Sul congedo obbligatorio di paternità si confrontano, sulla prima pagina de il Giornale di oggi, Giordano Bruno Guerri, favorevole, e Vittorio Feltri, contrario, dandoci una splendida occasione per non entrare nel merito, che essi stessi paiono eludere e che sta tutto nell’obbligatorietà prevista dal ddl a firma di Barbara Saltamartini. Con Guerri e Feltri siamo – prima di tutto e quasi del tutto – di fronte a due diversi modi di intendere la paternità.
Nel primo caso, abbiamo un uomo divenuto padre a 55 anni, dopo un’esistenza ricca di esperienze, in gran parte appaganti. Un uomo che parla della sua infanzia come di un felice laboratorio esistenziale e della sua paternità come un approdo ancor più felice.
Nel secondo caso, abbiamo un uomo indurito dalla vita: “Dopo la morte prematura di suo padre, infatti, sua madre dovette andare a lavorare per mantenere i tre figli. Furono anni duri”, dice Luciana Baldrighi che ne ha raccolto le confessioni in Feltri racconta Feltri (Sperling & Kupfer, 1997); e lui: “Sì, ma non ne parlo volentieri. […] Accanto al cancello del palazzo c’era un campanello, suonava ogni volta che qualcuno passava. E a ogni scampanellata mi precipitavo alla finestra nella speranza di vedere arrivare mia madre. Succedeva anche trenta o quaranta volte per sera: non era mai lei. Così quelle corse verso vetri sempre appannati di umidità e delusione mi sono rimaste impresse nella memoria. […] Non ho mai trovato niente in famiglia: nessun incoraggiamento, nessun appoggio. Nessun supporto morale e anche poco aiuto materiale. Magari c’era, ma io non l’ho trovato. Ero il più piccolo quando morì mio padre. E rimasi solo” (pagg. 57-58).
A tutto questo si può sopravvivere solo indurendosi, finendo per ritenere superflua la tenerezza, fino a considerarla vacuo esercizio di sdilinquimenti e svenevolezze: si può rimuovere un’infanzia come quella di Feltri solo in un ideale di maternità (e ancor più di paternità) essenzialmente finalizzati alla sopravvivenza materiale della prole. Il dolore per tutto ciò che non si è avuto può essere superato solo nel convincersi che era irrilevante.
“Ogni volta penso quanto siamo fortunati, Nicola e io, perché lavoro a casa e le nostre reciproche assenze sono così brevi”, scriveva Guerri. Feltri, invece, si raccontava così: “Ai figli non ho insegnato niente. Ho solo cercato di comportarmi in modo decoroso. Pensavo: se verrà loro in mente di prendermi come modello non faranno scemenze. Adesso che ho passato i 50 anni li trovo divertenti, simpatici, interessanti. […] In questi ultimi anni ho molto rinsaldato i legami affettivi con loro” (pagg. 75-76).
È naturale che, oggi, sul congedo obbligatorio di paternità, il primo scriva: “Rientreranno in ufficio con una marcia in più, a aumentare la loro produttività, come padri di famiglia e come uomini responsabili di qualcosa che non ha prezzo”; e il secondo: “Poche balle. […] Quattro giorni di congedo per fare quattro passi all’ospedale sono troppi per fugare il sospetto che si tratti di ossequio a una moda insulsa”.
Rimarrebbe, a parte, la questione di merito, che a me pare l’obbligatorietà. Ma perché discuterne?
bellissimo post, sto ovviamente coi guerri
RispondiEliminaPoi un emendamento dell'UDC ci costringerà direttamente a diventare padri e allora sarà un vero boom di produttività!
RispondiElimina