollevare dubbi sulla sua vendita, ma, ammesso e non concesso che Fini ne abbia tratto qualche utile diretto o indiretto ai danni di An, la questione diventa pubblica – perché Fini è persona pubblica – solo quando questo sia processualmente dimostrato, e ci siamo ancora assai lontani.
Ora, “se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario”, sarebbe dimostrato che “la mia buona fede è stata tradita”, non già che a Fini sia tornato un utile ai danni di An: per dimostrare questo c’è bisogno di una sentenza che lo dichiari colpevole di furto, truffa, ecc. Qui sarebbe dimostrato che Fini è penalmente colpevole e moralmente abietto: potrebbero esserci gli estremi per la decisione di dimettersi, laddove ne sentisse il dovere in ossequio alla coerenza che gli ha fatto dire in più occasioni che un servitore dello Stato non deve avere macchie, né godere di impunità (eventualmente qualche “scudo”). Ma prima di una sentenza del genere, se mai vi si giungerà, che senso ha promettere di dimettersi? Dov’è dimostrato che sono moralmente abietto se “la mia buona fede è stata tradita”? Dov’è dimostrata la macchia che mi rende indegno di continuare a servire lo Stato?

Ciò detto, veniamo al punto cruciale. Fini ritiene di essere fatto oggetto di una campagna denigratoria mirante a sollevarlo dalla carica che ricopre e ritiene che gli strumenti usati siano quelli del “metodo Boffo”. In realtà, nel caso dell’ex direttore di Avvenire, certo consensualmente, il Giornale fu usato nella partita dell’Istituto Toniolo, peraltro ancora aperta. E tuttavia, estrapolando il solo strumento tattico, eravamo in presenza di un dato reale (una condanna per molestie) sulla quale veniva costruita una trama poi rivelatasi falsa (“noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato”): il dato reale non avrebbe sortito alcun effetto, se non l’avesse sortito quello falso, ed è questo che ancora oggi non rende del tutto chiare le ragioni di quelle dimissioni, se non chiamando in causa la guerra ancora in corso tra bertoniani e ruiniani. Ma se di “metodo Boffo” si è trattato anche nel caso della campagna contro Fini, non c’era miglior modo per neutralizzarlo che rigettare la logica che fa debole alla calunnia, piuttosto che farla propria perché la si vede trovar credito pubblico. Perché nel primo caso si cade in piedi, nel secondo si batte di testa.
E dunque: “Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a rompergli il culo. Sfido chiunque a dimostrare che io abbia tratto vantaggio dai suoi eventuali maneggi e intanto rimango alla Presidenza della Camera perché mi so innocente di quanto calunniosamente mi si accusa sulla base di quella eventualità”.

domenica 26 settembre 2010

Gauguin devoto



Nel dar notizia che “una grande mostra dedicata a Paul Gauguin sarà inaugurata il prossimo 30 settembre alla Tate Modern di Londra”, L’Osservatore Romano titola L’esotico devoto (26.9.2010). Sapevate di un Gauguin devoto? Nemmeno io. Sapevo – e l’articolo me ne dà conferma – che fosse un “caustico anticlericale”: L’Église catholique et les temps modernes, che scrisse nel 1898, mi era sembrato – e l’articolo me ne dà conferma – “un pamphlet contro il cattolicesimo”. Cosa dimostrerebbe la sua devozione? Un quadro – “una sorta di opera-testamento”, scrive Sandro Barbagallo – nel quale sarebbe evidente che per Gauguin “dalle parabole di Cristo si potessero ricavare verità profonde”. Qui c’è da trasecolare.
Il quadro è del 1897, dunque antecedente al suo libello anticlericale, e questo – è vero – può non voler dir nulla (si può essere cristiani e insieme anticlericali; si può essere devoti nel 1897 e non esserlo più nel 1898), ma il fatto è che in esso non v’è alcun riferimento a Cristo, tanto meno alle sue parabole, e l’unico elemento di carattere religioso è la statua di un idolo tahitiano,



in tutto simile agli altri che Gauguin ritrasse in almeno altri sette suoi dipinti, su analogo basamento.


Rimanesse qualche dubbio, ci è rimasta una sua lettera a Daniel de Monfreid, nella quale si intrattiene a lungo sul dipinto senza che gli scappi un solo cenno a Cristo e alle sue parabole.


C’è un punto, è vero, in cui Gauguin scrive di aver voluto dipingere un quadro che avesse la traccia narrativa di un gospel e da questo Noemi Margolis Maurer deduce che “he conceived of it as a religious parable” (The Pursuit of Spiritual Wisdom, Fairleigh Dickinson Univ. Press 1998 - pag. 168), ma, ammesso che la deduzione sia esatta, si tratterebbe di una parabola di Gauguin, non di Cristo, e dal testo della lettera si evince che l’allegoria è animista, non cristiana. Può darsi che Barbagallo abbia letto il libro della Maurer, ma lo ha letto male e perciò scrive una grandissima cazzata.
Non basta. Nel tentativo di darci ad ogni costo qualcosa che faccia di Gauguin un buon cristiano, Barbagallo scrive: “Gauguin non amava parlare degli studi teologici della sua giovinezza al Petit-Séminaire de la Chapelle-Saint-Mesmin, nei pressi di Orléans. Dall’età di undici anni, infatti, oltre alle altre materie, studiò Liturgia, insegnata dal vescovo di Orléans, Félix-Antoine-Philibert Dupanloup”. È esatto, ma occorre precisare che non scelse di andare al Petit-Séminaire, che vi restò solo tre anni e che si trattava di comuni lezioni corrispondenti alla nostra ora di religione: non era poco per poter millantare di aver fatto studi teologici?
Ancora: “Nel villaggio di Atuana, compra dal vescovo Martin un appezzamento di terra e fa costruire una nuova casa, che chiama Maison du jouir, dove muore l’8 maggio del 1903. Il vescovo Martin, purtroppo, distrusse alcune opere che considerava blasfeme e oscene. Ciononostante permise che la salma venisse sepolta nel cimitero della chiesa della missione, ma senza un nome”. È una sintesi che edulcora non poco i fatti, perché tra il vescovo e il pittore ci fu sempre un sano odio reciproco. Un discorso a parte meriterebbe quel “ciononostante”, ma non dimentichiamo che Barbagallo scrive per L’Osservatore Romano. Chiediamoci piuttosto come ci arriva.
Nato nel 1973, si è laureato in Storia dell’Arte Contemporanea con una tesi su Simona Weller, che ha sposato nel 2004.


Ventisette anni di differenza, ma pare una coppia felice. La Weller è  l’artista che Benedetto XVI ha scelto per la medaglia commemorativa dell’Anno Paolino, non si capisce perché il maritino non possa fare il critico d’arte sul giornale del papa.


venerdì 24 settembre 2010

Poteva bastare la fede


“Uno studio basato su 14 simulazioni al computer, condotto dallo Us National Centre for Atmosphere Research e dall’università del Colorado, pubblicato dalla rivista online Public Library Research e anticipato ieri dalla stampa britannica, sostiene che un vento con una velocità di 100 chilometri orari, che spirasse per almeno dodici ore, avrebbe potuto creare un «ponte» di terra lungo 5 chilometri e largo 3 per all’incirca quattro ore. Più che sufficiente per consentire a Mosè e al suo popolo di passare dall’Egitto al Sinai nel loro viaggio verso la Terra Promessa, verso Israele” (repubblica.it, 23.9.2010 – via PPR). C’era bisogno delle simulazioni al computer? Poteva bastare la fede, eventualmente la cache di Google Earth.


Santa Lucia dà carta bianca a Berlusconi







giovedì 23 settembre 2010

Vedremo



L’altrieri, quasi un secolo fa - “Dopo Gesù Cristo la cosa più grande che è capitata alla Chiesa cattolica è Bernardino Nogara”, così alla sua morte, nel 1958, il cardinale Francis Joseph Spellmann, arcivescovo di New York. Per un quarto di secolo, dal 1929 al 1954, il compianto aveva gestito, accrescendolo enormemente, il patrimonio dell’Amministrazione delle Opere di Religione (1929-1942), già Commissione delle Opere Pie (1908-1929), che grazie al Concordato si ritrovava nelle casse il miliardo di lire graziosamente donato dall’“uomo della Provvidenza”, il cavalier Benito Mussolini. Nogara aveva posto due condizioni all’assunzione dell’incarico: “(1) Qualsiasi investimento che scelgo di fare deve essere completamente libero da qualsiasi considerazione religiosa o dottrinale. (2) Devo essere libero di investire i fondi del Vaticano in ogni parte del mondo”; e gli furono accordate. “Fra il 1929 e l’inizio del secondo conflitto mondiale Nogara piazzò i capitali vaticani, con i relativi agenti, nei più vari settori dell’economia italiana, particolarmente in quelli dell’energia elettrica, delle comunicazioni telefoniche, del credito bancario, delle ferrovie locali, della produzione di macchine agricole, del cemento e delle fibre tessili sintetiche” (Nino Lo Bello, L’oro del Vaticano, Edizione del Borghese 1971).
Nel 1942 l’Amministrazione delle Opere di Religione diventa Istituto per le Opere di Religione (Ior), al quale il Regime concede l’esenzione delle imposte sui dividendi, rendendolo di fatto un potentissimo intermediario finanziario off shore per la ricaduta dei privilegi e delle agevolazioni che le normative di molti stati, in primo luogo l’Italia, accordano al Vaticano. Non c’è da stupirsi che in questo modo lo Ior diventi in poco tempo una fantastica macchina per riciclare molto denaro sporco e farlo fruttare. Non tutto viene alla luce perché “lo Ior, in quanto istituto che opera con modalità proprie, non è mai stato tenuto a nessun tipo di informativa, né verso i propri clienti, né verso terzi, né tanto meno a pubblicare un bilancio o un consuntivo sulle proprie attività” (Ferruccio Pinotti, Poteri forti, Rizzoli 2005), ma quello che di tanto in tanto è fin qui emerso dà un’idea della clientela che ha servito. Dal 1960 ad oggi sono provate innumerevoli prestazioni dallo Ior fornite a mafiosi, tangentisti e perfino trafficanti d’armi, anche se la parte più consistente del malaffare è sempre stato di più basso profilo criminale, nelle varie forme dell’evasione fiscale.

Ieri, quasi oggi - Scandali sempre più imbarazzanti. I privilegi vaticani riescono a neutralizzarli sul piano giudiziario, ma non possono molto su quello del danno d’immagine. Si arriva al punto che Angelo Caloia, presidente del Consiglio di sovrintendenza dello Ior dal 1989 al 2009, scrive preoccupato al segretario di Stato, il cardinale Angelo Sodano, come se in mano avesse una macchina che ormai produce reati finanziari in modo autonomo, in forza di dinamiche incontrollabili: “Si ha la sensazione netta che ci si trovi di fronte, tutti, a un potenziale esplosivo inaudito, che deve essere doverosamente portato a conoscenza delle più alte autorità” (in: Gianluigi Nuzzi, Vaticano S.p.A., Chiarelettere 2009). Diventa necessaria una bonifica: “Dall’inizio di quest’anno, gli organi della Banca d’Italia e dello Ior operano in stretto collegamento proprio in vista dell’adeguamento delle operazioni dello Ior alle procedure antiriciclaggio. A questo scopo è stato istituito nell’ambito dello stesso Ior un ufficio di informazione finanziaria, sotto il controllo del cardinale Attilio Nicora. E in questa direzione vanno lette la costante collaborazione con l’Unione europea e soprattutto le missioni intraprese nei mesi scorsi dai vertici dello Ior a Parigi, sede dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e del Gafi (Gruppo di azione finanziaria internazionale contro il riciclaggio di capitali). Ai due organismi è stata allora prodotta la documentazione per l’iscrizione della Santa Sede alla cosiddetta White List, che raccoglie i Paesi che aderiscono alle norme antiriciclaggio. Per l’adeguamento alle esigenze che nascono dall'inclusione della Santa Sede tra gli Stati che operano contro il riciclaggio e il terrorismo, il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, ha anche nominato un’apposita commissione presieduta dallo stesso cardinale Nicora. La direzione dello Ior è inoltre impegnata da tempo [poco più di un anno, non di più] ad adeguare le sue strutture informatiche alle regole vigenti in materia di lotta al riciclaggio. Così lo Ior intende porsi sulla stessa linea delle banche italiane” (L’Osservatore Romano, 23.9.2010).
E tuttavia parrebbe che lo Ior abbia continuato a movimentare denaro sporco: la Procura di Roma iscrive nel registro degli indagati Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior da poco più di due anni, e Paolo Cipriani, direttore generale, per violazione delle norme antiriciclaggio. Vedremo.

Come sempre, quasi mai - Il presidente si difende, dice che non era riciclaggio, ma soltanto “un giroconto Ior su Ior: semplicemente abbiamo trasferito del denaro per investirlo in bond tedeschi [ma il diavolo s’è messo di traverso e s’è verificato] un errore nelle procedure. [Cazzarola, cerchiamo di darci una ripulitina e] finiamo nel mirino proprio nel momento in cui stiamo lavorando più alacremente possibile per applicare la norme antiriciclaggio[?] [Insomma,] stiamo lavorando per entrare l’elenco dei Paesi che rispettano le norme internazionali antiriciclaggio e contiamo di farcela per dicembre [, non sarebbe stato carino nei confronti del Papa chiudere un occhio per due o tre mesi?]” (il Giornale, 22.9.2010). E chi può essere il fetente che rifiuta un favore alla banca dove il Papa ripone l’Obolo? Mussolini non osò. La Dc salvò il culo a Paolo VI pure sulla cedolare secca. Mai un prelato sfiorato da un giudice, mentre intanto morivano Sindona ed Ambrosoli, De Pedis e Gardini. Negare un trattamento di favore al Papa rivela odio anticlericale. E dunque chi sta a tirare i fili di quello che dev’essere sicuramente un complotto laicista e anticristiano? Non è sospetto che si vada a far clamore per il movimento di una irrisoria somma di 20 miserabili milioncini di euro proprio dopo il trionfale tour inglese di Sua Santità?  
La quasi totalità dei vaticanisti italiani pone la questione proprio in questi termini (e io perciò li schifo).

martedì 21 settembre 2010

“Da vari decenni”


Sarebbe stato illogico, disse Mussolini, che il XX Settembre restasse festa nazionale dopo il Concordato, e disse proprio “illogico”. La logica era quella che reggeva il Concordato e infatti la richiesta di abolire le celebrazioni ufficiali gli veniva da Pio XI, subito accolta. Non è affatto carino festeggiare una vittoria riportata su chi ti è diventato amico: non puoi cancellare la data dal calendario, non puoi impedire che nella ricorrenza qualcuno senta ancora vive le ragioni che furono di qua e di là dalle mura leonine, ma nemmeno puoi rendere solenne, tanto meno festoso, il ricordo della presa di Porta Pia. Al papa brucia ancora il culo, non è bello fargli questo sgarbo: ti ha definito “uomo della Provvidenza”, ti ha tolto dai coglioni le associazioni cattoliche che ti davano fastidio, ti benedice i manipoli e i gagliardetti, e in cambio ti chiede solo il dovuto rispetto. Già è tanto che da qualche tempo, facendo di necessità virtù, ha preso a dire che la perdita del potere temporale è stata per grazia divina: non potresti evitare di rammentargli ogni anno che è stata per sconfitta militare? Bene, sposta la festa nazionale dalla data in cui è caduto lo Stato Pontificio a quella in cui è sorto lo Stato della Città del Vaticano. Fatto, nel 1930.
Chi ha festeggiato il XX Settembre in questi 80 anni? Giusto quattro gatti spelacchiati. A 140 anni da Porta Pia è venuto il momento di fare un altro favore al papa: si può farglielo, miagoleranno solo quei quattro gatti. Si tratterebbe di cancellare ogni memoria dei fatti, facendo della data l’occasione per festeggiare la gentile concessione che il Papato fece all’Italia. E infatti cosa dice il cardinal Tarcisio Bertone? “Siamo raccolti in un luogo altamente simbolico per compiere un atto di omaggio verso coloro che qui caddero. Dal loro sacrificio e dal crogiuolo di tribolazioni, di tensione spirituale e morale, che quell’evento suscitò, è sorta però una prospettiva nuova, grazie alla quale ormai da vari decenni Roma è l’indiscussa capitale dello Stato italiano…”.
“Da vari decenni”. Perché non “da più di un secolo”? Perché Roma è “indiscussa” capitale dello Stato italiano solo dal 1929 in poi, non dal 1871. La logica che porta clericali e fascisti ad abolire la festa nazionale del XX Settembre in coerenza al Concordato è la stessa che porta Bertone e Alemanno a festeggiarlo come evento condiviso. E hanno tutto il diritto di farlo: in un’Italia che dal 1930 in poi non ha mai coltivato la memoria di Porta Pia, chi ha il diritto di lamentarlo come mistificazione storica?

"Lo sai che siamo tutti morti / e non ce ne siamo neanche accorti"



16-19 settembre



Benedetto XVI partiva per il Regno Unito con qualche preoccupazione. È bastato che si rivelasse esagerata ed ecco che il viaggio pare un trionfo. In realtà è stata una trasferta scialba, sarà che nella cartellina portava discorsi cautamente anodini. Seguiamone a ritroso il corso.
Nel discorso tenuto alla cerimonia di congedo ricorda tutti gli incontri importanti che ha avuto in terra inglese, con la regina, coi membri del governo, con le camere del parlamento in assise congiunta, con le gerarchie della chiesa anglicana, coi rappresentanti delle altre comunità religiose nel Regno Unito e naturalmente col clero e coi laici cattolici: dimentica di citare solo l’incontro con le vittime degli abusi sessuali consumati dai suoi preti. La Sala Stampa Vaticana ha voluto darvi grande risalto, come se fosse una tappa importante del viaggio, ma adesso perché tornarci sopra? Si doveva fare? È stato fatto. Gli sia consentito risparmiarsi altro imbarazzo, perché è vero, e ai suoi l’ha detto, è roba che “mina seriamente la credibilità morale dei responsabili della Chiesa” e causa “profonde ferite nel rapporto di fiducia che dovrebbe esistere fra sacerdoti e popolo, fra sacerdoti e i loro Vescovi, come pure fra le autorità della Chiesa e la gente”: glissare è impossibile, ma è meglio non tornarci sopra se non quando è indispensabile.
Parliamo d’altro, allora, parliamo del santo novello, che “visse il proprio ministero sacerdotale in spirito di devozione filiale alla Madre di Dio” e va ad aggiungersi ai santi d’Inghilterra, per lo più “martiri”, ma evitiamo di rammentare che furono martirizzati dagli anglicani, insieme a migliaia di laici che tenevano più al papa che al re: non sarebbe carino verso gli anglicani, non sarebbe carino verso la regina, parliamo soprattutto dei santi che vissero prima dello scisma. E di san John Henry Newman, naturalmente.
“L’esistenza di Newmandiceci insegna che la passione per la verità, per l’onestà intellettuale e per la conversione genuina comportano un grande prezzo da pagare”, e questo è esatto, perché al di fresco convertito, contrario al dogma dell’infallibilità papale, costò non poco dover cambiare idea, però fu ricambiato con la porpora cardinalizia, e qui vediamo qui il suo “preciso realismo cristiano”, che spinge “non tanto ad accettare la verità come un atto puramente intellettuale, quanto piuttosto ad accoglierla mediante una dinamica spirituale che penetra sino alle più intime fibre del nostro essere”, facendoci diventare – quando va bene – un notabile della ditta.
Sorvoliamo sulle virtù del santo, almeno in questa sede, perché nel week end sono state enumerate tutte. Tutte tranne il suo grande amore per Ambrose StJohn, col quale il santo giacque a lungo insieme, almeno nella tomba. I malvagi laicisti hanno insinuato che i due fossero gay, ma non è vero, si trattava di purissimo affetto tra confratelli, d’una qualità tanto rara da poter essere considerata esemplare. Ma allora perché tacere proprio questa virtù? Boh.

Vibrante l’incontro con gli anziani dell’ospizio di St Peter, che ha esortato a “non aver paura di partecipare alle sofferenze di Cristo se Dio vuole che affrontiamo l’infermità”, ma ancora più vibrante quello con gli operatori addetti alla cura dell’infanzia violata: “È deplorevoleha dettoche, in così marcato contrasto con la lunga tradizione della Chiesa di cura per i ragazzi, questi abbiano sofferto abusi e maltrattamenti ad opera di alcuni preti e religiosi”; ma ha aggiunto: “Occorre dare atto a ciò che è stato fatto: gli sforzi della Chiesa, in questo Paese e altrove, specialmente negli ultimi dieci anni per garantire la sicurezza dei fanciulli e dei giovani”. Dieci anni: giusto il necessario per potersi tirar fuori dalle manchevolezze della sua Congregazione in relazione alle segnalazioni che gli arrivavano dagli Usa e dalla Germania, ignorate fin quando possibile.
Un invito al proselitismo, tanto garbato da risultare un po’ criptico, nell’omelia di sabato 18 settembre, cui è seguito un saluto ai fedeli del Galles, dove “purtroppo non mi è stato possibile recare durante questa visita”. Mancanza di tempo. O troppo recenti le vicende che lì hanno toccato monsignor Cormac Murphy O’Connor e monsignor Vincent Gerard Nichols: averli a fianco a Londra è una cosa, a Cardiff è un’altra.

Ma il pezzo forte è il discorso in Westminster Hall “sul giusto posto che il credo religioso mantiene nel processo politico”. “Le questioni di fondo che furono in gioco nel processo contro Tommaso Moro – dice – continuano a presentarsi, in termini sempre nuovi, con il mutare delle condizioni sociali. Ogni generazione, mentre cerca di promuovere il bene comune, deve chiedersi sempre di nuovo: quali sono le esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi? A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali?”. Tommaso Moro scelse il papa. In quali termini si pongono oggi le questioni di fondo che lo portarono ad essere decapitato per ordine del re? “Dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche? La tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione”. Non è indispensabile una obbedienza formale al papa, ma può bastare una sostanziale concordanza su quei principi morali che il papa ritiene “oggettivi”. Infatti, “senza il correttivo fornito dalla religione, anche la ragione può cadere preda di distorsioni”: al moderno Tommaso Moro non è più richiesto il martirio per tenere il punto sulla “suprema giurisdizione della Chiesa”, ma di far propri i principi morali che la Chiesa ritiene “oggettivi”. Perciò “la religione per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico nella nazione”: non accade così nei paesi in cui il codice penale fa propri i dettami della legge coranica?
Paese che vai, religione che trovi: i principi morali che la religione indigena contempla come “oggettivi” dovrebbero ispirare la politica e il processo legislativo indigeni. In caso contrario? Si avrebbe quella “marginalizzazione della religione” che è ormai avanzata nell’occidente che fu cristiano: tutti i suoi guai dipenderebbero da questa marginalizzazione, come dimostrerebbe il fatto che tutto andava a meraviglia quando il papa vi dettava legge, salvo guerre di religioni. Sarà perché ne è stato a lungo devastato che l’occidente ha imboccato la via della laicità dello Stato? Potrebbe essere, ma in fondo i guai iniziarono con la Riforma e con il rifiuto dell’autorità papale in campo religioso e civile: i tempi sono cambiati e il papa non pretende che gli si obbedisca senza discutere, ma che si discuta un poco, giusto il necessario, e che ci si trovi d’accordo con lui, perché a non trovarcisi lo Stato diventa ideologico, la società si ammala e le gerani appassiscono.
È quello che in realtà accade da quando c’è chi sostiene che “la voce della religione andrebbe messa a tacere, o tutt’al più relegata alla sfera puramente privata”, come a dire che l’oggettività non esiste. “Questi sono segni preoccupanti dell’incapacità di tenere nel giusto conto non solo i diritti dei credenti alla libertà di coscienza e di religione, ma anche il ruolo legittimo della religione nella sfera pubblica. Vorrei pertanto invitare tutti voi, ciascuno nelle rispettive sfere di influenza, a cercare vie per promuovere ed incoraggiare il dialogo tra fede e ragione ad ogni livello della vita nazionale”: si comincia a dialogare, poi, dando per scontato che i “principi morali oggettivi” sono quelli che indica il magistero petrino, o si arriva alla concordia tra Stato e Chiesa o la Chiesa piagnucola, maledice e sabota.
Roba da pigliarlo a calci in culo, ma il diritto internazionale lo protegge in quanto capo di Stato estero: noli tangere!

Sulle cose dette agli anglicani e ai membri delle altre confessioni religiose c’è poco da dire: un Benedetto XVI felpatissimo, non una citazione dalla Dominus Iesus o dalla Veritatis splendor, anzi, tanto appeasement. Un po’ meno nei discorsi al mondo dell’educazione: agli insegnanti, per esempio, si può rammentare con orgoglio “il grande lavoro missionario della Chiesa in terre lontane”, ai musulmani girerebbero le palle. Idem per lo stretching del primo giorno: alla regina, un pensiero sulle antichissime radici cristiane dell’Inghilterra, tacendo educatamente sullo scisma anglicano; al gregge raccolto a Glasgow, un dolente richiamo alla riforma del parlamento scozzese del 1560.
Ma il meglio, come sempre, in volo, all’andata: l’alta quota lo libera. Scongiuri di prammatica (“La Gran Bretagna ha una sua propria storia di anticattolicesimo, questo è ovvio, ma è anche un Paese di una grande storia di tolleranza”). Mani avanti sul sospetto che stia andando a dragare (“Un vero e fecondo ecumenismo”, ma cattolici e anglicani “non sono più concorrenti”) e sulle contestazioni che lo attendono per la gestione del clero pedofilo (“Queste rivelazioni sono state per me uno choc”, non sapeva niente, non ha colpe). E sulle voci incontrollate che potrebbe anche essere arrestato appena atterrerà: “Sono molto grato a Sua Maestà la Regina Elisabetta II, che ha voluto dare a questa visita il rango di una visita di Stato”.


lunedì 20 settembre 2010

Emilio Colombo molestò Mario Adinolfi




[...]



Il forte calo di vendite e abbonamenti che Il Sole 24Ore accusa da qualche mese non può essere dovuto solo all’arrivo di Christian Rocca, che al massimo può aver contribuito. Impossibile dire quanto, peraltro.


Benaltrismo batte buonismo



La circolare del 5 agosto recita: “Le Président de la République a fixé des objectifs précis pour l’évacuation des campements illicites...”, e fin qui fila liscia; poi incorre in un “lapsus etnicista” (Il Foglio, 20.9.2010): “... en priorité ceux des Roms”. Se il lapsus tradisce l’inconscio di chi vi incorre mettendo a nudo ciò che gli tornerebbe utile celare (Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana), qui dovrebbe star la prova che le misure decise da Sarkozy hanno proprio l’intento discriminatorio su base etnica che egli si è tanto affannato a negare, ma che gran parte dell’opinione pubblica europea ha rilevato con preoccupazione e condannato con sdegno. Almeno questo lapsus, almeno per Il Foglio, non ha più peso di una scoreggina, e a chi non può scapparne una? Sarkozy puzzerà di razzismo come se si fosse pappato un intero Le Pen andato a male, bien, ma voi non profumate di giaggioloSi può abortire un bambino al mattino e piangere sul destino degli zingari la sera?. Benaltrismo batte buonismo, 1-0.

domenica 19 settembre 2010

[...]

“L’ho fatto, non c’è problema”



Pensavo che la moglie di Bandinelli fosse morta di noia e invece la sua scomparsa dev’essere dovuta ad altra causa. Non sarebbe carino parlarne se non fosse che il nostro caro Angiolo si intrattiene pubblicamente sul decesso, e in questi termini: “Recentemente ho dovuto fare una scelta relativa al destino di vita o di morte di una persona a me molto cara. Ho scelto secondo coscienza e avrei assolutamente impedito che altri prendessero questa decisione che spettava a me. L’ho fatto, non c’è problema” (01:34:53-01:35:17). Troppo poco per aprire un fascicolo in Procura, forse, ma non vorrei che questa fosse l’autodenuncia di un atto di disobbedienza civile, come nella miglior tradizione radicale, e passasse irrilevata. E tuttavia, se è un’autodenuncia, col cazzo che non c’è problema”.

Se è un’autodenuncia Dal corpo del malato al cuore della politica, certo, e nella pannelliana convinzione che nulla è davvero privato per un radicale, ma i Bandinelli hanno scelto uno stile sobrio, senza cedimenti all’esibizionismo dei Coscioni e dei Welby. E tuttavia non è chiaro se si tratti di un’autodenuncia: la scelta posta in atto violava o no le vigenti normative sul fine vita? Se sì, Bandinelli si è autodenunciato. Con adamantina coerenza e cristallina onestà intellettuale, lo ha fatto. Se la morte della signora fosse stata sbrigata alla maniera che consiglia Ferrara – consiglio di famiglia, dottore amico, cento euro alla suora e acqua in bocca – a questo incauto sbracamento scatterebbe il procedimento d’ufficio. Ma si tratta senza dubbio di autodenuncia, come è rilevabile dal pathos bioetico della rivelazione (“persona”,  coscienza”, “destino”, “decisione”): la Procura tenga conto. 

Se non è un’autodenuncia Può darsi che la signora sia morta in ossequio alle leggi vigenti e che Bandinelli non ci abbia dovuto rimettere neanche i cento euro. E allora perché raccontarlo? Perché tutto quel pathos bioetico? Probabilmente per sentirsi un po’ Englaro, sennò quando gli capitava più? In questo caso, possiamo chiudere un occhio: la civetteria dei vedovi è un peccato veniale.

Da Tommaso Moro a Pierluigi Castagnetti


Benedetto XVI ha ragione: “Le questioni di fondo che furono in gioco nel processo contro Tommaso Moro continuano a presentarsi, in termini sempre nuovi, con il mutare delle condizioni sociali” (Discorso in Westminster Hall, 17.9.2010); e dunque si tratta di questioni sulle quali non è superfluo intrattenersi, perché da dieci anni Tommaso Moro è santo patrono dei politici e dei governanti, indicato dalla Chiesa a politici e governanti cattolici come modello da seguire.
Converrà accostarci a questo modello cominciando proprio dalle note biografiche riportate nel Motu proprio del 31 ottobre 2000 che lo eleva a esempio: “Tommaso Moro visse una straordinaria carriera politica nel suo Paese. Nato a Londra nel 1478 da rispettabile famiglia, fu posto, sin da giovane al servizio dell’Arcivescovo di Canterbury, Giovanni Morton, Cancelliere del Regno. Proseguì poi gli studi in legge ad Oxford e a Londra, allargando i suoi interessi ad ampi settori della cultura, della teologia e della letteratura classica. Imparò a fondo il greco ed entrò in rapporto di scambio e di amicizia con importanti protagonisti della cultura rinascimentale, tra cui Erasmo Desiderio da Rotterdam. […] Nel 1504, sotto il re Enrico VII, venne eletto per la prima volta al parlamento. Enrico VIII gli rinnovò il mandato nel 1510, e lo costituì pure rappresentante della Corona nella capitale, aprendogli una carriera di spicco nell’amministrazione pubblica. Nel decennio successivo, il re lo inviò a varie riprese in missioni diplomatiche e commerciali nelle Fiandre e nel territorio dell’odierna Francia. Fatto membro del Consiglio della Corona, giudice presidente di un tribunale importante, vice-tesoriere e cavaliere, divenne nel 1523 portavoce, cioè presidente, della Camera dei Comuni. […] Nel 1529, in un momento di crisi politica ed economica del Paese, fu nominato dal re Cancelliere del regno, primo laico a ricoprire questa carica […] Nel 1532, non volendo dare il proprio appoggio al disegno di Enrico VIII che voleva assumere il controllo sulla Chiesa in Inghilterra, rassegnò le dimissioni”.

Qui dobbiamo correggere il testo: Enrico VIII non aveva alcuna intenzione di assumere il controllo sulla Chiesa in Inghilterra, ma si ritrovò di fatto ad assumerlo per essersi trovato in disaccordo col Papato su una questione che riteneva vitale per il suo Regno. Non aveva un erede maschio e ne dava colpa alla moglie, Caterina d’Aragona. Deciso a ripudiarla per sposare Anna Bolena, di cui s’era innamorato, cercò di ottenere l’annullamento del matrimonio da papa Clemente VII. Questo favore difficilmente era negato da un papa a un potente, basti pensare all’annullamento del matrimonio tra Giovanni Sforza e Lucrezia Borgia concesso da papa Alessandro VI qualche decina d’anni prima. Qui, però, la moglie da lasciare era cattolica, per di più nipote di Carlo V, stretto alleato del papa, e quella da pigliare era protestante: Clemente VII s’impuntò e rigettò la richiesta che Enrico VIII gli aveva presentato facendola illustrare proprio da Tommaso Moro. Il santo non si rifiuta di andare a Roma a chiedere l’annullamento del matrimonio, che evidentemente ritiene annullabile: ci va e si fa in quattro per convincere il papa, anche se non ci riesce.
Tommaso Moro non cade in disgrazia per aver difeso, insieme al suo papa, contro il suo re, l’indissolubilità del matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d’Aragona, ma solo perché si viene a creare una incompatibilità tra fedeltà al papa e fedeltà al re, un re che papa Leone X aveva insignito del titolo di defensor fidei.

“Muoio fedele a Dio e al re, ma a Dio innanzitutto”, dice Tommaso Moro, ma Dio è il Papato. E infatti muore perché rifiuta di sottoscrivere un atto del suo re che “contrasta direttamente con le leggi di Dio e della sua Chiesa, in quanto la suprema giurisdizione della Chiesa o di una sua parte non può venire avocata a sé, con nessuna legge, da nessun principe temporale, appartenendo di diritto alla Sede di Roma per quel primato spirituale trasmesso per singolare privilegio a san Pietro e ai suoi successori, i vescovi di quella Sede, dalla parola stessa di Cristo nostro Salvatore al tempo della Sua presenza su questa terra […] Il Regno d’Inghilterra, non essendo che una piccola parte e un singolo membro del corpo della Chiesa, non può promulgare una legge particolare in contrasto con la legge generale della Chiesa cattolica, l’universale Chiesa di Cristo”.
L’epoca non conosce ancora la separazione tra Stato e Chiesa che sarà conquista posteriore: la giurisdizione della Chiesa è suprema per definizione. Sicché si può convenire col proprio re che l’annullamento del matrimonio sia necessario secondo la logica che guida questi a considerarla una retta soluzione politica, ma non si può più essergli fedele contro la logica che guida il papa a considerare quella soluzione dannosa agli interessi politici del Papato.
Giusta la sua condanna come traditore dello Stato, comprensibile che dal Papato sia elevato a esempio di politico cattolico: un politico cattolico può essere fedele allo Stato solo fino a quando lo Stato non lede il primato che il Papato ritiene di poter vantare. Per il politico cattolico questo primato è pienamente rispettato nell’adesione al magistero morale e sociale della Chiesa: se lo Stato lo recepisce, non c’è incompatibilità tra fedeltà allo Stato e al Papato; in caso contrario, ogni politico cattolico sarebbe tenuto ad affidarsi al suo santo patrono e favorire gli interessi del Papato, contro quelli dello Stato.
Un politico cattolico è traditore dello Stato in potenza, sempre; e lo è in atto quando Stato e Chiesa entrano in attrito. “Noi abbiamo due appartenenze – spiegava un politico cattolico, non molto tempo fa – una alla Chiesa, l’altra alla politica. Per me, per tutti noi cattolici, insomma, il vero capo è lui: il papa. Per noi è il vicario di Dio in terra” (Pierluigi Castagnetti – Corriere della Sera, 25.3.2009).

sabato 18 settembre 2010

venerdì 17 settembre 2010

Due birre


Può capitare che due si perdano di vista, ma può capitare che uno dei due si rifaccia vivo. Tra atei è tutto abbastanza semplice. “Ciao, ti ricordi?”, fa uno; e l’altro: “Ma certo, come no, dove ti eri andato a ficcare?”; e si finisce a chiacchierare da qualche parte, bevendo una birra.
 Tra buoni cristiani è maledettamente più complicato. A quello che si rifà vivo tocca lamentarsi di essere stato abbandonato e all’altro spetta una roba del genere: “Noi non siamo  dimenticati, mai, da Colui che ci fa in ogni momento. E solo ricordandolo posso avere misericordia di questa memoria bucata, di questa trascuratezza, di questo limite, di questa finitezza degli altri e soprattutto e inesorabilmente mia. Perdonami, e perdonaci”. Insomma, la birra finisce per farsi calda.


Santi a perdere


Benedetto XVI, capo della chiesa cattolica, rammenta a Elisabetta II, capo della chiesa anglicana, che “i monarchi d’Inghilterra e Scozia erano cristiani sin dai primissimi tempi ed includono straordinari santi come Edoardo il Confessore (1002-1066) e Margherita di Scozia (1045-1093)” e, con un salto di otto secoli, arriva a John Henry Newman (1801-1890), santo a momenti. Tommaso Moro, Giovanni Fischer, Giovanni Houghton, Roberto Lawrance, Agostino Webster, Riccardo Reynolds, Giovanni Stone, Davide Gonson, Giovanni Ireland, solo per citare i più eccellenti: di santi cattolici, per lo più martiri, morti in terra inglese per restare fedeli al papa, opponendosi allo scisma anglicano, se ne contano 324. Citarne solo uno sarebbe maleducazione e al momento Benedetto XVI si rivela educatissimo: nei primi 6 dei 15 discorsi programmati in terra anglicana non se ne trova uno.

Aggiornamento Tommaso Moro era proprio impossibile non nominarlo, e ha trovato modo di citarlo: “Vorrei ricordare la figura di san Tommaso Moro, il grande studioso e statista inglese, ammirato da credenti e non credenti per l’integrità con cui fu capace di seguire la propria coscienza, anche a costo di dispiacere al sovrano, di cui era 'buon servitore', poiché aveva scelto di servire Dio per primo”. Ne dovremo parlare in un post a parte.

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Tra gli scriventi





Poi, ecco, “riforme coraggiose e profonde”



“Due anni fa – scriveva Walter Veltroni (Corriere della Sera, 24.8.2010) – quasi quattordici milioni di italiani fecero una croce sul simbolo che conteneva il mio nome come candidato alla presidenza del Consiglio”. Sappiamo come è andata: non bastarono per vincere. Veltroni teneva a precisare: “Se un milione e mezzo dei 38 milioni di votanti avesse scelto il centrosinistra riformista invece di Berlusconi ora saremmo noi a guidare il Paese”. Senza dubbio, ma quel milione e mezzo scelse il centrodestra.
Perché il Pd perse? Le ragioni di una sconfitta sono sempre molto numerose, almeno quanto quelle di una vittoria, anzi, le une e le altre talvolta coincidono: in questi casi l’umano conato all’assoluto osa parlare di fattori oggettivi. Bene, dovendo cedere al conato, diremmo che quella di Veltroni, di andare alle urne da soli, contro un avversario che avrebbe fatto il pienone di alleatucoli attivi e passivi, oggettivamente non fu una grande idea.
Bella o no che fosse sul piano morale e su quello estetico, la scelta di Veltroni non sfavorì il centrodestra e – oggettivamente – azzerò ogni residua speranza dei suoi oppositori, eccezion fatta per un Pd che fosse destinato a pigliare più voti di Pdl e Lega insieme. Era un azzardo, insomma. E Veltroni perse, per sé e per il suo partito.
Sarà stata pure una sconfitta buona e bella, ma Veltroni era partito per vincere. Sacrosanta la libertà di azzardo, ma poi vogliamo onorare di debiti di gioco? Hai perso: a casa. Avrai tempo per pensare, leggere, scrivere, convincere i posteri che non è stato giusto tu abbia perso, ma intanto hai perso: sbaracca. Figurarsi, Veltroni non sbaracca. In vista di elezioni (e quando e se) si dichiarava contrario ad “una santa alleanza contro Berlusconi”: il Pd deve correre da solo (lo appoggi chi voglia, Veltroni dice che non rifiuterà l’appoggio).
Ci sono maggiori probabilità di vittoria, stavolta?

Se una risposta c’è, sta dentro al documento che Veltroni ha diffuso ieri, trovando a sottoscriverlo Fioroni e Gentiloni. “La crisi politica del centrodestra è arrivata ad un punto di non ritorno”: la sua è “una crisi strategica”. “Si va concludendo un ciclo storico”, siamo al “fallimento del berlusconismo”. Insomma, stavolta si vince facile: Berlusconi non si rialza più.
Non lo si è già pensato, in passato? La sinistra ha creduto che Berlusconi fosse un uomo finito, irreparabilmente fottuto per sua stessa mano, fin da quella volta che appoggiò Fini contro Rutelli per il Campidoglio, quando dai fori cadenti dell’arco costituzionale s’udì: “Berlusconi ha chiuso con la politica. Prim’ancora di aprire, se ne aveva intenzione”. L’atipia non poteva durare troppo a lungo – si è sempre detto – e lo si è detto fin dai suoi primi passi nella politica, e dunque perché fare una legge sul conflitto di interessi?
Le spallate per accelerare la caduta non sono mai mancate – la conquista del potere non è sport da signorine – ma sempre più fiacche, sicché è prevalso l’uso dello scansarsi – come signorine non adatte allo sport – sicuri che più di tanto non avrebbe potuto osare, l’atipico, sul piano morale e su quello estetico: era agli sgoccioli, si è detto fin dal suo primo sgocciolare.
E ci ha sommerso.

Un blocco sociale come quello coagulatosi intorno a Berlusconi non sparisce nell’idrovora: l’uscita di scena di Berlusconi non estingue il berlusconismo e non impedisce – anzi, è probabile solleciti – una sua mutazione al frusto o al torpido. Ma Veltroni consiglia l’azzardo: è la volta che Berlusconi perde – sostiene – e la sua uscita di scena risolve tutto. La rete di convenienze materiali e l’edificio culturale che le rappresentano – puf, spariscono. Un sano maggioritario si avvia verso un compiuto sistema bipolare, i cattivi sono tutti morti, lieto fine, titoli di coda.
La trama rimane aperta, ci si può cavare un seguito: l’Italia è a pezzi (tutto il primo tempo e buona metà del secondo, per un totale di quattro quinti del documento, tutti in descrizione del paesaggio); poi, ecco, “riforme coraggiose e profonde”. Pare che il regista non tenga conto dei costi e non abbia la minima idea di come procurarsi i mezzi per realizzare questa pellicola. Sa solo cosa non vuole nel suo film: che il buono non vinca sul cattivo usando le sue stesse armi, perché le armi del cattivo sono cattive di conseguenza, e gli scoppiano in mano.
No al neo-frontismo, dunque, ma questo già s’era detto nel 2008, e Veltroni perse. Perse contro un centrodestra coalizzato in fronte. Ora, invece, c’è bisogno di “un partito grande del riformismo, un partito a vocazione maggioritaria, capace di competere per il primato nel Paese e di attrarre e organizzare attorno alla sua proposta le migliori energie intellettuali e morali, sociali e civili”, e modestamente il Pd lo nacque.
D’altra parte, “la vocazione maggioritaria del Pd non è, non è mai stata, culto dell’autosufficienza, ma lo sforzo di pensare se stesso, la propria identità e la propria politica, non già in termini di rappresentanza parziale di segmenti più o meno grandi della società, ma come proiezione della sua profonda aderenza alle articolazioni e alle autonomie civili, sociali e istituzionali proprie del pluralismo della storia italiana e della complessità della società contemporanea, in una visione più ampia dell’interesse generale e in una sintesi di governo, che sia in grado di dare adeguate risposte ai grandi problemi del presente e del futuro”.
Bello, eh? Non suona a meraviglia? Bene, è tratto dal Manifesto del Pd di Veltroni, quello del 2008. Non convinse, e Veltroni perse.

Che il Pd possa pigliare più voti di Pdl e Lega insieme: lo stesso azzardo, lo stesso uomo, e nel Pd c’è pure chi gli presta ascolto. Non è proprio questa la prova che il Pd da solo può solo perdere?