giovedì 24 giugno 2010

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È strano che chi qui da noi sostiene il primato della politica anche a discapito dell’autonomia della magistratura, come nel caso in cui si vuole che l’eletto sia ingiudicabile, spezzi una lancia in favore di McChrystal, contro Obama: alle forze armate non si può accordare alcuna autonomia, e qui abbiamo un militare che si permette di contestare ordini che sarebbe tenuto solo ad eseguire. Assai più scandaloso del veto di una Procura su una legge in discussione in Parlamento su proposta del Governo. E tuttavia, giacché imbarazza fortemente Obama, McChrystal è una specie di eroe per i neocon de noantri, sempre più tragicamente fuori tempo massimo, ancora a spararsi pippe sulla Palin. Certo, dà un brivido di piacere vedere che Obama rimuove in quattro e quattr’otto il mero dipendente statale macchiatosi del crimine di lesa maestà, ma è che Obama non incarna la maestà dell’eletto del popolo quando il popolo elegge un repubblicano, e il brivido è moscio. Sì, c’è stato un grave vulnus al primato della politica, ma non l’ha inflitto la magistratura, e non a Berlusconi. Si aggiunga il fascino che la divisa esercita su chi ama l’uomo forte. Si aggiunga il fatto che Obama non somiglia troppo a Bush. Sicché “McChrystal è rock e Obama è lento”.

O ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra


           

62%                                   36%

Vedremo


Una madre aveva chiesto, senza ottenerla, la rimozione del crocifisso dalle aule scolasticche dell’Istituto «Vittorino da Feltre» di Abano Terme (Padova) frequentate dai suoi figli. Rivoltasi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha visto riconosciute le proprie ragioni nello scorso novembre. A tale decisione l’Italia ha opposto un ricorso che sarà preso in esame mercoledì prossimo per essere accolto o rigettato.
Non si capisce, in realtà, come possa essere accolto: difende l’obbligatorietà del crocifisso in classe sulla base di elementi che la Corte ha già dichiarato incompatibili con l’aconfessionalità di uno stato laico e in patente contraddizione con l’art. 9 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo.
Più probabile venga rigettato ribadendo quanto già estesamente argomentato: (1) il crocifisso è un simbolo religioso; (2) è chiaramente identificabile come simbolo di una ben precisa religione; (3) la sua esposizione obbligatoria nelle scuole fa violenza a chi coltiva una diversa fede e a chi non ne ha alcuna; (4) questa violenza è lesiva del principio di libertà di credo religioso e di quello di laicità delle istituzioni pubbliche.
Ogni argomento in difesa del crocifisso in classe deve giocoforza contraddire almeno uno di questi quattro punti, che però sono assai più che impliciti nella Convenzione firmata dagli stati membri del Consiglio d’Europa. E dunque perché l’Italia ha presentato questo ricorso? Perché lo doveva alla Chiesa.

Lo dimostra il fatto che, a pochi giorni dall’esame del ricorso, nel tentativo di far pressione sulla Corte, scendano in campo il presidente del Consiglio e il suo sottosegretario, gentiluomo della Casa Pontificia: non basta più un La Russa a dire che “possono morire, ma il crocifisso non lo leveremo” (questo fa colore, non pressione), c’è bisogno che l’Italia metta in campo i suoi massimi rappresentanti, e lo stesso presidente della Repubblica non si sottrae, invitando a riflettere che, a fronte di un principio pur sacrosanto come quello della laicità dello stato, ci sono in gioco sentimenti da non ferire.
Vedremo in quale conto sarà tenuto il sentimento identitario nazionale che allega a un simbolo religioso l’intero suo bagaglio culturale e l’intero suo patrimonio storico, ma non bastasse, d’appoggio, l’Italia porta alleati pronti a sottoscrivere le sue ragioni: Malta, Repubblica di San Marino, Romania, Monaco, Ucraina e Polonia.
Non è proprio il massimo per una battaglia così nobile. Dove stanno la Francia e la Germania? E il cattolicissimo Portogallo? Vedremo, ma pare che in ambito europeo si prepari un’altra figuraccia per l’Italia.
O per la Corte europea dei diritti dell’uomo, naturalmente. Perché smentire quanto scritto a novembre significherebbe violare principi lì dichiarati fondativi della stessa idea di un’Europa laica.

Siamo sicuri di volere una Chiesa povera?


Non so più dove, ma potrebbe trattarsi dei Frammenti postumi del 1888 o del 1889, Friedrich Nietzsche scrive – ne do versione grossolana – che preferisce polemizzare con un cattolico piuttosto che con un protestante, e con un cattolico tradizionalista piuttosto che con uno progressista, con uno zelante piuttosto che con un aperturista, con un fanatico ultramontanista piuttosto che con un cristiano-socialista.
Come non capirlo? Quando la fede in Dio non riesce ad adeguarsi alle ultime conseguenze della sua incarnazione in Cristo e del mandato di Cristo a Pietro, si polemizza col molle che è impenetrabile, con l’eclettismo dei cristianesimi fai-da-te, con le logiche di privati catechismi stretti in trecciolina coi disturbi della personalità e del comportamento, con declinazioni psicologiche e sociologiche della fede, lungo il gradiente tra fatalismo e superstizione… Insomma, si corre il rischio di impazzire: si polemizza con uno sciame di posizioni.
Dovendo polemizzare col cattolicesimo, meglio scegliersi un avversario serio, un cattolico come-si-deve, a misura di Catechismo e di Codice di Diritto Canonico, evitando quei cattolici per-modo-di-dire, che peraltro non contano mai un cazzo nella Chiesa e regolarmente devono essere ripresi dai pastori e dai loro cani da guardia laici, per essere riportati nell’ovile dell’obbedienza.
Se devo dimostrare il crimine che la Chiesa consuma da sempre, voglio polemizzare con chi pensa che quel crimine sia un diritto sacro, così non si cincischia e arriviamo al sodo: la pretesa di asservire l’intera umanità a un unico fine, che sta già nel mezzo impiegato: ricondurre alla verità dell’incarnazione e del mandato a Pietro: voglio dire: tra un cattolico che vuole una Chiesa povera e profetica e un cattolico che la vuole ricca e prospera, non ho dubbi: il vero cattolico è il secondo. E questa era la premessa.

La convinzione che la pretesa abbia la sua ragione nella sua stessa fondazione fa della Chiesa un corpo mistico e il suo motore, sicché non c’è dubbio – non ci può essere – che legittimamente la Santa Sede Apostolica abbia bisogno di benzina. E tuttavia c’è chi – dentro e fuori la Chiesa – la vorrebbe povera, almeno per non vedersela di continuo in mezzo agli imbrogli lucrosi che ne compromettono la credibilità del magistero morale e sociale. Superfluo dire che “povera materialmente può essere una Chiesa rinunciataria, questo sì, che vive soltanto nei cuori, nello spazio individuale e comunionale, ma non in quello pubblico” (Il Foglio, 24.6.2010). E tuttavia qui siamo ancora reticenti: si sente ancora un poco di imbarazzo nel dichiarare il diritto di arricchirsi, infatti viene mischiato al dovere di farlo. Inutile polemizzare con questa posizione, meglio qualcosa di più fiero, giusto per cercare di individuare l’oggetto della fierezza.

Da un sito web gestito da cattolici tradizionalisti: “Immaginiamo una Chiesa povera... ma immaginiamolo veramente, fino in fondo! Essa di certo diventerà nel giro di qualche anno molto meno visibile sui mass media. Sarà soppiantata da altre religioni anche in occidente. Una Chiesa povera porterà a vivere delle sole offerte dei fedeli, quindi a dover rinunciare a tante opere che ora si sostengono con l’8 x 1000. Non avremo più fondi per costruire chiese nuove, ad esempio, al massimo riusciremo a riparare alcune delle vecchie, ma si sa, prima o poi ricostruire diventa più conveniente che rappezzare… Dovremo rinunciare a dare un po’ di stipendio ai nostri preti, che di conseguenza dovranno andare a lavorare per vivere e così avranno meno tempo per la pastorale. Una Chiesa povera forse sarà più evangelica, ma realisticamente perderà tanti fedeli perché verrà vista come qualcosa di troppo provocatorio, troppo diverso da ciò a cui siamo abituati. Ma diventare una minoranza, aver meno fedeli al proprio seguito significherà anche essere meno corteggiati da partiti politici e capi di Stato, che non troveranno più di grande utilità a stabilire una convergenza con le vedute del pontefice... Bene, siamo sicuri di volere una Chiesa così? Se la Chiesa fosse così, ci impegneremmo di più al suo interno o ne staremmo fuori ancora un po’ di più?”.

Cristo possedeva la tunica che portava addosso? Se dobbiamo tornare a discuterne, stavolta per Sepe come la volta scorsa per Marcinkus, lasciamo da parte la retorica de Il Foglio che cerca di dare nobiltà ai pacchi di denaro e ai milioni di metri cubi di immobili individuandone lo scopo nel tramandare la memoria di Francesco di Assisi. (Probabile che Lunardi si fosse impegnato col cardinale Sepe a imparare a memoria i Fioretti.) Meglio un cattolico come-si-deve, per il quale la Chiesa non deve essere “qualcosa di troppo provocatorio”, e che non deve proporre nulla che sia “troppo diverso da ciò a cui siamo abituati”: un sano conformismo, insomma. Una Chiesa che non perda visibilità sui mass media, che non conti sulle sole offerte volontarie, ma sappia escogitare i modi per mantenere il suo apparato, dandogli gli strumenti per vederlo sempre meno incisivo... O volete che il pontefice non sia più corteggiato da partiti politici e capi di stato? Senza potere e senza denaro come si creano le “convergenze”?
Eccoci ancora al centro esatto della questione: se il fine ultimo è sussistere, il mezzo è moralmente giustificato. Evviva. 

mercoledì 23 giugno 2010

Voglio morire





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Alberto Arbasino su Pier Paolo Pasolini: “Credo che gli dispiacessero un pochino anche i miei successi con alcuni ragazzi che piacevano anche a lui. Sa, ero più giovane e carino di lui” (il Giornale, 22.6.2010).
“Anche”? In ogni “venerato maestro” rimane un po’ del “solito stronzo”.

Quando li bruciano vivi


Solo il 2,3% della popolazione indiana professa fede cristiana e solo l’1,5% è di confessione cattolica, ma Schillong, capitale dello Stato del Meghalaya, è un’eccezione: qui solo i cattolici arrivano al 70%.
Sappiamo delle persecuzioni che i cattolici devono subire dove in esigua minoranza, ma cosa devono subire dove sono in larga maggioranza? “Graffiti blasfemi su Gesù e il Papa sono apparsi questo fine settimana in varie zone, tra cui il muro di cinta del Saint Anthony College e la statua di San Giovanni Bosco, posta davanti al Don Bosco Technical Institute. […] Sotto la statua di Don Boscoè comparsa un’immagine del Crocifisso che riportava al posto dell’iscrizione INRI la cifra di 92 milioni di rupie, pari a[i] circa 1,7 milioni di euro […] concess[i] dal Governo locale per la copertura in zinco delle due scuole salesiane. [Insomma, a Schillong, i cattolici] sono accusati dalle altre comunità di godere dei favori delle autorità” (zenit.org, 21.6.2010).
A parte il fatto che con quella cifra si potrebbero ricoprire di zinco non già due ma venti scuole, a parte il fatto che si tratta di una somma enorme per le casse di uno stato povero come quello di Meghalaya, a parte il fatto che, dunque, siano abbastanza legittime le proteste delle minoranze locali che si sentono discriminate da un impiego di denaro pubblico tanto opinabile e dunque almeno sospetto, a parte tutto questo, “il portavoce della Conferenza Episcopale Indiana, padre Babu Joseph, ha dichiarato all’agenzia Fides che si tratta di «atti esecrabili, che intendono creare disordini e disarmonia nella società»”.
Sbagliano a bruciarli vivi, quando li bruciano vivi, ma come stupirsene?

Mandano a dirgli


Un editorialuccio in terza pagina, ieri, giusto per non bucare la notizia, e poi null’altro. Anche quel poco, tuttavia, basta a capire che Il Foglio non si spenderà troppo in favore del cardinale Sepe, che da subito si piglia qualche critica, perché “eccessivo” nel difendersi, inutilmente “vittimista”, col rischio di provocare “una sorta di guerra di religione”, che “in primo luogo” non è nell’“interesse della Chiesa”. È come se, attraverso Il Foglio, qualcuno volesse far sapere a Sua Eminenza che non deve esagerare, scoraggiandolo dal chiamare in causa la Segreteria di Stato: se lo fa, verrà scaricato.

“Un impegno davvero speciale”



Sfilare soldi a chi se li vuol far sfilare non configura il reato di truffa o di circonvenzione di incapace, almeno in ambito religioso e quando il credo di chi sfila abbia quel minimo di rispettabilità che, per esempio, il Papato ha saputo conquistarsi e Scientology ancora no. Del tutto legittimo, dunque, che il Papa chieda soldi a chi glieli voglia dare, ma nel darne motivo con 2 Cor 9, 13 dovrebbe avere la decenza di contestualizzare e di citare in modo corretto.
In 2 Cor 8, 1-15 (Motivi di generosità) Paolo ha spiegato le ragioni della colletta: “servizio a favore dei santi” (2 Cor 8, 4), cioè dei fratelli delle Chiese della Macedonia, che versano in “estrema povertà” (2 Cor 8, 2). La povertà è cosa santa, naturalmente, ma fino a un certo punto: in quanto “delegati delle Chiese e gloria di Cristo” (2 Cor 8, 23), hanno diritto a un minimo di decoro. “L’adempimento di questo servizio sacro non provvede solo alle necessità dei santi” (2 Cor 9, 12), ma avrà un suo ritorno: “Essi ringrazieranno Dio per la vostra obbedienza” (2 Cor 9, 13), che nella citazione salta, e poi, sì, anche “per la generosità della vostra comunione con loro” (2 Cor 9, 13). La vostra generosità è un obbligo.
“Un impegno davvero speciale”, dunque? No, siamo alla forma light della riscossione della decima.

martedì 22 giugno 2010

"La faccenda nasce politica e lo rimane"



Prima che il cardinale Sepe diffondesse la sua Lettera alla Diocesi del 21 giugno avevo scritto che “la faccenda nasce politica e lo rimane”. Bene, fa piacere sapere che Sua Eminenza è d’accordo: quando c’è coincidenza di analisi tra uno dei più autorevoli principi della Chiesa, come lui, e uno dei più nequiziosi laicisti di questo buco del culo del mondo, come me, si offre una splendida occasione per chiarire la natura dei rapporti politici tra Chiesa e buco del culo, oltre ogni controversia.
Sua Eminenza – in pratica – dice che dovete solo fargli un pompino. Doveva dar conto alla Chiesa e la Chiesa gli ha consentito, approvato e lodato tutto. Dove stanno, di grazia, gli estremi per trattarlo come un comune cittadino italiano? Qualsiasi cosa abbia fatto, è privo di ogni responsabilità personale, tanto meno penale: va tutto rimesso ai rapporti tra Stato e Chiesa, il foro giudiziario è incompetente.
Si capisce perché l’avvocato di Sua Eminenza si esibisca in panciolle: è quello che ha fatto assolvere Alfredo Romeo (parcellona meritatissima), col cardinale Sepe si annuncia una passeggiatina (probabilmente in gratuito patrocinio, che è la migliore parcella).

Le spiegazioni offerte dal cardinale Sepe possono così permettersi la qualità d’essere semplici e il difetto d’esserlo troppo. Prendiamo “la concessione in uso di un alloggio al dott. Guido Bertolaso, la cui esigenza [gli] venne rappresentata dal dott. Francesco Silvano”: lineare, ma – a volersi porre il problema – su quale linea? Perché Bertolaso chiede casa a Silvano? Perché Silvano si sente in dovere di trovargliela? Com’è che, oltre a trovargliela, gliela si concede praticamente a gratis? Sui beni ecclesiastici vige il diritto della Chiesa di non doverne dichiarare la provenienza e di non dover darne conto dell’impiego: sono domande che non potete fare a Sua Eminenza, stronzi. Dovete pigliarvi le spiegazioni di Sua Eminenza e farvele bastare.
Per esempio: Lunardi vuol comprare casa a Roma. Ha qualche competenza in materia, insomma, non è un rosticciere di fresco arricchito, ma si innamora di una merda di immobile “che presentava, in maniera evidente e seria, segni di vecchiaia e di precarietà”, per di più “occupato da inquilini”. Valli a capire, questi tecnocrati, vanno tutti in cerca di catapecchie.
Sul verso, infatti, la faccenda è politica come sul recto: dove sta la ratio per la quale uomini della Chiesa e uomini dello Stato non potrebbero scambiarsi cortesie per mera simpatia?

Ciò detto, Sua Eminenza – e qui mi pare sia politico immenso – accetta la Croce: “Vado avanti con serenità, accetto la Croce e perdono, dal profondo del cuore, quanti, dentro e fuori la Chiesa, hanno voluto colpirmi”, e parliamo dell’essere indagato nella pienezza delle garanzie e in godimento di parecchi privilegi rispetto a un povero cristo, prima di tutto il non poter essere rinviato a giudizio, tanto meno condannato, men che mai carcerato. La metà della metà della metà di tutto questo solleverebbe questioni di squisita natura politica, il giudice nasce suicidato.

lunedì 21 giugno 2010

Nonostante Google Maps


“Su una carta stradale due località sono distanti 3 cm. Sapendo che la scala della carta è di 1:1.500.000, a quale distanza si trovano le due località?”. Basta moltiplicare 1.500.000 per 3 e dividere i 4.500.000 cm per i 100.000 cm di cui è fatto un km. Una moltiplicazione e una divisione, uno studente di terza media non dovrebbe trovare difficoltà. E tuttavia il Post commenta: “Sì, si fanno ancora domande del genere nonostante Google Maps”.
Ma si può essere così coglioni e passare per il non plus ultra della blogosfera?



Postilla
Non è tutto. “Il signor Carlo scende dal tram all’incrocio di via Micca con via Bertola (vedi asterisco). Percorre 200 metri di via Bertola e all’incrocio con via 20 Settembre svolta a sinistra; dopo aver camminato per 150 metri, raggiunge l’incrocio con via Micca. Da lì decide di tornare al punto di partenza per via Micca. Quanti metri all’incirca percorre al ritorno?”.


Come è evidente dalla mappa allegata, si tratta di calcolare l’ipotenusa tra due cateti di 150 e di 200 metri. Ma anche questo pare troppo difficile a il Post, perché l’ironico commento alla presunta difficoltà del quesito è: “Una seconda domanda la aggiungiamo noi: qual è la città in cui sta passeggiando il signor Carlo?”. Nessun problema con Google Maps: è Torino.

Così, tanto per dire


Codice di Diritto Canonico del 1917, Can. 1518: “Il Romano Pontefice è amministratore e gestore di tutti i beni ecclesiastici”.
Codice di Diritto Canonico del 1983, Can. 1273: “Il Romano Pontefice in forza del primato di governo è il supremo amministratore ed economo di tutti i beni ecclesiastici”.
E dunque facciamo meno gli stronzi, signori della Curia, ché il Papa non poteva non sapere.

Genealogia della cricca (I)



Alberto Ronchey scrive che “niente obbligava le autorità italiane a disporre opere pubbliche come quelle pretese dalla controparte vaticana in vista del Giubileo”, e come esempi cita “il temerario sottopasso di Castel Sant’Angelo e il raddoppio della galleria Principe Amedeo come il parcheggio da scavare sotto il Gianicolo e altro ancora” [1]; e cita “Concordato tra Chiesa e Stato del 1929, primo articolo, secondo comma” [2] e “Concordato del 1984, secondo articolo, quarto comma” [3] per far presente che allo Stato non toccava alcun obbligo di spesa.
E però sappiamo che il denaro pubblico è per sua natura smanioso di finire nelle tasche dei furbi e cerca occasioni di grandi opere, che necessitano di grande spesa: più grossa è la spesa, più cresce la smania, più furbi la soddisfano. O riduciamo al minimo il denaro pubblico, e impariamo ad essere liberali, o ammazziamo i furbi, e ci facciamo giacobini, oppure – e questa è la tipica soluzione all’italiana – cerchiamo di prendere la cosa come naturale, da governare entro i limiti di una normale corruzione di fondo, redarguendo qua e là gli eccessi di avidità, favorendo nei limiti del possibile una fertilità del sistema di corruttela, fino a capillarizzarla in familismo amorale, passando per l’amor di campanile…

Scusate, mi stavo facendo prendere dall’entusiasmo, è che venivo fresco fresco dalla lettura di un manifesto di questa terza via all’italiana: “Per parafrasare l’epico [epico] gesto di Craxi alla Camera nell’aprile del 1993, quando chiese ai deputati di alzare la mano se in grado di giurare che i loro partiti non erano mai stati finanziati in modo irregolare o illegale, permettetemi di dire: alzi la mano quel sindaco, quel pubblico amministratore, quel funzionario di destra, di centro, di sinistra, del sud e del nord, d’Italia o d’Europa, che non abbia favorito lobbies di potere nel settore amministrativo di sua pertinenza e non ne abbia ricevuto in cambio favori, in convergenza di interessi legale, magari, ma certo secondo questo metro non legittima. Alzi la mano che gliela taglio. [In pratica: così fan tutti, ergo è cosa naturale. E tuttavia, sì, converrà che la corruzione sia saggiamente governata.] L’unico modo di ridurre il peso delle cricche, senza pretendere moralisticamente [moralisticamente] di eliminarle, è una legislazione semplificata e severa, una buona cultura del pubblico capace di imporre il disprezzo invece dell’ammirazione per i comportamenti antisociali, un esercizio decisionista dell’autorità sotto la sorveglianza della stampa e dell’opinione pubblica. [E la legge-bavaglio?] La strada del terrore giudiziario, della forzatura di legalità, porta – come avvenuto per le inchieste sulla corruzione di Milano – in un vicolo cieco. O peggio” [4].
Sì, ma peggio per chi? Per chi né vuole prevenirla, né vuole eliminarla, la corruzione. Per chi la ritiene fisiologicamente sostenibile, se funzionale alla fisiologia del sistema. Tutt’è prendersi cura del sistema.

E guardiamolo da vicino, il sistema. Almeno in quel braccio mosso dalla leva del Giubileo del 2000: “Non si conquista la rielezione a sindaco di Roma senza rapporti stretti con il Vaticano,il Vicariato, lo stesso Papa che concede una visita benedicente in Campidoglio, l’influente cardinale Silvestrini che ha benedetto le nozze in chiesa di Francesco Rutelli e consorte dopo nove anni di unione civile, il volontariato cattolico e le associazioni confessionali di base. Certo, le alte sfere vaticane chiedevano all’amministrazione capitolina grandi lavori pubblici per il Giubileo e il sindaco ha potuto mantenere solo in minima parte le sue promesse. Ma l’intesa, malgrado il malumore di qualche inflessibile prelato, resiste a qualsiasi prova o disavventura. […] Il sindaco rieletto viene anche nominato Comitato straordinario del governo a Roma per il Giubileo” [5].

Il braccio della leva va articolandosi attorno a Rutelli: “Sono le grandi opere per l’Anno Santo la fucina da cui nasce il «sistema Balducci». All’epoca del Grande Giubileo del 2000 Angelo Balducci, Gentiluomo di Sua Santità e consultore del dicastero vaticano delle Missioni, è provveditore alle opere pubbliche del Lazio e lavora in stretto coordinamento con il commissario straordinario per il Giubileo, Guido Bertolaso. Entrambi hanno come riferimento il sindaco di Roma, Francesco Rutelli, regista laico dell’Anno Santo e il suo «omologo» nei Sacri Palazzi, Crescenzio Sepe, segretario generale del Comitato organizzatore del Giubileo. A completare la «task-force» rutelliana per l’Anno Santo sono gli attuali parlamentari Paolo Gentiloni e Luigi Zanda” [6].

“Niente obbligava le autorità italiane a disporre opere pubbliche come quelle pretese dalla controparte vaticana in vista del Giubileo”, scrive Ronchey, ma “alzi la mano quel sindaco, quel pubblico amministratore, quel funzionario di destra, di centro, di sinistra, del sud e del nord, d’Italia o d’Europa, che non abbia favorito lobbies di potere nel settore amministrativo di sua pertinenza e non ne abbia ricevuto in cambio favori”, alzi la mano, e c’è un arcitaliano che gliela taglia. La leva è naturale e il braccio, poi, può tornare utile di sindaco in sindaco, di amministratore in amministratore, di funzionario in funzionario – di destra, di centro, di sinistra, che importa? – nell’autoperpetuarsi del sistema.  



[1] Alberto Ronchey, Accadde a Roma nell’anno 2000, Garzanti 2000 – pagg. 19-20
[2] “In considerazione del carattere sacro della Città Eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi, il Governo italiano avrà cura di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto con detto carattere”.
[3] “La Repubblica italiana riconosce il particolare significato che Roma, sede vescovile del Sommo Pontefice, ha per la cattolicità”
[4] Giuliano Ferrara, Il Foglio, 21.6.2010
[5] Alberto Ronchey, op. cit., pagg. 23-24
[6] Giacomo Galeazzi, La Stampa, 13.2.2010

«Non sarà difeso come Marcinkus»


“«Non sarà un nuovo caso Marcinkus, la responsabilità è personale ed è il cardinale Crescenzio Sepe a dover rendere conto ai pm della sua gestione di Propaganda Fide», mettono le mani avanti Oltretevere”
La Stampa, 20.6.2010

 
Nessuno pretende che Giacomo Galeazzi riveli chi sia espresso in questi termini, nessuno pretende che quel virgolettato corrisponda fedelmente a quanto gli sarebbe stato detto, la domanda è: gli hanno davvero fatto il nome di Marcinkus o ce l’ha infilato lui pensando fosse sottinteso? In altri termini: Oltretevere si dà per possibile che Sepe possa avere responsabilità d’ordine, specie o grado corrispondenti proprio a quelle di Marcinkus o piuttosto il riferimento è al fatto che Marcinkus evitò l’arresto ordinato dal giudice istruttore di un tribunale dello stato italiano solo in virtù del suo passaporto diplomatico? Nel fare proprio quel nome, in entrambi i casi, Oltretevere non s’è fatto un gran favore a Sepe: Galeazzi comprenderà bene che non può farsi latore di colpi bassi senza esibire la cedola d’accompagnamento.
E allora, giusto per aiutarci un po’ a capire (se non ci prova un vaticanista, chi?), ci dica: giacché il virgolettato è attribuito a un dipendente della Curia (sottotitolo: “La freddezza della Curia: «Non sarà difeso come Marcinkus»”), il Galeazzi ci può almeno dire se quel nome è gli è stato fatto da un addetto della Segreteria di Stato o di una Congregazione (eventualmente quale, proprio Propaganda Fide)? Nel primo caso, a lavarsi le mani come Ponzio Pilato e a consegnare ai carnefici quel povero cristo di un cardinale, sarebbe il Papa, che è pur sempre a capo di tutta la Curia, e in questo caso si attribuirebbero ben più che indirettamente a Giovanni Paolo II le responsabilità del caso Marcinkus. Finalmente. Nel secondo, a farlo sarebbe l’odierna dirigenza della Curia (o almeno l’odierna dirigenza della Propaganda Fide), e non se ne capirebbe il motivo, se non quello di farci capire che l’immunità diplomatica è un privilegio che lì si ritiene ormai inutilizzabile. Finalmente.
E allora: finalmente quale delle due? 

Raccolta differenziale


Il grosso della “sporcizia” che Joseph Ratzinger rimproverava alla Chiesa, al Colosseo, il 25 marzo 2005, era il carrierismo, non la pedofilia, così ci suggerisce il vaticanista che fino a l’altrieri ha lodato la determinazione mostrata da Benedetto XVI nel far pulizia della “sporcizia” della pedofilia, suggerendoci che fossero gli abusi sessuali su minori il grosso di quella, almeno per Joseph Ratzinger, fin dal 2005. E qui, signor vaticanista, dobbiamo metterci d’accordo: a ogni comandamento che i preti si mettono sotto i piedi – prima il sesto, poi il settimo, il prossimo sarà l’ottavo? – non possiamo cambiare esegesi di quella cazzo di Nona Meditazione. Una volta per tutte: cos’era più sporco, per l’aspirante papa, stuprare bambini o intrallazzare?
Andiamo alla fonte? Andiamoci. “Non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!”.
Indubbiamente, sì, è “sporcizia” che calza meglio addosso ad un intrallazzatore. Ma allora perché ci è stato fatto credere che Joseph Ratzinger ce l’avesse soprattutto con i pedofili? Sarà mica che al prossimo scandalo – chessò, traffico internazionale di droga – scopriamo che “sporcizia” dovesse correttamente tradursi “eroina”?
Decidiamo una volta per tutte: se non è di tutto un gran pattume, la Chiesa, dove troviamo il grosso nella differenziale?

domenica 20 giugno 2010

Prova d’amore


“Non crederete mica che abbiamo spostato l’appuntamento per la partita – ha spiegato Bordin – non è così: in realtà Pannella si trova in Calabria, dove si è svolto un convegno dei radicali calabresi, e per potergli agevolare il ritorno a Roma abbiamo deciso di anticipare la puntata”. Controprova? La consueta conversazione domenicale, che di solito va in onda alle 17.00, è anticipata alle 15.00, andando a sovrapporsi in buona parte a quasi tutto il primo tempo della partita. Ma non è tutto, perché Radio Radicale fa un altro strappo alla regola: la prima replica della conversazione non va in onda, come al solito, alle 22.00 ma alle 17.00, quando l’Italia sta scendendo in campo per il secondo tempo. Potremmo dire, insomma, che non ci sia limitati a snobbare la partita dell’Italia, ma che si è voluto renderla incompatibile con l’ascolto della conversazione Pannella-Bordin.
Se questo non vuol dire niente per il comune mortale, che potrà recuperare la puntata da radioradicale.it quando vuole, o riascoltarla nelle numerose repliche nel corso della notte, o in quella che è mandata in onda alle 11.oo del lunedì, per il dirigente radicale vuol dire, eccome: la compatibilità tra la diretta della Nazionale e il verbo nascente del Transnazionale per eccellenza è assicurato solo da un occhio alla tv e un orecchio alla radio.
Conoscendo un pochino Pannella, il nucleo vivo della conversazione – dove ogni buon dirigente radicale sarà chiamato a concentrarsi – dovrebbe essere a cavallo tra la prima e la seconda ora della trasmissione, quando l’Italia sta scendendo in campo per l’inizio della partita (in diretta) o per l’inizio del secondo tempo (in prima replica).
Non è sadismo nei confronti del dirigente radicale appassionato di calcio o tifoso della Nazionale, ma è una richiesta di prova d’amore, che sarà formalizzata da un giro di telefonate intorno alle 18.30, a partita appena finita: “Hai ascoltato ciò che ho detto? Che ne pensi?”. Sottinteso: “Lo chiedo a te perché ti stimo tanto”. Ancor più sottinteso: “Sbaglio mica a stimarti tanto?”.

Ma ringraziate il cielo che Sua Eminenza è un galantuomo e non vi ride in faccia



Sua Eminenza “possiede un passaporto diplomatico della Santa Sede [e] ne era in possesso anche quando era Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ex Propaganda Fide: lo riferiscono fonti vaticane” (Corriere della Sera, 20.6.2010). Lo riferiscono il giorno dopo che il cardinale Sepe ha annunciato che intende collaborare con la magistratura italiana, quasi in contemporanea ad un annuncio della Sala Stampa Vaticana che dava per certo che Sua Eminenza avesse deciso di farlo.
Oggi, la Sala Stampa Vaticana ribadisce che il cardinale “collaborerà”, ma che “bisognerà tenere conto degli aspetti procedurali e dei profili giurisdizionali impliciti nei corretti rapporti tra Santa Sede e Italia” (La Stampa, 20.6.2010). I corretti rapporti tra Santa Sede e Italia sono illustrati da Concordato e Patti Lateranensi e qui si legge che un prelato con passaporto diplomatico non può essere arrestato né è passibile di altra sanzione che ne limiti la libertà o ne sminuisca i privilegi: Sua Eminenza potrà pure dichiararsi colpevole di concorso in corruzione, essere rinviato a giudizio e/o condannato, ma la faccenda nasce politica e lo rimane. Parliamo di immunità diplomatica, roba sacra.

Non basta. Legge n. 121 del 25.3.1985 a ratifica ed esecuzione dell’accordo con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18.2.1984 (Accordo di revisione Concordato Lateranense), articolo 4, comma 4: “Gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero”.
I beni della Chiesa e il loro movimento non sono materie relative al ministero di prefetto della Propaganda Fide? Cosa obbliga il cardinale Sepe a dare informazioni su persone che – incidentalmente – sono cittadini italiani coinvolti nella movimentazione di quei beni? Se si rifiuta di rispondere, non è accusabile di reticenza: “nei corretti rapporti tra Santa Sede e Italia” ne ha diritto. Se glielo vai a toccare, infrangi la legge.


Aggiornamento
Il professor Enrico Vitali, docente di Diritto ecclesiastico e canonico alla Università Statale di Milano, conferma.

Protasi


L’avviso di garanzia partiva nello stesso istante in cui Benedetto XVI diceva: “Il governo del vescovo sarà fruttuoso pastoralmente solo se godrà del sostegno di una buona credibilità morale che deriva dalla santità della sua vita”. Il nesso è cronologico – la tarda mattinata di sabato 19 giugno – e lo si direbbe casuale, ma “il caso è lo pseudonimo di Dio quando non vuole firmare” (Anatole France), meglio ancora, “è la forma che Dio prende quando vuole rimanere in incognito” (Jean Cocteau). Insomma, parrebbe che il cardinale Sepe sia chiamato – insieme – da Dio (o chi ne fa le veci in terra) a dar conto della sua credibilità morale dimostrando che la sua vita è santa, e dalla Procura di Perugia a dar conto che i favori fatti alla “cricca” non siano concorso in corruzione. Siamo certi che ci riuscirà.

Come volevasi dimostrare


Una dozzina d’anni fa, in uno dei suoi tanti e bellissimi libri, José Saramago scrisse che di certo c’è solo la morte, che la morte non guarda in faccia a nessuno. Una dozzina d’anni dopo, José Saramago muore e un tal Claudio Toscani fa: “Come volevasi dimostrare”. Lo fa in apertura di una scheda biografica del morto che firma su L’Osservatore Romano del 20 giugno.
L’umore verso la salma è malevolo e questo io lo ritengo legittimo: i grandi non muoiono mai, sono tenuti a dar conto di se stessi anche dopo la morte. E Saramago ne dà conto discretamente bene: la sua scheda biografica è sontuosa. La scheda biografica di Claudio Toscani, invece, è assai smunta: se è lui – non si capisce bene, chissà quanti Claudio Toscani esisteranno – pare sia un associato, stipendiato da una tante (troppe) università italiane, e che arrotondi con qualche pezzullo su L’Osservatore Romano. Anche qui si dà conto di se stessi discretamente bene: “Per quel che riguardava la religione, uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago – scrive il Toscani – non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico: se Dio è all’origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l’effetto di ogni causa”. È chiaro quale sia il rimprovero a Saramago: lo scrittore non credeva nell’esistenza di Satana.
Il Toscani, invece, mica banalizza il sacro, e ci crede. È sulla teodicea che misura la grandezza di un uomo, pare, e qui il Toscani giganteggia sul Saramago: “Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza. Prerogative, per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero, oltre che la divina infinità delle risposte per l’umana totalità delle domande. Ma non per lui”. E dunque, in ultima analisi, perché il Toscani schifa il Saramago? Perché non era cattolico: il Dio di cui scriveva non era affatto il Dio del Catechismo.
L’oratio funebris in morte di Saramago è affidata da L’Osservatore Romano a un critico letterario che a quanto pare è dotato di un’unica categoria di analisi: la teologia. “Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell’evangelico campo di grano”: destinato alla dannazione eterna, dunque. Che tuttavia mi pare un buon affare rispetto alla dannazione del fare il critico letterario per il Sant’Uffizio.

[a margine di quanto ha scritto Luca Massaro]