martedì 9 novembre 2010
lunedì 8 novembre 2010
Il Cosone sulla Collinetta Artificiale
Il Cristo-Re di Swiebodzin, cittadina polacca sulle 20.000 anime, dà molto da pensare fin dal chiedersi cosa esattamente sia. Se è statua, non può essere considerata che bruttissima statua, soprattutto se si considera che dovrebbe star lì, coi suoi 40 metri di altezza, a gloria della umanità e della regalità di Cristo: vistosa sproporzione delle parti anatomiche, inespressività del volto, barba non nazarena, mani come guantate, pannato dallo sviluppo improbabile. E sorvoliamo sulla tecnica: accanto al Cristo-Re di Swiebodzin i santi e le madonne in vetroresina distribuite da ativon.com sembrano capolavori di finissima fattura, usciti da sublime scalpello. L’uomo sembra stilizzato come in un fumetto, il re sembra uscito da una carta da gioco.
Il valore artistico di un gigantesco Enver Hoxha in marmo eretto al centro di Tirana potrà pure esser stato prossimo allo zero, ma chi potrà negare che facesse monumento? Bene, nel 1994, in Albania, le statue del dittatore furono trasformate a colpi di scalpello in statue di santi e di madonne, di valore artistico mai superiore, e rimanendo monumento. Il Cristo-Re di Swiebodzin sembra ricavato da un monumentale Lenin. Padre Sylwester Zawadzkis, che l’ha fortemente voluto con la forza della fede che vince tutto, compreso il buon gusto, non deve aver avuto finalità artistiche, ma esclusivamente celebrative e, se il dettaglio più credibile è la corona, siamo dinanzi a un monumento che celebra la regalità sociale di Cristo.
L’approccio estetico è irrilevante al fine di cogliere il significato del Cosone sulla Collinetta Artificiale, che forse è anche qualcosa di più di un monumento, perché batte ogni record fra i Gesù di grosse dimensioni. Celebra la regalità di Cristo, dunque, ma celebra anche se stesso nel primato che detiene: se il Cristo-Re rappresenta la pretesa della Chiesa sulla società dei laici, è qui in Polonia – padre Zawadzkis tiene a far sapere – che il suo vocione è più grosso.
Adesso non vi piace? Ci farete l’occhio, vi piacerà. Ma soprattutto considerate che, se tiene, tra due secoli sarà diventata un’altra prova storica delle radici cristiane di Swiebodzin.
“Il papa è stato strumentalizzato”
La popolazione del Brasile ammonta a circa 195 mln di individui, per lo più cristiani (circa 180 mln), in gran parte cattolici (poco più di 145 mln). Gli aventi diritto al voto sono complessivamente poco più di 135 mln (i cristiani in toto sono poco più di 120 mln, mentre gli elettori che si dichiarano cattolici poco meno di 110 ml). Se la matematica non è un’opinione, ad impedire che Dilma Rousseff vincesse le elezioni presidenziali del 31 ottobre sarebbe bastato che almeno il 65% dell’elettorato cattolico mostrasse obbedienza alle indicazioni di voto espresse dall’episcopato brasiliano, su esplicitissimo mandato pontificio: “Il vostro dovere come vescovi, insieme al vostro clero, è mediato, in quanto vi compete contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali necessarie per la costruzione di una società giusta e fraterna. Quando però i diritti fondamentali della persona o la salvezza delle anime lo esigono, i pastori hanno il grave dovere di emettere un giudizio morale, persino in materia politica” (Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Conferenza episcopale brasiliana in visita ad limina apostolorum, 28.10.2010). Qui, in Brasile, il giudizio morale in materia politica si traduceva nell’invito a votare José Serra, poi uscito con le ossa rotte (-11%) dal ballottaggio con Dilma Rousseff, l’abortista.
Quando l’ingerenza della Chiesa dà i risultati sperati, il Papa ci fa sempre un figurone e, avesse vinto Serra, il Brasile sarebbe diventato un paradigma. Ma Serra ha perso e con la Rousseff bisogna pur convivere. “Il papa è stato strumentalizzato”, dichiara monsignor Tomás Balduino: non è stato informato di cosa sarebbe accaduto in Brasile se avesse vinto Serra. E chi l’ha strumentalizzato? Boh.
Amarcord
Il simbolo del partito, per metà preso dal nome del suo leader. Quel retrogusto di maoismo che sta in Ronchi quando dice “caro Gianfranco”. Il pop un po’ trash di Menia. La retorica del Manifesto d’Ottobre, enfio di anafore da spot pubblicitario o, a piacere, da mantra autogeno. Sì, un po’ di Berlusconi è rimasto appiccicato a Fini, ma lo strappo adesso pare intero, e non solo sul piano della bassa politica: almeno sulla carta, c’è una nuova destra. Democratica e liberale, pare. Europea, come suol dirsi.
Per dieci dodicesimi è la nuova destra che sembrava impossibile fino a cinque anni fa, quando a pensarla possibile c’era solo L’Indipendente di Guerri, che per pensarla possibile con troppo anticipo fu licenziato dall’editore, un certo Bocchino. In politica i tempi sono tutto, e io pensavo e penso che fosse An ad essere ritardo. Sempre tardi che mai.
Eccetera
In non so più quale bestiario si legge che, quando sente arrivare la fine, l’elefante si isola dal branco, fa un giro su se stesso, si stende e attende la morte. Eccolo girare su se stesso, è uno spettacolo che strazia l’anima: “Noi volevamo un mondo in cui vita, libertà e ricerca della felicità fossero riconosciuti come pilastri dell’esistenza e della vita sociale…” (Il Foglio, 8.11.2010). Gli hanno sputtanato il puttaniere, crollano i pilastri, eccetera.
A margine
“Una barzelletta che circola tra ecclesiastici narra
che un giorno vengono ritrovati i resti di Cristo.
Imbarazzo, poi si studiano le contromisure...” *
Maurizio Ferraris, Il bello del relativismo, Marsilio 2005
Qui cerco di chiarire a diciottobrumaio e a lector quanto, a mio umile parere, sta in premessa ad ogni discussione su quanto il mito possa aver preso dalla storia, e stiamo parlando di Gesù di Nazareth (GdN): anche se fosse buona la tesi di Luigi Cascioli – GdN non è mai esistito, la sua figura è stata ricreata a calco di un tal Giovanni di Gamala (GdG), zelota vicino agli esseni, del quale non sappiamo quanto il mito abbia preso dalla storia – avremmo un GdG che (almeno in parte) sarebbe storia. Voglio dire – spero di non fare scandalo – che l’esistenza storica di GdN non mi pare il problema centrale del cristianesimo: il mito di GdN avrà sempre in sé una parte di storia e, anche se la sua predicazione e la sua morte sono storicamente (almeno in parte) di GdG, è la resurrezione che sta al centro di tutto, di là da ogni probabile, fuori dalla possibilità di storia. Non è nell’esistenza di un nuclearità storica (anche plurima) di un GdN che si gioca la credibilità dell’evento, ma nella resurrezione di un qualsivoglia umano, ovunque sia, chiunque sia. Quand’anche fosse provato un GdN proprio così come ci è descritto dalle favole scritte non prima di mezzo secolo dopo la sua morte, la questione sulla quale il cristianesimo tiene o cade è la sua resurrezione. Poi, certo, abbiamo Loisy, Mead e ora anche Freeman a tentare di spiegarci come è nato il mito, ma il nucleo storico che fa la credibilità di GdN è se, due millenni fa o giù di lì, un qualsivoglia umano sia risorto o no: tutto il resto è archeologia e filologia, tutta roba assai interessante, ma senza un tizio che risorge il cristianesimo non è più evento (come tengono a ripetere i cristiani più furbi che addirittura rifiutano di metterlo fra le religioni), ma costruzione letteraria, e dunque ha davvero poco importanza quanto di realmente storico vi sia nel protagonista. Fra persone di buon senso, è ovvio, non si perde tempo a discutere di resurrezione, ma si passa all’archeologia e alla filologia: in questi ambiti si possono rintracciare gli elementi psicologici che concorrono alla costruzione del mito e, rintracciati quelli, il cristianesimo è destrutturato. Che importa se rimane un GdN, un GdG o un altro? È dinanzi alla eventualità che vengano ritrovati i suoi resti che ogni contromisura favorirebbe la destrutturazione del cristianesimo, di fatto a buon punto.
* La citazione mi serviva solo per introdurre la questione, tutta nel prologo della barzelletta. Non riportarla sarebbe un crimine: “Un giorno vengono ritrovati i resti di Cristo. Imbarazzo, poi si studiano le contromisure. I Francescani propongono di adoperarli per cavarne reliquie da vendersi nei giorni di festa; i Domenicani suggeriscono nuove ermeneutiche della scrittura volte a far quadrare i conti; e i Gesuiti, stupefatti, esclamano «ma allora esisteva davvero!». I tre ordini manifestano i tre ingredienti fondamentali del post-moderno: la Secolarizzazione (i Francescani), l’Ermeneutica (i Domenicani), il Nichilismo (i Gesuiti)”.
domenica 7 novembre 2010
Elogio della bistecca
Quando dice che è “meglio essere appassionato delle belle ragazze che gay”, non ci mette a confidenza delle sue preferenze sessuali, peraltro arcinote, e non sottintende alcun “per me”: fa un discorso pubblico, e da posizione autorevole, circa la presunta oggettività di un “meglio” che dovrebbe essere autoevidente. Qui, all’accusa di abuso di potere (e al biasimo morale perché va a puttane) oppone una fiera rivendicazione della sua eterosessualità, ma chi gli ha mai rimproverato d’essere eterosessuale? E allora che c’entrano i gay?
La sua è una risposta che non avrebbe senso logico né forza di argomento neppure se le accuse gli venissero solo dai gay, ed è come se uno, pizzicato a rubare bistecche, si difendesse dicendo: “Meglio che rubare spigole”. Sarà, dipende, è questione di gusti alimentari, ma sei chiamato a rispondere di furto di bistecche e ti difendi dichiarando che preferisci la carne al pesce, come se la questione non riguardasse te. Può funzionare solo se trovi chi sia disposto a stornarla e allora ecco il vescovo di Foligno, monsignor Arduino Bertoldo, disposto a darti una mano con l’elogio della bistecca: “Non capisco il putiferio davanti ad un’affermazione di Berlusconi tanto evidente ed ovvia: meglio amare belle ragazze che seguire omosessuali. Lui ha fatto solo una comparazione, ma non ha screditato nessuno. […] Non ha detto niente di male, credo che per ogni uomo normale sia bello innamorarsi di una donna e non di un omosessuale: la natura e la vita dicono che la inclinazione dell’uomo é verso la donna e non l’uomo e viceversa”.
Ma ce n’è pure per la spigola: “Purtroppo se questa stessa affermazione a parti invertite la avesse fatta un altro leader, tutto sarebbe passato in silenzio. Tempo fa un uomo politico gay ha detto che viveva con un uomo, ma non ho sentito stracciarsi di vesti tra gli etero”.
venerdì 5 novembre 2010
[...]
“Where they did form, Christian Democratic parties did not necessarily come out in favor of modern democracy. «Democratic» meant something more like «popular», or being from and among the people. It was no accident that «volk» and «popolari» became key words in the names and rhetoric of Catholic parties in Western Europe”
Jan-Werner Müller, Making Muslim Democracies
(Boston Review, nov/dec 2010)
(Boston Review, nov/dec 2010)
[grazie a Giovanni L. Ciampaglia per la segnalazione]
giovedì 4 novembre 2010
Pare
Pare che la Benini rubacchi idee alla Soncini, pare che sia già accaduto “tre o quattrocento volte”. Per il genere letterario in oggetto manco di strumenti critici adeguati a una seria analisi comparativa, ma la Soncini m’è simpatica e la Benini mi sta sul cazzo, quindi mi sbilancio in favore della prima: c’è rubacchiamento.
Un altro è andato
Però cosa stiamo a parlare di merito e meritocrazia
se poi basta essere belle, giovani e avere le gambe lunghe
per salvarsi la buccia in caso di bisogno e ottenere anche
qualche regalino extra? E' tutta una contraddizione,
non regge più il giochino. Mi dispiace ma io sono schifato.
"basta essere belle, giovani e avere le gambe lunghe"… Caro mio,
ti capisco, ma dove vivi? Guardati intorno. Nessuna "regola"
potrà mai i piccoli-grandi vantaggi di un aspetto attraente.
Vale per uomini e donne, in tutte le circostanze,
da una fila alla posta ad un esame universitario. E' la vita...
L’ultima volta che ho parlato con Federico Punzi è stato cinque minuti fa, al telefono. L’ho chiamato per chiedergli spiegazioni su quanto aveva scritto in risposta ad un lettore nella pagina dei commenti ad un suo post (Procure scatenate e gioco di squadra – Jimmomo, 2.11.2010): mancava un verbo e, anche se il senso della frase era chiaro, volevo essere sicuro. La frase: “Nessuna «regola» potrà mai [qui c’era il buco] i piccoli-grandi vantaggi di un aspetto attraente”.
Gli ho chiesto se fossi in errore a immaginare che lì fosse saltato qualcosa del tipo “neutralizzare sul piano della competizione” o, chessò, “impedire che il merito lasci il passo a”, insomma, se si trattasse proprio di una presa di coscienza tra il cinico e il rassegnato, insomma, la presa di coscienza di chi ha capito come gira il mondo e ha deciso di farlo girare come gira. Me l’ha confermato: “Non che sia giusto, ma purtroppo è così”. Ma forse è meglio spiegare com’è.
È che per anni e anni – l’ho conosciuto nel 2002, forse nel 2003 – l’argomento preferito di Federico è stato il merito: l’importanza delle regole era sovrana in gran parte delle sue riflessioni pubbliche e, almeno per quanto mi riguarda, in ogni sua conversazione privata (e non ricordo le abbia mai messe tra virgolette). Meritocrazia e regole contro ogni abuso e privilegio per una società un poco più decente, eccetera: robe così, da patetici liberali dei bei tempi andati, Federico era così. È che il patetico liberale dei bei tempi andati è andato: “Non è giusto, ma è la vita”.
Avevo capito bene e infatti anche la sua risposta al lettore chiudeva a quel modo: “È la vita…”, così va il mondo, “guardati intorno”, non ci si può far niente. Sì, però, “purtroppo”. E la società un poco più decente?
Quando ho aperto dicendo: “L’ultima volta che ho parlato con Federico Punzi…”, intendevo dire che è proprio l’ultima. E mi dispiace perché mi rimane una curiosità: saranno spuntate tette e gambe lunghe anche a lui?
“Questo vecchio con la lingua di fuori”
Ho scritto che “gli rimane solo da cagare sul centrotavola”, ma anche lì, a quanto pare, non gli mancherà l’indulgenza e anche la simpatia di un bel pezzo del paese, oltre all’entusiastico plauso degli adoratori ad oltranza, i professionali e gli amatoriali, che senza meno troveranno sublime lo stronzo sul centrino. C’è da rimanere depressi? Non più di prima: stavolta è toccata ai gay, questo è tutto. Indignati? Non molto di più del solito, vedrete che anche stavolta dirà che è stato frainteso, anche se non lo dirà subito, perché prima vorrà consolidare la fidelizzazione con gli omofobi più riluttanti a rivelare la propria omofobia. Sgomenti? Solo nell’errore di credere che Silvio Berlusconi sia tanto diverso dal paese che lo vota e che lo vuole: anche chi lo sceglie come menopeggio ha in sé un po’ di “questo vecchio con la lingua di fuori”, ma può solo proiettarlo in lui, non avendo 5.000 euro a botta.
Non ha bisogno di pensare troppo a ciò che dice, lui, non ha bisogno di calcolare i pro e i contro, la convenienza e il danno: ha la stessa pancia del paese, è sintonizzato con gli umori più nascosti perché più profondi, che poi sono anche quelli meno controllabili perché meno ponderabili. L’omofobia degli italiani è atavica, ancestrale, latina, cattolica, fascista e anche comunista: l’ometto fluttua in una falda, profonda, ma pronta a riaffiorare se le si dà foce, cioè voce.
Siamo alla solita questione: bisogna tollerare gli intolleranti? Possiamo consentire che pregiudizi discriminatori vengano celebrati come verità radicate nella natura umana in nome della lotta al relativismo?
Silvio Berlusconi è solo il “potente medium del cosiddetto «carattere nazionale»” (un patetico e disperato conte Mascetti, ma con tanti soldi) e questo carattere è innanzitutto cultura che si spaccia per natura (patetico e disperato sessismo che ha la pretesa di fondarsi in verità biologica): se in nome della tolleranza consentiamo questo spaccio, forniamo alibi alla discriminazione sulla base di una presunta verità naturale. Si possono censurare affermazioni del tipo “meglio essere appassionati delle belle ragazze che gay”, ma solo dopo aver negato che l’eterosessualità incarni una verità biologica, facendo cadere le ragioni di quell’ego che si fa centrale in un “meglio” che implica un “peggio” in ogni diverso.
“È chiaro che Silvio Berlusconi non l’ha detta in senso omofobico, ovvero di paura o disprezzo verso gli omosessuali, ma solo in senso egocentrico” (Il Foglio, 13.11.2010). Non ci libereremo mai di “questo vecchio con la lingua di fuori” fino a quando penseremo di doverlo tollerare come espressione di un esuberante orgoglio nel sapersi dove comunque sta il “meglio”.
Prerecensione
“Venerdì 5 novembre prossimo alle ore 18.00 presso la Libreria Internazionale Paolo VI in via di Propaganda, 4 a Roma si terrà l’incontro per la presentazione del volume «1943 Bombe sul Vaticano» a cura di Augusto Ferrara (Coedizione LEV – Augusto Ferrara Editore)” (zenit.org, 3.11.2010).
Trattandosi di un libro che esce per i tipi della Libreria Editrice Vaticana (la coedizione coi tipi della casa editrice del curatore è scarsamente significativa, tutta di comodo), sarà interessante darci un’occhiatina, per vedere se la versione dell’episodio trattato in questo volume è la stessa – e falsa – che si è tentato di accreditare alcuni mesi fa, quando il giornale del papa, a contorno della riciclatissima – e falsa – storiella di un tentato rapimento di Pio XII (non rapimento mistico, ma sarebbe stato ordito dalle Ss, in realtà inventato da Karl Wolff, in cambio di un lasciapassare vaticano per l’America del Sud, uguale a quello dato a tanti altri gerarchi nazisti), ci rifilò un articoletto ambiguo e vago a firma di Lina Vagni Sansone (Bombe sul Vaticano – L’Osservatore Romano, 15-16.3.2010), nel quale la falsità che a bombardare il Vaticano fossero stati i nazisti non era affermata, questo no, ma insinuata, in modo assai sporco. Descritti gli eventi, senz’alcun cenno al fatto che quelle quattro (forse tre) bombe furono sganciate da un aereo della Rsi (cose note da tempo), l’articolo chiude così: “Che dire? Il «connivente» Pontefice rischiò di vedere bombardata la sacra basilica, la tomba del Principe degli Apostoli, per il suo «complice silenzio»!”. L’ironia induce a suggestione: se quelle bombe possono dimostrare che Pio XII non fu affatto «connivente» – e dunque il suo «complice silenzio» è solo una leggenda nera – vuoi vedere che a bombardarlo fu la Luftwaffe?
In realtà, l’episodio è chiaro da tempo (anche per questo non si capisce che senso abbia il libro di Augusto Ferrara, ma ce lo procureremo e vi faremo sapere). A sganciare quelle quattro bombette a basso potenziale fu il sergente Parmeggiani, uomo di Farinacci, decollato da Viterbo nella serata del 5 novembre. Sul perché e sul come già è stato detto tutto, basti quanto in Roma 1943 (Paolo Monelli – Migliaresi 1945; Einaudi 1993) e ne Il Vaticano nella seconda guerra mondiale (Giorgio Angelozzi Gariboldi – Mursia 1992; Mursia 2007): fu una brillante idea di Farinacci, che intendeva attribuire quelle bombe agli anglo-americani dalle pagine de Il Regime Fascista, come accadde il 7 novembre (La Città del Vaticano bombardata) e il 13 novembre (Anglicani e badogliani contro il Vaticano).
Si parlò del ritrovamento di una bomba inesplosa di fabbricazione inglese: non era vero. E Mussolini non ne era al corrente: mostrò contrarietà, quando ne fu informato. Ecco, dunque, la vera natura della suggestione che L’Osservatore Romano tentava di farci passare per bombardamento nazista, come un fascista tentava di farla passare per bombardamento alleato: si trattava di uno specchietto per le allodole, e c’è da augurarsi che il volume di Augusto Ferrara non l’abbia sperluccicato ancora, dopo quasi 70 anni (vedremo, vi faremo sapere).
martedì 2 novembre 2010
Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud, Mondadori 2010
“Non c’è nulla di più sgradito che venire maltrattati da chi si crede di aiutare. Chi non era capace di capire la differenza tra la libertà appena ricevuta e la schiavitù subita per secoli andava trattato alla stregua di una belva” (Il sangue del Sud, Mondadori 2010 – pag. 94). Con la consueta chiarezza che non cede mai al comodo semplicismo – anzi, vedremo quanto complesso sia ciò che è descritto in modo chiaro – Giordano Bruno Guerri riesce a stringere in quattro righe il movente psicologico che armò l’esercito del neonato Regno d’Italia contro quanti nelle Due Sicilie rifiutarono uno Stato unitario, cercando di sabotarlo. Non è detto che davvero si aiuti “chi si crede di aiutare”, come minimo perché l’aiuto può anche non essere considerato tale, fino alla possibilità che oggettivamente non sia tale. Già, ma cos’è – sul piano storiografico – l’oggettività? Tranquillo, lettore, non sto per prendere la tangente: rimango sul libro di Guerri che mi hai chiesto di recensire.
Il fatto è che l’oggettività dell’aiuto che al Sud venne dal Nord è rappresentato come tale già nel suo sottotitolo, che è Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio: la maiuscola per Risorgimento e la minuscola per brigantaggio. Sarà stata una guerra civile, non c’è dubbio, e sarà stata anche crudelissima come tutte le guerre civili, non mancano i documenti che lo provano, ma i perdenti non avevano neppure un movimento degno di maiuscola. Non è così solo in Guerri: sfogliando la ricchissima bibliografia (pagg. 263-276) non si trova un solo Brigantaggio nei titoli, solo brigantaggio, come un fenomeno senza un’idea interna, come fatto non privo di motivi, ma senza una ratio. Ecco in cosa concorda – unanimemente – la storiografia (anche nelle sue degenerazioni neoborboniche e neosanfediste): i briganti erano in campo senza un’idea, fedeli a Francischiello e al Papa, senza dubbio, ma del brigantaggio si può dire che fu animato da queste fedeltà?
Ma leviamo pure l’elemento emotivo, e dunque retorico, della fedeltà: dietro ai briganti c’era un progetto di società capace di competere con quello espresso dalla nobiltà e dalla borghesia del Nord? L’esito della guerra civile era già tutto nella sconfitta militare subita dallo Stato Pontificio e dal Regno delle Due Sicilie, sennò come sarebbe stato possibile tanto a Mille sfessati? Ciò che muoveva Garibaldi era più forte di ciò aveva mosso Pisacane: oggettivamente Garibaldi portava aiuto, oggettivamente Pisacane no. O meglio: così parve alle genti del Sud. Quanta resistenza fu opposta alla risalita di Garibaldi da Marsala a Napoli? Calatafimi, e poi?
Il movente psicologico che armò il Nord “invasore” contro il Sud “ribelle” era tutto nella sgradevolezza del maltrattamento, che non era stato messo in conto. Il Nord capì che la soggezione e la superstizione avevano reso il Sud per sempre refrattario alla voglia di libertà, mai disgiunta dalla corrispettiva responsabilità, ma lo capì solo a Unità raggiunta, e “potremmo chiamarla la sindrome del «chi me l’ha fatto fare?»” (pag. 5). La delusione provocò una reazione spietata.
La pietas umana può essere tenuta sotto controllo solo fino a un certo punto, poi traspare, quasi sempre in favore dei perdenti: questo è molto bello e accade anche in Guerri. E tuttavia, se in questo libro i briganti trovano modo di chiarire i loro motivi, la ratio di chi li massacrò trova modo di chiarire che non ci fosse altra soluzione che il massacro, perché nel brigantaggio confluivano le trame della Chiesa e dei Borboni contro il nuovo Regno d’Italia (cfr. Cap. VIII – La Chiesa, i Borboni e i briganti – pagg. 107-122): si trattava del proseguimento del Risorgimento, la sua coda feroce e insanguinata.
“Una Unità mal condotta e peggio proseguita” (pag. 252), certo, ma “grazie all’Unità – attraverso un processo lungo, faticoso e non ancora terminato – l’Italia è diventata un grande Paese. Non lo sarebbe mai stata senza il Risorgimento” (pag. 253). Poi c’è da tenere presente – e questo è davvero inquietante – che, mentre il brigantaggio nasce come strumento di una possibile restaurazione clericale e borbonica, finisce per diventare icona, “almeno fino agli anni Sessanta del Novecento, [di] sindacalisti, contadini e braccianti alle prese con rivendicazioni, scioperi, battaglie [sicché] una certa estetica della guerriglia mise sullo stesso piano Carmine Crocco e Che Guevara [come se fosse possibile assurgere i briganti] al rango di mitici combattenti per la libertà” (pag. 260), volti a quell’emancipazione della plebe meridionale che Chiesa e Borboni non avrebbero mai permesso: esito paradossale del mito del brigantaggio, che sul piano sociale residua invece in delinquenza organizzata nelle forme della mafia, della ’drangheta e della camorra.
Guerriglieri e criminali, però, si combattono con le stesse armi.
lunedì 1 novembre 2010
A quanti farebbe comodo che tacesse per sempre?
Ruby avrebbe bisogno di una scorta, come ne avrebbe avuto bisogno Brenda.
La famiglia-base-del-consorzio-civile
“Quella prima pagella, alle elementari, non la scorderò mai. Non perché i voti fossero tanto brutti o tanto belli, ma perché in prima pagina, in calligrafia arzigogolata, c’era scritto: «Giordano Bruno Guerri, figlio di Gina Guerri e di N.N.»: cioè di nessuno. Figlio di padre ignoto. Invece io il babbo ce l’avevo, eccome, e tornava a casa tutte le sere, e mi copriva di coccole e mi voleva bene. Solo che in quegli anni - parlo dei metà Cinquanta - il diritto di famiglia era crudelissimo, spietato. Mio padre aveva avuto un matrimonio, di divorzio neanche a parlarne, ed esisteva una tremenda legge sul concubinaggio per cui se avesse riconosciuto un figlio convivente e nato fuori dal matrimonio sarebbe finito in galera, come un delinquente qualsiasi. Ora, a mezzo secolo di distanza, non farò del colore lacrimoso sulla mia umiliazione e i miei tormenti di bambino, su come la faccenda dell’N.N. si riseppe subito in classe, su come la crudeltà degli altri bambini infierisse e su come per anni - anni, tutta la mia infanzia - io abbia aspettato le pagelle come uno schiaffo pubblico dal quale non mi potevo difendere. Neppure il mio forte, grande babbo, mi poteva difendere, perché lui non esisteva, era N.N., nessuno. È orribile pensare a quale ferocia possano arrivare uno Stato, una società, nell’intento di difendere la moralità pubblica, il perbenismo, la famiglia-base-del-consorzio-civile”
Giordano Bruno Guerri, il Giornale, 30.10.2010
“Dracula all’Avis”
Il bunga-bunga ha messo in ombra molte notizie degne di attenzione, per esempio la nomina a garante dei diritti dei detenuti di Roma che Gianni Alemanno ha deciso in favore di Vincenzo Lo Cascio, persona vicinissima a Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Rozzo ma efficace, Francesco Storace ha commentato: “Ci aspettiamo che, coerentemente, Alemanno nomini Dracula all’Avis”.
In altri tempi, a destra, si sarebbe aperto un dibattito sulla filosofia che informa il criterio corporativistico delle rappresentanze. Sarebbe finito a sediate in faccia, ma il dibattito si sarebbe aperto.
Zaccheo: molto ricco, molto peccatore e basso di statura
Per chi crede al caso, è un caso, ma chi dietro al caso sa vedere la divina provvidenza non può che rimanere affascinato dal fatto che ieri – proprio ieri – la liturgia della domenica prevedesse una meditazione sull’episodio evangelico di Zaccheo (molto ricco, molto peccatore e basso di statura), al quale Gesù perdona ogni peccato previa consistente elargizione. C’è da segnalare solo lieve discrepanza tra il testo del Vangelo, dove si legge che Zaccheo elargisce “la metà dei miei beni” (Lc 19, 8), e quello che Benedetto XVI sceglie a commento: “diede via la sua ricchezza” (S. Girolamo, Omelia sul Salmo 83, 3), intendendo “tutta”. Insomma, la Chiesa offre il perdono a Silvio Berlusconi, c’è solo da discutere sul prezzo: tutto il suo patrimonio, calcolato intorno agli otto miliardi di euro, o solo la metà?
Si scherza, naturalmente, non ci è dato far altro: la Ruby gli costa molto di più della Patrizia o della Noemi, siamo costretti a constatare che l’anima del povero premier ha piena ipostasi nelle sue sorti politiche. Anche per questo il declino di Silvio Berlusconi sembrerebbe ormai inevitabile, perché, se fino a ieri se la cavava con qualche leggina, qualche sgravio fiscale, un po’ di soldi alle scuole dei preti e un baciamano al papa, adesso il perdono della Chiesa gli costerebbe addirittura il doppio di quanto a Zaccheo costò quello di Gesù.
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