lunedì 2 agosto 2010

“Vita relazionale ordinaria”


Luca Massaro ritiene bizzarro, forse assurdo, sostenere che nella scrittura privata vi sia “infinita libertà” (come ho più volte sostenuto) e (con Giulio Mozzi) dice che la scrittura è (non può che essere, dev’essere) pratica relazionale – corrispondenza – tanto più libera quanto più libero è l’uomo che non si sottrae alla “vita relazionale ordinaria”, quel mercato che fa ricchi tutti, eccetera. Non vorrei sembrare scortese, ma rimango della mia opinione: la scrittura pubblica non è mai più libera di quella privata, perché una pagina non è sollecitata a trovare relazione se scritta per rimanere privata. Andare al mercato, cercare relazione, trovare corrispondenza del tipo gradito, sforzarsi di mantenerla e accrescerla – non sarà una schiavitù, ma è un bel peso. Cercare di piacere al lettore (o di fargli altro effetto desiderato) toglie libertà alla scrittura: le darà altro, senza dubbio, ma non la libertà. Ci si muove con disinvoltura solo in privato, se nudi: quando si è disinvolti in pubblico, la nudità è coperta almeno dalla posa ritenuta migliore.
Mai veramente nuda, mai veramente gratuita, la scrittura pubblica. Che dà le sue soddisfazioni, non v’è dubbio, ma chiede sempre troppo. Quanta scrittura s’è corrotta inseguendo soddisfazioni diverse da quella di dar forma ai propri pensieri, finendo per corrompere anche quelli.

domenica 1 agosto 2010

pg ≠ p, salvo eccezioni




Sull’omosessualità di John Henry Newman e sulla sua pluridecennale convivenza more uxorio con Ambrose StJohn non ci sono dubbi, anche se c’è un tizio che ha più volte provato a farci credere che a quei tempi – parliamo dell’Inghilterra vittoriana – fosse da intendere come normale segno di “amicizia” tra maschietti, se preti, abbracciarsi, stare guancia a guancia, dirsi: “Luce mia!”, fino a dettare imperative will di essere sepolti insieme (tutto in The Letters and Diaries of John Henry Newman). Vai a cercare quanti preti siano stati sepolti insieme, a quei tempi, e ti restano due sole ipotesi: (a) l’amicizia tra preti era rarissima; (b) Newman e StJohn erano una coppia gay (anche abbastanza sfacciata tenuto conto dei tempi). Propenderei per (b), così mi spiegherei pure il perché, prossima a far santo uno dei due, la Chiesa di Roma lo abbia dissepolto, separandolo dall’altro, contro le sue ultime volontà.

Non ha importanza se facessero sesso o se si dessero solo bacetti: si può essere buoni cristiani anche se omosessuali, dice il Catechismo, basta astenersi da ogni pratica sessuale. E tuttavia, anche casto, un prete gay – ce l’hanno rammentato di recente – non è prete.
Il tentativo del tizio di cui sopra ha una sua logica. Non basta cancellare la miglior prova del loro matrimonio di fatto – a volte le tombe dei cardinali si possono violare coi martelli pneumatici, dipende da chi lo fa – perché poi bisogna rifinire: cancellata la prova della pratica omosessuale, bisogna far sparire la stessa omosessualità. Quale miglior nascondiglio dell’“amicizia”? Le soluzioni tradizionali sono sempre le migliori ed è da millenni che, quando vuol negarsi, l’omosessualità si dichiara amicizia.

Ecco dunque che “bisogna leggere i fatti nel contesto di un’epoca in cui l’amicizia tra gli uomini del clero era molto più importante di oggi”, sennò come si potrebbe far santo un prete gay? (In questo caso, poi, il prete sarebbe addirittura un cardinale, e manco un cardinale qualsiasi, ma un vero e proprio fiore all’occhiello della Chiesa di Roma.) Pur casto – ce l’hanno rammentato di recente – un prete gay usurpa i privilegi del sacerdozio (sì, si è parlato proprio di “privilegi”), e si può mai far santo un usurpatore, per giunta di un sacro ufficio? Newman e StJohn erano amici, niente di più. (Alla faccia di Oscar Wilde, contemporaneo del signor cardinale, che per lo stesso genere di “amicizia” finì ai lavori forzati, e così ci è chiaro che certi “privilegi” tornano comodo, ma bisogna goderne con discrezione.)

Si potrebbe anche chiudere un occhio di fronte al solito combinato disposto di malafede, ipocrisia e mistificazione, ma stanno per buttarci addosso tutto ciò che Newman ha scritto: roba da convertito, dove lo zelo arde al meglio, dunque pappa prelibata per la propaganda clericale. Bisognerà, però, mettere in secondo piano il fatto che Newman non fosse a favore della proclamazione del dogma dell’infallibilità papale e che anteponesse il dettato della coscienza a quello dell’autorità pontificia, almeno in via di principio. (Sant’uomo, il Newman, ma aveva un sacco di difettucci.) Negare la sua omosessualità è operazione più semplice: la lasciano sbrigare alla bassa manovalanza, al tizio di cui sopra, che saluto, perché so che è mio lettore.

"You might think I'm frivolous, uncaring and cold"



venerdì 30 luglio 2010

Meninge per laringe



Non v’è alcun dubbio sul fatto che Michelangelo Buonarroti abbia studiato anatomia su cadaveri sezionati, interessandosi soprattutto dell’apparato locomotore. Tuttavia, com’è comprensibile per l’interesse che lo muoveva, il suo approccio a questo studio fu esclusivamente topografico, non molto diverso da quello che all’anatomia è oggi riservato nelle scuole d’arte, dove non si va oltre ciò che è utile sapere per riprodurre in modo corretto i volumi delle masse corporee, lasciando da parte ogni rilievo di natura sistematica. Ai suoi tempi, d’altronde, non poteva essere diversamente, perché le tecniche di studio anatomico cominciavano proprio in quella prima metà del XVI secolo, e assai timidamente, a costruire una tassonomia del corpo umano. Il primo a farlo fu il fiammingo Andrea Vesalio (Andreas van Wesel), contemporaneo di Michelangelo (morirono entrambi nel 1564), ma del quale l’artista italiano non ebbe mai modo di leggere il suo De humani corporis fabrica (1543), nel quale è dedicato assai poco spazio al sistema nervoso centrale (s’intrattiene solo sulle circonvoluzioni degli emisferi e sul corpo calloso). Bisognerà aspettare Malpighi (1628-1694), Morgagni (1682-1771) e Bichat (1771-1802) per sapere qualcosa dell’anatomia del cervello, un organo che si comincia a deteriorare irreparabilmente dopo poche ore dal decesso: fino a quando non fu trovato il modo di bloccare i processi degenerativi post mortem con opportuni allestimenti, lo studio della massa cerebrale fu un problema serio per ogni anatomista e, prima dell’impiego della formaldeide a tale scopo, non abbiamo studi che siano degni di attenzione. È possibile, dunque, che Michelangelo conoscesse l’anatomia del cervello e del tronco encefalico meglio di chiunque altro ai suoi tempi?
La domanda è in qualche modo inevitabile alla lettura di ciò che Ian Suk e Rafael Tamargo, due ricercatori della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora, nel Maryland, scrivono sul numero di maggio di Neurosurgery (66:851-861, 2010): a sentir loro, nel pannello della Cappella Sistina detto della Separazione della luce dalle tenebre, Michelangelo avrebbe dipinto l’anatomia della base cerebrale e del tronco encefalico umani sul collo di Dio, e con tale precisione di dettaglio da potervi rilevare sorprendenti correlazioni.


L’idea – i due non ne fanno mistero – nasce dalle suggestioni offerte una ventina d’anni fa da Frank Lynn Meshberger con un articolo pubblicato su The Journal of the American Medical Association dal titolo An interpretation of Michelangelo’s Creation of Adam based on neuroanatomy, del quale riportano una tavola che proverebbe una correlazione tra la sezione sagittale del cervello e del tronco encefalico e un pannello della Cappella Sistina. Superfluo dire che ai tempi di Michelangelo una tale sezione anatomica non era neanche ipotizzabile, ma ciò che appare evidente anche a chi non abbia alcun rudimento di anatomia cerebrale è l’arbitrarietà della correlazione dei punti di repere.


La tesi di questo post è la seguente: Ian Suk e Rafael Tamargo hanno stravisto, perché sul collo del Dio ritratto da Michelangelo altro non v’è che la comune anatomia della regione sottomentoniera e di quella sternoioidea, quando soggette al movimento di estensione e lateralizzazione del capo lì raffigurato.


Ciò che ai due sembra il peduncolo cerebrale (a) altro non è che l’area approssimativamente trapezoidale che è racchiusa tra i due ventri anteriori dei muscoli digastrici (lateralmente), la depressione relativa al corpo dello ioide (inferiormente) e ai margini inferiori della mandibola (superiormente), e cioè l’area corrispondente alla superficie del muscolo miloioideo (a'), come appare quando protude attraverso lo spessore del platisma nella estensione del capo; ciò che a loro sembra il ponte (b) altro non è lo sviluppo dei due muscoli tiroioidei (b'); il midollo allungato (c) altro non è che il complesso laringo-tracheale (c'); e l’area triangolare a vertice inferiore, che i due riferiscono all’emisfero cerebellare, bilateralmente situata ai margini del complesso a-b-c, altro non è quanto si sviluppa tra sternocleidomastoideo e il complesso a'-b'-c', dove a' è la sezione relativa alla regione miloioidea (vedi la figura che apre questo post) e b'-c' è quella relativa al complesso tiroioideo-laringotracheale (vedi figura qui sotto).


Michelangelo avrebbe ben potuto avere nozione dell’anatomia topografica della regione cervicale anteriore così come qui sommariamente descritta e peraltro compiutamente rappresentata come regione cervicale anteriore di un Dio a immagine e somiglianza di uomo; assai più difficile che potesse avere nozione dell’anatomia della base cerebrale e del midollo allungato così come osservabile dopo adeguata fissazione in formaldeide; e invero appare senza ragionevole spiegazione il perché un pittore del Rinascimento possa essersi sentito ispirato a rappresentare un bulbo encefalico al posto di una gola, meninge per laringe.
Ma ciò rende del tutto inverosimile l’ipotesi di Suk e Tamargo – un Michelangelo che cripta le sue nozioni di anatomia del sistema nervoso – è il vedere in una piega della veste addosso a Dio il solco mediano anteriore del midollo spinale, peraltro non allineato al bulbo,



e, ancora, a stravedere nel panneggio l’anatomia dei globi oculari e del chiasma ottico.



Vengo a conoscenza dell’articolo sul numero di maggio di Neurosurgery da una AdnKronos di oggi. D’estate tutto è buono per riempire lo spazio tra il culo di Belén e il muso di Capezzone.


[Un grazie a Brunella per lo scanning dal Testut-Latarjet.] 

Consorterie

Che cosa manca nella blogosfera italiana?
«Niente, ciascuno ha quanto merita.
C’è solo una pesante cappa di provincialismo
e una irresistibile tentazione alla consorteria».



I termini non correnti o di raro uso vanno incontro a un rimaneggiamento più lento e nascosto del loro significato, ma altrettanto inesorabile che per i termini d’uso continuo. Dovremmo tremare nell’usare un termine non molto usato, perché corriamo il rischio di usarlo male. E qui, un po’ nauseato di bloggare, ma non di scrivere, e dunque per mettere riparo a ciò che nel privato avrei lasciato senza correzione, vorrei parlare di un mio errore: ho usato un termine – è stato qualche tempo fa, ma non molto – per significare tutt’altra cosa da quella che oggi mi è significata nell’autorevole parere del Quirinale, che mi sta al pari dell’Accademia della Crusca.
Parlo del termine “consorteria”: se Giorgio Napolitano ha definito “consorteria” quel nodo di interessi poco belli solitamente trafficati da un giro di sodali, clienti, famigli, nascosti e/o complici, spesso in nicchie di prepotere e di privilegio, io ho usato il termine “consorteria” a sproposito quando ho parlato di quelle aree della blogosfera che raccolgono sodali, clienti, famigli a fare traffico di carinerie che del prepotere e del privilegio hanno solo il millantato credito. A sproposito, perché qui gli interessi del giro sono sempre belli, addirittura nobili, e sono sempre abbastanza evidenti, talvolta pure troppo, e la complicità che li nutre non ha quasi mai nulla di quello “squallore” che il Presidente della Repubblica ha segnalato per la cosiddetta P3. Insomma, ho usato il termine “consorteria” in modo assai improprio, forse addirittura offensivo: correggermi è chiedere scusa e, visto che sto ripensando a tutto ciò che ho sbagliato a scrivere, comincio da questo.
Usavo il termine nell’accezione di “associazione di famiglie nobili, diretta al mantenimento di un certo prestigio e potere nell’ambiente delle società medievali, nel periodo della crisi del feudalesimo” (Devoto-Oli), con riferimento alla nostra età di mezzo che in ogni ambito relazionale e comunicativo non può che rivelare e rappresentare la crisi di vecchi modelli, con la nascita di nuovi, e non in quella spregiativa di “fazione che agisce più o meno nascostamente per il proprio interesse particolare, per lo più a detrimento del bene pubblico” (ibidem). Il bene pubblico, peraltro, è roba che la blogosfera non è tenuto a curare; per quanto attiene al proprio interesse particolare, invece, ciascuno può allegarlo a quello pubblico, fino a smentita.

martedì 27 luglio 2010

Non proprio



Quando L’Osservatore Romano ha strillato in prima pagina della scoperta di “un nuovo Caravaggio” (18.7.2010), tutti i quotidiani nazionali – ripeto: tutti – non hanno fatto altro che rilanciare lo strillo. Non un dubbio, né dal gran mucchio di ignorantoni che stipano le redazioni, né dalla eletta schiera dei critici d’arte, che avranno pure avuto qualche dubbio, ma sono stati tutti zitti. Quello che aveva scritto Lydia Salviucci Insolera sembrava dato per certo: “Che il dipinto sia di grande bellezza è un fatto inequivocabile… Notevole è la luce che dal fondo scuro sferza e modella con bagliori improvvisi la superficie dei volumi… La dimensione umana, espressa dallo sguardo e dal movimento della testa, tutta tesa in avanti, viene efficacemente comunicata allo spettatore… Questa stessa sensazione si percepisce osservando le opere di Caravaggio per la cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo…”.
Tutti incantati dinanzi al nuovo Caravaggio, molti a bocc’aperta, qualcuno semisvenuto per sindrome di Stendhal. Solo uno stronzo – blogger, per giunta – aveva argomentato contro l’attribuzione, concludendo con un’ardita affermazione: “il Martirio di San Lorenzo non è di Caravaggio”. Un post irrilevante, comprensibilmente irrilevato, di quelli di cui scorri due righe, sbadigli e corri a fare il test per sapere a chi write like. Post degno di nota solo nel caso che il Merisi si fosse offeso e avesse chiesto € 12.500 euro al blogger, quello sì che sarebbe stato un 3d avvincente. D’altronde, diciamola tutta, a voler essere dei blogger seri la giornata del 19 luglio s’offriva a riflessioni di assai maggior peso: Tremonti su l’iPad, il 36° suicidio in carcere, i bus del nordest ormai pieni solo d’immigrati… C’era di che ciucciarselo a vicenda.

Oggi, però, L’Osservatore Romano torna sui suoi passi, mandando avanti nientepopodimeno che il direttore dei Musei Vaticani: “Guardi da vicino e vedi mani prospetticamente sbagliate, anatomie goffe e disarticolate nei nudi in secondo piano sulla destra, panneggi incerti…”. Toh, anche lui s’è soffermato sul panneggio che al blogger di cui sopra sembrava “rozzo e innaturale”, senz’“alcunché di caravaggesco”. Ma il link va al professor Paolucci, perché neanche più ricordo chi fosse il blogger.


[Ci si rivede molto, ma molto più in là.]

pg ≠ p

“In seminario ci dicevano:
«Uno dei segni della vocazione
è che non ci piacciono le donne»”


L’inchiesta di Panorama sui costumi sessuali del clero in Roma non mi interessa, non mi dice niente, ma la reazione del Vicariato di Roma mi apre un mondo. “L’estensore del servizio – vi si legge – afferma di aver frequentato alcuni sacerdoti gay e di aver documentato i loro comportamenti con una telecamera nascosta. La finalità dell’articolo è evidente: creare lo scandalo, diffamare tutti i sacerdoti, sulla base della dichiarazione di uno degli intervistati secondo il quale «il 98 per cento dei sacerdoti che conosce è omosessuale»…”. Qui mi fermo e già mi vengono in mente un sacco di cose.
Prima fra tutte, la testimonianza di don Carmelo Vicari: “In seminario ci dicevano: «Uno dei segni della vocazione è che non ci piacciono le donne»” (Tempi, 16/29 – pag. 3). Poi penso al fatto che per il Catechismo un omosessuale rimane un buon cristiano se si astiene da pratiche omosessuali, ma che alla Chiesa non basta che un prete gay sia casto e ha perfino scatenato una “caccia al ricchione” nei suoi seminari. Se un seminarista riesce a confinare la propria omosessualità dove nessun ispettore riuscirà mai a stanarla, può fare il prete; appena si rivela, non è più prete. Un prete gay non è un prete (pg ≠ p), ma a patto che si risappia: già parlare di “preti gay” è un voler “screditare la Chiesa”, così afferma il Vicariato di Roma.
Ma che c’entra il Vicariato di Roma? Perché non parla la Congregazione per il Clero? Perché non parla la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica? Perché le “notti brave dei preti gay” sono romane: si esprime l’organo territorialmente competente, e infatti è fatta distinzione tra i “1.300 sacerdoti delle 336 nostre parrocchie” e le “molte centinaia di altri preti provenienti da tutto il mondo per studiare nelle università, ma che non sono del clero romano”. Giacché pg ≠ p, il fatto non riguarda il clero in generale, ma il discredito gettato sul clero romano “sulla base della dichiarazione di uno degli intervistati [da Panorama] secondo il quale «il 98 per cento dei sacerdoti che conosce è omosessuale»”: il Vicariato di Roma interviene per dire che non gli risulta ve ne sia notizia per ciò che riguarda il suo clero, ergo trattasi di diffamazione.
Certo, “i fatti raccontati non possono non suscitare dolore e sconcerto”, ma i preti gay di Panorama non sono preti e nemmeno preti romani, tutt’al più usurpatori i cui “comportamenti infanga[no] la onorabilità di tutti gli altri”. Poi: “Sappiano che nessuno li costringe a rimanere preti, sfruttandone solo i benefici”. Wow, uno dei rari casi in cui si ammettono benefici. E ancora: “Questo Vicariato è impegnato a perseguire con rigore, secondo le norme della Chiesa, ogni comportamento indegno della vita sacerdotale”. La Chiesa non c’entra niente: per la Chiesa, pg ≠ p.
“In seminario ci dicevano: «Uno dei segni della vocazione è che non ci piacciono le donne»”, ma poi nel 2005 è arrivata la circolare che vietava di ordinare sacerdoti i seminaristi gay. Da quell’istante chi già era prete, e gay, non esisteva: come con i pedofili, è bastato smettere di coprirli e non dovrebbero più essercene.

A sette settimane dall'omicidio di monsignor Luigi Padovese


Ho scritto della morte di monsignor Luigi Padovese in tre occasioni, segnalando i non pochi dettagli incongrui alla tesi dell’esecuzione di marca islamista. “Sicuro è che non si tratta di un assassinio politico o religioso, si tratta di una cosa personale”, l’ha detto Benedetto XVI. E io mi sono limitato a sottoscrivere e ad aggiungere: le pressanti avances di Sua Eccellenza hanno trovato una resistenza violenta.
Anche qui non ho fatto altro che sottoscrivere quanto peraltro concesso dal Vicariato in ordine all’inchiesta di Panorama sulle abitudini sessuali di un rappresentativo campione di preti a Roma: ci sono preti gay, sono invitati a dichiararsi tali e a lasciare la tonaca, ma non lo fanno. Qui mi limito a chiedere: se riesce a non farsi pizzicare, un prete gay può arrivare a diventare vescovo in Turchia? Direi che non si possa escludere, peraltro il Vicariato garantisce solo sul clero indigeno, margina il fenomeno a preti foresti e itineranti.

Ucciso in odio alla fede cristiana, diceva Il Foglio. Martirio, diceva Avvenire. Agnello sacrificale, diceva L’Osservatore Romano. Io dicevo: “Monsignor Luigi Padovese aveva rinunciato al suo viaggio a Cipro poche ore prima di essere ucciso, dopo che Murat Altun gli aveva comunicato che non lo avrebbe seguito. Quel viaggio era un appuntamento importantissimo (doveva essere accanto a Benedetto XVI che consegnava quell’Instrumentun laboris alla cui stesura il Padovese aveva dato un grande contributo), ma a tuttora nessuno sa spiegare perché il vescovo vi abbia rinunciato. […] Murat Altun era alle sue dipendenze come autista da quattro anni, e tuttavia il Padovese lo voleva accanto a sé anche quando non doveva spostarsi. Non sarebbero mancate occasioni per uccidere prima il vescovo, soprattutto nella settimana che ha preceduto quella nella quale si è consumato l’omicidio, nella quale il Padovese ha trattenuto presso di sé l’Altun senza mai consentirgli di tornare a casa”. Una zecca, almeno per una mente psicolabile come l’Altun.

Anche qui non faccio che sottoscrivere quanto dice un autorevole prelato, monsignor Ruggero Franceschini, che dopo la morte del Padovese ne ha preso il posto: “Mi fa soffrire questa attesa nel silenzio […] Mi dispiacerebbe che prevalesse il motivo passionale”. Lo esclude, ma allora perché temere di dover essere smentito? Perché “di concreto c’è che aspettiamo di conoscere la verità su questa morte”. Ma non era già nota? Evidentemente no, evidentemente non è ancora del tutto chiaro: Altun potrebbe aver ucciso un nemico dell’islam o uno spasimante troppo assillante, a sette settimane dall’omicidio ancora non si sa. Infatti monsignor Franceschini afferma che “Altun was not a religious man, leaving a question mark over why he had incorporated Muslim symbolism in the execution of Bishop Padovese”. Tenderebbe a cadere l’ipotesi dell’esecuzione in stile jihadista, e che altro rimarrebbe? “Una cosa personale”, proprio come aveva detto Benedetto XVI.

mercoledì 21 luglio 2010

martedì 20 luglio 2010

Cordialmente, come si dice


Andrea Tornielli mi fa:

Gentile Luigi Castaldi, lei ha ogni diritto di «schifarmi». Forse però, per completezza, dovrebbe riferire che lei cita non un mio articolo sul Giornale, ma un breve trafiletto sul blog, dove io riprendevo la notizia.
Sono ovviamente pronto a discutere con lei di Pio XII «seriamente», avendo scritto quattro libri sull’argomento, l’ultimo dei quali (Pio XII, Mondadori 2007, 680 pagine, tradotto in Francia e recensito positivamente da molti vaticanisti stranieri, quelli che lei non «schifa», tanto per intenderci) è basato su molti documenti inediti che mostrano quale fosse la percezione che Pacelli aveva di Hitler e soprattutto in quali date precise egli l’abbia messa per iscritto.
Ma sono certissimo che lei, ovviamente, sappia già tutto...


Rispondo:

Gentile Andrea Tornielli, lei non entra nel merito della questione da me sollevata nel post “E io perciò li schifo, i vaticanisti italiani”, che le dà occasione di risentirsi. Non espone argomenti avversi alla lettura che ritengo corretta della frase tratta dai diari del cardinale Celso Costantini, di cui lì si discute. Non mi contesta l’affermazione che Sua Santità l’abbia usata, peraltro citandola con apposita modifica, in patente soccorso della non lusinghiera fama di cui gode Pio XII presso gli ebrei. Non mette lingua neppure su quanto io affermo in ordine al nocciolo della questione: cosa sia da intendersi per “Anticristo” in quella frase, e cosa sia intendersi per “religione” nella parte appositamente tagliata da Benedetto XVI. In realtà, lei non sfiora neppure la tesi di fondo da me sostenuta, ma per tre quarti della sua pur breve letterina mi rimanda a quella opposta, che neanche a farlo apposta è quella sostenuta da qualsiasi vaticanista italiano che abbia intenzione di poter continuare a scrivere su un giornale italiano e da qualsiasi storico italiano di cose vaticane che ci tenga a poter aver accesso agli archivi. Non mi stupisco che sia anche la sua: ho letto i suoi libri e li ho trovati adeguatamente appiattiti agli interessi della Santa Sede.
Oltre ad aprirmi a ventaglio la coda dei suoi libri, lei si limita a riprendermi perché non ho specificato che lei ha avallato l’ennesimo, piccolo, miserabile trucchetto di Sua Santità sul suo blog, non su il Giornale. Non ho capito cosa cambi: non è sempre lei ad averlo avallato?
Un vaticanista serio non dovrebbe spiegarci i trucchetti? Quello che Benedetto XVI ha fatto usando la frase del cardinal Costantini, gentile Andrea Tornielli, lei non ce l’ha spiegato: né sul suo blog, né su il Giornale. E giacché me ne dà ogni diritto, le rinnovo il mio sentito.
Cordialmente, come si dice.

lunedì 19 luglio 2010

Una rotonda sul mare / 11



Migliorare la tosse, Martini!


“Buon giorno. Questa è «Stampa & Regime», la rassegna stampa di Radio Radicale. I giornali sono quelli di lunedì 19 luglio. Paolo Martini in studio, il direttore Bordin torna domani…”.

Non male, davvero non male la rassegna stampa di Martini, che a un certo punto butta lì pure due colpetti di tosse. Tuttavia è una tosse senz’anima, senza carattere, meccanica, totalmente inespressiva.

Solo un nodoso randello


Il 12 aprile di quest’anno la Santa Sede ha reso pubblico un Regolamento (Guida alla comprensione dei procedimenti adottati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nei casi di abuso sessuale su minori) che all’inizio non s’era capito bene se fosse stato scritto nel 2001 o nel 2003 (così poi ha chiarito la Santa Sede), ma che in chiusa citava un Benedetto XVI che non si sarebbe avuto prima del 2005 (se almeno confezionassero con più cura i loro falsi, ci sentiremmo meno offesi).
Questo Regolamento aveva lo scopo di guidare i vescovi nell’applicazione di quanto la De delictis gravioribus (2001) veniva a correggere della Crimen sollicitationis (1922, 1962) per le prerogative che in tale ambito Giovanni Paolo II riconosceva alla Congregazione per la Dottrina della Fede col motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela (2001).
Semplificando, potremmo dire: fino al 2001 è in vigore la Crimen sollicitationis, dal 2001 in poi è in vigore la De delictis gravioribus, che viene dotata di una Guida nel 2003 o – più verosimilmente, per quanto detto – dopo il 2005; ma non basta, perché nel 2010 – siamo al 15 luglio scorso – vengono rese pubbliche delle Modifiche alle «Normae de gravioribus delictis».

Penso sia ragionevole dedurne che fino al 2001 la Chiesa di Roma ha avuto le idee salde e chiare sul come trattare i casi di abusi sessuali su minori da parte del suo clero, perché trattarli com’erano stati trattati fin lì non aveva dato problemi; dal 2001 in poi, chiamata a rendere conto del fatto che avesse trattato il problema cercando sempre e solo il proprio tornaconto, la Chiesa di Roma non trova pace e, pur di non dover rendere conto del passato ad altri che a se stessa, non smette di precisare, rettificare, modificare, come se il passato potesse essere cancellato dal presente.
Sappiamo quanto questo sia difficile: anche avendo a disposizione intere schiere di manipolatori della memoria, il passato emerge proprio dove non dovrebbe. Per esempio, quando le Modifiche alle «Normae de gravioribus delictis» portano gli anni di prescrizione da 10 a 20 (art. 7, §1): tenuto conto della permanenza degli effetti che un abuso sessuale su minore comporta per la vittima lungo tutto il corso della sua vita, volendo davvero star dalla parte del debole (che pare essere nelle nuove intenzioni della Santa Sede), perché non risolversi a un semplicissimo “prescrizione mai”? E cosa è accaduto perché ciò che nel 2001 poteva andare in prescrizione dopo 10 anni adesso deve andarvi dopo 20? È cambiata la natura del crimine? Non risulta.

Risulta, invece, che nel Sacramentorum sanctitatis tutela c’è scritto: “Si deve rammentare che tale Istruzione [la Crimen sollicitationis] aveva forza di legge” (2001); e oggi una Introduzione storica a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede sostiene che quella Istruzione “non ha mai inteso rappresentare l’intera policy della Chiesa cattolica circa condotte sessuali improprie da parte del clero” (2010).
Con la prescrizione che da 10 sale a 20 anni (con ciò chiamando in causa la Chiesa di Roma per quanto le competeva prima del 2001), voilà, la Crimen sollicitationis non aveva forza di legge. Anzi, neppure dettava un indirizzo ai vari episcopati.
Solo un nodoso randello può essere un buon argomento su simili imbroglioni.

domenica 18 luglio 2010

Il "Martirio di San Lorenzo"



Qui sopra ho raccolto i dettagli di alcune opere di certa attribuzione al Caravaggio, tutti relativi al panneggio. Sottraendo il colore (A) e lo sfumato (B), è possibile considerarne gli sviluppi.


Si può fare analoga operazione col dettaglio del panneggio nel Martirio di San Lorenzo
  

che qualcuno ipotizza essere opera del Caravaggio, ma con tutta la buona volontà risulta difficile attribuirgli qualcosa del genere.


Lo sviluppo è rozzo e innaturale, ma soprattutto non ha alcunché di caravaggesco (e parliamo di una tela del periodo romano, quello della piena maturità e del pieno controllo del disegno e del colore). Può darsi che si tratti un “mutandone” aggiunto in epoca successiva, toccherà ai periti esprimersi, ma se quel telo sulle pudenda del santo è di chi ha dipinto il quadro, faccio personale fatica a crederlo uscito dal pennello del Caravaggio.
Rimane un’altra questione. Sintetizzerei così: il Martirio di San Lorenzo è “troppo” caravaggesco. Il santo ha lo stesso volto di uno dei personaggi (il terzo da sinistra) nel Concerto di giovani (1593), la sua espressione è in tutto simile a quella di Isacco del Sacrificio di Isacco (1598), la posa del braccio destro è perfetta copia del braccio destro di Oloferne in Giuditta e Oloferne (1599), ecc.
A naso, il Martirio di San Lorenzo non è di Caravaggio.

Immagini pornografiche di minori sotto i 14 anni


Gravius delictum è quello del chierico che acquisisca, detenga o divulghi imagina pornographica minorum infra aetatem quattuordecim annorum, però se turpe patrata. Insomma, bisogna dimostrare che il fine sia proprio la libidine, ma vallo dimostrare, e che il minore non abbia 14 anni + 1 giorno, ma vallo a escludere. Il punto di cui all’art. 6, §1, 2° delle Normae è solo una presa per il culo.


Patro


Voce attiva di patior (soffro, sopporto, subisco), patro può essere tradotto con compiere, eseguire, realizzare – più o meno come perpetro (voce attiva di perpetior) – ed è usato per lo più in formule di carattere legale (patro promissum, patro iusiurandum e simili), a rammentarci di quel magistrato (pater patrator) che ufficializzava gli impegni sottoscritti in un atto pubblico. Non stupisce, dunque, trovare patro in due punti delle Normae de gravioribus delictis. Tuttavia, in entrambi i casi, il verbo è usato per esprimere il compimento di delicta.

- Art. 6, §2: “Clericus qui delicta de quibus in §1 patraverit…” (“Il chierico che compie [abbia compiuto] i delitti di cui al §1…”). Qui, il patratum è qualcosa di illegale e il patrator perde senza dubbio la dignità del magistrato.
- Lo stesso in art. 6, §1, 2°: [Delicta graviora contra mores (…) sunt] comparatio vel detentio vel divulgatio imaginum pornographicarum minorum infra aetatem quattuordecim annorum quovis modo et quolibet instrumento a clerico turpe patrata” ([I delitti più gravi contro i costumi (…) sono] l’acquisizione o la detenzione o la divulgazione, a fine di libidine, di immagini pornografiche di minori sotto i 14 anni da parte di un chierico, in qualunque modo e con qualunque strumento”).

È chiaro che questo patrare mal si adatti a quello del pater patrator: dobbiamo cercare il verbo in altri contesti, possibilmente turpi. Arriviamo così al “coitum patrare” di alcune scritte murali di franco contenuto osceno (Ostia, I-II sec. d.C.). Pare, insomma, che il latino usato dalla Curia vada ispirandosi a modelli linguistici di infimo livello.

sabato 17 luglio 2010

Buone notizie sul fronte dell'ecumenismo


Vescovo luterano accusato di aver coperto abusi sessuali su minori. Cattolici e protestanti sempre più vicini.

L'evento


L’evento cosiddetto civile non è mai sufficientemente comprensibile dal suo interno, perché lì dentro se ne fraintende quasi sempre la causa e non si riesce quasi mai a calcolarne l’effetto. Lì dentro si può arrivare a comprendere che l’evento è in atto: donde venga, dove vada e cosa esattamente sia, no. Nemmeno è garantito che, al centro dell’evento, lo si comprenda di più che standone ai margini: al centro del fascio strizza, in periferia flette, ma il tutto potrebbe essere torsione, e il tutto non lo cogli dal di dentro, dove puoi cogliere solo tutti i gradi della flessione o dello strizzamento.
Insomma, per dirla alla carlona, se fossimo alla vigilia di una guerra civile, chi potrebbe dire di averlo compreso?

Quando sfoglio vecchie riviste, mi assale sempre lo stesso stupore: l’evento sta lì e nessuno lo vede per quello che è. La guerra civile, per esempio, non sembra mai tale. Francisco Franco, per esempio, anzi, no, lasciamo stare le vecchie riviste, veniamo a tempi più recenti: Thaksin Shinawatra. Era un anno prima che scoppiassero i sanguinosi scontri di questo maggio tra camicie rosse ed esercito:

“La Thailandia non riesce a liberarsi di Thaksin Shinawatra, anzi, pare che i suoi sostenitori siano in tanti e disposti a tutto pur di rimetterlo dov’era prima del settembre 2006. Lo dimostrano i disordini recentemente scoppiati a Bangkok e che hanno costretto il governo ad annullare un importante vertice dei paesi del Sudest asiatico programmato in questi giorni. Aveva vinto le elezioni nel febbraio 2005, Shinawatra, e con una vittoria schiacciante del suo partito, il Thai Rak Thai, sul maggiore partito di opposizione, il Phak Prachathipat. Erano corse voci di brogli, ma ciò che aveva dato la vittoria a Shinawatra – lamentavano i suoi avversari – era stata la martellante pubblicità elettorale sulle tv e i giornali di sua proprietà, sfruttando la crisi abbattutasi sul paese dopo lo tsunami nel dicembre 2004 e mischiando paternalismo e populismo in un sapiente mix assai gradito all’elettorato thailandese, soprattutto al ceto medio. Era così tornato al governo, dopo esserne stato tenuto lontano per cinque anni. Nel 2001, infatti, subito dopo aver vinto le elezioni politiche, era stato messo sotto accusa per eclatanti episodi di frode, evasione fiscale, corruzione e nepotismo, in franco conflitto d’interessi per la carica rivestita, e messo al bando dalla vita politica. Aveva meditato la rivincita e l’aveva avuta, anche in forza dell’essere l’uomo più ricco della Thailandia (media, banche, assicurazioni, perfino una squadra di calcio), ma i suoi avversari approfittarono che fosse in viaggio all’estero e con un colpo di mano lo rimossero e gli sciolsero il partito di cui era proprietario più che leader, costringendolo all’esilio. Lo si ama o lo si odia, Shinawatra, non si può far altro. Una cosa è certa: corretti o no che siano, i suoi metodi gli procurano un seguito di fedeli disposti ad affrontare lo scontro violento e a portare il paese alla paralisi socioeconomica, eventualmente anche alla guerra civile. Non si può far altro che aspettare che muoia, ma ha solo 60 anni. E poi, quando un paese vuole un Shinawatra, sa rimpiazzarlo. Il problema, presumibilmente, è la Thailandia”.

L’ho scritto pensando a Il caimano di Nanni Moretti: il regista aveva centrato l’evento thailandese.
Donde venga l’evento, vabbe’, ma dove andrebbe? Mi è capitato sotto gli occhi ieri sera: “Mentre le camicie rosse morivano in suo nome a Bangkok, Thaksin faceva shopping a Parigi. Un fotografo lo ha immortalato con le borse della spesa in mano sugli ChampsElysées. I morti nelle violenze di mercoledì sono stati 14” (l’Unità, 21.5.2010).

Un pizzino di Bertone



Gianni Maria Vian ci offre brani tratti dall’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia (Tre giorni nella storia d’Italia, Il Mulino 2010) con una affettuosa marchetta su L’Osservatore Romano (17.7.2010), e questo va bene, perché la marchetta è ubiquitaria, tutto il mondo è marchetta, la marchetta è l’anima del commercio, eccetera. Va bene pure Ernesto Galli della Loggia come autore, mancherebbe, abbiamo letto di tutto, anche di peggio. Quello che non va bene, e ci sconsiglia l’acquisto del libro, invece, è proprio il libro: miserie dello storicismo, però assai piccole.
“La marcia verso il potere del fascismo iniziò […] nella primavera del 1915. Fu allora che, per la prima volta, un certo mondo del sovversivismo italiano fatto di anarco-sindacalisti, repubblicani, intellettuali radicali, artisti più o meno déraciné, allacciò di fatto intensi rapporti di collaborazione con importanti settori dell’establishment (per esempio il Corriere della Sera di Luigi Albertini) e con i circoli governativi. I modi dell’urbanità e del galantomismo che fino a quel momento avevano dominato il campo che si chiamava «costituzionale» cominciarono a cedere il passo alla spregiudicatezza, all’uso pubblico dell’insinuazione e delle contumelie, alla convinzione terribile che il fine giustifica i mezzi. Una sbrigatività compiaciutamente plebea e una febbrile eccitazione intellettuale si fecero rapidamente largo in ambienti fin lì soliti ad apprezzare studio e ponderatezza”.
Capito quand’è che il Corriere della Sera perde l’aplomb e mi diventa un giornalaccio che rincorre la stampa giacobina, forcaiola e radical-chic? Capito, soprattutto, a che porta tutto questo? Rimettete il Corriere della Sera in mano a qualcuno di apprezzabile studio e ponderatezza, così romperete il legame tra importanti settori dell’establishment e un certo mondo del sovversivismo italiano. È un legame che genera eccitazione plebea, disordine e poi fascismo (non necessariamente nell’ordine). C’è qualcuno che vuol fare il direttore del Corriere della Sera a questo modo per evitarci derive autoritarie? Alzi la mano.

Il fascismo è un evergreen, ma le cover vengono sempre peggio. Prendete Mussolini: “personalità” dalla “leadership carismatica”, “impasto di antico e di moderno”, “ad esempio, di passione per la velocità, per le automobili, per il volo, e insieme di valori maschilistico-familiari della più schietta tradizione italo-romagnola; di retorica carducciana rétro, a base di «colli fatali di Roma», ma anche di simpatia per il modernismo futuristico o per l’architettura razionalistica”. Oggi? Chi vi viene in mente, oggi, che possa fare il paio? L’impasto tra il pezzente mostruosamente arricchito e il narcisista prodigo di sentimento? Tra il vulcano artificiale e la tomba neo-egizia? Tra il “mi consenta” e il “ghe pensi mi”? O l’anello di congiunzione tra famiglia e cricca?
È chiaro che sto parlando di un libro che non ho letto, perciò nell’incipit ho usato il noi. Tuttavia sto parlando di ciò che sicuramente sta in questo libro di Galli della Loggia, che poi è quanto scelto da Vian per la réclame: il professore usa la storia come un piede di porco e Vian gli fa da palo, mi basta questo per decidere che non lo comprerò. Non è un libro di storia, è un pizzino di Bertone agli azionisti del Corriere della Sera.

venerdì 16 luglio 2010

Non ci siamo, non ci siamo ancora


La Crimen sollicitationis fu licenziata solo in latino dal Sant’Uffizio, sia nella prima edizione (1922) che nella seconda (1962), ma soprattutto era “servanda diligenter in archivo secreto curiae” “non pubblicanda nec ullis commentariis augenda”. Guai a farne sapere qualcosa ai laici, insomma, e infatti siamo venuti a sapere della sua esistenza solo nel 2001. La si citava nella De delictis gravioribus, licenziata proprio quell’anno dal Sant’Uffizio (intanto divenuto Congregazione per la Dottrina per la Fede), anche stavolta solo in latino, indirizzata esclusivamente agli “interesse habentes”.
Prima di ogni altra differenza con le Normae de gravioribus delictis, licenziate ieri, e col Regolamento del 2003 (reso pubblico solo nel marzo di quest’anno), c’è che stavolta dalla Santa Sede è licenziata versione anche in italiano. In più, le Normae sono strombazzate urbi et orbi, subito, mentre il Regolamento ha dovuto aspettare 7 anni e la Crimen sollicitationis ne ha dovuti aspettare 79. Potremmo dire che la riservatezza sulle circolari interne va drasticamente riducendosi, col tempo.
Rimane, invece, la consegna di quel segreto pontificio – qui, nelle Normae, all’art. 30, §1 – che da sempre è raccomandato sulle cause ecclesiastiche riguardanti chierici che hanno commesso abusi su minori, ma negli ultimi tempi con qualche pur vano sforzo di dimostrarlo a tutela della vittima, che nella Crimen sollicitationis e nella De delictis gravioribus neanche era dichiarato. Come dire che una certa filosofia di vita è conservata.

Tutti in queste ore stanno sottolineando le novità introdotte, che sarebbe ingeneroso negare, ma ingenuo credere possano risolvere il problema per come lo affrontano. Lo affrontano malissimo, come sempre è stato fatto, perché anche in queste Normae stuprare un bambino rimane “delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore di diciotto anni” (art. 6, §1, 1°): il delitto non è “contro il minore”, ma “contro il sesto comandamento”; il chierico non lo commette “contro il minore”, ma “con” lui.
La parte lesa è il bambino solo in quanto occasione del delitto contro il Decalogo. Può sembrare niente, ma è tutto: è come chiedere perdono a Dio dei crimini commessi contro gli ebrei, ma non agli ebrei (e infatti così è stato nel 2000).
Nel fondo della sua filosofia di vita, il chierico continua a far fatica ad ammettere che debba dar conto al laico del danno che ha procurato al laico, ma pensa che, regolata la faccenda con Dio, il più è fatto. Diciamo che non ammette penitenza laica, se non come forma degradata della Penitenza.
Nel reato commesso da un chierico, Dio è chiamato a triangolare, cosa che risulta utile al chierico, perché ministro di Dio. È tutto un altro modo di accettare il giudizio, e però il solito, quello cui il chierico è convinto di aver diritto. Non ci siamo, non ci siamo ancora.