lunedì 2 gennaio 2017

Verità e post-verità


Solitamente la fortuna di un neologismo si è sempre misurata sullampiezza e sulla durata che il suo impiego riusciva a conquistare, sicché in passato trovava registrazione solo dopo aver adeguatamente consolidato la sua posizione nel linguaggio corrente. Si pensi, per esempio, a «nostalgia», termine coniato nel 1688, che deve tuttavia attendere più di un secolo per essere trovato sulle pagine di un dizionario.
Di pari passo a una percezione del tempo e dello spazio che si andava sempre più rapidamente evolvendo rispetto a quella del passato, la fortuna di un neologismo è venuta sempre più spesso a misurarsi sulla velocità e la forza con le quali se ne diffondeva luso, al punto da convincere anche i più sussiegosi difensori della lingua a introdurre nel lemmario certi termini che, dopo un prepotente erompere nel discorso pubblico, spesso diventano rapidamente desueti, per poi essere rievocati quasi esclusivamente come cifra di un particolare momento storico. Anche qui potrà tornare utile un esempio, e il primo che mi viene in mente è quel «cristargare» che a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso venne a indicare il riprodurre la targa automobilistica sui cristalli di una vettura in modo da scoraggiarne il furto.
Se qualcosa ci è lecito asserire riguardo al come un neologismo trova fortuna, ancorché effimera, più difficile è tentare di capire cosa gliela dia, e questo per la semplice ragione che la parola solitamente si adatta alla cosa che intende rappresentare attraverso un processo di reciproco aggiustamento, dato il continuo, seppur talvolta impercettibile, mutare di entrambe, mentre invece il neologismo pretende di cogliere il senso di qualcosa che spesso è tutto in fieri, spesso assegnandogli il senso che non di rado è tutto nella previsione di quel che sarà il factum, che mostra tutto il limite di una scommessa. Per questo, quando qualcosa che ci appare nuovo cerca un nome altrettanto nuovo, la fortuna premierà quello in grado di rappresentarne in modo più efficace lindeterminatezza col ricorso a formule che hanno la pretesa di dare ineffabilità al vago.
Così mi pare stia accadendo con la «post-verità», dove il prefisso sta per «dopo», ma anche per «dietro», indicando nel contempo qualcosa che verrebbe dopo la verità, come sua trasformazione in altro, o che le starebbe dietro, usandola come una maschera. In entrambi i casi, dato il valore assoluto che si tende a dare alla verità, il termine suona inquietante, perché implica un inevitabile sminuirsi di quel valore o, peggio, il suo usurparlo da parte di ciò che, per l’essere anche solo in minima misura lontano dal vero, è inevitabilmente falso, dunque scopertamente insidioso.
In questo porsi dinanzi a un termine del genere pare diventi del tutto secondario chiedersi se si abbia modo di avere qualche solida certezza su cosa sia la verità: tutti riteniamo di sapere cosa sia, almeno quando non ce n’è chiesta la definizione. Le cose si complicano terribilmente quando siamo costretti a fornirne una, senza la quale un termine come «post-verità» diventa ancor più indefinibile di quello che vuol essere per illuderci di aver con esso colto la sostanza che si vuole assegnare a una particolare e nuova specie del falso. In altri termini, direi che vero e falso cercano nella «post-verità» una ridefinizione che risponda al meglio ai nuovi modi in cui essi ci si ripresentano dinanzi, senza peraltro poter pretendere di riuscirci, perché non possono riproporsi alla nostra attenzione senza il carico di ambiguità che li contraddistingue in radice.
Il fatto è (e qui riprendo una mia riflessione di qualche tempo fa) che ogni definizione di verità è una tautologia. Tautologia più o meno manifesta, ma tautologia. Si va dalla tautologia dichiarata tale col definirla «l’essere vero» (De Mauro) o «ciò che è vero» (Treccani), a quella che va in cortocircuito con un termine facente funzione di sinonimo, per più con realtà, e allora la verità diventa la «aderenza alla realtà» (Palazzi) o la «rispondenza piena e assoluta con la realtà effettiva» (Devoto-Oli) o, ancora, la «conformità a una realtà obiettiva» (Treccani), dove questa realtà rimanda inevitabilmente al vero, in quanto «qualità e condizione di ciò che è veramente» (Palazzi). Quando poi dal tentare di definire la verità si passa ad analizzare le sue accezioni in ambito filosofico e scientifico, teologico e linguistico, logico e psicologico, le cose non vanno meglio, perché «non c’è una definizione univoca su cui la maggior parte dei filosofi di professione e gli studiosi concordino, e varie teorie e punti di vista della verità continuano ad essere discussi» (Wikipedia), e perché in ciascun ambito il termine va assumere un significato che risulta inservibile in un altro.
Si prenda, per esempio, il significato di verità per un teologo come Tommaso, che la ritiene coincidente all’Essere e in pratica assimilabile a Dio: sarà accezione praticamente inservibile per un epistemologo come Peirce, che la ritiene il risultato di un accordo di un determinato gruppo di soggetti, su un determinato assunto, in un determinato spazio, in un determinato lasso di tempo. Oppure si prenda il suo significato per un matematico come Gödel, per il quale non tutto ciò che è vero è anche dimostrabile: del tutto incompatibile con la definizione che di verità dà un logico come Frege, secondo il quale il vero è categoria illusoria.
Non va meglio neppure trasferendo interamente il vero al reale, per tenercelo, perché la realtà è maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi qualitativamente e quantitativamente assoluta e tradursi in conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così la realtà sarà comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile ridurla a pura oggettività, perché ad essa è connaturata la frammentarietà della percezione e della comprensione relativa, che non può mai tradursi in conoscenza assoluta.
È in questo punto, che poi è quello dove ci si dovrebbe arrendere all’impossibilità dell’onniscienza, dell’impossibilità di rappresentarci il vero al di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e che la verità sia un fine. Tutto è promesso all’uomo in una verità assoluta, tutto gli è chiesto in cambio di quella. Quasi sempre, allora, accade che il soggettivo, per questa sua vorace fame di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo, non di rado con mezzi assai opinabili, assai opinabilmente giustificati dalla bontà del fine, tutto illusorio.
È che forse dovremmo sbarazzarci di una parola come «verità» o usarla in modo assai più cauto, perché a darle il significato di qualcosa indiscutibile si corre il serio rischio di conferire a qualcuno lautorità di impedire ogni discussione su cosa sia vero e cosa no, il che è già di per sé una negazione della verità, almeno a intenderla come risultato sempre parziale, sempre imperfetto, di una conoscenza che ha negli stessi suoi strumenti gli invalicabili limiti.
Dichiarazione di scetticismo radicale? Tuttaltro. Direi sia solo un monito a non fidarsi mai della piena intelligibilità di un factum, tanto meno quando è ancora in fieri: ogni sua comprensione è giocoforza incompleta, perché quello che ce lo ridà è sempre un modello, che raramente si rivela incorreggibile, e questo vale per tutto ciò che si fa oggetto della conoscenza, dallinfinitamente piccolo allinfinitamente grande, passando per quello che c’è in mezzo: quando la conoscenza non ha timore di abbandonare un modello per adottarne un altro che sembri più adeguato alla comprensione, diventa inevitabile considerare la transitorietà di quella che fino a quel momento si era commesso l’errore di reputate come ultima e inemendabile verità sulla tal cosa, sulla tal persona, sul tal accadimento. Con ciò dovrebbe apparire sufficientemente ridicolo luso di un termine che è immancabilmente appiccicato a ciò che si ritiene definitivamente acquisito, poco importa se in forza delle nostre personali convinzioni o di quelle di unautorità cui conferiamo il potere di pensare per noi, e invece spesso ne facciamo perfino abuso, per costruirci sicurezze che vengono regolarmente spazzate via dal semplice cambiamento di prospettiva che consegue al costante mutare del tempo e dello spazio che sono le coordinate del nostro essere. Si dovrebbe rinunciare a parlare di «verità» per ciò che hic et nunc ci sembra indiscutibile: sarebbe di gran lunga meno pericoloso luso di un termine come «comprovabilità», che allassunto altrimenti definito «vero» conferisce un valore di affidabilità esclusivamente sulla possibilità di controllo, convalida e condivisione che è nella facoltà di chiunque sia disposto a rispettare le elementari leggi della logica, che trasposte sul piano dellargomentazione sono le sole a poter dar ragione di ciò che è corretto, in quanto poggia su premesse incontestabili, valido, perché rifugge da tautologie o contraddizioni, e persuasivo, come efficace risultato del processo che ne articola lo sviluppo in unaffermazione. Sostanzialmente si tratterebbe di adottare il metodo scientifico per tutto ciò che liquidiamo troppo sbrigativamente come «vero» o «falso». Ve ne sarebbe anche per poter rinunciare a parlare di «post-verità», che almeno a voler prendere per buona la definizione che ne è comunemente data, sarebbe «una notizia completamente falsa, ma che, spacciata per autentica, è in grado di influenzare una parte dellopinione pubblica» (Wikipedia): cè già un termine che risponde a questa descrizione, ed è «fattoide». Preferirlo a «post-verità» presenta almeno due vantaggi. Il primo è che ci consente di evitare limplicita assunzione di categorie come «vero» e «falso» che pressoché costantemente esigono il ricorso a unautorità che è da presupporsi onnisciente. In secondo luogo, il «fattoide» include anche quella minima deformazione del factum come effettivamente comprovabile (sul quale, cioè, sia possibile il controllo, dandogli convalida e perciò rendendolo condivisibile) che comunque è in grado di alterarne il senso.
Stabilito che una «post-verità» non è altro che un «fattoide», e che con «fattoide» perde la pericolosità che assume nel reclutare difensori di una «verità» che non deve mai essere messa in discussione, cè da considerare perché si sia sentita la necessità di coniare – chiedo scusa per il bisticcio – un nuovo neologismo per qualcosa che è sempre esistito, almeno fin da quando si è spacciata per autentica la notizia completamente falsa che luomo sia un mix di fango e alito di Dio, con la conseguente influenza su gran parte dellopinione pubblica. Forse è proprio il ricorso al prefisso «post-» a potercene dare una ragione, pensando a quale funzione sia chiamato per altri neologismi che pure lo sfruttano per dare al termine cui è legato, quasi sempre con più efficace resa di significato, che comunque sembra deliberatamente conservare un che di ambiguo se non di vago, il senso di qualcosa che di quel termine indica il superamento, la revisione, levoluzione in altro che, se non ne è la negazione, ne è almeno la riconsiderazione in chiave critica, se non addirittura polemica, quasi sempre a decretarne la crisi («post-modernità», «post-democrazia», ecc.). Se questa interpretazione coglie nel segno, diremmo che la «post-verità» viene sentita come una seria minaccia per la «verità», con la quale concorre in persuasione. Tanto più seria, questa minaccia, perché mostra di riuscire a ottenere incredibili successi che resistono perfino alle inoppugnabili smentite di quello che ha spacciato per «vero» e poi è stato dimostrato «falso».
Come è possibile che questo accada? La domanda assume con sempre più frequenza toni preoccupati, muovendo a chiedersi cosa vi possa metter freno. Giacché poi si dà per pacificamente assodato che la «post-verità» nasca nel web, e lì acquisti forza, fino a esorbitarne, per andare ad adulterare la «verità» perfino nei santuari in cui fino a poco tempo fa essa era custodita con venerazione e difesa senza eccessiva fatica, la soluzione sembra dover essere trovata nel ucciderla sul nascere, e lì dove prende vita. Soluzione necessariamente violenta, questo è ovvio, ma come non ritenerla sacrosanta, questa violenza, visto che è in difesa della «verità»? Dando questo nome a ciò che si ritiene anteriore e superiore allinterpretazione del factum, la sua interpretazione consolidata può ben dirsi trascendente. Altra cosa sarebbe chiamare «fattoide» il factum che non regge al saggio di comprovabilità, e faticare quanto dovuto a mostrarne linfondatezza, e dunque linattendibilità: significherebbe scendere nellagone fidando nella bontà dei propri argomenti, ad averne di corretti, validi ed efficacemente persuasivi. La tentazione di usare la violenza è comprensibile, quando non si è certi di averne o quando, pur certi che siano validi e corretti, si dispera possano essere anche persuasivi.
Ci sarebbe unaltra soluzione, ma imporrebbe un cambiamento di prospettiva: da «come può, il falso, sembrare vero?», la domanda dovrebbe esser posta in altro modo: «come può, lagorà, farsi persuasa al falso più che al vero?». Superando le categorie di «vero» e «falso», la domanda non è difficile: giacché la persuasione non è che la resa alla forza di un argomento, vi sono condizioni nelle quali questa resa si può più facilmente ottenere grazie a una fallacia che a un retto argomento. Ma cosa caratterizza queste condizioni? Lalta vulnerabilità a strumenti retorici di forte impatto, ancorché invalidi e scorretti. E cosa determina tale vulnerabilità? Un perdurante stato di soggezione a «verità» che per affermarsi si sono servite proprio di tali strumenti. In conclusione, occorre riconoscere che la tendenza a credere in qualcosa che non ha i requisiti di «comprovabilità» non è altro che il prodotto di una lunga storia che si è data solco nella indiscutibilità di alcune «verità»: non si riesce a far troppa differenza tra «verità» e «post-verità» quando non si è avuta educazione a ragionare. 

2 commenti:


  1. caro Malvino, non è buttandosi sul positivismo che se ne uscirà.

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  2. Vorrei commentare ma devo apporre un "Amen" a un post su Facebook perché così contribuisco a salvare un bambino molto malato, se riesco ripasso dopo ...

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