I. C’è ancora molto da dire sulle violenze ai danni dei cristiani copti di Alessandra d’Egitto, sull’Anschluß di tutte le comunità cristiane non cattoliche e delle Chiese particolari locali che Benedetto XVI ha più che implicitamente dichiarato in Medio Oriente nel farsene rappresentante sul piano diplomatico, sulle reazioni del grande imam di Al Azhar che ha accusato il Papa di subdola ingerenza e di doppiopesismo ipocrita. Ho già detto delle questioni sollevate da queste prese di posizioni nel contesto di quella escalation di violenza che sta rimodellando entità e forma della presenza cristiana in terra musulmana; qui aggiungo, se non l’ho già fatto, che questo Capodanno è probabilmente destinato ad essere considerato un punto di snodo nella storia ultramillenaria delle relazioni tra mondo islamico e mondo cristiano, più della storica visita di Giovanni Paolo II alla Moschea di Damasco, più della storica lectio di Benedetto XVI a Ratisbona. Non credo di esagerare e con questo post cercherò di spiegare perché, dicendo da subito che qui, ad Alessandria d’Egitto, più che a Damasco in senso positivo e a Ratisbona in senso negativo, sono venute in superficie le questioni di “teologia politica” che sono in discussione nel mondo cristiano e in quello islamico a cavallo dei due millenni: seppur rapidamente dovremo citare il Concilio Vaticano II, il I Incontro interreligioso di Assisi del 1986 e la Dominus Iesus del 2000, arrivando a Damasco (2001) e a Ratisbona (2006), per averne chiaro lo sviluppo. Mi limiterò alle questioni di “teologia politica” in campo cristiano, anzi cattolico, ma quelle in campo islamico non saranno del tutto trascurate. Prima però sarà il caso di chiarire cosa intendo per “teologia politica” e lo farò servendomi, come ho già fatto, dell’impostazione data da Merio Scattola in Teologia politica (il Mulino, 2007).
“«Teologia politica» è un’espressione composta che può avere tre significati distinti, corrispondenti alle tre diverse relazioni possibili tra i due termini che la costituiscono. Se prevale in primo di essi, si genera una «politica della teologia» che rimane subordinata al dettame religioso e che, in determinati casi, aspira a realizzare una ierocrazia o una repubblica santa”.
Fermiamoci un istante: una «politica della teologia» è presente nel mondo islamico, ma non è assente in quello cristiano, dove la politica risulta non di rado subordinata a quel Bene sul quale il magistero cattolico dichiara piena e totale competenza, fino al punto da pretendere di far coincidere il Bene col Vero, la Carità con la Giustizia, sugli assunti di un dettame religioso che oggi si appella alla ragione non potendo più contare sulla forza. [Il concetto di laicità non ha senso nel mondo islamico, perché la società non può che costruirsi sul Libro: è l’ermeneutica del Libro che plasma la società e il legislatore è servo di Dio, senza che vi sia possibilità di contraddizione sul piano politico (almeno in via teorica) con l’essere suddito del Califfo. La storia dell’occidente cristiano, invece, si è consumata in un affinamento della teocrazia in egemonia culturale, che con la caduta dei suoi bastioni temporali ha portato alla crisi della sovranità sociale di Cristo, prima, e alla messa in discussione dell’autorità magisteriale. Tutto questo è stato possibile perché il Dio dei cristiani si è incarnato e ha accettato di addossarsi gli effetti del peccato originario per esigere gratitudine fino alla morte e fin dentro l’altra vita: era quanto implicava l’impossibilità di una coincidenza tra civitas Dei e civitas hominis, perfettamente realizzata invece della società musulmana eretta sul dettato coranico. Ma riprendiamo Scattola.]
“Se i due termini [«teologia» e «politica»] hanno forza uguale, avremo una riflessione sul nucleo teologico della politica e sul significato filosofico-politico, cioè ordinante, implicato in ogni teologia”. Una diversa riflessione sul nucleo teologico della politica è evidente tra cristianesimo e islam, tuttavia è altrettanto evidente che mai come dal Concilio Vaticano II in poi c’è stato il tentativo, soprattutto da parte cattolica, di una riflessione comune finalizzata ad un asse di convergenza in opposizione alla “deriva secolaristica” indotta dalla modernità (o in essa coincidente). Potremmo dire che non s’era mai vista tanta attenzione all’islam da parte della Chiesa di Roma, e tuttavia assai ambigua sul piano teologico e su quello politico, dalla preghiera comune allo stesso Dio (ad Assisi e a Damasco), fino alla ricerca del “trialogo” tra i monoteismi, alla riaffermazione che extra ecclesiam è possibile solo l’errore (con la Dominus Iesus), fino alla configurazione di una inevitabile scontro di civiltà causato dalla irriducibilità della violenza intrinseca al Corano (a Ratisbona).
“Se infine – prosegue Scattola – predomina il secondo termine, viene prodotta una «teologia della politica», cioè una «teologia civile», alla quale si chiede di rafforzare il legame comunitario e l’ordinamento interno” (e io qui aggiungerei: anche di farsi ragione polemica offensivo-difensiva, con le reciproche accuse di usare Dio come strumento e fine di conquista: evangelizzazione e jihad, crociata e aspirazione al califfato mondiale, veluti si Deus daretur e Allah Akbar).
“In via approssimativa – conclude Scattola – si può dire che ai tre tipi di teologia politica corrispondono tre differenti estensioni del suo concetto, che infatti può essere inteso in senso ampio, in senso proprio e in senso speciale”. E qui – anche qui in via approssimativa – li abbiamo rappresentati per il cristianesimo e per l’islam.
Possiamo passare ad identificare “in senso proprio”, e per il solo campo cristiano, quel “nucleo teologico della politica” che porta il pensiero di Joseph Ratzinger a farsi causa di guai seri per mettere un freno all’indifferentismo sulla vera verità che sta soltanto nel Credo di Nicea. Dovremo parlare della Dominus Iesus.
II. Sfrondiamo, sfrondiamo quanto è possibile: “La missione universale della Chiesa nasce dal mandato di Gesù Cristo […] Al termine del secondo millennio cristiano, però, questa missione è ancora lontana dal suo compimento. È per questo più che mai attuale oggi il grido dell'apostolo Paolo sull'impegno missionario di ogni battezzato: «Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è una necessità che mi si impone: guai a me se non predicassi il vangelo!» (1 Cor 9,16). Ciò spiega la particolare attenzione che il Magistero ha dedicato a motivare e a sostenere la missione evangelizzatrice della Chiesa, soprattutto in rapporto alle tradizioni religiose del mondo. […] La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. […] La pratica del dialogo interreligioso non sostituisce, ma accompagna la «missio ad gentes»…”.
Qui dobbiamo fermarci: come possono stare insieme, senza contraddizione, la missio ad gentes e il sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che in molti punti differiscono da quanto la Chiesa crede e propone? Come si conciliano il mandato proselitario fino in capo al mondo, dunque anche in partibus infidelium, con la tolleranza dell’errore nel quale si ostinano gli infideles? C’è un punto in cui deve necessariamente cadere una delle due cose: o l’impegno missionario di ogni battezzato, che l’infedele sente come crociata (e il cristiano non cattolico come campagna papista), o il rispetto dell’altrui errore, che il battezzato sente come tradimento del mandato.
Ecco come è risolta la questione dalla Dominus Iesus: “Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso […] [sulla base di] alcuni presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che ostacolano l’intelligenza e l’accoglienza della verità rivelata. […] Per porre rimedio a questa mentalità relativistica, che si sta sempre più diffondendo, occorre ribadire anzitutto il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo”. La questione è risolta col ribadire che “deve essere fermamente creduta la dottrina di fede […] refutando interpretazioni erronee e riduttive”. Ti rispetto, ma è fuori discussione che tu abbia torto e io ragione. Scusami, ma non posso lasciarti nell’errore, Gesù mi ha comandato di farti cambiare idea e battezzarti. Ripeti insieme a me: “Gesù Cristo ha un significato e un valore per il genere umano e la sua storia, singolare e unico, a lui solo proprio, esclusivo, universale, assoluto”. E con ciò abbiamo chiarito fino a che punto sono nella possibilità di rispettarti. “Il dialogo perciò, pur facendo parte della missione evangelizzatrice, è solo una delle azioni della Chiesa nella sua missione ad gentes. La parità, che è presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali [...] La Chiesa dev’essere impegnata primariamente ad annunciare a tutti gli uomini la verità, definitivamente rivelata dal Signore, ed a proclamare la necessità della conversione a Gesù Cristo e dell’adesione alla Chiesa attraverso il Battesimo”.
Potrebbe anche funzionare, tutt’è trovare in partibus infidelium degli infideles disposti a farti fare, tutt’è trovare musulmani che non siano saldi nella loro fede come tu lo sei nella tua e siano disposti a farti evangelizzare il loro pezzo di terra. Prova e metti in conto che il tuo “rispetto” per la loro fede possa non essere recepito come tale. Di poi, tenuto conto di quanto abbiamo detto sulla “teologia politica”, prova a spiegare bene a un musulmano che intendi per civitas Dei e per civitas hominis, e prova a convincerlo della bontà delle tue intenzioni prima di offrirgli il battesimo. Prendi la Dominus Iesus e leggigli lentamente, scandendo bene: “La missione della Chiesa è di annunciare il regno di Cristo e di Dio e di instaurarlo tra tutte le genti; di questo Regno essa costituisce sulla terra il germe e l’inizio. Da un lato, la Chiesa è sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell’unità del genere umano; essa è quindi segno e strumento del Regno: chiamata ad annunciarlo e ad instaurarlo”.
C’è rischio di essere scambiato per un colonizzatore? Fagli capire che sei pronto al martirio. E metti in conto che anche loro non temano la morte. Buona evangelizzazione, ci risentiamo quando c’è da contare i morti.
III. Dal momento in cui Giovanni Paolo II lo fa prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’ambiguo e scialbo professorino, che s’è fin lì fatto notare solo come acuto chiosatore di teologi che al suo confronto rimarranno sempre dei giganti, comincia a costruire una dottrina della teologia politica possibile alla Chiesa dinanzi alla modernità e alla minaccia che essa arreca ai sistemi dei saperi tradizionali. Ho usato il plurale, ma bisogna tener conto che per Ratzinger questi sono tutti in uno. Romano Guardini gli ha fatto capire che la Patristica è il laboratorio che ha prodotto teologia, ma anche progetto di società: una civitas hominis nella quale ogni sapere sia sorvegliato dalla fede e ogni agire sia dettato da un magistero. Non solo: i Padri hanno fornito i Dottori di uno strumento per legare Dio e società in reciproco rapporto di necessità. In modo molto ellittico potremmo dire che questo modello di teologia politica comincia a mostrare seria difficoltà quando la cifra monarchica di questa teologia politica perde sostegno storico con la caduta delle monarchie e l’avvento delle democrazie: solo in questo punto la dottrina cattolica perde l’aderenza sulla società che per secoli è stata cogente ed è qui che si crea una bolla, un embolo, che può ischemizzare un organo del “corpo mistico del Cristo vivente”, cioè della Chiesa.
Quid agendum? Trattare col mondo, facendo almeno finta di voler dialogare, o arroccarsi in una sterile testimonianza di fedeltà all’ortodossia, fidando nella semina del sangue martire? Perdere centralità per farsi più forti a latere o rimanere al centro per indebolirsi sempre più? Falso problema, per Joseph Ratzinger, che davanti al bivio fa una scelta triviale: “La forma istituzionale della Chiesa è parte essenziale della fede. Ma le istituzioni possono vivere solo se sostenute da convinzioni fondamentali comuni e se esiste un’evidenza. Il fatto che questa evidenza non sia pacifica è la vera ragione della crisi attuale della Chiesa. […] È per questa ragione che le decisioni istituzionali del magistero possono diventare feconde solo se si legano a una lotta seria, convinta, per una nuova evidenza delle opzioni portanti della fede” (Joseph Ratzinger - 30giorni, II/2000). [Per dire: se Giuliano Ferrara avesse letto questa cosuccia nel 2000, non sarebbe diventato ratzingeriano, perché un ateo devoto non rientra nello schema ratzingeriano di teologia politica. In altri termini: il (veluti si Deus) daretur è solo un assaggino, poi viene il datur ed è scostumatezza rifiutare.]
La controversia tra tradizionalismo e progressismo in ambito ecclesiologico è sterile e insignificante perché lo è in ambito cristologico: a quel Cristo che arriva a noi da Nicea non può che corrispondere una categoria che supera tradizionalismo e progressismo. Questo Cristo si è incarnato in un processo geopolitico che ha reso la cristianità (e l’Europa, suo portato geografico) l’espressione del mandato apostolico, cioè di evangelizzazione, ma anche di inculturazione del cristianesimo, e quindi anche di missione extra-europea, di colonizzazione, di presa del possesso di roccaforti ed enclavi, di marcatura dei territori (il sangue dei martiri come l’urina dei cani) perché, a naso, quella cittadina in India, quel quartiere di Lagos, quella piazza di Alessandria d’Egitto siano cristiani per diritto del nome (il nome dei santi come stradario dell’ecumene). L’ambiguità di Ratzinger e il suo perenne osare e ritrarsi sono da riconsiderare in questo sistema di teologia politica. Per darne una visione il più possibile corretta occorre citare alcuni brani di una conferenza tenuta da Joseph Ratzinger ad Hong Kong nel 1993, che ha un incipit assai simile a quello della Dominus Iesus di 7 anni dopo.
“Il punto di partenza dell’universalismo cristiano non è un desiderio di potere, ma la certezza di aver ricevuto la conoscenza che salva e l’amore che redime, che tutti gli uomini hanno diritto di ricevere ed a cui aspirano fin dal profondo del loro essere”. E tuttavia Cristo è re di tutte le genti. “La missione non era percepita come un’operazione di conquista per esercitare il potere, ma come la trasmissione obbligatoria di quel bene che era stato dato per tutti e di cui tutti hanno bisogno”. E tuttavia è dichiarato l’obbligo di quel bisogno. “Oggi sono sorti dei dubbi circa l’universalità della fede cristiana”. E grazie al cazzo, potremmo dire, ma poi ci ricordiamo questo vorrebbe essere un post serio. Vabbe’, ormai è fatta, proseguiamo.
“Molti non vedono più la storia della missione mondiale come la storia della diffusione della verità che libera e dell’amore, ma una storia di alienazione e di violenza. Questa nuova consapevolezza chiede a noi cristiani di riconsiderare radicalmente chi siamo e chi non siamo, cosa crediamo e cosa non crediamo, cosa abbiamo da dare agli altri e cosa non abbiamo da dare. Nel quadro di questa conversazione, posso solo tentare di compiere un piccolo passo in una così vasta problematica”. Mi pare già chiarissimo, ma se non lo fosse: “In tutte le culture storicamente conosciute, la religione è l’elemento essenziale della cultura, anzi il nucleo determinante, caratterizzante. È la religione che determina le strutture dei valori e perciò dà ad essi la loro logica interna. Ma se questo è vero, l’inculturazione della fede cristiana nelle altre culture appare ancor più difficile, poiché non si capisce come una cultura, che vive e respira la religione con cui è profondamente interconnessa, possa essere trapiantata in un’altra religione, senza che ambedue vadano in rovina”.
Avete già intuito dove si va a parare? Bravi, tra poco dirà che non si può dare piena libertà ai cristiani senza consentire loro di convertire. Non fossero molesti e arroganti, uno potrebbe pure consentire, ma avendo una fede e una cultura con analoga “missione mondiale” non finisce inevitabilmente a botte? Poco male: prenderle in missione matura meriti.
Teologia politica: “I problemi dell’uomo e del mondo sempre contengono la questione fondamentale di Dio. Non si può capire il mondo né vivere onestamente, se la domanda su Dio rimane senza risposta. In realtà, andando alla radice delle grandi culture possiamo dire che esse interpretano il mondo per ordinarlo alla divinità”. Se la Verità è Una, non possiamo immaginare giusto il mondo che non la proclami e non la contempli. “Per questo motivo noi non dovremmo più parlare di inculturazione, ma di incontro di culture o interculturalità […] Infatti l’inculturazione presume che la fede, liberata dalla cultura, sia trapiantata in un’altra cultura religiosamente indifferente, dove due soggetti, sconosciuti l’uno all’altro, si incontrano e si fondono. Ma questo modo di concepire l’incontro della fede con le culture è anzitutto artificiale e irrealistico, perché, con l’eccezione della civiltà moderna tecnologica, non esiste una fede senza cultura o una cultura senza fede”. L’eccezione, naturalmente, conferma la regola.
“La fede cristiana è certa che il suo nucleo fondamentale è la rivelazione della verità stessa e perciò è la redenzione. Poiché la vera povertà dell’uomo è essere all’oscuro della verità, il che falsifica le nostre azioni e ci scatena l’un contro l’altro, appunto perché siamo corrotti, alienati da noi stessi, tagliati fuori dalla radice del nostro essere, che è Dio. La comunicazione della verità porta alla liberazione dall’alienazione e dalla divisione, ci dà il criterio universale di giudizio, che non fa violenza ad alcuna cultura, anzi conduce ciascuna al suo proprio centro, dato che ogni cultura è in fondo attesa della verità. Questo non significa uniformità. Proprio l’opposto”. Di sillogismo zoppo in sillogismo strabico, si arriva a legittimare il paradosso: il dialogo ha per fine la conversione, sennò è inutile, addirittura può risultare dannoso, perché contaminante.
IV. Sempre dalla conferenza di Hong Kong: “I Padri della Chiesa possono mostrarci la via per conseguire i retti principi poiché essi hanno affrontato un simile compito nel loro incontro con le religioni dell’area del Mediterraneo, con le loro endemiche filosofie della religione”. Inutile sottolineare che il cristianesimo sia una di queste: la più forte endemia subita dai popoli del Mediterraneo. “L’esistenza cristiana comincia con questa decisione fondamentale e si fonda sempre su di essa. Quando scompare la differenza fra adorazione e idolatria, il cristianesimo è distrutto”: non avrai altro Dio fuorché me e io sarò il tuo Dio, sicché l’errore sarà sempre e solo altrui, e ti autorizzerà su mio mandato a correggere quanti siano in errore; dove poi Dio non c’è (allontanato o ucciso), tu lo farai vivere tramite te e darai l’annuncio che è il solo, vero, buono e giusto Re. Ti è concesso non mostrarti troppo monarchico, via.
“La conversione non distrugge le religioni e le culture, ma le trasforma”: in meglio, naturalmente, se la conversione è al cristianesimo; in ottimo, se è al cattolicesimo. “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mc 8,29), gli altri sono idoli: “Questa confessione, la fondamentale confessione di tutta la Chiesa di ogni tempo e luogo, è espressamente dichiarata estranea alle semplici tradizioni umane e definita come una rivelazione nel senso stretto del termine. Ogni interpretazione che non perviene ad essa rappresenta un ritorno al puramente umano. Il cristianesimo sta o cade sulla base di questa confessione. […] Nell’Incarnazione il Logos eterno ha legato Se stesso a Gesù in modo tale che la reversibilità delle formule deriva dalla Sua persona. Il Logos non può essere più pensato indipendentemente dalla Sua connessione con l’uomo Gesù. Il Logos ha tratto a Sé Gesù e ha unito Se stesso a Lui in modo tale che essi sono solo un’unica persona nella dualità delle nature. Chiunque entra in contatto col Logos tocca Gesù di Nazareth”. Se non avviene anche l’inverso, non è Logos; e a Ratisbona aggiungerà che il Dio dell’islam “non è legato a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza”, che dal Logos trae strumenti.
Ed è sulla base di questi assunti che dovrebbe aprirsi un dialogo con le altre fedi: ogni concessione in deroga allontanerebbe dal Logos. Dite se voi se questo Logos non debba a stare almeno un pochino sul cazzo ai musulmani, e al punto da farli diventare illogici, cioè irragionevoli. E lì si ha la prova del nove: Allah non è il vero Dio, perché ispira atti violenti a chi lo idolatra come vero Dio; quindi, i musulmani sono in errore; il loro Allah è un errore. Funziona? Può funzionare? Dando per scontato che l’incipit del vangelo di Giovanni sia da leggere come lo leggeva Agostino, sì, senza dubbio. E a Ratzinger tanto basta. Prego, cari figlioli musulmani, dialoghiamo, ma partiamo dal presupposto che il Logos assiste i nostri argomenti e i vostri siano irragionevoli. Vi va?
Questo modello di teologia politica agisce (come dicevamo nel primo paragrafo di questo post) come «politica della teologia» subordinata al dettame religioso, come criterio che informa la riflessione sul nucleo teologico della politica e sul significato filosofico-politico che esso implica e come «teologia civile» chiamata a rafforzare il legame comunitario: la conversione informa il senso ampio, quello proprio e quello speciale dei termini che sono mobili da questa all’altra civitas. La salvezza si immanentizza, ma non si esaurisce nell’immanenza; la logica dell’uomo si fa specchio del trascendente, ma non ne racchiude (e come potrebbe?) la ragione: la fede sta lì per questo e sigilla il tutto. Non vi è venuta una gran voglia di dialogo? E allora siete bruti.
Già tutta in nuce nella conferenza di Honk Kong, la Dominus Iesus sembra tuttavia rivolta soprattutto ai fratelli maggiori (ebrei) e ai fratelli minori (cristiani riformati), tenendo un po’ da parte musulmani, indù, buddhisti, ecc. Arriva dopo Assisi (1986), ma poco prima di Damasco (2001), che precede Ratisbona (2006). Qualcuno penserà che dopo le aperture di Giovanni Paolo II, peraltro più formali che sostanziali, Benedetto XVI voglia farsi cappellano dello scontro di civiltà. Non è così e deluderà parecchi ingenui malintenzionati che vorrebbero ridurre la fede a storia, cultura e morale, che per Ratzinger sono un guscio vuoto senza che dentro Cristo vi si muova nella pienezza della sua pretesa, rappresentata dal magistero petrino. In questo senso, per esempio, molti atei devoti storceranno il muso sulla questione della Turchia nella Comunità europea, prima osteggiata dal cardinale Ratzinger e poi, almeno ufficialmente, non più osteggiata da Benedetto XVI; la lectio di Ratisbona ecciterà molti lepantisti, che poi saranno delusi dalle affannate rettifiche, precisazioni, limature, fino a vere e proprie scuse; e molti teocon, che avevano investito molto sulle possibili implicazioni politiche del termine composto “giudaico-cristiano”, rimarranno di sasso alle dichiarazioni di Benedetto XVI nel suo viaggio in Terrasanta; la batosta finale sarà nel riservare a questi entusiasti un “cortile dei gentili” come anticamera, in attesa della piena conversione.
Raccoglierà poco successo, l’idea di un’alleanza col mondo islamico contro la modernità: è da subito evidente che, stanti i prerequisiti di parte cristiana (ma anche di parte islamica) a un dialogo interreligioso che non si esaurisca nell’interculturale, è impossibile una base di accordo. Lo stesso Ratzinger è costretto ad ammetterlo, anche se in modo assai cauto, in Luce del mondo (LEV, 2010): “Sappiamo di essere impegnati oggi in una lotta comune. Abbiamo in comune, da un lato la difesa di grande valori religiosi – la fede in Dio e l’obbedienza a Dio [ma si tratta di un Dio diverso, di un diverso modo di intendere la fede, di una diversa forma di obbedienza: tutti ostacoli insormontabili per un dialogo che dovrebbe avere come fine ultimo la conversione dei musulmani al cristianesimo] – e dall’altro la necessità di trovare una giusta collocazione nella modernità. [Ci si annusa,] vengono affrontati i seguenti interrogativi: che cosa significa tolleranza? Qual è il rapporto fra tolleranza e verità?”. Ma nessuna delle due parti può concedere una tolleranza che accetti l’altrui verità come verità altra di un solo Vero: per cristiani e musulmani “il rapporto fra tolleranza e verità” non può essere che di conflitto (armato da parte dei musulmani più intolleranti). “A questo – prosegue – si collega anche la domanda se della tolleranza faccia anche parte il diritto a cambiare religione. Questo è un aspetto che gli interlocutori islamici riconoscono con difficoltà. Chi è giunto alla verità, si dice, non può più tornare indietro”. Ma non è così anche per un cristiano? Voilà, l’interlocuzione è bloccata in entrambi i sensi.
Ma c’è di più. A Peter Seewald che gli chiede: “Non è passato molto tempo da quando i Pontefici consideravano loro compito difendere l’Europa dall’islamizzazione: a questo riguardo il Vaticano ha cambiato totalmente politica?”, Benedetto XVI risponde: “No. Sono le situazioni storiche ad essere cambiate”. E tuttavia “importante è trovare ciò che abbiamo in comune”. Sia lecito considerare che è proprio ciò che hanno in comune i cristiani e i musulmani – la pretesa che la verità sia una e appartenga solo agli uni, tenendo gli altri nell’errore – a rendere impossibile il costruirci sopra una qualsiasi politica comune, per quanto episodica: la teologia politica non è sola politica, non può curare interessi comuni che non siano fondati su una comune verità, e infine Benedetto XVI è costretto ad ammettere che “non possiamo certo fonderci”. In realtà, ne avevamo avuto il sospetto.
[Vorrei qui citare un interessante intervento di Fabio Brotti: “Perché islam e cristianesimo possano convivere pacificamente occorrono delle condizioni precise. Penso che la storia lo dimostri in modo inconfutabile. La condizione prima è che la comunità cristiana o quella musulmana debbono rappresentare, nel territorio dato, una piccola minoranza. La condizione seconda è che in quel territorio esista un potere sovrano forte e deciso, e non democratico. In qualsiasi Stato debole o democrazia ove esistano una comunità musulmana forte e una comunità cristiana anch’essa forte, lo scontro interreligioso sarà sempre inevitabile. Non conosco alcun caso di convivenza pacifica tra due comunità altrettanto forti e dedite ad un intenso proselitismo. […] Ovunque […] differenti religioni siano convissute in pace, lo hanno sempre fatto sotto un potere formidabile” (Brotture, 4.1.2010). Manca solo un rilievo che forse è implicito in quel “formidabile”: ritengo che alla “piccola minoranza” debba essere concessa una tolleranza proporzionale alla sua insignificanza, ma il fatto è che anche piccole minoranze cristiane o islamiche intenderanno sempre la loro libertà come diritto di fare proselitismo. E quando questo miete frutti, per quanto esigui siano, la maggioranza li avvertirà come un pericolo.]
[segue]