mercoledì 11 gennaio 2017

Corrispondenze

Caro Luigi, ti scrivo privatamente per un semplice motivo di comodità nella gestione del testo; come ogni nostra precedente corrispondenza, non ho alcuna obiezione a che tu ne faccia l'uso pubblico che tu possa eventualmente preferire.
Lo faccio perché due dei tuoi ultimi post (Verità e post-verità, del 2 gennaio e Prevedibile qualche problemino, del 9) mi pare sollevino questioni che, ancorché assai significative di per sé, sarebbero ben poco cogenti all'occasione che le ha generate. Trovo infatti che il tema delle bufale, o fattoidi, sia del tutto altro rispetto alle solenni tematiche aletologiche da te evocate: non ne va, infatti, dello statuto della verità e della sua conoscibilità, con tutte le inevitabili implicazioni ontologiche; problema che, lo dico en passant, si pone inevitabilmente per ogni verità a priori, anche se ovviamente in termini diversi, sia essa conosciuta per fede o per deduzione.
Per meglio dire, è chiaro che le verità di fede implicano di necessità la verità di un quadro onto-teo-logico ben definito, con tutti gli inevitabili trattini, ma sappiamo anche che la verità puramente logica della corretta deduzione di un assioma non è affatto priva di ambiguità epistemologiche, gnoseologiche e, ancora una volta, ontologiche (qual è lo statuto esistenziale di una proposizione analitica? in che modo la sua irriducibilità a qualsiasi esperienza può comunque trovare accesso alla sfera empirica, tanto da essere compresa e persino evidente?). Ma tutto ciò mi pare, semplicemente, fuor di luogo, proprio perché stiamo parlando di una specie forse minore di verità, senz'altro di una specie che attiene specificamente ed esclusivamente ai dati di fatto, e che è accessibile attraverso metodi ben sperimentati di verifica e falsificazione. Proprio per questo, si tratta di una tipologia di proposizioni perfettamente coincidente con la serie completa del suo repertorio fattuale, dunque perfettamente identificabile attraverso semplici esempi, come questo o quest'altro. Insomma, le bufale sono semplicemente informazioni dimostrabilmente false (entro i semplici limiti delle verità di fatto e secondo i metodi consuetamente accettati come buone pratiche elementari dell'informazione affidabile e corretta), che vengono messe in circolazione attraverso i media, siano essi quelli tradizionali di tipo "verticale" o le (relativamente) nuove reti sociali di tipo "orizzontale". L'esempio classico mi pare quello dei Protocolli dei Savi di Sion, la cui falsità era stata ampiamente dimostrata fin dal 1921, ma che hanno continuato a esser presi e spacciati per veri, e continuano ancora oggi.
Anche la nozione di post-verità mi pare abbastanza pacifica, almeno per quanto riguarda il suo significato proprio: si tratta dell'uso continuativo di bufale per costruire una rappresentazione approssimativamente coerente della realtà, a cui fare riferimento per ottenere consensi e per trasferire al suo interno il dibattito politico, con il risultato di dichiarare irriducibilmente nemico, se non manipolatore a sua volta della verità, chi rifiuta questa rappresentazione. Anche in questo caso, mi pare che l'esempio dei Protocolli sia sufficientemente cogente.
Tutto questo per dire che la questione non riguarda la semantica ma la pragmatica, non lo statuto della verità ma le modalità con cui le informazioni entrano nel circuito del discorso pubblico e orientano la formazione della volontà politica. Trovo che questo sia anche il terreno su cui affrontare la questione, eminentemente politica anch'essa, dell'opportunità o meno di un'autorità che verifichi la validità delle informazioni; soprattutto, trovo che sia su questo terreno che vada cercata la risposta alla prima domanda che sollevi in Prevedibile qualche problemino (perché questa necessità non è avvertita anche per quelle che sono sempre circolate e tuttora circolano in tv e sulla stampa, né mai è stata avvertita in passato, quando il web non esisteva [...] ? [...] perché questa necessità è avvertita solo adesso che il web è diventato un canale informativo alternativo a tv e stampa?): lo statuto specifico delle bufale sul web andrebbe infatti cercato, a mio parere, nella loro specifica efficacia nella formazione di quel costrutto che abbiamo appena definito post-verità. In altre parole: sappiamo bene cosa potrebbe succedere al lasciar libero corso ai Protocolli sulla stampa, e ci siamo dotati di strumenti legislativi abbastanza efficaci per contrastare una simile eventualità, ma le caratteristiche della loro circolazione sul web richiedono forse che le eventuali misure di contrasto, per essere efficaci, debbano subire quanto meno una ricalibratura.
Intendiamoci, anch'io sono contrario a che se ne occupi una qualche autorità costituita e, si parva licet, ho provato a fornirne qualche ragione qui, ma ciò non credo possa togliere nulla alla centralità della questione delle informazioni, della loro qualità, dei loro canali di diffusione e delle loro modalità di fruizione, all'interno del discorso pubblico. Ritengo comunque che non si faccia un gran servizio. Ritengo, insomma, che si tratti di fact-checking e non di aletologia, e che non si faccia gran servizio a confondere deontologia e ontologia. Ma su questo sono convinto che saprai illuminarmi meglio.
Con immutata stima,

Nane Cantatore


Caro Nane, quando la discussione prende a oggetto un termine ambiguo, io non vedo miglior modo di evitare fraintendimenti che accordarsi sul significato che gli si intende dare. Ti dirò di più: coltivo l'illusione che basti trovare questo accordo, procedendo con l'analizzare la natura del nesso tra significante e significato, e questo è sempre possibile, per poter almeno chiarire a dovere le proprie posizioni, che non è affatto sufficiente a ricomporle, rivelandone la solidità argomentativa, per quanta ve n'è. Non m'è parso di consumarmi in solenni tematiche aletologiche: direi che col primo dei post citati mi sono intrattenuto a riflettere sul termine post-verità che, avendo necessariamente qualche relazione con quello di verità, credo meritasse un minimo di attenzione sul piano semantico; nel secondo, invece, ho riflettuto sul soggetto che da più parti viene evocato come superiore autorità cui affidare il compito di stabilire ciò che è vero e ciò che è falso. Ora, tu mi fai notare che il problema non è semantico, ma tutto politico, e che il falso in questione è dimostrabilmente tale entro i semplici limiti delle verità di fatto, mentre non mi è del tutto chiaro, e forse non lo è neppure a te, se sia davvero possibile una superiore autorità in grado di bonificare il web dalle bufale. Il problema è che io ritengo estremamente importante definire questi limiti, che non mi paiono poi così ben definiti, sicché l'esempio dei Protocolli dei Savi di Sion può tornar buono tutt'al più a dimostrare che questi limiti vadano definiti, non già che essi già lo siano. L'esistenza di Babbo Natale, per esempio, casca di qua o di là da questi limiti? Più in generale, direi sia meglio dare libertà di pascolo alle bufale, e libertà di caccia. Poi, sì, diamo al diritto penale la sua parte, caso per caso.  



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Caro Luigi, evidentemente ho attribuito a te lo stesso mio vizio di buttarla in filosofia, dal quale sono tanto affetto che se qualcuno mi dice, bontà sua, di volermi bene, mi chiedo subito se sia bene morale o metafisico, e in tal caso se da intendersi come perfezione della sostanza o pienezza degli attributi, e se questa perfezione vada intesa come vicinanza al bene supremo o non piuttosto come entelechia dell'ente rispetto a quanto esso ha di più proprio.
Ma, visto che stiamo ragionando su termini che si comprendano in modo adeguato e condiviso, propongo questa definizione di bufala, che mi pare stia del tutto all'interno delle verità di fatto e della loro verificabilità empirica: "bufala è la notizia (scil. informazione circa un nuovo stato di fatto o un cambiamento significativo di uno stato di fatto preesistente) dimostrabilmente (con strumenti e fonti ordinariamente accessibili) falsa, spacciata per vera attraverso canali di comunicazione fruibili da un pubblico eccedente la sfera dei contatti diretti del suo emittente". L'ultima puntualizzazione distingue la bufala dal pettegolezzo o dalla bugia, mentre quella sulla dimostrabilità con mezzi ordinari serve a circoscriverne la specie, separando i fatti dalle opinioni (se dico che la scoperta di una nuova specie di toporagno è una prova dell'onnipotenza divina dico una cazzata, ma non una bufala) e rendendo possibile l'attribuzione di responsabilità (se la bufala è falsificabile con mezzi ordinari, si può presumere il dolo da parte del suo autore).
Da questo punto di vista, l'esempio dei Protocolli è calzante, anche se sono d'accordo con te che si tratta di un caso-limite: si dimostra falso che vi sia stata una riunione dei Savi di Sion dal momento che si è dimostrata falsa la documentazione allegata, mentre che vi sia qualcuno che complotta, con maggiore o minor successo, resta un'opinione; a questa opinione, confutando la bufala, si toglie forza persuasiva, gettando discredito su chi, per sostenerla, è disposto a fabbricare prove false. Mi sembra che così si possa ottenere un buon esempio di quella che si intende come post-verità (temine orribile e fuorviante, concordo): l'uso sistematico di bufale per accreditare tesi prive di fondamento in stati di fatto effettivamente documentabili.
Ora, posto che una definizione, che penso ci troverebbe concordi, di democrazia sia quella di "metodo di governo orientato dai convincimenti, liberamente formati, della maggior parte dei cittadini". e che per la libera formazione di questi convincimenti la qualità delle informazioni sia una risorsa essenziale, credo ci si possa porre queste domande:
a. Le bufale rappresentano, in quanto tali, una possibile interferenza in questa libera formazione?
b. Esiste oggi una diffusione particolarmente significativa delle bufale, anche per effetto delle particolarità delle reti sociali, che ne favoriscono la diffusione e ne rendono particolarmente difficile la confutazione?
c. Esistono dei soggetti politici che traggono particolare vantaggio dalla circolazione delle bufale?
d. Esiste un interesse generale della collettività a limitare la circolazione delle bufale, e più in generale a far sì che la formazione dei convincimenti sia effettivamente libera?
e. Quali sono le forme di contrasto delle bufale che la collettività ha interesse a promuovere, anche tenendo conto dei costi per la libertà e della democrazia di eventuali forme di censura o di limitazione della circolazione di informazioni?
Penso che alle domande da a) a d) si possa rispondere affermativamente senza troppa difficoltà, anche se tutte meritano approfondimento e riflessione, per capire lo stato reale della società e delle sue dinamiche. Come spesso accade, i problemi sorgono quando si arriva come: sono dell'opinione, per una molteplicità di ragioni che vorrei esporre pianamente in un'altra occasione, che il progetto di una sorta di ufficio pubblico per il fact-checking sia sostanzialmente un'idiozia, ma credo anche che la caccia libera da te proposta, e da molti praticata, non sia sufficiente, per quanto lodevole. Insomma, il problema della democrazia è che gli ignoranti contribuiscono alla decisione, e che proprio loro siano, per una varietà di ragioni che sarebbe opportuno indagare, quelli più facilmente suggestionabili dalle bufale, e paradossalmente i meno permeabili alla loro confutazione. Ora, se è vero che l'imposizione dell'acculturazione ai bestioni è spesso stata foriera di disgrazie, credo sia altrettanto vero che subire il dominio di bestioni manipolati dalle bufale sia una condizione altrettanto disgraziata.
Ecco, mi piacerebbe aprire un dibattito serio su questi temi, che mi sembrano definiti con una certa chiarezza. Che ne pensi?
A presto,
Nane Cantatore



Caro Nane, il mio vizio è un altro: io la butto sempre in glottologia, filologia, linguistica, retorica e psicologia. Direi che mi interessa la parola, con tutto ciò che le sta sotto e dietro, ma anche sopra e davanti, e naturalmente a lato. Se mi prometti di non ridermi in faccia, ti confesso che già da qualche tempo la mia lettura preferita è quella dei dizionari, soprattutto quelli etimologici, quelli analogici, quelli dei sinonimi e dei contrari. Diciamo che, dopo aver speso tanto tempo sulla proposizione e sulla logica che la regge, sono passato ai moventi che stanno dietro la scelta dei termini che vanno a comporla. Così – faccio un esempio – leggo "evidentemente ho attribuito a te lo stesso mio vizio di buttarla in filosofia", e mi si pone la questione: "evidentemente" sta per "innegabilmente" o per "a quanto pare"? Ed è "evidenza" che si disvela per trasparenza, per luminosità o per limpidezza? Non c'è bisogno che mi soffermi troppo sulle differenze perché, invece di "ti ho ascritto" o "ti ho addossato", hai scelto "ti ho attribuito", e "attribuire" viene da "ad-tribuere", che rimanda a "tribus": tra appartenenti alla stessa tribù non c'è bisogno di troppe spiegazioni, ci si intende pure con un cenno. Scherzo, naturalmente, facevo autoironia sul vizio. Ma veniamo a noi. Non ho obiezioni da sollevare alla definizione che dai di "bufala", e nemmeno al fatto che, mettendo "post-verità" da parte, si eviti la discussione sul perché si sia voluto coniare proprio un neologismo del genere per qualcosa che è "solo" una "bufala". In realtà, a me premeva proprio questo problema, perché ammetterai che tra "fatto" e "verità" ce ne corre. Ma fa niente, saltiamo la "semantica" e cadiamo a pie' pari nella "politica". Rispondo sì alle domande al capo a., b., c. e d., ma su quella al capo e. rispondo no, e per una semplicissima ragione: una democrazia pedagogica – permettimi di condensare in questa espressione l'esigenza di censura che tu senti al fine di evitare "il dominio di bestioni manipolati dalle bufale" – è stretta parente della demagogia, come è evidente col togliere a "democrazia pedagogica", come quando si semplificano le equazioni, "peda-" e "-crazia". La "verità" – ma anche soltanto ciò che può spremersi dal più scientifico fact-checking – non si può imporre: deve vincere per consenso. Ti abbraccio.


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Mi pare di non "messo da parte" la nozione di post-verità, ma di averla corsivamente definita come "l'uso sistematico di bufale per accreditare tesi prive di fondamento in stati di fatto effettivamente documentabili": pur non amando più di te il termine, credo che il concetto vada salvato, in quanto puntualizza quel carattere sistematico che tende, come si è visto qualche volta nella storia, a farsi totalitario.
Non voglio ricadere nell'ennesima reductio ad Hitlerum, ma l'esempio delle innumeri bufale sistematicamente fattesi propaganda per creare consenso all'ascesa al potere di chi ne faceva uso, e per legittimarne le pratiche una volta realizzata quest'ascesa, questo esempio insomma indica ciò che segna il salto di qualità dai Protocolli a Goebbels; salto di qualità che si realizza in un continuum coerente, anche se non è certo necessario che si produca.
Eccoci così al punto saliente: l'esercizio impunito e continuativo delle bufale avvelena l'aria e intorbida le già poco chiare acque della società democratica, se non altro perché fornisce un vantaggio sleale a chi ne fa uso, e perché orienta la formazione della volontà popolare su questioni false o per lo meno impropriamente formate, con il risultato di sottrarre alla sfera pubblica ciò che maggiormente le dovrebbe appartenere, e cioè la deliberazione sulle questioni di maggior momento per la collettività.
Lo ribadisco: l'authority anti-bufale sarebbe, nel migliore dei casi, inutile, e conterrebbe comunque un germe autoritario e censorio altrettanto esiziale del male a cui dovrebbe porre rimedio. Senza contare che uno strumento di questo genere avrebbe un altro vizio di fondo: come espressione di un'autorità centralizzata e investita di un qualche potere, non avrebbe nessuna credibilità di fronte a notizie che traggono la loro forza proprio dall'essere condivise tra conoscenti (in modo "orizzontale", come si ama dire tra i saputelli del web) ed estranee alle fonti informative ufficiali e consolidate.
La mia domanda, insomma, è sul "come": esclusa, per i motivi appena detti e per molti altri ancora, la famosa autorità, mi pare che il volenteroso e meritorio esercizio di debunking svolto da numerosi siti specializzati e da tanti di noi non sia, nonostante tutto, all'altezza del compito. Dici di osteggiare l'idea di una "democrazia pedagogica", e ci mancherebbe altro; anche se il sistema scolastico, più o meno ogni istituzione culturale e, in fondo, le stesse leggi hanno comunque una centrale funzione pedagogica, se è vero, come penso, che siano le buone leggi a fare buoni i cittadini, e non viceversa.
Per meglio dire, penso che sia valido nella sostanza il celebre detto kantiano sull'Illuminismo come uscita dell'uomo da uno stato di minorità in cui è caduto per sua colpa, e che il riscatto da questa colpa sia faccenda non semplice, non comoda, non definitiva e forse non sempre priva di forzature e imposizioni. Con questo non voglio ovviamente sostenere che debbano essere le istituzioni a orientare il pensiero dei cittadini, ma che il dibattito pubblico, se non vuole trasformarsi in mero agone di contrapposte propagande e fanfaluche, debba comunque svolgersi secondo alcune regole argomentative. Come farlo, ripeto, è la questione.
Insomma, il bestione di scarso intelletto e robusta fantasia, capace di credere alle favole che egli stesso inventa, questo bestione vichiano è la minaccia sempre incombente di un regresso nello stato di minorità, e la colpa di questo regresso sta tutta nel suo voler esser bestia, nel sostituire la fede, l'illusione, la credenza e la mentalità gregaria alla libera e faticosa disamina delle informazioni e dei dati: come fare, quando gli istinti del bestione vengono assecondati con estrema efficacia?
Azzardo una possibile risposta: stabilire che chiunque pubblichi qualcosa su qualsiasi piattaforma, tradizionale o digitale, se ne assume la responsabilità. Ogni opinione sia lecita, ma le false notizie siano punite, secondo quando vale oggi per le fattispecie di diffamazione e di calunnia a mezzo stampa, e sia riconoscibile, sempre e comunque, chi le pubblica. Naturalmente, non sia ammessa alcuna forma di ignoranza o presunzione di buona fede: chi pubblica esercita un proprio diritto, e se ne assume ogni responsabilità. Corollario di questo dispositivo, che di fatto renderebbe ognuno giornalista, è che cesserebbe ogni obbligo di iscrizione all'ordine per autorizzare la pubblicazione, con il risultato ulteriore di dare un utile calcetto a una inutile corporazione. Forse potrebbe essere un buon punto di partenza.
Un abbraccio,

Nane



Non sono disposto a "salvare" il termine post-verità: anche quando la creazione e diffusione di "bufale" sono funzionali a un piano "totalitario", come nell'esempio che riprendi, credo sia pericoloso tirare in ballo un termine che, pur implicandone la negazione, anzi il superamento, chiami in gioco la verità, che puzza di assoluto. È tentazione forte, te lo concedo, ma implica lo stesso pericolo che scorgo nel definire il nazismo "Male assoluto" (dove peraltro non si capisce che senso abbia la maiuscola, stante quell'aggettivo), quello di trattare cosa tutta immanente come incarnazione di un trascendente, rendendola pervertitamente fascinosa. Il nazisti erano criminali, e i loro crimini era estremamente gravi – stop. Convengo, invece, con ciò che qui ribadisci riguardo ai pericoli d'inquinamento che le "bufale" comportano nella formazione dell'opinione pubblica, con quanto ne consegue per la democrazia, d'altronde avevo già risposto sì alle prime quattro delle cinque domande che ponevi nel tuo precedente intervento, e riaccolgo con piacere il tuo convenire sul fatto che "l'authority anti-bufale sarebbe, nel migliore dei casi, inutile, e conterrebbe comunque un germe autoritario e censorio altrettanto esiziale del male a cui dovrebbe porre rimedio". In quanto al da farsi, penso che gli strumenti non manchino, e non mi riferisco solo al "volenteroso e meritorio esercizio di debunking svolto da numerosi siti specializzati e da tanti di noi". Penso, ad esempio, all'art. 656 del nostro codice penale, che recita: "Chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l'ordine pubblico, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 309". Oltre che inasprendo le pene, potrebbe essere potenziato col contemplare, come bene pubblico da preservare, non solo l'ordine, ma anche la corretta formazione dell'opinione: a giudicare sarebbe la magistratura, ma con un'autorità che non le sarebbe attribuita dal potere esecutivo. Come compromesso ti va bene? Per quanto attiene al web – e qui ribadisco un'opinione più volte espressa su queste pagine – è venuto il momento di bilanciare la libertà con la responsabilità: inammissibile l'anonimato. 

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Continuo il carteggio, soltanto per dirimere l'ultimo equivoco, oltre che per il piacere che mi deriva dal nostro scambio di plaisanteries. Come notato con efficace sintesi dal commento di un anonimo, per me esiste una differenza sostanziale tra la singola bufala e la produzione sistematica di innumeri bufale: è per indicare questa seconda fattispecie che mi pare si faccia ricorso al lemma di post-verità, sulla cui inadeguatezza, ambiguità e generale improprietà concordo. Propongo di utilizzare, in sua vece, quello di bufalificio, che ha una bella assonanza con veneficio, o, se preferisci, di associazione bufalistica, che ha se non altro il merito di riprendere la differenza tra l'estorsione perpetrato da un balordo ai danni di un negoziante e l'organizzazione di un racket; ovvio che si tratta di scelte lessicali provvisorie, in attesa di soluzioni migliori, ma già preferibili a quella attuale.
Una sola cosa vorrei aggiungere, a difesa delle intenzioni che mi paiono sottostare al concetto di post-verità: nella sua assonanza a quello di post-moderno (e sono d'accordo che non basta un'assonanza a fare un buon etimo), indicano una parentela di fondo nell'idea, questa sì puramente postmoderna, di narrazione (recit) come costituzione della realtà, in opposizione ai grandi costrutti razionali, scientifici e sistematici, della modernità: se ognuno abita nella propria narrazione, se manca persino un criterio decisionale comune da trovarsi nella corretta prassi logica e argomentativa, allora non si dà più nemmeno una realtà comune (intesa come collezione di fatti significativi e consolidati), ma ciascuno diventa impermeabile a tutto ciò che non fa sistema con la propria narrazione di riferimento. Il risultato è che la sistematicità universale della modernità viene sostituita, non da una libera invenzione confrontabile con altre o da una libera determinazione dei propri bisogni che possono e devono convivere con quelli altrui, ma da una serie di sistematicità minori, chiuse e di carattere tribale.
Detto questo, si apre la questione di come agire non nei confronti della singola bufala, rispetto a cui la soluzione per via ordinaria che ci vede concordi sarebbe già efficace, ma riguardo la loro elevazione a propaganda sistematica. Qui, sia ben chiaro, non invoco autorità censorie, leggi speciali o altre mostruosità, ma mi limito a sottolineare la cogenza politica della questione, nell'attualità in cui abbiamo la fortuna di trovarci. Credo che, invece, sia opportuno affrontare la dimensione politica di un fenomeno che è politico, se non altro per portata sistemica: un po' come le mafie, che non possono essere affrontate efficacemente se le si combatte sul solo terreno del contrasto alla criminalità, ma vanno comprese e affrontate nella loro dimensione sociale e politica.

PS: d'accordo pienamente con quanto dici del nazismo. Del resto, se fosse un male assoluto e non semplicemente un caso limite, storicamente accaduto, di un'evenienza sempre possibile anche nella nostra società, riferirsi ad esso non avrebbe nemmeno alcun valore argomentativo.

Nane



Se vogliamo rinunciare all'uso di un termine come post-verità per il pericolo che comporta il suo richiamo a una verità assoluta (lieto di trovarti d'accordo su questa rinuncia), ma allo stesso tempo sentiamo bisogno di un termine che esprima la sistematicità dell'adulterazione dei fatti in fattoidi, credo che un termine come bufala sia debole in ogni suo possibile derivato. È che noi abbiamo un termine che esprime la natura moralmente sensibile della menzogna in ambito pubblico, e questo termine è fandonia, che peraltro si fa carico di esprimere a dovere due tratti essenziali della confezione di questo particolare genere di frottole: il fatto che si tratti di invenzioni (da invenio: trovate) e che il loro contenuto sia dimostrabile come infondato mediante l'uso dei più comuni strumenti di verifica. Potremmo parlare di fandonificio, per esempio. In quanto alle attinenze evocative della post-modernità che sono manifeste in un termine come post-verità, rendendo quest'ultimo appropriato a sussumere aspetti del primo, ti rammento che perfino l'ultimo Lyotard ebbe a sollevare dubbi sulla congruità semantica del neologismo da lui coniato. Per finire, sulla dimensione politica del problema che dovrebbe trovare un corrispettivo nella soluzione: trovo pertinente il parallelismo con le attività criminali mafiose – parallelismo che tuttavia regge solo fino a un certo punto – e appunto perciò, parafrasando Sciascia, dico: evitiamo di creare professionisti della verità. Anch'io vorrei lasciare un post-scriptum: non ho ritenuto appropriato tradurre Fälschungsmöglichkeit con falsificabilità, perché genera un sacco di guai quando lasciata nelle mani di chi non ha letto Popper. A me piacerebbe renderla con un altro termine: inficiabilità.

8 commenti:

  1. Malvino, qualcosa nella sua posizione continua a sfuggirmi. A me sembra ovvio che i limiti di questa eventuale autorità antibufale sarebbero quelli di occuparsi di affermazioni che è provabile scientificamente siano false e che possano danneggiare qualcuno. L'autorità, in altre parole, agirebbe in nome della Scienza. Se si pensa che la scienza e il metodo scientifico debbano dire l'ultima parola sulle vicende umane, non si può essere contrari a tale autorità in via di principio ma solo per motivi pragmatici o di opportunità.

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  2. Un piccolo problema nasce dal fatto che tutto il Diritto penale o civile, salvaguarda l'individuo singolo e quasi mai un possibile diritto "comunitario" ad essere correttamente informati.

    caino

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  3. @ chissacosera
    @ caino

    Sollevate, in modo diverso, la stessa obiezione che solleva Nane Cantatore nel secondo intervento che ho aggiunto in coda, insieme alla mia risposta, che qui sintetizzo con un'ellissi: pedagogia e demagogia si equivalgono quando si dà per scontato che il demos sia in una inemendabile condizione di immaturità.

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    1. Questa è la cosa che ciascuno dovrebbe considerare offensiva. Essere trattati come ragazzini che non possono vedere i film vietati ai minori.

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  4. Se è possibile sintetizzare, direi che per Dottore non è importante combattere la singola bufala, ma al massimo il loro cumulo e su ciò può benissimo intervenire la magistratura a posteri e con meno pericoli di una autorità a priori.

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    1. Sì, si può anche sintetizzare in questo modo.

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    2. Le bufale più pericolose socialmente però non hanno rilevanza penale. Dire che mio cugino è guarito dal cancro sospendendo la chemio e bevendo un bicchiere di acqua salata ogni mattina non è, e non dovrebbe essere, reato. Ma fa più danno dell'affermare che la Boldrini vuole abolire il Natale, cosa che al massimo impatterebbe sulla reputazione della suddetta.

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  5. aletologiche non esiste nella lingua italiana.
    rif: https://goo.gl/IkcSZD

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