Una madre aveva chiesto, senza ottenerla, la rimozione del crocifisso dalle aule scolasticche dell’Istituto «Vittorino da Feltre» di Abano Terme (Padova) frequentate dai suoi figli. Rivoltasi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha visto riconosciute le proprie ragioni nello scorso novembre. A tale decisione l’Italia ha opposto un ricorso che sarà preso in esame mercoledì prossimo per essere accolto o rigettato.
Non si capisce, in realtà, come possa essere accolto: difende l’obbligatorietà del crocifisso in classe sulla base di elementi che la Corte ha già dichiarato incompatibili con l’aconfessionalità di uno stato laico e in patente contraddizione con l’art. 9 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo.
Più probabile venga rigettato ribadendo quanto già estesamente argomentato: (1) il crocifisso è un simbolo religioso; (2) è chiaramente identificabile come simbolo di una ben precisa religione; (3) la sua esposizione obbligatoria nelle scuole fa violenza a chi coltiva una diversa fede e a chi non ne ha alcuna; (4) questa violenza è lesiva del principio di libertà di credo religioso e di quello di laicità delle istituzioni pubbliche.
Ogni argomento in difesa del crocifisso in classe deve giocoforza contraddire almeno uno di questi quattro punti, che però sono assai più che impliciti nella Convenzione firmata dagli stati membri del Consiglio d’Europa. E dunque perché l’Italia ha presentato questo ricorso? Perché lo doveva alla Chiesa.
Lo dimostra il fatto che, a pochi giorni dall’esame del ricorso, nel tentativo di far pressione sulla Corte, scendano in campo il presidente del Consiglio e il suo sottosegretario, gentiluomo della Casa Pontificia: non basta più un La Russa a dire che “possono morire, ma il crocifisso non lo leveremo” (questo fa colore, non pressione), c’è bisogno che l’Italia metta in campo i suoi massimi rappresentanti, e lo stesso presidente della Repubblica non si sottrae, invitando a riflettere che, a fronte di un principio pur sacrosanto come quello della laicità dello stato, ci sono in gioco sentimenti da non ferire.
Vedremo in quale conto sarà tenuto il sentimento identitario nazionale che allega a un simbolo religioso l’intero suo bagaglio culturale e l’intero suo patrimonio storico, ma non bastasse, d’appoggio, l’Italia porta alleati pronti a sottoscrivere le sue ragioni: Malta, Repubblica di San Marino, Romania, Monaco, Ucraina e Polonia.
Non è proprio il massimo per una battaglia così nobile. Dove stanno la Francia e la Germania? E il cattolicissimo Portogallo? Vedremo, ma pare che in ambito europeo si prepari un’altra figuraccia per l’Italia.
O per la Corte europea dei diritti dell’uomo, naturalmente. Perché smentire quanto scritto a novembre significherebbe violare principi lì dichiarati fondativi della stessa idea di un’Europa laica.
E' curioso come ci si attacchi a simboli religiosi nel momento stesso in cui, con parole, e ancor di più con i fatti, ci comportiamo in modo diametralmente opposto alla dottrina. Un favore alla chiesa? La chiesa, se fosse illuminata, si dovrebbe fare un favore da sola, rinunciando a queste stupide versioni moderne di crociate, per concentrarsi sui suoi veri problemi e per ritrovare la forza ideale degli inizi. Ma non c'è da sperarlo: si venera un lenzuolo medioevale, come può relativizzare l'importanza di un'icona come la croce?
RispondiEliminaStaremo a vedere, sì.
Non ho letto il ricorso, ma se è vero, come riportato dai principali organi d'informazione, che il Governo italiano ha sostenuto che "accettando la tesi secondo la quale la presenza muta di un oggetto simbolico in uno spazio pubblico può dare origine a problemi psicologici tali da costituire una violazione del diritto alla libertà religiosa, si dovrebbero anche eliminare tutti i simboli religiosi, cattedrali e chiese comprese", possiamo dare per scontata l'ennesima figura di merda in ambito europeo.
RispondiEliminaConsiglio d'Europa, non Comunità europea.
RispondiEliminaE' vero, grazie per la correzione.
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