mercoledì 4 agosto 2010

Postumi in vita

Giorgio Pressburger (Avvenire, 4.8.2010) ci ricorda che “Kafka, in punto di morte, aveva chiesto al suo amico Max Brod, praghese come lui, di bruciare il manoscritto [de Il processo], insieme a tutte le altre opere rimaste inedite” e che “l’amico non l’ha ascoltato”; e si chiede: “È giusto agire come ha fatto Brod? È giusto contravvenire alla volontà di un amico per salvare la sua opera?”. Il quesito mi rimanda allo scambio avuto nei giorni con Luca Massaro sulla scrittura pubblica e su quella privata, e lo risolvo contestando il modo in cui è posto: la questione non è se sia “giusto” o no, ma se la scrittura privata appartenga ancora a chi l’ha prodotta dopo la sua morte. Privato della possibilità di doverne dar conto in relazione al piacere o al dispiacere che la sua scrittura ha provocato e dunque nella impossibilità di essere condizionato per la scrittura a venire, il torto di Brod rimane, ma la libertà di Kafka rimane intatta. Per sempre. E dunque quello che leggiamo di Kafka è totalmente libero e totalmente suo. Più di quanto lo sia per chiunque altro pubblichi in vita.
Sembrerà un elogio della pubblicazione postuma, e probabilmente lo è, ma il fatto è che praticamente impossibile essere postumi in vita. 

Una rotonda sul mare / 12




“Mi cinse teneramente il collo col braccio, mi avvicinò a lui e mi tenne così per un po’…”


Angelo Bottone ci tiene ad essere citato e qui, per riparare all’errore di avergli dato del “tizio”, lo presento: è il massimo esperto di John Henry Newman tra i napoletani in Irlanda; blogger dal 2002, in carriera universitaria da qualche tempo prima, papista da sempre; saltuariamente lettore del mio umile blogguccio; a naso, un simpatico cazzone che infauste circostanze hanno costretto alla bassa manovalanza nella propaganda cattolica. Dovessi citarne uno simile e appena un po’ più noto di Angelo Bottone, direi Francesco Agnoli.
Ho scritto di un “tizio” che si arrampicava sugli specchi nel negare l’omosessualità di Newman e quel “tizio” era Bottone, che con volée di rovescio ribatte: “Malvino ci ripropone la bufala di Newman omosessuale”. Qui rimanda a due suoi vecchi interventi, a margine della polemica sollevata da Peter Tatchell, nel 2008, in occasione della traslazione delle spoglie di Newman in luogo più degno in vista della sua beatificazione, ora a giorni: l’attivista gay accusava la Chiesa di voler far sparire la più evidente prova dell’omosessualità di Newman, che aveva fortemente voluto esser sepolto nella stessa tomba – non in una tomba strettamente adiacente, ma proprio nella stessa tomba – dell’“amatissimo” confratello Ambrose StJohn; e Bottone ripeteva quanto a Tatchell aveva ribattuto fra’ Ian Ker, massimo esperto di Newman tra gli inglesi in Inghilterra, e cioè che farsi seppellire nella stessa tomba era cosa normale, a quei tempi, tra amici per la pelle, soprattutto se confratelli. In realtà, a smentire fra’ Ker (e Bottone) v’è l’estrema rarità di analoghi in epoca vittoriana, se levati i casi di marito e moglie.

Sul fatto che, seppur casto, il grande amore e la lunga convivenza tra Newman e StJohn fossero stati qualcosa di analogo a una convivenza more uxorio, e dunque a una relazione nutrita da un forte sentimento di omofilia, c’è altro: “Dal primo momento mi amò con un’intensità incommensurabile… Mi cinse teneramente il collo col braccio, mi avvicinò a lui e mi tenne così per un po’…” (The Letters and the Diaries of John Henry Newman). Qui Bottone pensa di poter negare l’omosessualità di Newman con questo argomento: “Bisogna leggere i fatti nel contesto di un’epoca in cui l’amicizia tra gli uomini del clero era molto più importante di oggi”, ma non produce fonti che lo documentino e farebbe fatica vana a cercarle, perché l’età vittoriana avrebbe giudicato di natura omosessuale, condannandola, un’attrazione dello stesso tenore.
A farglielo notare, Bottone obietta che Newman e StJohn non temevano questa condanna (“se avessero avuto qualcosa da nascondere avrebbero distrutto le lettere, non ti pare?”) e che questo prova la loro “innocenza”. Il fatto è che le frasi “compromettenti” stanno nei Diari, non nelle Lettere. Inoltre, è probabile che l’omosessualità dei due sia stata tanto platonica da farli sentire lontani dal peccato. E comunque, in Inghilterra, l’omosessualità non fu messa al bando prima del 1861, quando la relazione tra Newman e StJohn si protraeva già da più di vent’anni.
E tuttavia io avevo scritto: “Sull’omosessualità di John Henry Newman e sulla sua pluridecennale convivenza more uxorio con Ambrose StJohn non ci sono dubbi”. Non ho scritto che i due scopassero come ricci, ma solo che la loro non può essere considerata una semplice amicizia, né con gli occhi di oggi, né con quelli di ieri: si trattava di un matrimonio di fatto, forse in regime di astinenza sessuale, ma non privo delle passioni, delle tenerezze e delle sollecitudini che fanno felicemente riuscito un matrimonio, né privo di quella sensazione di fondare un rapporto carnalmente esclusivo come nella volontà di riposare insieme nella stessa tomba. Per Bottone, “la chiusa di una lunga storia d’amore cristiano”. Mariti e mogli non si facevano seppellire insieme già prima dell’avvento di Cristo? E quanti “amori cristiani” – tra cristiani dello stesso sesso – hanno avuto chiusa in una tomba comune?

“Ho sempre pensato che non vi fosse lutto paragonabile a quello di un marito o di una moglie, ma mi risulta difficile credere che ve ne sia uno maggiore del mio”. Bottone legge che Newman “dice di soffrire non come, ma più di un vedovo, ossia che il loro legame non era coniugale ma più forte”. A me pare che Newman abbia fatto una correlazione proporzionale tra intensità del dolore e intensità del legame coniugale, per quella piana logica lessicale che qui lo vede come vedovo massimamente sofferente, praticamente inconsolabile, senza neanche un santo “fiat voluntas Dei”, alla faccia della fede nella vita eterna, del potersi dare appuntamento col moroso nella gloria del Signore, del potersi ancora abbracciare teneramente dopo la resurrezione della carne. Mi pare un lutto assai terreno, assai fisico, assai fisiologico per una coppia fin lì unita da una appagante convivenza, e assai poco consolato dalla prospettiva ultraterrena.
Ma per Bottone, in relazione alla traslazione delle spoglie del santificando, “la questione non è se Newman sia stato omosessuale, domanda morbosa e stupida, ma piuttosto perché non è stata rispettata la sua volontà e perché insieme al suo non è stato trasferito anche il corpo di Ambrose StJohn”. Sulla seconda questione, Bottone non ha che da chiederlo alle gerarchie ecclesiastiche; sull’omosessualità di Newman – spiace contraddirlo – nulla di morboso o di stupido, perché un omosessuale – casto o no – non potrebbe fare il prete, dicono le medesime gerarchie ecclesiastiche, e un prete che sia stato insieme prete e omosessuale insieme (anche senza aver mai ceduto alla pratica omosessuale) non potrebbe esser fatto santo (usurpazione di ministero), e Newman sta per esser fatto santo, per giunta con la certificazione di un miracolo farlocco, sotto un pontificato che ha dato il via ad una forsennata “caccia al ricchione” nei seminari, in quegli stessi seminari dove fino a qualche tempo fa “ci dicevano: «Uno dei segni della vocazione è che non ci piacciono le donne»”.

Ero arrivato alle spericolate manovre di arrampicamento sugli specchi di Bottone di due anni or sono, di link in link, partendo da un articolo di Alan Bray da lui citato in uno dei suoi due interventi del 2008, senza peraltro riuscire a produrre argomenti significativi in obiezione alla tesi lì ottimamente esposta e brillantemente documentata:  “Spiritual same-sex friendships have been celebrated in the history of the Church with rites that gave them a standing akin to marriage”, e quella di Newman e StJohn non può che essere interpretata come tale.
Ma Bottone lavora presso la University College of Dublin, di cui Newman fu padrino, e dunque gli è d’obbligo la difesa della virilità di uno dei cardinali che è stato universalmente riconosciuto (anche dai suoi contemporanei) tra i più effeminati della storia della Chiesa, per il buon nome della ditta che gli dà nutrimento materiale e per il buon nome della ditta che gli dà nutrimento spirituale.

[Penso di aver tralasciato un sacco di altre cose: lo strano viaggio a Roma di Ambrose StJohn, nel 1867, il modo in cui il clero cattolico giustificò la sepoltura comune alla morte di Newman e dopo, la strana assenza di resti nella tomba alla sua apertura nel 2008, ecc. Ci tornerò sopra se Bottone crederà sia il caso.]

martedì 3 agosto 2010

Libri che sono recensiti dalla loro stessa copertina




«Provocatori per smascherare corrotti»


Una breve a pag. 7 di Avvenire titola: “Bobba (Pd): «Provocatori per smascherare corrotti»”. Ciò che leggo è da non credere, sicché vado a verificare sul sito del sito del signor senatore. La proposta del teodem è di “introdurre la figura dell’«agente provocatore» come misura per contrastare i fenomeni corruttivi”: si tratterebbe di un “test di integrità” cui sottoporre il pubblico amministratore con un “finto tentativo di corruzione” ma – sia chiaro – sotto “il controllo severo della magistratura e della polizia giudiziaria”.
Chi deciderebbe la lista degli esaminandi? Quali sarebbero i parametri per valutare una risposta dubbia o ambigua al test? Come considerare un’estrema resipiscenza? Il signor senatore non approfondisce, né pare intravveda grossi problemi: “Si tratta di consentire una peculiare attività, quella sotto copertura, già prevista nella legislazione vigente per contrastare determinati fattispecie criminose, quali il traffico di sostanze stupefacenti, la pornografia, il terrorismo internazionale, con particolare riguardo al traffico di armi”.

Non saprei dire perché, ma proposte del genere mi lasciano senza parole, stordito e confuso. Poi cerco di riprendermi e mi chiedo: giacché il traffico d’armi e lo spaccio di droga sono cose assai brutte, per debellare il fenomeno, mi metto a testare dei comuni cittadini offrendo loro – certo, sotto “il controllo severo della magistratura e della polizia giudiziaria” – chili di eroina e missili a mazzi? Dovrò avere almeno una traccia per selezionare chi sottoporre al test o andrò a casaccio? Ricorrerò a un sorteggio? E con gli amministratori pubblici come farò?
Qui il signor senatore ha la risposta: il test sarà disposto “qualora, dal controllo incrociato di dati sensibili, risultassero sperequazioni tra il tenore di vita e il reddito apparente del soggetto, oppure giungessero segnalazioni a seguito di controlli patrimoniali da parte dell’organo competente, ovvero si riscontrassero anomalie nelle pratiche patrimoniali, fiscali, tributarie, o relative a contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, al rilascio di concessioni, di autorizzazioni e di nulla osta da parte della pubblica amministrazione”.
Chiamarlo semplicemente a renderne conto, no? Testarlo per vedere se cade in tentazione, bene, ma se poi non cade in tentazione – potrebbe intuire di essere sotto test – come si giustificherebbero le sperequazioni tra tenore di vita e reddito?

Dev’esserci qualcosa che dinanzi al problema della corruzione vizia il metodo di Bobba o il mio. Sarà che lui è cattolico e io no? Io penso che sia un problema da risolvere, nulla di più, e si risolverebbe con una anagrafe pubblica degli eletti e degli incaricati (come propongono quegli sfessati dei radicali), nonché dei loro congiunti di primo e secondo grado (perché noi italiani teniamo famiglia). Dovendo soddisfare la nostra smania di test, perché non sottoporre l’amministratore pubblico a questo? Prova di buone intenzioni e controllo permanente: trasparenza senza inquisizione, non sarebbe meglio? Non sarebbe meno dispendioso? Non sarebbe meno da stato etico e più da civile liberaldemocrazia? Ma – soprattutto – Bobba non se l’era portato via la Binetti? Ancora si esprime come membro del Pd? E che cultura è, quella del Pd che parla con proposte come quelle di Bobba?

Ancora troppi filopalestinesi, in Italia

Consiglio lo Speciale Giustizia che ieri Radio Radicale ha dedicato alla strage di Bologna. Emergono le incongruenze della sentenza definitiva che indica in Valerio Fioravanti e in Francesca Mambro non già gli esecutori materiali, ma – sensu lato – i “responsabili” della strage. Ignoto il movente, ignoti gli esecutori materiali, ignoti i mandanti, mai trovato l’innesco, ma Fioravanti e Mambro vengono condannati, dopo un’assoluzione in appello. Siamo ancora lontani dalla verità ma trent’anni dopo prende una qualche sostanza, ben al di là delle mere ipotesi, la pista palestinese, che però per la sinistra italiana è tabù. Più facile pensare a fascisti e massoni, ad Andreotti e ai servizi segreti deviati, che al libero scorrazzare per l’Italia dei palestinesi, con carichi di missili ed esplosivi, in virtù del patto siglato dal generale Giovannone (per conto di Moro), dopo la strage che i palestinesi fecero a Fiumicino nel 1972. La causa del popolo palestinese è sacra, a sinistra, e l’ipotesi di un incidente o di una ritorsione sporcherebbe l’epopea. Idem, a destra, per l’ipotesi di una punizione di Stati Uniti o di Israele: fare esplodere un carico di esplosivo palestinese in transito per l’Italia, per mandare un segnale e far saltare il patto tra il blocco politico-economico italiano, tradizionalmente amico del mondo arabo, e i terroristi palestinesi. La verità ufficiale è nebulosa e piena di contraddizioni, quella che emerge come assai verosimile dallo Speciale Giustizia di Radio Radicale è assai difficile da verificare e ancor più difficile da digerire: ancora troppi filopalestinesi, in Italia.

Rettificami questo


Marianna Rizzini incappa (*) in un luogo comune patognomonicamente macho: la giovane femmina che spensierata offre al mondo le sue sode curve è assai meglio della femminista in menopausa che considera la cosa poco dignitosa. In dettaglio: meglio “la Sabina Ciuffini allegra che, in tempi di Carosello, correva verso il banco dei gelati Algida con Patty Pravo” che quella oggi diventata “opinionista accigliata e responsabilmente ansiosa di mettere in guardia Cappuccetto Rosso nel bosco” (Il Foglio, 3.8.2010). La solita nostalgia per i bei tempi passati, quando era tutto più allegro, anche l’uso del corpo femminile. Come per la battaglia demografica (fare figli, farli presto, farne tanti) e quella pedagogica (calci in culo e all’aria aperta), il solito ingenuo passatismo. Bambinone mai cresciuto, il direttore.  


(*) Qui ci ho ficcato un doppio senso che al momento siamo solo in due o tre dozzine a poter cogliere: mi scuso con gli altri.

lunedì 2 agosto 2010

“Vita relazionale ordinaria”


Luca Massaro ritiene bizzarro, forse assurdo, sostenere che nella scrittura privata vi sia “infinita libertà” (come ho più volte sostenuto) e (con Giulio Mozzi) dice che la scrittura è (non può che essere, dev’essere) pratica relazionale – corrispondenza – tanto più libera quanto più libero è l’uomo che non si sottrae alla “vita relazionale ordinaria”, quel mercato che fa ricchi tutti, eccetera. Non vorrei sembrare scortese, ma rimango della mia opinione: la scrittura pubblica non è mai più libera di quella privata, perché una pagina non è sollecitata a trovare relazione se scritta per rimanere privata. Andare al mercato, cercare relazione, trovare corrispondenza del tipo gradito, sforzarsi di mantenerla e accrescerla – non sarà una schiavitù, ma è un bel peso. Cercare di piacere al lettore (o di fargli altro effetto desiderato) toglie libertà alla scrittura: le darà altro, senza dubbio, ma non la libertà. Ci si muove con disinvoltura solo in privato, se nudi: quando si è disinvolti in pubblico, la nudità è coperta almeno dalla posa ritenuta migliore.
Mai veramente nuda, mai veramente gratuita, la scrittura pubblica. Che dà le sue soddisfazioni, non v’è dubbio, ma chiede sempre troppo. Quanta scrittura s’è corrotta inseguendo soddisfazioni diverse da quella di dar forma ai propri pensieri, finendo per corrompere anche quelli.

domenica 1 agosto 2010

pg ≠ p, salvo eccezioni




Sull’omosessualità di John Henry Newman e sulla sua pluridecennale convivenza more uxorio con Ambrose StJohn non ci sono dubbi, anche se c’è un tizio che ha più volte provato a farci credere che a quei tempi – parliamo dell’Inghilterra vittoriana – fosse da intendere come normale segno di “amicizia” tra maschietti, se preti, abbracciarsi, stare guancia a guancia, dirsi: “Luce mia!”, fino a dettare imperative will di essere sepolti insieme (tutto in The Letters and Diaries of John Henry Newman). Vai a cercare quanti preti siano stati sepolti insieme, a quei tempi, e ti restano due sole ipotesi: (a) l’amicizia tra preti era rarissima; (b) Newman e StJohn erano una coppia gay (anche abbastanza sfacciata tenuto conto dei tempi). Propenderei per (b), così mi spiegherei pure il perché, prossima a far santo uno dei due, la Chiesa di Roma lo abbia dissepolto, separandolo dall’altro, contro le sue ultime volontà.

Non ha importanza se facessero sesso o se si dessero solo bacetti: si può essere buoni cristiani anche se omosessuali, dice il Catechismo, basta astenersi da ogni pratica sessuale. E tuttavia, anche casto, un prete gay – ce l’hanno rammentato di recente – non è prete.
Il tentativo del tizio di cui sopra ha una sua logica. Non basta cancellare la miglior prova del loro matrimonio di fatto – a volte le tombe dei cardinali si possono violare coi martelli pneumatici, dipende da chi lo fa – perché poi bisogna rifinire: cancellata la prova della pratica omosessuale, bisogna far sparire la stessa omosessualità. Quale miglior nascondiglio dell’“amicizia”? Le soluzioni tradizionali sono sempre le migliori ed è da millenni che, quando vuol negarsi, l’omosessualità si dichiara amicizia.

Ecco dunque che “bisogna leggere i fatti nel contesto di un’epoca in cui l’amicizia tra gli uomini del clero era molto più importante di oggi”, sennò come si potrebbe far santo un prete gay? (In questo caso, poi, il prete sarebbe addirittura un cardinale, e manco un cardinale qualsiasi, ma un vero e proprio fiore all’occhiello della Chiesa di Roma.) Pur casto – ce l’hanno rammentato di recente – un prete gay usurpa i privilegi del sacerdozio (sì, si è parlato proprio di “privilegi”), e si può mai far santo un usurpatore, per giunta di un sacro ufficio? Newman e StJohn erano amici, niente di più. (Alla faccia di Oscar Wilde, contemporaneo del signor cardinale, che per lo stesso genere di “amicizia” finì ai lavori forzati, e così ci è chiaro che certi “privilegi” tornano comodo, ma bisogna goderne con discrezione.)

Si potrebbe anche chiudere un occhio di fronte al solito combinato disposto di malafede, ipocrisia e mistificazione, ma stanno per buttarci addosso tutto ciò che Newman ha scritto: roba da convertito, dove lo zelo arde al meglio, dunque pappa prelibata per la propaganda clericale. Bisognerà, però, mettere in secondo piano il fatto che Newman non fosse a favore della proclamazione del dogma dell’infallibilità papale e che anteponesse il dettato della coscienza a quello dell’autorità pontificia, almeno in via di principio. (Sant’uomo, il Newman, ma aveva un sacco di difettucci.) Negare la sua omosessualità è operazione più semplice: la lasciano sbrigare alla bassa manovalanza, al tizio di cui sopra, che saluto, perché so che è mio lettore.

"You might think I'm frivolous, uncaring and cold"



venerdì 30 luglio 2010

Meninge per laringe



Non v’è alcun dubbio sul fatto che Michelangelo Buonarroti abbia studiato anatomia su cadaveri sezionati, interessandosi soprattutto dell’apparato locomotore. Tuttavia, com’è comprensibile per l’interesse che lo muoveva, il suo approccio a questo studio fu esclusivamente topografico, non molto diverso da quello che all’anatomia è oggi riservato nelle scuole d’arte, dove non si va oltre ciò che è utile sapere per riprodurre in modo corretto i volumi delle masse corporee, lasciando da parte ogni rilievo di natura sistematica. Ai suoi tempi, d’altronde, non poteva essere diversamente, perché le tecniche di studio anatomico cominciavano proprio in quella prima metà del XVI secolo, e assai timidamente, a costruire una tassonomia del corpo umano. Il primo a farlo fu il fiammingo Andrea Vesalio (Andreas van Wesel), contemporaneo di Michelangelo (morirono entrambi nel 1564), ma del quale l’artista italiano non ebbe mai modo di leggere il suo De humani corporis fabrica (1543), nel quale è dedicato assai poco spazio al sistema nervoso centrale (s’intrattiene solo sulle circonvoluzioni degli emisferi e sul corpo calloso). Bisognerà aspettare Malpighi (1628-1694), Morgagni (1682-1771) e Bichat (1771-1802) per sapere qualcosa dell’anatomia del cervello, un organo che si comincia a deteriorare irreparabilmente dopo poche ore dal decesso: fino a quando non fu trovato il modo di bloccare i processi degenerativi post mortem con opportuni allestimenti, lo studio della massa cerebrale fu un problema serio per ogni anatomista e, prima dell’impiego della formaldeide a tale scopo, non abbiamo studi che siano degni di attenzione. È possibile, dunque, che Michelangelo conoscesse l’anatomia del cervello e del tronco encefalico meglio di chiunque altro ai suoi tempi?
La domanda è in qualche modo inevitabile alla lettura di ciò che Ian Suk e Rafael Tamargo, due ricercatori della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora, nel Maryland, scrivono sul numero di maggio di Neurosurgery (66:851-861, 2010): a sentir loro, nel pannello della Cappella Sistina detto della Separazione della luce dalle tenebre, Michelangelo avrebbe dipinto l’anatomia della base cerebrale e del tronco encefalico umani sul collo di Dio, e con tale precisione di dettaglio da potervi rilevare sorprendenti correlazioni.


L’idea – i due non ne fanno mistero – nasce dalle suggestioni offerte una ventina d’anni fa da Frank Lynn Meshberger con un articolo pubblicato su The Journal of the American Medical Association dal titolo An interpretation of Michelangelo’s Creation of Adam based on neuroanatomy, del quale riportano una tavola che proverebbe una correlazione tra la sezione sagittale del cervello e del tronco encefalico e un pannello della Cappella Sistina. Superfluo dire che ai tempi di Michelangelo una tale sezione anatomica non era neanche ipotizzabile, ma ciò che appare evidente anche a chi non abbia alcun rudimento di anatomia cerebrale è l’arbitrarietà della correlazione dei punti di repere.


La tesi di questo post è la seguente: Ian Suk e Rafael Tamargo hanno stravisto, perché sul collo del Dio ritratto da Michelangelo altro non v’è che la comune anatomia della regione sottomentoniera e di quella sternoioidea, quando soggette al movimento di estensione e lateralizzazione del capo lì raffigurato.


Ciò che ai due sembra il peduncolo cerebrale (a) altro non è che l’area approssimativamente trapezoidale che è racchiusa tra i due ventri anteriori dei muscoli digastrici (lateralmente), la depressione relativa al corpo dello ioide (inferiormente) e ai margini inferiori della mandibola (superiormente), e cioè l’area corrispondente alla superficie del muscolo miloioideo (a'), come appare quando protude attraverso lo spessore del platisma nella estensione del capo; ciò che a loro sembra il ponte (b) altro non è lo sviluppo dei due muscoli tiroioidei (b'); il midollo allungato (c) altro non è che il complesso laringo-tracheale (c'); e l’area triangolare a vertice inferiore, che i due riferiscono all’emisfero cerebellare, bilateralmente situata ai margini del complesso a-b-c, altro non è quanto si sviluppa tra sternocleidomastoideo e il complesso a'-b'-c', dove a' è la sezione relativa alla regione miloioidea (vedi la figura che apre questo post) e b'-c' è quella relativa al complesso tiroioideo-laringotracheale (vedi figura qui sotto).


Michelangelo avrebbe ben potuto avere nozione dell’anatomia topografica della regione cervicale anteriore così come qui sommariamente descritta e peraltro compiutamente rappresentata come regione cervicale anteriore di un Dio a immagine e somiglianza di uomo; assai più difficile che potesse avere nozione dell’anatomia della base cerebrale e del midollo allungato così come osservabile dopo adeguata fissazione in formaldeide; e invero appare senza ragionevole spiegazione il perché un pittore del Rinascimento possa essersi sentito ispirato a rappresentare un bulbo encefalico al posto di una gola, meninge per laringe.
Ma ciò rende del tutto inverosimile l’ipotesi di Suk e Tamargo – un Michelangelo che cripta le sue nozioni di anatomia del sistema nervoso – è il vedere in una piega della veste addosso a Dio il solco mediano anteriore del midollo spinale, peraltro non allineato al bulbo,



e, ancora, a stravedere nel panneggio l’anatomia dei globi oculari e del chiasma ottico.



Vengo a conoscenza dell’articolo sul numero di maggio di Neurosurgery da una AdnKronos di oggi. D’estate tutto è buono per riempire lo spazio tra il culo di Belén e il muso di Capezzone.


[Un grazie a Brunella per lo scanning dal Testut-Latarjet.] 

Consorterie

Che cosa manca nella blogosfera italiana?
«Niente, ciascuno ha quanto merita.
C’è solo una pesante cappa di provincialismo
e una irresistibile tentazione alla consorteria».



I termini non correnti o di raro uso vanno incontro a un rimaneggiamento più lento e nascosto del loro significato, ma altrettanto inesorabile che per i termini d’uso continuo. Dovremmo tremare nell’usare un termine non molto usato, perché corriamo il rischio di usarlo male. E qui, un po’ nauseato di bloggare, ma non di scrivere, e dunque per mettere riparo a ciò che nel privato avrei lasciato senza correzione, vorrei parlare di un mio errore: ho usato un termine – è stato qualche tempo fa, ma non molto – per significare tutt’altra cosa da quella che oggi mi è significata nell’autorevole parere del Quirinale, che mi sta al pari dell’Accademia della Crusca.
Parlo del termine “consorteria”: se Giorgio Napolitano ha definito “consorteria” quel nodo di interessi poco belli solitamente trafficati da un giro di sodali, clienti, famigli, nascosti e/o complici, spesso in nicchie di prepotere e di privilegio, io ho usato il termine “consorteria” a sproposito quando ho parlato di quelle aree della blogosfera che raccolgono sodali, clienti, famigli a fare traffico di carinerie che del prepotere e del privilegio hanno solo il millantato credito. A sproposito, perché qui gli interessi del giro sono sempre belli, addirittura nobili, e sono sempre abbastanza evidenti, talvolta pure troppo, e la complicità che li nutre non ha quasi mai nulla di quello “squallore” che il Presidente della Repubblica ha segnalato per la cosiddetta P3. Insomma, ho usato il termine “consorteria” in modo assai improprio, forse addirittura offensivo: correggermi è chiedere scusa e, visto che sto ripensando a tutto ciò che ho sbagliato a scrivere, comincio da questo.
Usavo il termine nell’accezione di “associazione di famiglie nobili, diretta al mantenimento di un certo prestigio e potere nell’ambiente delle società medievali, nel periodo della crisi del feudalesimo” (Devoto-Oli), con riferimento alla nostra età di mezzo che in ogni ambito relazionale e comunicativo non può che rivelare e rappresentare la crisi di vecchi modelli, con la nascita di nuovi, e non in quella spregiativa di “fazione che agisce più o meno nascostamente per il proprio interesse particolare, per lo più a detrimento del bene pubblico” (ibidem). Il bene pubblico, peraltro, è roba che la blogosfera non è tenuto a curare; per quanto attiene al proprio interesse particolare, invece, ciascuno può allegarlo a quello pubblico, fino a smentita.

martedì 27 luglio 2010

Non proprio



Quando L’Osservatore Romano ha strillato in prima pagina della scoperta di “un nuovo Caravaggio” (18.7.2010), tutti i quotidiani nazionali – ripeto: tutti – non hanno fatto altro che rilanciare lo strillo. Non un dubbio, né dal gran mucchio di ignorantoni che stipano le redazioni, né dalla eletta schiera dei critici d’arte, che avranno pure avuto qualche dubbio, ma sono stati tutti zitti. Quello che aveva scritto Lydia Salviucci Insolera sembrava dato per certo: “Che il dipinto sia di grande bellezza è un fatto inequivocabile… Notevole è la luce che dal fondo scuro sferza e modella con bagliori improvvisi la superficie dei volumi… La dimensione umana, espressa dallo sguardo e dal movimento della testa, tutta tesa in avanti, viene efficacemente comunicata allo spettatore… Questa stessa sensazione si percepisce osservando le opere di Caravaggio per la cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo…”.
Tutti incantati dinanzi al nuovo Caravaggio, molti a bocc’aperta, qualcuno semisvenuto per sindrome di Stendhal. Solo uno stronzo – blogger, per giunta – aveva argomentato contro l’attribuzione, concludendo con un’ardita affermazione: “il Martirio di San Lorenzo non è di Caravaggio”. Un post irrilevante, comprensibilmente irrilevato, di quelli di cui scorri due righe, sbadigli e corri a fare il test per sapere a chi write like. Post degno di nota solo nel caso che il Merisi si fosse offeso e avesse chiesto € 12.500 euro al blogger, quello sì che sarebbe stato un 3d avvincente. D’altronde, diciamola tutta, a voler essere dei blogger seri la giornata del 19 luglio s’offriva a riflessioni di assai maggior peso: Tremonti su l’iPad, il 36° suicidio in carcere, i bus del nordest ormai pieni solo d’immigrati… C’era di che ciucciarselo a vicenda.

Oggi, però, L’Osservatore Romano torna sui suoi passi, mandando avanti nientepopodimeno che il direttore dei Musei Vaticani: “Guardi da vicino e vedi mani prospetticamente sbagliate, anatomie goffe e disarticolate nei nudi in secondo piano sulla destra, panneggi incerti…”. Toh, anche lui s’è soffermato sul panneggio che al blogger di cui sopra sembrava “rozzo e innaturale”, senz’“alcunché di caravaggesco”. Ma il link va al professor Paolucci, perché neanche più ricordo chi fosse il blogger.


[Ci si rivede molto, ma molto più in là.]

pg ≠ p

“In seminario ci dicevano:
«Uno dei segni della vocazione
è che non ci piacciono le donne»”


L’inchiesta di Panorama sui costumi sessuali del clero in Roma non mi interessa, non mi dice niente, ma la reazione del Vicariato di Roma mi apre un mondo. “L’estensore del servizio – vi si legge – afferma di aver frequentato alcuni sacerdoti gay e di aver documentato i loro comportamenti con una telecamera nascosta. La finalità dell’articolo è evidente: creare lo scandalo, diffamare tutti i sacerdoti, sulla base della dichiarazione di uno degli intervistati secondo il quale «il 98 per cento dei sacerdoti che conosce è omosessuale»…”. Qui mi fermo e già mi vengono in mente un sacco di cose.
Prima fra tutte, la testimonianza di don Carmelo Vicari: “In seminario ci dicevano: «Uno dei segni della vocazione è che non ci piacciono le donne»” (Tempi, 16/29 – pag. 3). Poi penso al fatto che per il Catechismo un omosessuale rimane un buon cristiano se si astiene da pratiche omosessuali, ma che alla Chiesa non basta che un prete gay sia casto e ha perfino scatenato una “caccia al ricchione” nei suoi seminari. Se un seminarista riesce a confinare la propria omosessualità dove nessun ispettore riuscirà mai a stanarla, può fare il prete; appena si rivela, non è più prete. Un prete gay non è un prete (pg ≠ p), ma a patto che si risappia: già parlare di “preti gay” è un voler “screditare la Chiesa”, così afferma il Vicariato di Roma.
Ma che c’entra il Vicariato di Roma? Perché non parla la Congregazione per il Clero? Perché non parla la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica? Perché le “notti brave dei preti gay” sono romane: si esprime l’organo territorialmente competente, e infatti è fatta distinzione tra i “1.300 sacerdoti delle 336 nostre parrocchie” e le “molte centinaia di altri preti provenienti da tutto il mondo per studiare nelle università, ma che non sono del clero romano”. Giacché pg ≠ p, il fatto non riguarda il clero in generale, ma il discredito gettato sul clero romano “sulla base della dichiarazione di uno degli intervistati [da Panorama] secondo il quale «il 98 per cento dei sacerdoti che conosce è omosessuale»”: il Vicariato di Roma interviene per dire che non gli risulta ve ne sia notizia per ciò che riguarda il suo clero, ergo trattasi di diffamazione.
Certo, “i fatti raccontati non possono non suscitare dolore e sconcerto”, ma i preti gay di Panorama non sono preti e nemmeno preti romani, tutt’al più usurpatori i cui “comportamenti infanga[no] la onorabilità di tutti gli altri”. Poi: “Sappiano che nessuno li costringe a rimanere preti, sfruttandone solo i benefici”. Wow, uno dei rari casi in cui si ammettono benefici. E ancora: “Questo Vicariato è impegnato a perseguire con rigore, secondo le norme della Chiesa, ogni comportamento indegno della vita sacerdotale”. La Chiesa non c’entra niente: per la Chiesa, pg ≠ p.
“In seminario ci dicevano: «Uno dei segni della vocazione è che non ci piacciono le donne»”, ma poi nel 2005 è arrivata la circolare che vietava di ordinare sacerdoti i seminaristi gay. Da quell’istante chi già era prete, e gay, non esisteva: come con i pedofili, è bastato smettere di coprirli e non dovrebbero più essercene.

A sette settimane dall'omicidio di monsignor Luigi Padovese


Ho scritto della morte di monsignor Luigi Padovese in tre occasioni, segnalando i non pochi dettagli incongrui alla tesi dell’esecuzione di marca islamista. “Sicuro è che non si tratta di un assassinio politico o religioso, si tratta di una cosa personale”, l’ha detto Benedetto XVI. E io mi sono limitato a sottoscrivere e ad aggiungere: le pressanti avances di Sua Eccellenza hanno trovato una resistenza violenta.
Anche qui non ho fatto altro che sottoscrivere quanto peraltro concesso dal Vicariato in ordine all’inchiesta di Panorama sulle abitudini sessuali di un rappresentativo campione di preti a Roma: ci sono preti gay, sono invitati a dichiararsi tali e a lasciare la tonaca, ma non lo fanno. Qui mi limito a chiedere: se riesce a non farsi pizzicare, un prete gay può arrivare a diventare vescovo in Turchia? Direi che non si possa escludere, peraltro il Vicariato garantisce solo sul clero indigeno, margina il fenomeno a preti foresti e itineranti.

Ucciso in odio alla fede cristiana, diceva Il Foglio. Martirio, diceva Avvenire. Agnello sacrificale, diceva L’Osservatore Romano. Io dicevo: “Monsignor Luigi Padovese aveva rinunciato al suo viaggio a Cipro poche ore prima di essere ucciso, dopo che Murat Altun gli aveva comunicato che non lo avrebbe seguito. Quel viaggio era un appuntamento importantissimo (doveva essere accanto a Benedetto XVI che consegnava quell’Instrumentun laboris alla cui stesura il Padovese aveva dato un grande contributo), ma a tuttora nessuno sa spiegare perché il vescovo vi abbia rinunciato. […] Murat Altun era alle sue dipendenze come autista da quattro anni, e tuttavia il Padovese lo voleva accanto a sé anche quando non doveva spostarsi. Non sarebbero mancate occasioni per uccidere prima il vescovo, soprattutto nella settimana che ha preceduto quella nella quale si è consumato l’omicidio, nella quale il Padovese ha trattenuto presso di sé l’Altun senza mai consentirgli di tornare a casa”. Una zecca, almeno per una mente psicolabile come l’Altun.

Anche qui non faccio che sottoscrivere quanto dice un autorevole prelato, monsignor Ruggero Franceschini, che dopo la morte del Padovese ne ha preso il posto: “Mi fa soffrire questa attesa nel silenzio […] Mi dispiacerebbe che prevalesse il motivo passionale”. Lo esclude, ma allora perché temere di dover essere smentito? Perché “di concreto c’è che aspettiamo di conoscere la verità su questa morte”. Ma non era già nota? Evidentemente no, evidentemente non è ancora del tutto chiaro: Altun potrebbe aver ucciso un nemico dell’islam o uno spasimante troppo assillante, a sette settimane dall’omicidio ancora non si sa. Infatti monsignor Franceschini afferma che “Altun was not a religious man, leaving a question mark over why he had incorporated Muslim symbolism in the execution of Bishop Padovese”. Tenderebbe a cadere l’ipotesi dell’esecuzione in stile jihadista, e che altro rimarrebbe? “Una cosa personale”, proprio come aveva detto Benedetto XVI.

mercoledì 21 luglio 2010

martedì 20 luglio 2010

Cordialmente, come si dice


Andrea Tornielli mi fa:

Gentile Luigi Castaldi, lei ha ogni diritto di «schifarmi». Forse però, per completezza, dovrebbe riferire che lei cita non un mio articolo sul Giornale, ma un breve trafiletto sul blog, dove io riprendevo la notizia.
Sono ovviamente pronto a discutere con lei di Pio XII «seriamente», avendo scritto quattro libri sull’argomento, l’ultimo dei quali (Pio XII, Mondadori 2007, 680 pagine, tradotto in Francia e recensito positivamente da molti vaticanisti stranieri, quelli che lei non «schifa», tanto per intenderci) è basato su molti documenti inediti che mostrano quale fosse la percezione che Pacelli aveva di Hitler e soprattutto in quali date precise egli l’abbia messa per iscritto.
Ma sono certissimo che lei, ovviamente, sappia già tutto...


Rispondo:

Gentile Andrea Tornielli, lei non entra nel merito della questione da me sollevata nel post “E io perciò li schifo, i vaticanisti italiani”, che le dà occasione di risentirsi. Non espone argomenti avversi alla lettura che ritengo corretta della frase tratta dai diari del cardinale Celso Costantini, di cui lì si discute. Non mi contesta l’affermazione che Sua Santità l’abbia usata, peraltro citandola con apposita modifica, in patente soccorso della non lusinghiera fama di cui gode Pio XII presso gli ebrei. Non mette lingua neppure su quanto io affermo in ordine al nocciolo della questione: cosa sia da intendersi per “Anticristo” in quella frase, e cosa sia intendersi per “religione” nella parte appositamente tagliata da Benedetto XVI. In realtà, lei non sfiora neppure la tesi di fondo da me sostenuta, ma per tre quarti della sua pur breve letterina mi rimanda a quella opposta, che neanche a farlo apposta è quella sostenuta da qualsiasi vaticanista italiano che abbia intenzione di poter continuare a scrivere su un giornale italiano e da qualsiasi storico italiano di cose vaticane che ci tenga a poter aver accesso agli archivi. Non mi stupisco che sia anche la sua: ho letto i suoi libri e li ho trovati adeguatamente appiattiti agli interessi della Santa Sede.
Oltre ad aprirmi a ventaglio la coda dei suoi libri, lei si limita a riprendermi perché non ho specificato che lei ha avallato l’ennesimo, piccolo, miserabile trucchetto di Sua Santità sul suo blog, non su il Giornale. Non ho capito cosa cambi: non è sempre lei ad averlo avallato?
Un vaticanista serio non dovrebbe spiegarci i trucchetti? Quello che Benedetto XVI ha fatto usando la frase del cardinal Costantini, gentile Andrea Tornielli, lei non ce l’ha spiegato: né sul suo blog, né su il Giornale. E giacché me ne dà ogni diritto, le rinnovo il mio sentito.
Cordialmente, come si dice.

lunedì 19 luglio 2010

Una rotonda sul mare / 11



Migliorare la tosse, Martini!


“Buon giorno. Questa è «Stampa & Regime», la rassegna stampa di Radio Radicale. I giornali sono quelli di lunedì 19 luglio. Paolo Martini in studio, il direttore Bordin torna domani…”.

Non male, davvero non male la rassegna stampa di Martini, che a un certo punto butta lì pure due colpetti di tosse. Tuttavia è una tosse senz’anima, senza carattere, meccanica, totalmente inespressiva.

Solo un nodoso randello


Il 12 aprile di quest’anno la Santa Sede ha reso pubblico un Regolamento (Guida alla comprensione dei procedimenti adottati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nei casi di abuso sessuale su minori) che all’inizio non s’era capito bene se fosse stato scritto nel 2001 o nel 2003 (così poi ha chiarito la Santa Sede), ma che in chiusa citava un Benedetto XVI che non si sarebbe avuto prima del 2005 (se almeno confezionassero con più cura i loro falsi, ci sentiremmo meno offesi).
Questo Regolamento aveva lo scopo di guidare i vescovi nell’applicazione di quanto la De delictis gravioribus (2001) veniva a correggere della Crimen sollicitationis (1922, 1962) per le prerogative che in tale ambito Giovanni Paolo II riconosceva alla Congregazione per la Dottrina della Fede col motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela (2001).
Semplificando, potremmo dire: fino al 2001 è in vigore la Crimen sollicitationis, dal 2001 in poi è in vigore la De delictis gravioribus, che viene dotata di una Guida nel 2003 o – più verosimilmente, per quanto detto – dopo il 2005; ma non basta, perché nel 2010 – siamo al 15 luglio scorso – vengono rese pubbliche delle Modifiche alle «Normae de gravioribus delictis».

Penso sia ragionevole dedurne che fino al 2001 la Chiesa di Roma ha avuto le idee salde e chiare sul come trattare i casi di abusi sessuali su minori da parte del suo clero, perché trattarli com’erano stati trattati fin lì non aveva dato problemi; dal 2001 in poi, chiamata a rendere conto del fatto che avesse trattato il problema cercando sempre e solo il proprio tornaconto, la Chiesa di Roma non trova pace e, pur di non dover rendere conto del passato ad altri che a se stessa, non smette di precisare, rettificare, modificare, come se il passato potesse essere cancellato dal presente.
Sappiamo quanto questo sia difficile: anche avendo a disposizione intere schiere di manipolatori della memoria, il passato emerge proprio dove non dovrebbe. Per esempio, quando le Modifiche alle «Normae de gravioribus delictis» portano gli anni di prescrizione da 10 a 20 (art. 7, §1): tenuto conto della permanenza degli effetti che un abuso sessuale su minore comporta per la vittima lungo tutto il corso della sua vita, volendo davvero star dalla parte del debole (che pare essere nelle nuove intenzioni della Santa Sede), perché non risolversi a un semplicissimo “prescrizione mai”? E cosa è accaduto perché ciò che nel 2001 poteva andare in prescrizione dopo 10 anni adesso deve andarvi dopo 20? È cambiata la natura del crimine? Non risulta.

Risulta, invece, che nel Sacramentorum sanctitatis tutela c’è scritto: “Si deve rammentare che tale Istruzione [la Crimen sollicitationis] aveva forza di legge” (2001); e oggi una Introduzione storica a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede sostiene che quella Istruzione “non ha mai inteso rappresentare l’intera policy della Chiesa cattolica circa condotte sessuali improprie da parte del clero” (2010).
Con la prescrizione che da 10 sale a 20 anni (con ciò chiamando in causa la Chiesa di Roma per quanto le competeva prima del 2001), voilà, la Crimen sollicitationis non aveva forza di legge. Anzi, neppure dettava un indirizzo ai vari episcopati.
Solo un nodoso randello può essere un buon argomento su simili imbroglioni.