«L’Italia
ha bisogno di una cosa soprattutto:
che cambi il clima culturale del
Paese,
il suo modo di pensare. Che sgombrino il campo
i pregiudizi e
le idee ricevute che per almeno trent’anni
hanno fin qui governato
la nostra società.
Per fare posto a un’esigenza ormai
improcrastinabile
di verità e di realismo. Tra le molte cose
che una
tale esigenza impone di riscoprire
metterei ai primissimi posti
l’idea di autorità:
il bisogno di riscoprire il suo senso,
di
legittimarne nuovamente la pratica»
Ernesto
Galli della Loggia,
(Dov’è finito il principio d’autorità -
Corriere della Sera, 7.1.2017)
Non
c’è
niente
di meglio, quando si vuol discutere con profitto, che mettersi
preliminarmente d’accordo
sul significato da dare al termine che designa l’oggetto
della discussione. Quale significato vogliamo dare, per esempio, a un
termine come «autorità»? Per meglio dire: quale significato siamo
autorizzati a dargli in mancanza di una definizione concordata con
chi apre la discussione dalla prima pagina di un giornale?
Ops, mi è
scappato un «autorizzati» che rischia di cortocircuitare la
discussione fin dall’inizio:
la domanda, infatti, è relativa all’«autorizzazione»
(che è concessione di una facoltà da parte di un’«autorità»)
a dare un significato a un termine come «autorità». Chi (o cosa)
ci conferisce questa facoltà? Per meglio dire: quale autorità ci
consente di dare ad «autorità» il significato che possiamo
ragionevolmente ritenere sia lo stesso che gli ha dato chi ha aperto
la discussione? Direi sia quella che detta legge sulla relazione tra
significante e significato.
Se è così, la facoltà concessaci è
assai ristretta: ad «autorità» possiamo dare solo il significato
che dall’etimo
discende alle sue possibili accezioni, che in questo caso per fortuna
sono poche. Prim’ancora,
però, di dare una rinfrescatina alle nostre reminiscenze, che da
«auctoritas» ci porteranno ad «augere», e di qui alla valenza che
questo «accrescere» assume in termini come «augustus», «auxilium»
e «augurium», che hanno tutti e tre stretta attinenza alla sfera
religiosa, chiediamoci cos’è
un’«accezione».
Direi si possa concordare col definirla una variante d’uso
del significante al fine di dare pienezza di funzione al significato
al variare del contesto in cui il termine è impiegato. Questa
definizione di «accezione» mi pare possa tornarci estremamente
utile nel comprendere come l’«autorità»
tenda a conservare tutti suoi attributi anche quando essa è al di
fuori dalla sfera religiosa, continuando a mantenere il carattere di
ciò che assicura crescita a un individuo
o a una società nel suo complesso in forza della loro subordinazione
a un superiore principio che legifera e dà ordine.
Siamo, in buona
sostanza, al nodo della «teologia politica» (Carl Schmitt), che
nell’etimo
di «autorità» vede inclusa – a ragione, occorre dire – «l’idea
che nell’uomo
si realizza l’humanitas
quando
un principio di natura non empirica lo libera dallo stato di
soggezione e lo porta al fine che è suo, di essere razionale e
morale; la libertà dell’uomo,
come potere di “attenzione”
e non di “creazione”, consiste infatti nella capacità di
subordinarsi a questo superiore principio di liberazione» (Augusto
Del Noce).
Un «augere», dunque, che può considerarsi portato a
buon fine – fino addirittura alla «liberazione» dell’individuo
– solo sotto il dettato dell’«autorità»,
tanto meno sentito coercitivo quanto più accettato come indiscutibile, al
punto da poter far coincidere la vera humanitas e la vera libertà
alla piena obbedienza che all’«autorità» è dovuta.
Così è stato per secoli, ma oggi, e in
realtà già da qualche tempo, all’idea
di «autorità» si associa quella di un’oppressione
che, ben lungi dal favorire una crescita dell’individuo,
vi si opporrebbe. Come è potuto accadere questo? Ernesto Galli della Loggia non ce lo dice.
In realtà, non ci dice neppure cosa dovrebbe farci sentire, com’è nel suo accorato auspicio, «il bisogno di riscoprire il senso» dell’idea di «autorità», per «legittimarne nuovamente la pratica». Perché almeno una cosa sembra chiara: auspica che se ne senta il bisogno, bontà sua, non che sia imposta. Anche perché l’«autorità» ha una proprietà che fin qui non abbiamo preso in considerazione: il «superiore principio» che essa rappresenta deve necessariamente trovare in qualcuno – individuo, gruppo, classe – il soggetto cui essere subordinati. Ne consegue che il rigetto di un’«autorità» trova sempre forma nell’insubordinazione a qualcuno che fin lì è riuscito a dare legittimità alla sua pretesa di incarnarla, e da lì in poi non ne è più in grado.
Su un punto, allora, è indispensabile fare chiarezza: di quale «autorità» parliamo? Dire che si dovrebbe ri-scoprirne il senso e che la sua pratica dovrebbe essere nuovamente legittimata lascia supporre che si tratti della stessa «autorità» di cui in passato si aveva ben chiaro il senso e alla quale si riconosceva legittimità. Se è così, si auspica in sostanza che l’insubordinazione rientri, ri-conferendo «autorità» a chi l’ha persa.
Ma siamo autorizzati a interpretare in questo modo l’auspicio? «Va da sé – dice Ernesto Galli della Loggia confortandoci in questa interpretazione – che quando si dice autorità non può che intendersi in
linea di massima (in linea di massima, sottolineo, non sempre)
l’autorità di una sola persona o istituzione, un’autorità
monocratica». E allora sì, possiamo ritenere a buon diritto che quella auspicata sia una reconquista. Non è dato sapere, tuttavia, quale processo dovrebbe assicurarla. Di fatto, l’obbedienza a un’autorità monocratica si è sempre fin qui ottenuta e mantenuta con la violenza, dove l’ignoranza non assicurava soggezione.
Foto: Michele Castaldi, Teschio (2017)
Mi perdoni l'anacoluto: già siete un paio!
RispondiEliminaIl suo commento mi aiuta a trovare una qualche ragione in Ernesto Galli della Loggia.
EliminaNon ci casco, non si incazzi.
EliminaQualsiasi cosa scriva
Gallidellaloggia mi da il voltastomaco;
lei, con le sue fini esegesi, non aiuta la mia nausea.
Sono andato a leggermi l'intero articolo, perché volevo farle qualche appunto "proficuo" ispirato dal virgolettato citato... Non solo ho buttato, ma mi sono anche cacato addosso.
RispondiEliminaMichele Castaldi: parente?
RispondiEliminaFiglio, 5 anni.
EliminaÈ arte
EliminaVolpi– Questo, al nome di Cristo e di Maria,
RispondiEliminaordino e voglio che nel popol sia -.
A man levata il popol dicea, Sì.
E le rosse giovenche di su ’l prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando su gli abeti il mezzodì.
Volpi Carducci è troppo libertario per Galli della Loggia. De maistre va molto meglio
RispondiEliminaDi servi e di padron nutrita schiera
RispondiEliminain procession saltò dalla scogliera.
Oibò che fù?
L'autorità sbroccò.
Seguirono i padroni, per principio,
e così, per servitù, lor servi.
L'articolo è al limite del ridicolo. Una serie di luoghi comuni che si potrebbero ascoltare in qualsiasi Bar Sport, ne esistessero ancora.
RispondiEliminaDecisamente oltre il ridicolo è l'affermazione (riferita in specifico al pubblico impiego):
"Vale a dire la delegittimazione pressoché totale del giudizio del capo dell’ufficio per ciò che concerne l’avanzamento nelle carriere degli addetti e/o i connessi riconoscimenti economici. Giudizio il cui rilievo è oggi, come si sa, fortissimamente limitato se non per molti aspetti e in molti settori del tutto irrilevante."
Proprio non ha mai sentito di avanzamenti gerarchici e retributivi che nulla avevano a che vedere con le capacità della persona ma con le sue amicizie o, diciamo così, abilità sociali?
Vorrei immaginare l'illustrissimo autore in una situazione, del tutto teorica, di questo tipo:
Ernesto lavora da 10 anni sotto il capoufficio Raimondo. E' un lavoratore onesto e corretto, efficiente e preparato. Quest'anno è previsto un avanzamento nel suo ufficio, lui è ragionevolmente sicuro che sia il suo turno perchè Raimondo un paio di anni fa gli ha detto, informalmente, che la prossima promozione sarà la sua.
Purtroppo nell'ultimo periodo sono stati assunti due nuovi dipendenti, Gioacchino, nipote del dirigente di Raimondo e la bella Elvira, quasi una modella, che si intrattiene a lungo a chiacchierare con Raimondo tanto che girano voci di corridoio secondo le quali tra i due ci sarebbe una storia.
Ernesto è comunque disposto ad accettare a priori l'autorità di Raimondo? Non troverà nulla da eccepire se Gioacchino o Elvira o tutti e due a turno gli passeranno davanti in nome del principio di autorità del capoufficio?
Non preferirebbe, forse, che il giudizio personale di Raimondo venisse per lo meno mediato da criteri un pochino più oggettivi (per quanto difficili da individuare in molte situazioni)?