venerdì 27 gennaio 2017
giovedì 26 gennaio 2017
[...]
Potrebbe
trattarsi di Corrado Alvaro, col quale Leo Longanesi – sua la
pagina di diario qui sopra riportata, datata 1° aprile 1950 –
intratteneva cordiali rapporti già da una dozzina d’anni
(si erano conosciuti nel 1937, quando per Omnibus, di cui
Longanesi era direttore, Alvaro aveva scritto una serie di articoli
per il ventennale della Rivoluzione d’Ottobre).
Così folgorante, tuttavia, è l’affermazione
che siamo moderni una sola volta, e solo
per pochi anni, per poi scoprire che siamo i moderni di due, di
cinque, di dieci, di venti anni addietro, da rendere oziosa la
questione dell’attribuzione:
ci viene data la chiave di lettura del tragicomico che cogliamo
nell’anziana
signora sulle cui labbra vizze il rossetto fa cuoricino, com’era
di moda negli anni Trenta; nel kitsch dell’immaginario
sessuale di Silvio Berlusconi riusciamo a cogliere gli archetipi
celebrati da Le Ore;
nella decisione di aprire un blog
– aprirlo nel 2017, a vent’anni da quando aprirne uno era
fighissimamente trendy – scorgiamo in Matteo Renzi il quarantenne
già irrimediabilmente démodé.
martedì 24 gennaio 2017
«Serve un grande manifesto dell’ottimismo»
Viviamo
nel migliore dei mondi possibili, ma sordidi figuri, mossi da oscuro
e insanabile disagio esistenziale, ce ne guastano il pieno godimento
alternando molesta lagnanza a rabbioso
malcontento. Che fare? «Serve un grande manifesto
dell’ottimismo»,
propone Claudio Cerasa (Il Foglio, 24.1.2017),
rammentandoci che la vita è bella, e che la globalizzazione l’ha
resa tale anche a centinaia di milioni di individui che solo fino a
qualche anno fa morivano letteralmente di fame.
Come
dargli torto? Dove ieri regnava la più nera miseria, oggi ci sono
moltitudini che guadagnano trenta, quaranta, talvolta perfino cento
dollari al mese, per dieci, dodici, talvolta pure quattordici ore di
lavoro al giorno, che sarà pure sfruttamento, ma come negare che
costituisca un notevole miglioramento delle loro condizioni di vita? Niente
da fare, «mercanti delle paure,
signori dell’apocalisse,
prìncipi del disfattismo» si
ostinano a dire che tutto va a catafascio, rifiutandosi di «osservare
il mondo, e dunque la globalizzazione, nella sua meravigliosa
complessità».
Davvero
un peccato, questo richiamo di Claudio Cerasa a considerare la
complessità della globalizzazione, perché una generica esortazione
all’ottimismo
ci avrebbe consentito di non mettere da parte l’ironia
con la quale si è fin qui potuto evitare di dargli dello stronzetto.
E dunque andiamola a considerare, questa complessità.
Da
cosa nasce questo improvviso, ancorché assai relativo, benessere che
piove addosso a centinaia di milioni di individui che solo
fino a qualche anno fa morivano letteralmente di fame? Dalla logica
che impone al capitalismo di abbattere i costi della produzione per
massimizzare il profitto, cosa che può essere ottenuta solo in due
modi, peraltro non alternativi l’uno
all’altro:
sostituendo quanto più possibile al lavoro degli uomini quello delle
macchine e procacciandosi manodopera al più basso costo possibile. (In realtà, fra i costi
della produzione andrebbero considerati anche quelli relativi alla
materia prima, alla distribuzione del prodotto finito e alle tasse,
ma al momento teniamoli da parte.)
Dopo
poco più di mezzo millennio lungo il quale questa logica ha
trionfato, a che punto siamo? In altri termini, cosa possiamo
attenderci dal fatto che il costo del lavoro tenderà inevitabilmente
ad aumentare anche laddove ora è bassissimo, come d’altronde
è sempre accaduto nel corso della storia con la sola eccezione dei
casi in cui il lavoro era affidato a schiavi cui era negata ogni
rivendicazione? Per meglio dire: quale sarà la situazione quando non
sarà più possibile tenere alti i profitti avendo a disposizione
sempre nuova manodopera da pagare meno di quella già precedentemente
impiegata? E quanto tempo manca ancora perché questa situazione si
realizzi continuando a ritenere senza alternative un capitalismo senza regole e senza freni?
Anche
ammettendo che possa essere globalmente uniformato un regime di bassi
compensi, il che ovviamente potrebbe ottenersi solo mediante l’uso
della forza, verrebbe inevitabilmente meno la domanda dei beni
prodotti, e con ciò si arriverebbe a un crollo della produzione. Ma
anche ammettendo che il profitto possa mantenersi alto con la
riduzione delle tasse, c’è da chiedersi come tale espediente possa
risultare efficacemente stabile nel tempo dovendone comunque
rimettere la perdita a carico della collettività. In quanto a
cercare di ridurre il costo delle materie prime, è credibile possa
risultare possibile a fronte della loro progressiva riduzione o della
progressiva difficoltà a reperirle?
Pare evidente che, anche a
voler perpetuare il sistema entro il quale la logica capitalistica ha
fin qui potuto trovare brillanti soluzioni alle sue cicliche crisi,
si debba mettere in conto una sua crisi di sistema, che potrà
evitare il blocco delle forze produttive e il suo crollo solo grazie
ad un’accumulazione del capitale
su basi sempre più ristrette, il che comporterà un inevitabile
innalzamento delle tensioni sociali.
Certo, non deve darsi per
scontato che la logica del capitale porti a una sterminata
moltitudine di schiavi sulla quale imperi una sola potentissima
multinazionale che, dopo aver eliminato ogni concorrente, prenderà il
controllo totale sulla vita del pianeta, né che questa
rappresentazione un po’
fumettistica di un futuro che solo un ingenuo può pensare già
scritto preveda giocoforza una rivolta violenta che porti al caos o,
a piacere, a una dittatura del proletariato. E che diamine, Claudio
Cerasa ci invita a considerare la complessità della globalizzazione,
non possiamo cavarcela a questo modo.
E allora diciamo che quasi certamente non andrà così. Chi fin qui ha potuto trarre profitto da una globalizzazione senza regole potrà anche cedere alla tentazione di approntare soluzioni a breve termine, le solite, alternando concessioni a repressioni, ma poi si farà strada, e probabilmente siamo già a buon punto, la convinzione che un crollo del sistema può essere evitato solo cambiando tutto, perché tutto resti uguale. Occorreranno enormi risorse perché la transizione possa essere avvertita come tollerabile, o addirittura attraente, ma queste sono già disponibili, pronte ad essere spese per reclutare migliaia e migliaia di stronzetti che ci inviteranno a guardare il futuro con ottimismo.
martedì 17 gennaio 2017
L’ottimismo è di sinistra (e pure marxista)
Nell’edizione
online di Left
Wing,
martedì 17 gennaio, compare un articolo a firma di Francesco Cundari
che fin dal titolo, L’ottimismo
è di sinistra (e pure marxista),
solleva molte perplessità.
Ch’io
sappia, l’unica
volta che il termine «ottimismo»
fa
capolino in un testo «di
sinistra» è
per scoraggiare dal considerarlo una risorsa: si tratta del duro rimprovero che
Gramsci muove a chi pensa che la legge della caduta tendenziale del
saggio di profitto autorizzi a credere che il capitalismo sia
destinato a implodere di suo, senza bisogno di dargli neanche un
colpetto (Quaderno
XXVIII,
III), quasi che, con quel «tendenziale»
(Il
Capitale,
III, III),
Marx
intendesse dire: «Proletari
di tutti i paesi, mettetevi comodi, tanto prima o poi tutto il
sistema verrà giù da solo». Lettura che Gramsci dice sia da «oppiomani».
E dunque cosa porta Cundari a scrivere che l’ottimismo
è «pure
marxista»?
Il riferimento sarà per caso a quell’«ottimismo»
che,
nel chiudere la pagina, Gramsci dice possibile solo come espressione
di «volontà»
a
fronte del necessario «pessimismo»
imposto
dalla «ragione»?
Non siamo autorizzati a crederlo, d’altronde
Cundari non cita Gramsci, ma il Manifesto
del partito comunista,
che gli pare «intriso – appunto – di ottimismo».
Sarà pur vero, ma è ottimismo che non fa mistero di avere come
ultimo orizzonte «il
violento abbattimento della borghesia».
Viene il sospetto che Cundari si sia lasciato prendere un po’
troppo la mano nel tentativo, peraltro temerario, di accreditare a
Renzi qualcosa «di
sinistra».
Esplicito, infatti, è il riferimento a quell’ottimismo
che Renzi avrebbe più volte dimostrato nel dare del «gufo»
o
del «rosicone»
a
chiunque sollevasse dubbi sulla sua azione di governo: a chi per
ultimo gliel’ha
rimproverato
(la
Repubblica,
15.1.2017) Renzi ha risposto che «l’ottimismo
fa parte della politica»,
e questo, per Cundari, sarebbe prova che in Renzi, ancorché
modificato, c’è
del dna che è «di
sinistra (e pure marxista)».
«Un
leader di sinistra –
scrive – deve
trasmettere un messaggio di speranza, non di disperazione. Deve
infondere fiducia, non seminare sfiducia»:
direi ci sia abbastanza per definire «leader
di sinistra»
pure il Berlusconi che tentava di infonderci fiducia dicendoci che la
crisi era un’invenzione
dei suoi oppositori, perché i ristoranti erano sempre pieni e non si
riusciva a trovare un posto sugli aerei.
In realtà, ce ne sarebbe abbastanza
pure per consigliare a Cundari, persona che ci è simpatica (come direbbe Totò) «a prescindere»: Ciccio, lascia perdere, è impresa disperata.
lunedì 16 gennaio 2017
[...]
Eviterei di scomodare i massimi sistemi, limitandomi a far presente al titolare del Ministero dello sviluppo economico che il richiamo al principio di riservatezza per opporsi a che siano resi noti i nomi degli insolventi che hanno portato al crac il Monte dei Paschi di Siena, al quale si è posto rimedio con una ventina di miliardi presi dalle tasche dei contribuenti (a quei quattro sfessati del M5S, che ne chiedono diciassette per il reddito di cittadinanza, si è soliti rispondere che è una proposta campata in aria, perché è impossibile trovare la copertura), confligge un pochetto col principio della trasparenza nell’impiego delle risorse pubbliche: perché chi si addossa l’onere di colmare una voragine non avrebbe diritto di sapere chi l’ha scavata? A scavarla sarebbe stato chi ha concesso i prestiti, non chi li ha avuti e non li ha restituiti, così argomenta il signor ministro, e senza dubbio questo è vero, ma giacché è altrettanto vero che il denaro non veniva prestato a tutti (a quanti poveri cristi sarà stato negato un mutuo per la prima casa o per risistemare la bottega?) che male c’è a cercare di farsi un’idea su quale tipo di clientela riuscisse invece a farselo prestare, e come, e perché? Se la colpa è di chi concedeva il prestito, non ha alcuna importanza sapere perché lo ha concesso a Caio, e a Tizio no? Pare evidente che sia stato prestato denaro, e tanto, a chi non avesse modo di poter offrire congrue garanzie di solvibilità: perché non deve esser dato sapere di quali strumenti potesse essere in possesso per renderle superflue al momento della richiesta?
domenica 15 gennaio 2017
Medicina fai-da-te
Vi
eravate illusi che ce lo fossimo tolto per sempre dai coglioni? Non
prendetela come un’offesa, è una
diagnosi (e scusate la brutalità, ma per dirlo non c’è
altro modo):
non avete speranze, siete allo stadio terminale della fessaggine.
Condizione
altrettanto grave, ancorché con prognosi meno severa, se vi eravate
illusi che ce lo fossimo tolto dai coglioni almeno per qualche tempo:
siete seriamente fessi, ma ricovero d’urgenza,
adeguata terapia e un pizzico di fortuna vi danno ancora il lumicino
di qualche speranza, salvo complicazioni. Qui, però, occorre far opportuna distinzione per gradi. Pensavate saltasse il prossimo congresso del partito o addirittura le prossime elezioni politiche? La terapia d’attacco sarà giocoforza assai pesante, quella di mantenimento estremamente lunga. Contavate non si rifacesse vivo almeno fino al primo dei due appuntamenti? Trattamento meno duro, ma comunque impegnativo. Avevate scommesso su marzo o aprile, con un rientro tipo «cervo a primavera»? Dopo alcuni mesi di degenza, potreste sperare di avere il consenso alle cure domiciliari.
Se
invece pensavate che la mazzata del 4 dicembre gli fosse almeno
servita da lezione, la cosa è assai meno grave, ma sia chiaro che
sempre fessi siete, sicché sarebbe da sconsiderati rifiutare le
dovute cure e il lungo ma indispensabile trattamento riabilitativo consistente in ripetuti cicli di «star sotto» al gioco dello «schiaffo del soldato».
Ultimo
quadro clinico: sapevate esattamente, eventualmente
già nel
mentre glielo sentivate dire la prima volta, quanto valesse quel «se
perdo il referendum, non è soltanto che vado a casa, ma smetto di
far politica» (12.1.2016); dai coglioni non ha mai smesso di salirvi
il presentimento che non avreste dovuto aspettare troppo per
rivedercelo sopra, e questo eventualmente già
nel mentre lo sentivate dire che, «quando
uno perde, non fa finta di nulla, andandosene a letto e sperando che
passi velocemente la nottata» (4.12.2016); all’annuncio
che si stesse
preparando a farlo già per metà gennaio,
poi, non vi siete illusi che quel «cambieremo
strategia» (24.12.2016) potesse significare più di tanto; tuttavia
avete pensato – e qui sta la fessaggine, seppur in forma assai
attenuata rispetto a quella dei tre quadri clinici sopra descritti –
che sulla scena si sarebbe visto un Matteo Renzi almeno un po’
diverso da
quello già tristemente noto: stessa faccia di cazzo, naturalmente, e
stesso narcisismo, stessa irresistibile compulsione a mentire e a
manipolare, ma almeno sotto un velo di finta bonomia, di falsa
modestia, di ipocrita umiltà.
Bene, con l’intervista
concessa a Ezio Mauro (la Repubblica, 15.1.2017), che mostra un Matteo
Renzi in tutto simile – ma proprio in tutto – a quello che era
strasicuro di vincere il referendum del 4 dicembre, a ogni fesso è offerto un prezioso strumento
di autodiagnosi con l’opportunità di dare alla propria fessaggine il corretto inquadramento clinico. Uno dei pochi casi in cui la medicina fai-da-te è caldamente consigliata.
venerdì 13 gennaio 2017
mercoledì 11 gennaio 2017
Corrispondenze
Caro
Luigi, ti scrivo privatamente per un semplice motivo di comodità
nella gestione del testo; come ogni nostra precedente corrispondenza,
non ho alcuna obiezione a che tu ne faccia l'uso pubblico che tu
possa eventualmente preferire.
Lo
faccio perché due dei tuoi ultimi post (Verità e post-verità,
del 2 gennaio e Prevedibile qualche problemino, del 9) mi pare
sollevino questioni che, ancorché assai significative di per sé,
sarebbero ben poco cogenti all'occasione che le ha generate. Trovo
infatti che il tema delle bufale, o fattoidi, sia del tutto altro
rispetto alle solenni tematiche aletologiche da te evocate: non ne
va, infatti, dello statuto della verità e della sua conoscibilità,
con tutte le inevitabili implicazioni ontologiche; problema che, lo
dico en passant, si pone inevitabilmente per ogni verità a priori,
anche se ovviamente in termini diversi, sia essa conosciuta per fede
o per deduzione.
Per
meglio dire, è chiaro che le verità di fede implicano di necessità
la verità di un quadro onto-teo-logico ben definito, con tutti gli
inevitabili trattini, ma sappiamo anche che la verità puramente
logica della corretta deduzione di un assioma non è affatto priva di
ambiguità epistemologiche, gnoseologiche e, ancora una volta,
ontologiche (qual è lo statuto esistenziale di una proposizione
analitica? in che modo la sua irriducibilità a qualsiasi esperienza
può comunque trovare accesso alla sfera empirica, tanto da essere
compresa e persino evidente?). Ma tutto ciò mi pare, semplicemente,
fuor di luogo, proprio perché stiamo parlando di una specie forse
minore di verità, senz'altro di una specie che attiene
specificamente ed esclusivamente ai dati di fatto, e che è
accessibile attraverso metodi ben sperimentati di verifica e
falsificazione. Proprio per questo, si tratta di una tipologia di
proposizioni perfettamente coincidente con la serie completa del suo
repertorio fattuale, dunque perfettamente identificabile attraverso
semplici esempi, come questo
o
quest'altro.
Insomma, le bufale sono semplicemente informazioni dimostrabilmente
false (entro i semplici limiti delle verità di fatto e secondo i
metodi consuetamente accettati come buone pratiche elementari
dell'informazione affidabile e corretta), che vengono messe in
circolazione attraverso i media, siano essi quelli tradizionali di
tipo "verticale" o le (relativamente) nuove reti sociali di
tipo "orizzontale". L'esempio classico mi pare quello dei
Protocolli
dei Savi di Sion,
la cui falsità era stata ampiamente dimostrata fin dal 1921, ma che
hanno continuato a esser presi e spacciati per veri, e continuano
ancora oggi.
Anche
la nozione di post-verità mi pare abbastanza pacifica, almeno per
quanto riguarda il suo significato proprio: si tratta dell'uso
continuativo di bufale per costruire una rappresentazione
approssimativamente coerente della realtà, a cui fare riferimento
per ottenere consensi e per trasferire al suo interno il dibattito
politico, con il risultato di dichiarare irriducibilmente nemico, se
non manipolatore a sua volta della verità, chi rifiuta questa
rappresentazione. Anche in questo caso, mi pare che l'esempio dei
Protocolli sia sufficientemente cogente.
Tutto
questo per dire che la questione non riguarda la semantica ma la
pragmatica, non lo statuto della verità ma le modalità con cui le
informazioni entrano nel circuito del discorso pubblico e orientano
la formazione della volontà politica. Trovo che questo sia anche il
terreno su cui affrontare la questione, eminentemente politica
anch'essa, dell'opportunità o meno di un'autorità che verifichi la
validità delle informazioni; soprattutto, trovo che sia su questo
terreno che vada cercata la risposta alla prima domanda che sollevi
in Prevedibile qualche problemino (perché questa necessità
non è avvertita anche per quelle che sono sempre circolate e tuttora
circolano in tv e sulla stampa, né mai è stata avvertita in
passato, quando il web non esisteva [...] ? [...] perché questa
necessità è avvertita solo adesso che il web è diventato un canale
informativo alternativo a tv e stampa?): lo statuto specifico delle
bufale sul web andrebbe infatti cercato, a mio parere, nella loro
specifica efficacia nella formazione di quel costrutto che abbiamo
appena definito post-verità. In altre parole: sappiamo bene cosa
potrebbe succedere al lasciar libero corso ai Protocolli sulla
stampa, e ci siamo dotati di strumenti legislativi abbastanza
efficaci per contrastare una simile eventualità, ma le
caratteristiche della loro circolazione sul web richiedono forse che
le eventuali misure di contrasto, per essere efficaci, debbano subire
quanto meno una ricalibratura.
Intendiamoci,
anch'io sono contrario a che se ne occupi una qualche autorità
costituita e, si
parva licet,
ho provato a fornirne qualche ragione qui,
ma ciò non credo possa togliere nulla alla centralità della
questione delle informazioni, della loro qualità, dei loro canali di
diffusione e delle loro modalità di fruizione, all'interno del
discorso pubblico. Ritengo comunque che non si faccia un gran
servizio. Ritengo, insomma, che si tratti di fact-checking e non di
aletologia, e che non si faccia gran servizio a confondere
deontologia e ontologia. Ma su questo sono convinto che saprai
illuminarmi meglio.
Con
immutata stima,
Nane
Cantatore
Caro Nane, quando la discussione prende a oggetto un termine ambiguo, io non vedo miglior modo di evitare fraintendimenti che accordarsi sul significato che gli si intende dare. Ti dirò di più: coltivo l'illusione che basti trovare questo accordo, procedendo con l'analizzare la natura del nesso tra significante e significato, e questo è sempre possibile, per poter almeno chiarire a dovere le proprie posizioni, che non è affatto sufficiente a ricomporle, rivelandone la solidità argomentativa, per quanta ve n'è. Non m'è parso di consumarmi in solenni tematiche aletologiche: direi che col primo dei post citati mi sono intrattenuto a riflettere sul termine post-verità che, avendo necessariamente qualche relazione con quello di verità, credo meritasse un minimo di attenzione sul piano semantico; nel secondo, invece, ho riflettuto sul soggetto che da più parti viene evocato come superiore autorità cui affidare il compito di stabilire ciò che è vero e ciò che è falso. Ora, tu mi fai notare che il problema non è semantico, ma tutto politico, e che il falso in questione è dimostrabilmente tale entro i semplici limiti delle verità di fatto, mentre non mi è del tutto chiaro, e forse non lo è neppure a te, se sia davvero possibile una superiore autorità in grado di bonificare il web dalle bufale. Il problema è che io ritengo estremamente importante definire questi limiti, che non mi paiono poi così ben definiti, sicché l'esempio dei Protocolli dei Savi di Sion può tornar buono tutt'al più a dimostrare che questi limiti vadano definiti, non già che essi già lo siano. L'esistenza di Babbo Natale, per esempio, casca di qua o di là da questi limiti? Più in generale, direi sia meglio dare libertà di pascolo alle bufale, e libertà di caccia. Poi, sì, diamo al diritto penale la sua parte, caso per caso.
* * *
Caro
Luigi, evidentemente ho attribuito a te lo stesso mio vizio di
buttarla in filosofia, dal quale sono tanto affetto che se qualcuno
mi dice, bontà sua, di volermi bene, mi chiedo subito se sia bene
morale o metafisico, e in tal caso se da intendersi come perfezione
della sostanza o pienezza degli attributi, e se questa perfezione
vada intesa come vicinanza al bene supremo o non piuttosto come
entelechia dell'ente rispetto a quanto esso ha di più proprio.
Ma,
visto che stiamo ragionando su termini che si comprendano in modo
adeguato e condiviso, propongo questa definizione di bufala, che mi
pare stia del tutto all'interno delle verità di fatto e della loro
verificabilità empirica: "bufala è la notizia (scil.
informazione circa un nuovo stato di fatto o un cambiamento
significativo di uno stato di fatto preesistente) dimostrabilmente
(con strumenti e fonti ordinariamente accessibili) falsa, spacciata
per vera attraverso canali di comunicazione fruibili da un pubblico
eccedente la sfera dei contatti diretti del suo emittente".
L'ultima puntualizzazione distingue la bufala dal pettegolezzo o
dalla bugia, mentre quella sulla dimostrabilità con mezzi ordinari
serve a circoscriverne la specie, separando i fatti dalle opinioni
(se dico che la scoperta di una nuova specie di toporagno è una
prova dell'onnipotenza divina dico una cazzata, ma non una bufala) e
rendendo possibile l'attribuzione di responsabilità (se la bufala è
falsificabile con mezzi ordinari, si può presumere il dolo da parte
del suo autore).
Da
questo punto di vista, l'esempio dei Protocolli è calzante, anche se
sono d'accordo con te che si tratta di un caso-limite: si dimostra
falso che vi sia stata una riunione dei Savi di Sion dal momento che
si è dimostrata falsa la documentazione allegata, mentre che vi sia
qualcuno che complotta, con maggiore o minor successo, resta
un'opinione; a questa opinione, confutando la bufala, si toglie forza
persuasiva, gettando discredito su chi, per sostenerla, è disposto a
fabbricare prove false. Mi sembra che così si possa ottenere un buon
esempio di quella che si intende come post-verità (temine orribile e
fuorviante, concordo): l'uso sistematico di bufale per accreditare
tesi prive di fondamento in stati di fatto effettivamente
documentabili.
Ora,
posto che una definizione, che penso ci troverebbe concordi, di
democrazia sia quella di "metodo di governo orientato dai
convincimenti, liberamente formati, della maggior parte dei
cittadini". e che per la libera formazione di questi
convincimenti la qualità delle informazioni sia una risorsa
essenziale, credo ci si possa porre queste domande:
a. Le
bufale rappresentano, in quanto tali, una possibile interferenza in
questa libera formazione?
b.
Esiste oggi una diffusione particolarmente significativa delle
bufale, anche per effetto delle particolarità delle reti sociali,
che ne favoriscono la diffusione e ne rendono particolarmente
difficile la confutazione?
c.
Esistono dei soggetti politici che traggono particolare vantaggio
dalla circolazione delle bufale?
d.
Esiste un interesse generale della collettività a limitare la
circolazione delle bufale, e più in generale a far sì che la
formazione dei convincimenti sia effettivamente libera?
e.
Quali sono le forme di contrasto delle bufale che la collettività ha
interesse a promuovere, anche tenendo conto dei costi per la libertà
e della democrazia di eventuali forme di censura o di limitazione
della circolazione di informazioni?
Penso
che alle domande da a) a d) si possa rispondere affermativamente
senza troppa difficoltà, anche se tutte meritano approfondimento e
riflessione, per capire lo stato reale della società e delle sue
dinamiche. Come spesso accade, i problemi sorgono quando si arriva
come: sono dell'opinione, per una molteplicità di ragioni che vorrei
esporre pianamente in un'altra occasione, che il progetto di una
sorta di ufficio pubblico per il fact-checking sia sostanzialmente
un'idiozia, ma credo anche che la caccia libera da te proposta, e da
molti praticata, non sia sufficiente, per quanto lodevole. Insomma,
il problema della democrazia è che gli ignoranti contribuiscono alla
decisione, e che proprio loro siano, per una varietà di ragioni che
sarebbe opportuno indagare, quelli più facilmente suggestionabili
dalle bufale, e paradossalmente i meno permeabili alla loro
confutazione. Ora, se è vero che l'imposizione dell'acculturazione
ai bestioni è spesso stata foriera di disgrazie, credo sia
altrettanto vero che subire il dominio di bestioni manipolati dalle
bufale sia una condizione altrettanto disgraziata.
Ecco,
mi piacerebbe aprire un dibattito serio su questi temi, che mi
sembrano definiti con una certa chiarezza. Che ne pensi?
A
presto,
Nane
Cantatore
Caro
Nane, il mio vizio è un altro: io la butto sempre in glottologia,
filologia, linguistica, retorica e psicologia. Direi che mi interessa
la parola, con tutto ciò che le sta sotto e dietro, ma anche sopra e
davanti, e naturalmente a lato. Se mi prometti di non ridermi in
faccia, ti confesso che già da qualche tempo la mia lettura
preferita è quella dei dizionari, soprattutto quelli etimologici,
quelli analogici, quelli dei sinonimi e dei contrari. Diciamo che,
dopo aver speso tanto tempo sulla proposizione e sulla logica che la
regge, sono passato ai moventi che stanno dietro la scelta dei
termini che vanno a comporla. Così – faccio un esempio – leggo
"evidentemente ho attribuito a te lo stesso mio vizio di
buttarla in filosofia", e mi si pone la questione:
"evidentemente" sta per "innegabilmente" o per "a
quanto pare"? Ed è "evidenza" che si disvela per
trasparenza, per luminosità o per limpidezza? Non c'è bisogno che
mi soffermi troppo sulle differenze perché, invece di "ti ho
ascritto" o "ti ho addossato", hai scelto "ti ho
attribuito", e "attribuire" viene da "ad-tribuere",
che rimanda a "tribus": tra appartenenti alla stessa tribù
non c'è bisogno di troppe spiegazioni, ci si intende pure con un
cenno. Scherzo, naturalmente, facevo autoironia sul vizio. Ma veniamo
a noi. Non ho obiezioni da sollevare alla definizione che dai di
"bufala", e nemmeno al fatto che, mettendo "post-verità"
da parte, si eviti la discussione sul perché si sia voluto coniare
proprio un neologismo del genere per qualcosa che è "solo"
una "bufala". In realtà, a me premeva proprio questo
problema, perché ammetterai che tra "fatto" e "verità"
ce ne corre. Ma fa niente, saltiamo la "semantica" e
cadiamo a pie' pari nella "politica". Rispondo sì alle
domande al capo a., b., c. e d., ma su quella al capo e. rispondo no,
e per una semplicissima ragione: una democrazia pedagogica –
permettimi di condensare in questa espressione l'esigenza di censura
che tu senti al fine di evitare "il dominio di bestioni
manipolati dalle bufale" – è stretta parente della demagogia,
come è evidente col togliere a
"democrazia pedagogica", come quando si semplificano le
equazioni, "peda-" e "-crazia".
La "verità"
– ma anche soltanto ciò che può spremersi dal più scientifico
fact-checking – non si può imporre: deve vincere per consenso. Ti
abbraccio.
* * *
Mi
pare di non "messo da parte" la nozione di post-verità, ma
di averla corsivamente definita come "l'uso sistematico di
bufale per accreditare tesi prive di fondamento in stati di fatto
effettivamente documentabili": pur non amando più di te il
termine, credo che il concetto vada salvato, in quanto puntualizza
quel carattere sistematico che tende, come si è visto qualche volta
nella storia, a farsi totalitario.
Non
voglio ricadere nell'ennesima reductio ad Hitlerum, ma
l'esempio delle innumeri bufale sistematicamente fattesi propaganda
per creare consenso all'ascesa al potere di chi ne faceva uso, e per
legittimarne le pratiche una volta realizzata quest'ascesa, questo
esempio insomma indica ciò che segna il salto di qualità dai
Protocolli a Goebbels; salto di qualità che si realizza in un
continuum coerente, anche se non è certo necessario che si produca.
Eccoci
così al punto saliente: l'esercizio impunito e continuativo delle
bufale avvelena l'aria e intorbida le già poco chiare acque della
società democratica, se non altro perché fornisce un vantaggio
sleale a chi ne fa uso, e perché orienta la formazione della volontà
popolare su questioni false o per lo meno impropriamente formate, con
il risultato di sottrarre alla sfera pubblica ciò che maggiormente
le dovrebbe appartenere, e cioè la deliberazione sulle questioni di
maggior momento per la collettività.
Lo
ribadisco: l'authority anti-bufale sarebbe, nel migliore dei casi,
inutile, e conterrebbe comunque un germe autoritario e censorio
altrettanto esiziale del male a cui dovrebbe porre rimedio. Senza
contare che uno strumento di questo genere avrebbe un altro vizio di
fondo: come espressione di un'autorità centralizzata e investita di
un qualche potere, non avrebbe nessuna credibilità di fronte a
notizie che traggono la loro forza proprio dall'essere condivise tra
conoscenti (in modo "orizzontale", come si ama dire tra i
saputelli del web) ed estranee alle fonti informative ufficiali e
consolidate.
La mia
domanda, insomma, è sul "come": esclusa, per i motivi
appena detti e per molti altri ancora, la famosa autorità, mi pare
che il volenteroso e meritorio esercizio di debunking svolto da
numerosi siti specializzati e da tanti di noi non sia, nonostante
tutto, all'altezza del compito. Dici di osteggiare l'idea di una
"democrazia pedagogica", e ci mancherebbe altro; anche se
il sistema scolastico, più o meno ogni istituzione culturale e, in
fondo, le stesse leggi hanno comunque una centrale funzione
pedagogica, se è vero, come penso, che siano le buone leggi a fare
buoni i cittadini, e non viceversa.
Per
meglio dire, penso che sia valido nella sostanza il celebre detto
kantiano sull'Illuminismo come uscita dell'uomo da uno stato di
minorità in cui è caduto per sua colpa, e che il riscatto da questa
colpa sia faccenda non semplice, non comoda, non definitiva e forse
non sempre priva di forzature e imposizioni. Con questo non voglio
ovviamente sostenere che debbano essere le istituzioni a orientare il
pensiero dei cittadini, ma che il dibattito pubblico, se non vuole
trasformarsi in mero agone di contrapposte propagande e fanfaluche,
debba comunque svolgersi secondo alcune regole argomentative. Come
farlo, ripeto, è la questione.
Insomma,
il bestione di scarso intelletto e robusta fantasia, capace di
credere alle favole che egli stesso inventa, questo bestione vichiano
è la minaccia sempre incombente di un regresso nello stato di
minorità, e la colpa di questo regresso sta tutta nel suo voler
esser bestia, nel sostituire la fede, l'illusione, la credenza e la
mentalità gregaria alla libera e faticosa disamina delle
informazioni e dei dati: come fare, quando gli istinti del bestione
vengono assecondati con estrema efficacia?
Azzardo
una possibile risposta: stabilire che chiunque pubblichi qualcosa su
qualsiasi piattaforma, tradizionale o digitale, se ne assume la
responsabilità. Ogni opinione sia lecita, ma le false notizie siano
punite, secondo quando vale oggi per le fattispecie di diffamazione e
di calunnia a mezzo stampa, e sia riconoscibile, sempre e comunque,
chi le pubblica. Naturalmente, non sia ammessa alcuna forma di
ignoranza o presunzione di buona fede: chi pubblica esercita un
proprio diritto, e se ne assume ogni responsabilità. Corollario di
questo dispositivo, che di fatto renderebbe ognuno giornalista, è
che cesserebbe ogni obbligo di iscrizione all'ordine per autorizzare
la pubblicazione, con il risultato ulteriore di dare un utile
calcetto a una inutile corporazione. Forse potrebbe essere un buon
punto di partenza.
Un
abbraccio,
Nane
Non
sono disposto a "salvare" il termine post-verità: anche
quando la creazione e diffusione di "bufale" sono
funzionali a un piano "totalitario", come nell'esempio che
riprendi, credo sia pericoloso tirare in ballo un termine che, pur
implicandone la negazione, anzi il superamento, chiami in gioco la
verità, che puzza di assoluto. È tentazione forte, te lo concedo,
ma implica lo stesso pericolo che scorgo nel definire il nazismo
"Male assoluto" (dove peraltro non si capisce che senso
abbia la maiuscola, stante quell'aggettivo), quello di trattare cosa
tutta immanente come incarnazione di un trascendente, rendendola
pervertitamente fascinosa. Il nazisti erano criminali, e i loro
crimini era estremamente gravi – stop. Convengo, invece, con ciò
che qui ribadisci riguardo ai pericoli d'inquinamento che le "bufale"
comportano nella formazione dell'opinione pubblica, con quanto ne
consegue per la democrazia, d'altronde avevo già risposto sì alle
prime quattro delle cinque domande che ponevi nel tuo precedente
intervento, e riaccolgo con piacere il tuo convenire sul fatto che
"l'authority anti-bufale sarebbe, nel migliore dei casi,
inutile, e conterrebbe comunque un germe autoritario e censorio
altrettanto esiziale del male a cui dovrebbe porre rimedio". In
quanto al da farsi, penso che gli strumenti non manchino, e non mi
riferisco solo al "volenteroso e meritorio esercizio di
debunking svolto da numerosi siti specializzati e da tanti di noi".
Penso, ad esempio, all'art. 656 del nostro codice penale, che recita:
"Chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o
tendenziose, per le quali possa essere turbato l'ordine pubblico, è
punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con l'arresto
fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 309". Oltre che
inasprendo le pene, potrebbe essere potenziato col contemplare, come
bene pubblico da preservare, non solo l'ordine, ma anche la corretta
formazione dell'opinione: a giudicare sarebbe la magistratura, ma con
un'autorità che non le sarebbe attribuita dal potere esecutivo. Come
compromesso ti va bene? Per quanto attiene al web – e qui ribadisco
un'opinione più volte espressa su queste pagine – è venuto il
momento di bilanciare la libertà con la responsabilità:
inammissibile l'anonimato.
* * *
Continuo
il carteggio, soltanto per dirimere l'ultimo equivoco, oltre che per
il piacere che mi deriva dal nostro scambio di plaisanteries. Come
notato con efficace sintesi dal commento di un anonimo, per me esiste
una differenza sostanziale tra la singola bufala e la produzione
sistematica di innumeri bufale: è per indicare questa seconda
fattispecie che mi pare si faccia ricorso al lemma di post-verità,
sulla cui inadeguatezza, ambiguità e generale improprietà concordo.
Propongo di utilizzare, in sua vece, quello di bufalificio, che ha
una bella assonanza con veneficio, o, se preferisci, di associazione
bufalistica, che ha se non altro il merito di riprendere la
differenza tra l'estorsione perpetrato da un balordo ai danni di un
negoziante e l'organizzazione di un racket; ovvio che si tratta di
scelte lessicali provvisorie, in attesa di soluzioni migliori, ma già
preferibili a quella attuale.
Una
sola cosa vorrei aggiungere, a difesa delle intenzioni che mi paiono
sottostare al concetto di post-verità: nella sua assonanza a quello
di post-moderno (e sono d'accordo che non basta un'assonanza a fare
un buon etimo), indicano una parentela di fondo nell'idea, questa sì
puramente postmoderna, di narrazione (recit) come costituzione
della realtà, in opposizione ai grandi costrutti razionali,
scientifici e sistematici, della modernità: se ognuno abita nella
propria narrazione, se manca persino un criterio decisionale comune
da trovarsi nella corretta prassi logica e argomentativa, allora non
si dà più nemmeno una realtà comune (intesa come collezione di
fatti significativi e consolidati), ma ciascuno diventa impermeabile
a tutto ciò che non fa sistema con la propria narrazione di
riferimento. Il risultato è che la sistematicità universale della
modernità viene sostituita, non da una libera invenzione
confrontabile con altre o da una libera determinazione dei propri
bisogni che possono e devono convivere con quelli altrui, ma da una
serie di sistematicità minori, chiuse e di carattere tribale.
Detto
questo, si apre la questione di come agire non nei confronti della
singola bufala, rispetto a cui la soluzione per via ordinaria che ci
vede concordi sarebbe già efficace, ma riguardo la loro elevazione a
propaganda sistematica. Qui, sia ben chiaro, non invoco autorità
censorie, leggi speciali o altre mostruosità, ma mi limito a
sottolineare la cogenza politica della questione, nell'attualità in
cui abbiamo la fortuna di trovarci. Credo che, invece, sia opportuno
affrontare la dimensione politica di un fenomeno che è politico, se
non altro per portata sistemica: un po' come le mafie, che non
possono essere affrontate efficacemente se le si combatte sul solo
terreno del contrasto alla criminalità, ma vanno comprese e
affrontate nella loro dimensione sociale e politica.
PS:
d'accordo pienamente con quanto dici del nazismo. Del resto, se fosse
un male assoluto e non semplicemente un caso limite, storicamente
accaduto, di un'evenienza sempre possibile anche nella nostra
società, riferirsi ad esso non avrebbe nemmeno alcun valore
argomentativo.
Nane
Se
vogliamo rinunciare all'uso di un termine come post-verità per il
pericolo che comporta il suo richiamo a una verità assoluta (lieto
di trovarti d'accordo su questa rinuncia), ma allo stesso tempo
sentiamo bisogno di un termine che esprima la sistematicità
dell'adulterazione dei fatti in fattoidi, credo che un termine come
bufala sia debole in ogni suo possibile derivato. È che noi abbiamo
un termine che esprime la natura moralmente sensibile della menzogna
in ambito pubblico, e questo termine è fandonia, che peraltro si fa carico di
esprimere a dovere due tratti essenziali della confezione di questo particolare genere di frottole: il fatto che si tratti di invenzioni (da invenio: trovate) e che il loro
contenuto sia dimostrabile come infondato mediante l'uso dei più comuni strumenti di verifica. Potremmo parlare di
fandonificio, per esempio. In quanto alle attinenze evocative della
post-modernità che sono manifeste in un termine come post-verità,
rendendo quest'ultimo appropriato a sussumere aspetti del primo, ti
rammento che perfino l'ultimo Lyotard ebbe a sollevare dubbi sulla
congruità semantica del neologismo da lui coniato. Per finire, sulla
dimensione politica del problema che dovrebbe trovare un
corrispettivo nella soluzione: trovo pertinente il parallelismo con
le attività criminali mafiose – parallelismo che tuttavia regge
solo fino a un certo punto – e appunto perciò, parafrasando
Sciascia, dico: evitiamo di creare professionisti della verità. Anch'io vorrei lasciare un post-scriptum: non ho ritenuto appropriato tradurre Fälschungsmöglichkeit con falsificabilità, perché genera un sacco di guai quando lasciata nelle mani di chi non ha letto Popper. A me piacerebbe renderla con un altro termine: inficiabilità.
lunedì 9 gennaio 2017
Prevedibile qualche problemino
Chi
ventila la necessità di un’authority con potere di censura sulle
cosiddette bufale che circolano nel web è significativamente evasivo
su alcune questioni.
La
prima: perché questa necessità non è avvertita anche per quelle
che sono sempre circolate e tuttora circolano in tv e sulla stampa,
né mai è stata avvertita in passato, quando il web non esisteva,
lasciando che a segnalarle fossero solo singoli individui che, oltre
ovviamente a non avere alcun potere di censura su di esse, neppure
potevano aspirare a un minimo di visibilità per le loro
segnalazioni? Domanda che possiamo formulare anche in altri termini,
che forse le daranno un risvolto polemico: perché questa necessità
è avvertita solo adesso che il web è diventato un canale
informativo alternativo a tv e stampa?
Seconda
questione: perché la proposta di una censura delle cosiddette bufale
che circolano nel web non è mai accompagnata da una pur vaga
esposizione del metodo che dovrebbe guidare l’attività di vaglio?
Anche qui possiamo formulare la domanda in altri termini: quali
sarebbero i parametri che si metterebbe conto di utilizzare per
distinguere il vero dal falso? E sarebbero parametri in grado di
assicurare una distinzione tra i fatti e le opinioni, per censurare
la diffusione dei primi, se falsi, e consentire invece la libera
circolazione delle seconde, che dovrebbero godere sempre del diritto
di essere espresse, ancorché si possa più o meno agevolmente
dimostrarne la fallacia?
Terza
questione: quale che sia l’ambito d’intervento di questa
authority, a chi ne spetterebbe la nomina? Sulla base di quale
legittimità etica o giuridica? E sulla base di quali meriti se ne
entrerebbe a far parte? Quale controllo sulla sua attività sarebbe
assicurato a garanzia che il buon fine sia raggiunto senza lesioni
del diritto di libera espressione? E da chi sarebbe assicurato?
Quando
dico che la costante elusione di queste questioni è significativa,
non alludo solo a quell’intento che in proposte del genere è
sempre – più o meno coscientemente – repressivo della libera
espressione degli individui, ma anche a quel limite che è
insuperabile di ogni attività censoria, e che è dato dall’avere
giocoforza un’ideologia cui fare riferimento, dove il termine
ideologia è qui da intendere in modo quanto mai estensivo, e cioè
come costrutto che assume forma di sistema entro il quale opera un
sovrano giudizio di natura etica e/o estetica.
Quel
che intendo dire è che in ogni attività censoria è necessariamente
operante l’obbedienza a certe leggi, le quali a loro volta
obbediscono a una certa logica. Ora, nel caso di una censura che
intenda colpire il falso, è indispensabile che questa logica assegni
alla verità i caratteri che gli sono propri sul piano ontologico, e
questi sono la necessità, l’immutabilità
e l’universalità,
perché quel che è vero non può che essere necessariamente
riconosciuto tale dalla ragione rettamente informata, e non può che
essere immutabilmente tale, dunque vero sempre e ovunque,
inemendabilmente tale.
Un
pochino tautologico, forse, ma il filosofo non avrà nulla da ridire.
Una vera goduria, poi, per il teologo. Per lo scienziato, invece, non
potrà andar bene: nessun controllo di affidabilità è possibile su
quanto si sottrae alla popperiana Fälschungsmöglichkeit,
e una verità necessaria, immutabile e universale è da ritenersi
tutta metafisica, altamente inadeguata a rappresentare
l’attendibilità
di un modello scientifico.
Ma
non potrà andar bene nemmeno per lo storico, il sociologo,
l’economista,
lo psicologo, ecc.: quali oggetti della loro indagine possono dirsi
necessari, immutabili e universali? Ogni affermazione nei rispettivi
ambiti potrebbe avere il vizio di non rispettare le qualità che
contraddistinguono una
siffatta idea
del vero, e la censura di una di esse, e di un’altra
no, assumerebbe inevitabilmente il carattere dell’arbitrarietà,
costituendosi di fatto come indirizzo di ricerca. Ne conseguirebbe
che la conoscenza non sarebbe alla fine del processo di indagine, ma
verrebbe in pratica preconfigurata dai fattori che la indirizzano.
Nessuno vuole questo, giusto?
E
allora? Paradossale: armata di una siffatta idea del vero, una
censura che miri a colpire il falso potrebbe esclusivamente agire su
ciò che non è empiricamente dimostrabile in modo stringente. E ve
ne sarebbe abbastanza per censurare le scie chimiche, su questo non
ci piove, ma anche tutto ciò che attiene a Dio. In questo sta il
paradosso: perché possa assumere legittimità di censura su ciò che
riterrà falso, un’authority
deve necessariamente far propria un’idea
di verità che è trascendente, quindi inevitabilmente pervasiva,
intrusiva, sostanzialmente intollerabile per una società
secolarizzata, e perciò sarà costretta a ridimensionare
drasticamente le sue pretese, per ridurle a quelle di un accertamento
di cosa sia vero, e cosa falso, sulla base di criteri che negano in
radice ogni verità trascendente, col rischio di dover censurare, con
l’affermazione
che «il
mondo è in mano ai rettiliani», anche quella che «ci ha creato
Dio». Prevedibile qualche problemino.
domenica 8 gennaio 2017
Dov’è finito il principio d’autorità
«L’Italia
ha bisogno di una cosa soprattutto:
che cambi il clima culturale del
Paese,
il suo modo di pensare. Che sgombrino il campo
i pregiudizi e
le idee ricevute che per almeno trent’anni
hanno fin qui governato
la nostra società.
Per fare posto a un’esigenza ormai
improcrastinabile
di verità e di realismo. Tra le molte cose
che una
tale esigenza impone di riscoprire
metterei ai primissimi posti
l’idea di autorità:
il bisogno di riscoprire il suo senso,
di
legittimarne nuovamente la pratica»
Ernesto
Galli della Loggia,
(Dov’è finito il principio d’autorità -
Corriere della Sera, 7.1.2017)
Non
c’è
niente
di meglio, quando si vuol discutere con profitto, che mettersi
preliminarmente d’accordo
sul significato da dare al termine che designa l’oggetto
della discussione. Quale significato vogliamo dare, per esempio, a un
termine come «autorità»? Per meglio dire: quale significato siamo
autorizzati a dargli in mancanza di una definizione concordata con
chi apre la discussione dalla prima pagina di un giornale?
Ops, mi è
scappato un «autorizzati» che rischia di cortocircuitare la
discussione fin dall’inizio:
la domanda, infatti, è relativa all’«autorizzazione»
(che è concessione di una facoltà da parte di un’«autorità»)
a dare un significato a un termine come «autorità». Chi (o cosa)
ci conferisce questa facoltà? Per meglio dire: quale autorità ci
consente di dare ad «autorità» il significato che possiamo
ragionevolmente ritenere sia lo stesso che gli ha dato chi ha aperto
la discussione? Direi sia quella che detta legge sulla relazione tra
significante e significato.
Se è così, la facoltà concessaci è
assai ristretta: ad «autorità» possiamo dare solo il significato
che dall’etimo
discende alle sue possibili accezioni, che in questo caso per fortuna
sono poche. Prim’ancora,
però, di dare una rinfrescatina alle nostre reminiscenze, che da
«auctoritas» ci porteranno ad «augere», e di qui alla valenza che
questo «accrescere» assume in termini come «augustus», «auxilium»
e «augurium», che hanno tutti e tre stretta attinenza alla sfera
religiosa, chiediamoci cos’è
un’«accezione».
Direi si possa concordare col definirla una variante d’uso
del significante al fine di dare pienezza di funzione al significato
al variare del contesto in cui il termine è impiegato. Questa
definizione di «accezione» mi pare possa tornarci estremamente
utile nel comprendere come l’«autorità»
tenda a conservare tutti suoi attributi anche quando essa è al di
fuori dalla sfera religiosa, continuando a mantenere il carattere di
ciò che assicura crescita a un individuo
o a una società nel suo complesso in forza della loro subordinazione
a un superiore principio che legifera e dà ordine.
Siamo, in buona
sostanza, al nodo della «teologia politica» (Carl Schmitt), che
nell’etimo
di «autorità» vede inclusa – a ragione, occorre dire – «l’idea
che nell’uomo
si realizza l’humanitas
quando
un principio di natura non empirica lo libera dallo stato di
soggezione e lo porta al fine che è suo, di essere razionale e
morale; la libertà dell’uomo,
come potere di “attenzione”
e non di “creazione”, consiste infatti nella capacità di
subordinarsi a questo superiore principio di liberazione» (Augusto
Del Noce).
Un «augere», dunque, che può considerarsi portato a
buon fine – fino addirittura alla «liberazione» dell’individuo
– solo sotto il dettato dell’«autorità»,
tanto meno sentito coercitivo quanto più accettato come indiscutibile, al
punto da poter far coincidere la vera humanitas e la vera libertà
alla piena obbedienza che all’«autorità» è dovuta.
Così è stato per secoli, ma oggi, e in
realtà già da qualche tempo, all’idea
di «autorità» si associa quella di un’oppressione
che, ben lungi dal favorire una crescita dell’individuo,
vi si opporrebbe. Come è potuto accadere questo? Ernesto Galli della Loggia non ce lo dice.
In realtà, non ci dice neppure cosa dovrebbe farci sentire, com’è nel suo accorato auspicio, «il bisogno di riscoprire il senso» dell’idea di «autorità», per «legittimarne nuovamente la pratica». Perché almeno una cosa sembra chiara: auspica che se ne senta il bisogno, bontà sua, non che sia imposta. Anche perché l’«autorità» ha una proprietà che fin qui non abbiamo preso in considerazione: il «superiore principio» che essa rappresenta deve necessariamente trovare in qualcuno – individuo, gruppo, classe – il soggetto cui essere subordinati. Ne consegue che il rigetto di un’«autorità» trova sempre forma nell’insubordinazione a qualcuno che fin lì è riuscito a dare legittimità alla sua pretesa di incarnarla, e da lì in poi non ne è più in grado.
Su un punto, allora, è indispensabile fare chiarezza: di quale «autorità» parliamo? Dire che si dovrebbe ri-scoprirne il senso e che la sua pratica dovrebbe essere nuovamente legittimata lascia supporre che si tratti della stessa «autorità» di cui in passato si aveva ben chiaro il senso e alla quale si riconosceva legittimità. Se è così, si auspica in sostanza che l’insubordinazione rientri, ri-conferendo «autorità» a chi l’ha persa.
Ma siamo autorizzati a interpretare in questo modo l’auspicio? «Va da sé – dice Ernesto Galli della Loggia confortandoci in questa interpretazione – che quando si dice autorità non può che intendersi in
linea di massima (in linea di massima, sottolineo, non sempre)
l’autorità di una sola persona o istituzione, un’autorità
monocratica». E allora sì, possiamo ritenere a buon diritto che quella auspicata sia una reconquista. Non è dato sapere, tuttavia, quale processo dovrebbe assicurarla. Di fatto, l’obbedienza a un’autorità monocratica si è sempre fin qui ottenuta e mantenuta con la violenza, dove l’ignoranza non assicurava soggezione.
Foto: Michele Castaldi, Teschio (2017)
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