sabato 12 febbraio 2011

Ellissi (andata e ritorno)


Avvenire ha mandato in pagina, venerdì 11 febbraio, ampi stralci della prolusione che monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, aveva tenuto a Messina, quattro giorni prima, in occasione della «Settimana Teologica 2011» della diocesi siciliana: 12.681 battute (spazi inclusi) su un totale di 35.126, con una operazione sul testo originale che, all’occhio ingenuo, può apparire delinquenziale. In pratica, i tagli stravolgono il senso della prolusione, ma l’ingenuità sta nel credere che ad Avvenire interessasse riportare in modo fedele quanto detto da Sua Eccellenza o, di più, che adesso Sua Eccellenza possa dirsene crucciato. Niente di tutto questo: monsignor Crociata non avrà nulla da ridire, anzi, non c’è dubbio che avrà approvato lo stravolgimento del testo, o addirittura lo avrà stravolto lui stesso, allo scopo. Non resta che spiegare com’è stata lavorata la prolusione e perché.

[No, aspettate, stavolta non vi frantumerò i coglioni e sarò leggero. Tanto leggero da volteggiare in un’ellittica.]

Fate finta che l’umana società sia lo scompartimento di un treno che deve andare da A a B in un x di tempo. Lo scompartimento è pieno, e c’è chi vorrebbe dormire, chi vorrebbe leggere, chi vorrebbe star lì sovrappensiero nei cazzi propri… Poi c’è quello che si sente in dovere di ravvivare l’ambiente parlando ad alta voce, cantando, chiamando al coro, pretendendo l’attenzione generale, per fare piena comunione.
Forse la sua cattiveria non è conscia, anzi, a chiedergli di non disturbare, s’immalinconisce, mette musetto, s’atteggia a vittima, t’accusa di volergli tappare la bocca, segno che odi il buonumore e la socievolezza, insomma – chiudiamo l’ellittica – sei laicista, nemico della libertà religiosa, intimamente asociala. Perché egotista. In quanto senzadio.

[Rifacciamo l’ellissi all’incontrario?]

Uno dei passi che Avvenire ha tagliato al testo originale di monsignor Crociata, che a mio modesto avviso è il cuore di tutta la prolusione perché dice della radice prima dell’appartenenza all’umana società (secondo Sua Eccellenza), è il seguente: “La fede, se non può risolversi totalmente in una appartenenza visibile ed esteriore, non può tuttavia neppure venire concepita come fatto meramente interiore e invisibile […] Un cristiano appartiene alla Chiesa in ragione della fede professata e dei sacramenti dell’iniziazione cristiana ricevuti, con tutto quanto ciò include e comporta. Ma questo diventa possibile solo a motivo di una precedenza della stessa Chiesa, indice del fatto che essa non è il semplice frutto o la semplice somma dell’appartenenza dei singoli cristiani, ma è invece anzitutto il frutto dell’azione dello Spirito, che rende presente e operante Cristo. L’appartenenza è, perciò, possibile, solo in ragione degli elementi istituzionali della Chiesa che, lungi dal rappresentare l’antitesi dello Spirito (come si sarebbe un poco superficialmente inclini a pensare), rappresentano i mezzi attraverso cui lo Spirito Santo continua ad attuare la presenza di Cristo, che raccoglie i cristiani in unità e li rende appartenenti, appunto, alla sua Chiesa”.

Sareste un poco superficialmente inclini a pensare che lo scazzacazzi nello scompartimento del treno sia uno scassacazzi e basta? Siete in errore. Egli incarna la quintessenza del Buonumore e la quintessenza della Socievolezza (e qui le maiuscole non sono a caso), e può scassarti il cazzo. Anzi, egli deve. Lo muove lo Spirito Santo, una della tre facce del Dio Trino.
E dunque in quanto Avvenire tace riguardo all’appartenenza (intesa come biglietto da A a B) c’è quello che ti tocca sorbire in un x di tempo. Che corrisponde pressappoco alla tua vita.
Dite voi se è comprensibile – non dico ragionevole, dico comprensibile – che ogni tanto ne buttino uno fuori dal finestrino.


venerdì 11 febbraio 2011

Proprio in mutande



*
“CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 11 febbraio 2011 (ZENIT.org).
Il portavoce della Santa Sede ha smentito l'ipotesi che Benedetto XVI
stia preparando un documento per limitare il rinnovamento liturgico
promosso dal Concilio Vaticano II”.

*


Aguzzate la vista



Sono bastate 48 ore e il mutanda-party ha perso due prestigiose mutande: Antonio Martino e Massimo Bordin.
Il primo, già da ieri, si tirava fuor d’imbarazzo con una educata letterina: “Caro Direttore, come sa un altro impegno mi impedisce di partecipare alla manifestazione da lei promossa…” (Il Foglio, 10.2.2011) e “impedisce” era in grassetto, per attenuare il colpo. Fatto sta che non si ha notizia di quale sia l’impegno – tace l’agenda sul blog di Antonio Martino, tace Google alla voce “Antonio Martino + 12.2.2011” – e complimenti al garbo da liberalone d’antan.
Discorso diverso per Massimo Bordin: “Oramai comprendiamo perfettamente la logica della cosa: diventa una manifestazione molto schierata e allora non c’è più quel dibattito che poteva esserci. Ci sarà una buona manifestazione di propaganda, adatta solo a chi è convinto che Berlusconi sia solo una vittima della magistratura” (Radio Radicale, 11.2.2011). Minor garbo, forse, ma grande chiarezza. Complimentoni.

Mutatis mutandis




giovedì 10 febbraio 2011

I diversivi


Per mercoledì era attesa la “rivoluzione liberale”, la “frustata all’economia”, il “piano di crescita”, tutta roba che Ferrara aveva costruito come diversivo per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dal “culo flaccido” di Berlusconi. Martedì esprimevo qualche dubbio al riguardo e dicevo: “Se la rivoluzione è rimandata, è tutta colpa di Tremonti…”.
Beh, niente “frustata”, “rivoluzione” manco per il cazzo, la “crescita” non per ora: naturalmente, tutta colpa di Tremonti.


Poco male, era solo un diversivo e, d’altra parte, ne è subito pronto un altro: il mutanda-party.


Non è un caso se Berlusconi ha sempre rifiutato i consigli di Ferrara e ora gli sta affidando la cura della fatale contingenza: come inventore di diversivi, Ferrara è insuperabile.

“Il tuo metodo è sempre quello: buttare lì quello che può funzionare sul piano della comunicazione, e giocare sulla confusione. Del resto, cosa facevi a scuola? Eravamo al liceo «Lucrezio Caro» a Roma, nell’anno scolastico 1969/70. Tu facevi la terza liceo, io ero ai primi anni di insegnamento. Quando entrai in classe il primo giorno mi trovai di fronte 10 studenti con il distintivo di Mao. Erano del gruppo «Servire il popolo». Pensavo che da loro avrei potuto avere contestazioni, perciò concordai un programma di storia che li potesse interessare. Ma mi sbagliavo, durante l’anno questi «maoisti» si rivelarono studenti modello, mentre le difficoltà vennero da te, che eri della Fgci, se non sbaglio. Tutto per te era occasione di disturbo, ti piaceva creare confusione, paralizzare l’attività didattica. Avevi un amico del Fronte della gioventù e vi divertivate a lanciare richiami da un capo all’altro della classe: tu gridavi qualche slogan, e lui rispondeva «eia eia alalà». Ogni occasione era buona, per te, per dichiarare «corteo interno» e far uscire gli studenti dalla aule. Non hai mai studiato, per tutto l’anno, fidando su quel «capitale culturale» trasmessoti dalla famiglia. Caro Giuliano, eri così, e anche se hai cambiato campo, idee, collocazione politica, in realtà non sei cambiato. La differenza è che allora tutto era ancora possibile” (Maurizio Lichter, il manifesto, 29.1.2008).
Un buon impresario come Berlusconi sa riconoscere i talenti dei suoi dipendenti e valorizzarli secondo l’occasione.


Scrivi, Malvino ti risponde



Gabriele Filipelli, “trent’anni, media cultura, un orientamento politico liberale non immune dalle influenze di una famiglia cattolica di sinistra”, mi scrive una lunga lettera per dirmi della sua “perplessità” – ma in realtà mi pare che si tratti più di stupore misto a delusione – nell’avermi sorpreso “nel novero dei derisori dei «moralisti» [del Palasharp], ritenendo “commovente che queste persone trovino voglia, modo, coraggio di dimostrare il loro attaccamento alla cosa pubblica”. Non è tutto, perché aggiunge: “Oggi il conglomerato di potere chiamato Berlusconi è il nostro problema; se la disapprovazione dei moralisti ipocriti può indebolirlo, non vedo perché questo dovrebbe inquietarci tanto. Se la caduta di Berlusconi non risolverà il problema del moralismo ipocrita, non vedo come potrebbe alleviarlo la sua permanenza”. Lo ringrazio perché mi dà modo di precisare la mia opinione a riguardo.

Comincio col dire che non faccio troppa differenza tra morale e moralismo. Prendo il Devoto-Oli per non lasciare spazio ad eventuali ambiguità nell’uso dei termini. La morale – leggo – sarebbe quanto “concernente il presupposto spirituale del comportamento dell’uomo, specialmente in rapporto con la scelta e il criterio di giudizio nei confronti dei due concetti antitetici di «bene» e di «male»”. I problemi nascono quando ciò che è «bene» per un individuo non lo è per un altro, e questo accade anche quando entrambi affermano che il presupposto sia spirituale, come nel caso di due individui che appartengano a differenti confessioni religiose. Le cose si complicano maledettamente quando un individuo nega ogni metafisica, e cioè ogni dimensione trascendente: «bene» e «male» perdono, in questo caso, il presupposto spirituale per assumere valenza di «utile» e «dannoso», anche qui lasciando spazio alla possibilità di assolutizzare il criterio di giudizio, col dichiarare «utile» o «dannoso» per tutti ciò che è ritenuto tale da un individuo. E tuttavia, almeno in questo caso, l’assolutizzazione del valore non ha pretese metafisiche: non fa richiamo ad una dimensione soprannaturale, ma anzi pretende di fondare la norma su una certezza che si fa forte di prove logiche, eminentemente materiali e immanenti, dunque non antecedenti o superiori all’uomo, né eterne. Qui la morale si riduce alla norma logicamente desumibile come «utile», e tuttavia rimane sempre aperta la questione del dimostrare che le prove logiche di quanto è ritenuto «utile» a se stesso da un individuo lo sia davvero per tutti.

Dicevo che non faccio troppa differenza tra morale e moralismo, infatti il moralismo altro non è che la “tendenza ad attribuire prevalente o esclusiva importanza ad astratte considerazioni di ordine morale”. È chiaro, infatti, che se si nega ogni metafisica – questo è il mio caso – l’astrattezza delle prove in favore di una cogente coincidenza di «bene per tutti» con «utile per tutti» riduce morale e moralismo a due diverse espressioni dello stesso primato del trascendente sull’immanente.
Come se ne esce? Non voglio ripetere ciò che ho già detto mille volte su queste pagine: qui mi limito a dire che l’individuo non deve perseguire ciò che ritiene essere «il bene per tutti», ma «l’utile per il maggior numero di individui»; perché «il bene per tutti» non è mai dimostrabile di per se stesso se non ammettendo un principio trascendente, superiore e antecedente all’uomo, eterno, immutabile, incontestabile e mai negoziabile, sempre nelle mani di un’autorità che prima o poi arriva al punto di dover sospendere l’assunto democratico in favore di quello oligarchico di una aristocrazia dei saggi e/o dei puri; mentre «l’utile per il maggior numero di individui» è sempre dimostrabile sulla base dell’immanenza dei bisogni, e della dialettica tra libertà e responsabilità.
Non senza difficoltà siamo giunti a considerare che le tendenze all’assolutizzazione hanno carattere tendenzialmente omologante e oppressivo, e non senza grossi ostacoli residui riconosciamo nel metodo liberaldemocratico la via d’uscita dalla storia come luogo nel quale i relativi combattono per conquistare il primato di assoluto. «L’utile per il maggior numero di individui» dichiara lecita la dimensione privata della morale, ma la considera strumento di omologazione e oppressione quando questa pretende di farsi criterio per dichiararsi esclusivo strumento per raggiungere «il bene per tutti», nelle forme dell’ingiunzione o della persuasione che sono proprie delle multiformi espressioni dello Stato etico.
L’ho scritto mille volte, per lo più in polemica con quanti sostengono che le leggi di uno Stato debbano avere come stella polare il principio trascendente che informa il magistero della Chiesa: non c’è bisogno di un Dio per dichiarare inammissibili l’omicidio, il furto e la falsa testimonianza, ma se riteniamo necessario un Dio per dar forza a quel contratto sociale, in virtù del quale individui liberi e responsabili decidono a maggioranza di renderli degni di sanzione come reati, lasciamo la porta aperta a chi se ne dichiara rappresentante per mandato e/o interprete col fine, neanche tanto occultato, di farsi padrone dei nostri corpi e delle nostre menti.

Ora, veniamo a noi, ma non subito ai «moralisti» del Palasharp. Quattro bambini rom sono rimasti vittima di un rogo in un campo nomadi nella periferia di Roma e un «moralista» ha segnalato che un leghista non si è alzato in piedi quando è stato dedicato loro il rituale minuto di silenzio nel corso di una seduta del Consiglio regionale lombardo. Moralmente lo ritengo deplorevole, ma parlo della mia morale, che qui – incidentalmente – coincide con quella del «moralista». Sì, ma il leghista ha commesso un reato? No. E allora su quale piano è sanzionabile il suo gesto? Potremmo dire – e diciamolo – che il suo comportamento è sospetto di un portato razzista e xenofobo, ma ne abbiamo le prove certe? In assenza di prove certe sul punto, in assenza di una legge che punisca chi non si alza in piedi quando si dà il rituale minuto di silenzio, vogliamo un supplemento di legislazione che punisca il colpevole con la pubblica esecrazione? Cosa accade se assumiamo come necessario questo supplemento di legislazione sulla base dell’assunto morale che chiede un pubblico e generale riconoscimento di legge suppletiva? Quanti altri comportamenti che non configurano fattispecie penale arriveranno ad avere la loro sanzione sulla base di un assunto morale? In altri termini: che cazzo sto combinando nel pretendere che la mia morale – alla quale, sia chiaro, non rinuncerei mai – debba avere il pubblico riconoscimento di legge extrapenale (sovrapenale) valida per tutti? Sto ponendo le basi di uno Stato etico. Probabilmente avrà carattere persuasivo e non ingiuntivo, ma tenderà comunque a farsi norma avente come fine «il bene per tutti». Onestamente, ne ho bisogno? Voglio dire: non mi bastano leggi che puniscano il razzismo e la xenofobia delle forme che ne diano prova certa di reati? Stabilito per contratto sociale che «l’utile per il maggior numero di individui» debba giocoforza vietare quanto è espressione palese ed efficace di razzismo e xenofobia, a che mi serve entrare nel privato del razzista e dello xenofobo per proclamare il trionfo della morale che li condanna come vizi o peccati? Può servirmi a un solo scopo, ma al momento non riveliamolo.

Cambiamo scena, e parliamo di puttane. La prostituzione non è un reato, ma io la ritengo esecrabile. Non è un’ipotesi, dico proprio per davvero: non sono mai andato a puttane, non ho mai desiderato farlo, non sarei mai capace di prostituirmi né per diletto, né per bisogno, perché preferirei morire di fame (anche se è mi è facile dirlo, non essendomi mai trovato in tale condizione). Bene, ma questo mi dà il diritto di pretendere che puttana e puttaniere siano sanzionati da una legge dello Stato o dalla pubblica e generale sanzione morale? Insomma, chi cazzo sono io per poter pretendere che il contratto privato tra due individui adulti e consenzienti, che in questo caso prevede lo scambio di denaro e prestazioni sessuali, trovi una qualche punizione anche se in assenza di reati allegati? Posso arrivare a disprezzare Silvio Berlusconi, ma posso arrivare a pretendere che il mio disprezzo debba essere condiviso da tutti solo perché ritengo che la mia morale debba valere per tutti, sicché chi non disprezza Silvio Berlusconi in quanto puttaniere è in qualche modo suo complice? Come posso arrivare a questo senza riconoscere in me stesso una morale che pretende autorevolezza sull’altrui morale? E come non posso rabbrividire nel sorprendermi in queste velleità magisteriali che pretenderebbero il pubblico riconoscimento di un primato di autorità in campo morale?

Naturalmente, Silvio Berlusconi non è andato semplicemente a puttane. Pare che attorno alle sue esigenze sessuali si fosse consolidato un sistema di sfruttamento della prostituzione, che è reato, con casi di prostituzione minorile, che è un altro reato. In più – da cosa nasce cosa – questo avrebbe portato almeno a un episodio di concussione, che è un altro reato, e a un serio rischio per la sicurezza dello Stato, che è un altro reato. Infine – come non bastasse – ci sono molti indizi che lasciano ipotizzare altri reati: abuso di potere, disattenzione del decoro e della disciplina che sono onere dell’onore della carica rivestita, ecc. Da cittadino ho pieno diritto di esigere che ne renda conto in giudizio, ma come posso pretendere che sia universalmente considerato spregevole per il solo fatto di andare a puttane? E che valore posso dare ad una manifestazione pubblica che, oltre a supplementare il lavoro dei giudici per i reati che gli sono ascritti, oltre a rinfacciargli l’ipocrisia di un abito morale privato assai diverso da quello pubblico, ha come fine di giudicarlo e condannarlo in quanto puttaniere? Da cosa mi viene il diritto di giudicare e condannare ciò che non condivido e non approvo nel mio privato ambito morale come se fossi legittimato in ciò da una superiore certezza che trascende dal codice penale?

Gabriele Filipelli scrive – abbiamo visto – che “oggi il conglomerato di potere chiamato Berlusconi è il nostro problema”. Sono d’accordo, anche se tenderei a non considerarlo l’unico problema, ma solo l’epifenomeno di un degrado che è risultato di un forte ritardo sulla via di una compiuta liberaldemocrazia in Italia. E aggiunge che, “se la disapprovazione dei moralisti ipocriti può indebolirlo, non vedo perché questo dovrebbe inquietarci tanto”. Qui mi permetto di dissentire, e anche con forza, perché a lasciar fare ai moralisti (con o senza virgolette) lasciamo aperta la porta alla loro morale: anche chi la condivide non può pretendere sia fatta norma, per quanto ho detto sopra.
“Se la caduta di Berlusconi non risolverà il problema del moralismo ipocrita – conclude il mio lettore – non vedo come potrebbe alleviarlo la sua permanenza”. E qui non posso che tornare a quanto ho lasciato in sospeso: qual è lo scopo che sta nel trionfo di una morale su tutte le altre? L’omologazione e l’oppressione. Io le detesto. Un mondo di individui tutti uguali a me – e di me stesso ho in fondo grande stima – mi spaventa.

martedì 8 febbraio 2011

Ordunque domani


Ordunque domani si fa la rivoluzione liberale – pardon, pardon, volevo dire liberista – domani il Consiglio dei Ministri dà la famosa “frustata” all’economia e dà il via alla famosa “crescita”: in pratica, domani Silvio Berlusconi scopre le carte che Giuliano Ferrara gli ha messo in mano una decina di giorni fa. Un bluff? Così mi sono azzardato a scrivere, ma domani vedremo, può darsi che dovrò andarmi a nascondere per la vergogna: abbattimento di Irpef, Iva e mille altri balzelli, liberalizzazioni a iosa, abolizione degli ordini professionali, insomma, la rivoluzione. E io a dubitarlo, che coglione.
Oppure no, può darsi che anche stavolta non se ne faccia niente, e va’ a capire se è mancata la voglia o la forza. Non dimentichiamo che i poteri forti sono ostili a Berlusconi e tramano da sempre per sabotargli la missione. Non dimentichiamo che le riforme a costo zero necessitano di intenso training autogeno e che c’è sempre un guastafeste a turbare la concentrazione. Come si fa a riformare lo stato – dite – se quelli dei centri sociali fanno baccano sotto casa? C’è da snervarsi. È ovvio che poi le rivoluzioni liberali vengono così così.
D’altra parte, il Cav. è uomo che vende immagini e, quando ti dà un fondale di cartapesta, devi essergli grato come se ti avesse dato proprio il cielo che ci è dipinto sopra, sennò sei ingrato e lo deprimi: dovesse limitarsi a un ritocchino dell’art. 41, butta un “wow!” e mostrati convinto che adesso il debito pubblico precipita, e la produzione schizza, e diventiamo competitivi al massimo, sorpassiamo al Germania e le facciamo ciao-ciao nello specchietto retrovisore.
Vedremo, vedremo, dovrebbe essere domani: alle 11, il Consiglio dei Ministri; per le 17, dovremmo avere le prime reazioni da Wall Street; alle 22, siamo in pieno boom. E tutto questo lo dovremo a una geniale idea di Ferrara, che l’ha passata a Berlusconi, e Berlusconi a Tremonti… Mettiamola così: se la rivoluzione è rimandata, è tutta colpa di Tremonti e di quelli dei centri sociali.



Leggerete su L'Osservatore Romano di domani, mercoledì 9 febbraio


“Nel 1857 Jean-François Millet dipinse L’Angelus. Vi sono rappresentati due agricoltori, un uomo e una donna, raccolti in preghiera perché è l’ora dell’antica orazione che ricorda il saluto dell’angelo a Maria; gli strumenti posati per terra indicano che per quel giorno il lavoro è finito ma anche che in quel momento sta avvenendo qualcosa che conviene celebrare con un atto di devozione. Infatti ai due contadini fa da sfondo una campagna al crepuscolo; tra poco la luce del sole si ritirerà da quei campi. Il quadro rappresenta allo stesso tempo il fatto naturale, un paesaggio campestre all’ora del tramonto, e quello culturale, due persone in atteggiamento di preghiera. Sembra che l’artista desideri enfatizzare la relazione tra i due fatti: la coppia che prega rivela la pratica di un’abitudine religiosa alla cui osservanza i due sono stati probabilmente iniziati sin dalla prima infanzia; ma anche quanto la condizione di chi lavora la terra favorisca la partecipazione a quell’evento quotidiano durante il quale scompare la luce rispetto a chi vive in città. Una ventina d’anni dopo, verso il 1875, l’illuminazione elettrica nelle città e poi nelle campagne causò un radicale cambiamento nella vita quotidiana del mondo occidentale. Nel mondo nuovo il senso del quadro di Millet rischiava di disperdersi. Le strade, le abitazioni, i luoghi pubblici furono a poco a poco illuminati dalla luce artificiale, e l’eterno ritirarsi di quella naturale non preannunziò più la consegna degli uomini allo sbigottimento e alla paura del buio. Per la prima volta nella storia uomini, donne e bambini a causa di questa scoperta scientifica sono stati inconsapevolmente portati a trascurare il fenomeno naturale durante il quale la luce si ritira e l’oscurità avanza, fenomeno che fino ad allora li aveva predisposti verso una forma di spiritualità spontanea. All’uomo improvvisamente moderno bastò girare un interruttore di porcellana perché quel timore e tremore che nasceva all’avanzare della notte si attenuasse. La permanenza della luce grazie all'elettricità lo rese meno smarrito. L’interruttore accendeva la luce elettrica ma spegneva contemporaneamente lo stato naturalmente religioso dell’uomo nel buio. Si affievoliva quell’andamento dell’anima che, al sopravvenire dell’oscurità e in mancanza della funzione distraente della vista, tendeva in passato a ricorrere all’ascolto della propria ricchezza interiore. Quante domande sul destino umano sono state pensate alla flebile e incerta luce di una candela, quanti viandanti, pastori e naviganti si sono rivolti in termini poetici ai raggi pur freddi della luna! L’ombra rendeva gli uomini sospettosi di essere preda facile di agguati, minacce, trabocchetti, e l’anima invocava spontaneamente l’aiuto e la misericordia dell’onnipotenza divina. Negli uffici illuminati a giorno dall’elettricità si continuano a battere i tasti dei computer mentre fuori il sole tramonta e gli spettatori nelle sale cinematografiche, inconsapevoli di aver mancato il vero spettacolo, ammirano un tramonto sullo schermo mentre fuori la luce del giorno si ritira misteriosamente. Fuori, strade, vetrine e ristoranti risplendono di luce elettrica incuranti del cielo stellato. Ora è sempre giorno…”.

Vi aspetterete da un momento all’altro la scomunica dell’Enel. Tranquilli, non ci si arriva.




Marco Pannella: “Tratto con Silvio, ma non mi vendo”.



E tu trovami una sola escort passata per Arcore che parlerebbe di vendita.

Pippo, che cazzo fai?


Giuseppe Civati, detto Pippo, scrive: “Cesare Bossetti, consigliere della Lega di Varese e di Radio Padania (eletto senza preferenze nel famigerato listino di Formigoni), durante il minuto di silenzio per i quattro bambini rom morti a Roma (richiesto dal Pd e concesso dal presidente Davide Boni, leghista anche lui), non si è alzato in piedi”. Levato il di più: “Cesare Bossetti non si è alzato in piedi”.
Ora, sì, questo è molto brutto, ma penso non sia molto più bello richiamare attenzione sulla cosa con l’invito al biasimo, tanto più se sollecitato in modo un pochetto viscido: “Non ho niente da aggiungere, né da commentare”. Brutto anche questo, mi sa tanto di giudizio sommario con condanna alla gogna per indegnità morale.
Giudizio sommario perché il di più che ho levato alla frase tende a dare per certo che Cesare Bossetti non si sia alzato in piedi per significare strafottenza per le vittime, forse addirittura spregio, ovviamente su base razziale. Roba tipicamente leghista, che però non impedisce ad altri leghisti di alzarsi in piedi quando c’è il rituale minuto di silenzio in ossequio a vittime rom, e così è stato a Varese.
C’è da ritenere che il restare seduto possa in certi casi essere addirittura ostentato, con chiaro intento provocatorio, sicuramente offensivo, e così Pippo vuol darci per certo. Può darsi lo sia, ma Pippo non ci porta prove, e così cade in infortunio ideologico: lo stesso in cui cadde il Giornale quando pizzicò Alfonso Pecoraro Scanio in flagranza di risata ai funerali per i soldati morti a Nassiriya. Da antimilitarista – così lavorava la logica  la sua risata era un palese oltraggio ai nostri martiri. Può darsi lo fosse? Non lo sapremo mai, fatto sta che Alfonso Pecoraro Scanio smentì ogni intento offensivo, senza sentirsi in dovere di smentire il suo antimilitarismo.
Cosa consente a Pippo di essere sicuro che Cesare Bossetti non abbia modo di smentire un intento offensivo nel suo restare seduto? Non sappiamo, ma Pippo ci chiede di biasimarlo sulla fiducia. Poi, domani, Cesare Bossetti ci presenta un certificato medico (trocanterite bilaterale) e siamo costretti a sentirci più fessi di un lettore de il Giornale.

lunedì 7 febbraio 2011

Ipso facto



Era il 4 febbraio 1999 e il cardinale Joseph Ratzinger rivelava a la Repubblica di essere iscritto ad una associazione di donatori di organi. È di 48 ore fa, invece, la seguente dichiarazione del suo segretario personale, monsignor Georg Gaenswein: “Se è vero che il Papa possiede una carta di donazione di organi, è vero anche, contrariamente ad alcune affermazioni pubbliche, che con lelezione a capo della Chiesa Cattolica, ipso facto essa è diventata obsoleta”. Con tutta la buona volontà non si capisce donde lipso facto: non dal Catechismo, non dal Codice di Diritto Canonico. Verrebbe così da chiedersi in base a quale effetto lelezione al Soglio Pontificio costituisca impedimento alla donazione di organi da parte di chi da cardinale ne aveva la facoltà e ne dichiarava la volontà. Diventando papa, acquista potestà suprema, piena, immediata e universale su tutta la Chiesa e ipso facto perde diritto a un “atto spontaneo”


Ci manca pochissimo




“Capirci un cazzo a volte è un’arte”



Magistrale.

Fuffultare


Nichi Vendola rende noto il testo della lettera inviata a Sandra Bonfanti di Libertà e Giustizia in sostegno alle ragioni dei palasharpisti, e la lettera attacca così: “C’è bisogno di un sussulto…”, che si scrive “sussulto”, ma che qui non si può leggere altrimenti che “fuffulto”. Con quella sua invidiabile capacità di trovare otto sinonimi per ogni termine, per spararli in sequenza senza risparmiarcene mai uno (meglio di lui solo certi sommelier davanti a un rosso e Philippe Daverio davanti a una pala di scuola lombarda), Nichi Vendola non riesce a trovarne uno meno imbarazzante di “fuffulto” per significare il moto di indignazione che dovrebbe sollevare il paese. Come fu per Ignazio La Russa, quando prese a imitare l’imitazione che ne faceva Fiorello e per qualche tempo fece abuso di molti “digiamolo”, oggi ci tocca sorbirci l’imitazione dell’imitazione di Checco Zalone. Tutto per estorcerci un sorriso di tenerezza.


la Repubblica



Enrico Maria Porro s’è posto il meritorio intento di far chiarezza su una questione di una certa delicatezza: se citando il quotidiano di Largo Fochetti sia corretto scrivere “Repubblica” o “La Repubblica”. In realtà, per questa seconda opzione, dovrebbe valere la versione dell’articolo con la minuscola (“la Repubblica”), com’è in testata, ma pare questo sia un problema ormai superato, perché più fonti – anche molto autorevoli – accreditano la prima opzione: “Repubblica”, senza l’articolo.
Non c’è che da prenderne atto, ma così diventa indispensabile inoltrare alla proprietà del giornale la richiesta di cambiare la testata, perché fino a quando lì c’è scritto “la Repubblica” ogni altra versione è quanto meno arbitraria. Possibile, per carità, ma arbitraria. E impropria.


Salvo a sostituire il merito col privilegio


Nutro due riserve verso chi ritiene che il liberalismo sia cosa preminentemente economica spendendosi quasi sempre esclusivamente contro ciò che mortifica la proprietà privata e la libertà d’impresa.
La prima. Certo, la proprietà privata è un’estensione dell’individuo e la libertà d’impresa è una declinazione del suo diritto di autodeterminazione responsabile, ma come si può lottare contro tasse troppo alte senza aver prima fatto tutto perché all’individuo sia garantita la sovranità sul suo corpo e sulla sua mente? Come si può lottare contro l’asfissiante burocrazia statalista senza spendersi contro la filosofia che informa lo stato etico e paternalistico, che è sempre il portato di una pretesa autoritaria in campo morale? Possibile – mi chiedo – che questi cantori della libertà economica non ne vedano i fili che la legano indissolubilmente a ogni altra libertà? E come possono aver fisso l’occhio al grafico della pressione fiscale in Italia, senza alcuna apparente preoccupazione per la pressione che lo stato fa sul corpo e sulla mente degli individui? Ma davvero pensano – mi chiedo – che basti dimezzare l’Irpef o l’Iva per raddoppiare i diritti civili?
Per la seconda perplessità mi servirò di un esempio. Leggo Alberto Mingardi su Il Sole-24 Ore: “Se davvero il nostro ceto politico è convinto che sia possibile mettere in cantiere, oggi, una serie di riforme per riavviare la crescita, sarebbe bene alternare unire terapie shock e omeopatia, grandi svolte e piccoli passi. L’esperienza degli ultimi quindici anni ci insegna che in Italia le grandi riforme deragliano perché troppo ambiziose: è difficile costruire consenso politico, senza avvitarsi in compromessi che le snaturano. Al contrario, le piccole riforme inciampano sui veti dei gruppi d’interesse. Se mai la politica dimostrasse di saper dribblare le pressioni corporative, allora forse si potrebbe tornare a prenderla sul serio, anche quando progetta cambiamenti epocali”.
Costui è un liberale, dicono, e qui parla al ceto politico. Questo ceto politico. Quello che ha salvato Alitalia coi soldi dei contribuenti perché alla patria non mancasse una compagnia aerea di bandiera: nessun vantaggio sul biglietto, anzi, però un sacco di orgoglio per aver fottuto i francesi, che peraltro adesso di Alitalia hanno il maggior pacchetto. Mingardi parla al ceto politico che da 17 anni promette la rivoluzione liberale, un drastico abbattimento fiscale, liberalizzazioni di qua e là, privatizzazioni di sopra e di sotto, senza però mai riuscire a fare un cazzo di un cazzo, tranne che leggi illiberali e liberticide, favori ai preti, caccia agli zingari e chiacchiere nei talk show – e a questo ceto politico Mingardi consiglia “grandi svolte e piccoli passi”. I taxi, per esempio, ma qui è necessaria ampia citazione.

“Parlando di una «frustata» per l’economia italiana – dice Mingardi – il premier ha fatto riferimento all’esperienza da ministro dell'industria dell’attuale leader del Pd. Com’è noto, il Bersani ministro dell’industria non riuscì invece a porre mano ad un ampliamento dell’offerta di taxi, e venne anzi travolto dalla categoria e da un manipolo di politici che se ne assunsero la rappresentanza, primo fra tutti l’attuale sindaco di Roma, Alemanno. Proprio una delibera dell’Assemblea capitolina (il nuovo, altisonante nome del Consiglio comunale di Roma) è stata segnalata la scorsa settimana dall’Antitrust in quanto «volta esclusivamente a mantenere rendite di posizione». Infatti, essa, per attuare la riforma del sistema tariffario avviata con un regolamento comunale del luglio scorso, individua tra i criteri di valutazione della congruità degli aumenti tariffari «il rapporto domanda e offerta a seguito dell’ampliamento dell’organico con rilascio di nuove licenze». L’Assemblea capitolina, erede spirituale dell’antico Senato romano – ironizza Mingardi – con piglio imperiale riscrive le leggi dell’economia: se aumenta l’offerta, che i prezzi aumentino, anziché diminuire. Visto che parliamo di prezzi determinati dalla politica e non dalla negoziazione fra parti, è chiaro che l’idea è quella di ratificare uno «scambio» con la categoria dei tassinari, vincolando l’aumento delle auto bianche circolanti alla «compensazione» dell’aumento tariffario. Si assume che a una maggiore concorrenza debbano per forza corrispondere inferiori ricavi per tassista, ignorando la possibilità che un’offerta più abbondante contribuisca a irrobustire la domanda. Ma non sono i minori ricavi ciò che andrebbe compensato. Il grande argomento della categoria contro la liberalizzazione è la diminuzione di valore della licenza, di norma acquistata a caro prezzo e considerata in prospettiva una sorta di «liquidazione». Soprattutto per coloro che ne hanno acquisita una di recente, l’argomento è sensato. Se questo è il problema, però, meglio sarebbe tornare a una proposta che come Istituto Bruno Leoni avevamo avanzato alcuni anni fa (riprendendo un’idea di Franco Romani): ampliare l’offerta regalando una licenza, liberamente alienabile, a chi già ne avesse una. In questo modo, ai tassisti sarebbe stata lasciata virtualmente la possibilità di controllare l’offerta (la corporazione potrebbe «bloccare» l’aumento della concorrenza, se tutti compattamente si tenessero la seconda licenza in cassaforte), ma probabilmente un beneficio immediato (la vendita della seconda licenza, o il suo utilizzo da parte di un familiare) verrebbe preferito a uno lontano nel tempo e comunque incerto (la tenuta del valore della prima licenza). È agli atti una proposta dell’allora presidente della commissione Attività Produttive della Camera, Daniele Capezzone, per rendere possibile questo «scambio». Perché non si fece nulla? Probabilmente perché la proposta implicava la rinuncia dei Comuni a qualsiasi guadagno potenziale per le nuove licenze emesse. Decida il lettore se sono più dannosi i veti delle corporazioni, o l’avidità delle amministrazioni”.

Ok, è più dannosa l’avidità delle amministrazioni, Mingardi ci ha convinto. Ma in questo caso parliamo del Comune di Roma e di Gianni Alemanno, uomo di spicco del “partito liberale di massa”. Ci sarebbe agli atti la proposta fatta da un altro liberale alla Mingardi, l’ineffabile Capezzone. “Perché non si fece nulla?”, chiede Mingardi, ma perché non lo chiede a Capezzone?
Per quella presidenza della commissione Attività Produttive della Camera, per dare slancio ai 13 cantieri liberisti del suo network (si chiamava decidere.net, andate a guardare cosa è diventato il sito), Capezzone mise da parte le sue battaglie in favore delle libertà civili e si risolse a credere che si possa lottare contro tasse troppo alte senza aver prima fatto tutto perché all’individuo sia garantita la sovranità sul suo corpo e sulla sua mente. Si risolse a ritenere prioritaria la lotta contro l’asfissiante burocrazia statalista, ritenendo secondario, forse addirittura superfluo, spendersi contro la filosofia che informa lo stato etico e paternalistico, e per farlo fu costretto a chiudere un occhio sulla pretesa autoritaria del blocco sociale che gli offriva questa chance. Divenne cantore della libertà economica recidendo i fili che la legano indissolubilmente a ogni altra libertà. E propose una tassa piatta al 20%, senza più alcuna apparente preoccupazione per la pressione che intanto lo stato continuava a esercitare sempre più sul corpo e sulla mente dei suoi cittadini. Pensò che bastasse dimezzare l’Irpef o l’Iva per raddoppiare i diritti civili, e non ebbe né l’una né l’altra cosa. “Perché non si fece nulla?”. Semplice: non era possibile, e continua a non esserlo. Separare la libertà economica dalle altre libertà è impossibile, salvo a sostituire il merito col privilegio. Anche così, però, non è detto: “grandi svolte e piccoli passi” possono rimanere agli atti. A scorno di ogni liberale che si limita a essere liberista.

Saprete com’è andata al Palasharp, suppongo


Saprete com’è andata al Palasharp, suppongo. Un bel po’ di bella gente – detto senza ironia – s’è data appuntamento per manifestare disagio.
Avevano argomenti a profusione: il presidente del consiglio è accusato di due reati (concussione e prostituzione minorile) e rifiuta di darne conto; mente palesemente e fidelizza sulla menzogna, senza alcun rispetto per la carica che riveste; aizza i suoi supporter contro i giudici; mette a rischio la sicurezza dello stato e la faccia del paese in sede internazionale; e mi pare possano bastare, ma qual è l’argomento che riscuote più applausi al Palasharp? Berlusconi è un vecchio porco, anche parecchio cafone.
Ditemi voi se un argomento del genere può scalfire un blocco sociale come quello che Berlusconi è riuscito a compattare e a modellare sulla sua follia. Della mostruosità antidemocratica e illiberale cui Berlusconi ha dato il volto, della catastrofe senza fondo nella quale ci ha precipitato, il Palasharp che vede? Il mucchio di puttane in quell’angoletto del delirio collettivo.

Mica solo bigottoni cattocomunisti, a Milano, c’erano pure fior fior di laici e ce ne fosse stato solo uno a dire forte e chiaro che tra adulti consenzienti si scopa come meglio pare. Diceva bene Stefano, che mi sono affrettato a sottoscrivere: “Pur di liberarci di Berlusconi, questi sono tornati a elogiare modelli di virtù ottocenteschi e a prendere a esempio i vecchi democristiani”.
E tuttavia Gians chiedeva: “Ma non si potrebbe fare che ognuno onora le manifestazioni sue evitando di schifare quelle altrui?”. Sì, ma il moralismo mai, sennò Berlusconi può trovare consenso anche dove non potrebbe mai sperare di trovarlo. Una prova? Basta leggere quanto torni facile a Giuliano Ferrara far leva sull’argomento moralistico per dipingerci l’Amor suo come vittima.

“«Niente per noi, tutto per tutti»: uno slogan riferito al trionfo liberale dello stato di diritto e della cittadinanza costituzionale, ma nella bocca di questi bardi delle intercettazioni e della magistratura militante, e in associazione con il cattolicesimo reazionario e sessuofobico di uno Scalfaro, un passaparola ideologicamente totalitario. No, miei cari: vogliamo qualcosa per noi e per gli altri, non abbiamo orrore dello scambio e del denaro, ci fa senso il vostro disgusto per la bigiotteria galante di Arcore, e ciò che è «tutto per tutti» sa di stato totalitario, sa di regime della virtù, sa di marcio” (Il Foglio, 7.2.2011).
Si tratta dell’ateo devoto che fino a ieri voleva che tutti vivessimo veluti si Deus daretur, ma oggi, se appena ci si distrae un po’, non risulta credibilissimo come libertario? Grazie al Palasharp, le orribili farfalline d’oro date in souvenir alle escort di passaggio per la corte del sultano rivendicano una loro dignità. Si riesce a far scivolare anche il principio che comprarsi una puttana, un Moffa o uno Scilipoti non fa differenza. Grazie al Palasharp.
Si dirà: vabbe’, ma uno mica si fa prendere per il culo da Ferrara? Io no, d’accordo, e forse neppure voi, ok, ma chi non ha gusti tanto raffinati da schifare le farfalline d’oro?


Pensate alle seghe


Sua Eccellenza non avrebbe mai il coraggio di affermare che il codice penale di uno stato laico dovrebbe recepire il magistero morale della Chiesa, però prova a rifilarcelo come non plus ultra: “Passa di qui la differenza tra reato e peccato. Il primo è un male «fuori», legato alla configurazione e prescrizione giuridica di esso a opera dello Stato e alla possibilità di questo di rilevarlo e denunciarlo. Il secondo è il male morale, la contraddizione di un valore umano, legato alla bontà e all’onestà della persona, che quella contraddizione inficia e svilisce. Con la differenza che il reato spinge alla rimozione, il peccato muove alla conversione. È solo a condizione di riconoscere il male compiuto e di attribuirselo come male, che scatta il pentimento e il proposito di superarlo. È ciò che fa la coscienza del peccato. Questa si fa giudicare dal bene conculcato e, da ultimo, dal Sommo Bene, ne assume le responsabilità e attiva un cammino di riconciliazione e di superamento. Diversamente il male si ripete, indifferentemente: finendo con l’aggiogare, dentro, le coscienze e, fuori, la società e le istituzioni. E invece assistiamo oggi a una rimozione culturale del peccato. Il peccato non è una categoria primariamente religiosa ma etica. Non esiste un’etica senza peccato, per la quale il bene e il male si equivalgono. Il peccato è il male morale, la negazione di fatto di un bene della persona; che nessuna dissimulazione può cancellare, ma solo la volontà di pentimento, di conversione e riconciliazione che la sua coscienza e confessione attivano. È per questo che la perdita di senso del peccato non rappresenta un fatto evolutivo, ma involutivo delle persone e della società” (Avvenire, 6.2.2011).

Pensate alle seghe: sono peccato, ma non reato. E gli uomini continuano a spararsele. Rimuovendo, invece di convertirsi, e perché? Perché la legge non le sanziona. E la società involve.
Certo, non possiamo mettere in galera chi si spara le seghe, ma guardate in quali condizioni sono le istituzioni.

domenica 6 febbraio 2011

La comunque


Posso fare a meno di scriverne, sottoscrivo Cadavrexquis.
 
 

Povero Ferrara



Il povero Giuliano Ferrara andava sgolandosi da mesi. Già all’indomani del caso Noemi non vedeva altra via d’uscita: “O accetta di naufragare in un lieto fine fatto di feste e belle ragazze oppure si mette in testa di ridare, senza perdere più un solo colpo, il senso e la dignità di una grande avventura politica all’insieme della sua opera e delle sue funzioni” (Il Foglio, 18.6.2009). Ma Silvio Berlusconi pareva non volerne sapere e si arroccava in difesa. Da prenderlo a schiaffoni: “Avevo suggerito che non si può vivere un permanente 24 luglio. Un capo di governo intelligente deve sapere voltare pagina, mettersi sopra la mischia” (Il Foglio, 31.8.2009). Macché. Partito e governo, giornali e tv, tutti precettati a parargli il culo. E il povero Ferrara si disperava: “Semplicemente gli si chiede di riprendere in mano le sue idee sulla crescita, esposte nel discorso di apertura della legislatura e in mille altre occasioni, e di rilanciarle nella forma di decisioni e atti di riforma che incidano sul fisco, sulla concorrenza e sulla competitività […] Gli si chiede di varare una seria e profonda riforma della giustizia, […] di provvedere con lungimiranza al deficit energetico, […] di integrare le giuste misure di contrasto dell’immigrazione clandestina selvaggia […] Gli si chiede di occuparsi della cultura, dell’istruzione, della salute […] Gli si chiede di andare in Parlamento spesso, di dare il senso di una qualche considerazione istituzionale alla classe dirigente eletta, e di cambiare completamente registro con la stampa […] In televisione meglio andarci di rado” (Il Foglio, 28.9.2009).
Peggio che parlare a un sordo, per giunta chiuso dentro a un bunker: lodo Alfano, legittimo impedimento, processo breve, no alle intercettazioni, l’agenda di governo era inchiodata, il parlamento come non esistesse. Una tortura: “Da mesi ci sono due Berlusconi. Uno che riesce a imporre il suo passo: fa la politica estera, affronta le emergenze. L’altro è sempre sotto assedio mediatico: vita privata, scandali e indagini anche le più fumose, duelli rusticani nel partito di maggioranza, propalazioni sui programmi del governo, uscite individualiste, rivalità, voci sulle nomine che contano, fatterelli vari che creano imbarazzo […] Se Berlusconi non si dà una vera spinta per le riforme, se non decide di intaccare qualche stallo e non fa alcune scelte vere, che costano qualche forzatura ma alla fine rimettono in moto non solo l’immagine ma il ruolo, la funzione politica del leader, il rischio di una lunga degenerazione cortigiana della sua leadership può diventare il nostro penoso e surreale teatrino quotidiano” (Il Foglio, 22.2.2010). E ancora doveva consumarsi la rottura con Fini.
Anche lì il povero Ferrara fu costretto a sgolarsi invano: “Fini rivendica rispetto, uno spazio vitale, non essere umiliato e marginalizzato platealmente, vuole ossigeno per continuare a crescere sulla propria strada, costruendo il profilo di una conversione repubblicana che, tutto considerato, gli fa onore e fa onore al Cav. che l’ha resa possibile, al pari della conversione governativa e costituzionale della Lega di Bossi e Maroni. E allora, se chiede questo e non altro, che senso ha fargli la faccia feroce, caro Cavaliere?” (Il Foglio, 19.4.2010). Macché. “Che fai, mi cacci?”. E quello lo caccia sul serio. Povero Ferrara, disperato: “Che facciamo, presidente? Passiamo i prossimi tre anni a sparlare di Bocchino e a straparlare di Fini, a litigare, a guardarci in cagnesco? […] Anche la solitudine può far danni seri, e al Cav. capita da qualche tempo, ma sempre più spesso, di rimanere isolato, estraneo a sé stesso perché estraniato da gente che gli parli in modo non professionale, con un minimo di decente distanza, in perfetta autonomia, in privato”, pazzo o mal consigliato, ma basta: “Berlusconi deve restituirci se stesso per come lo abbiamo conosciuto” (Il Foglio, 3.5.2010). Rewind, play: un milione di posti di lavoro, rivoluzione liberale, abbasso le tasse, ecc. Ci hanno creduto una volta, ci hanno creduto ancora, perché non potrebbero ricrederci?
Macché. Scajola, Cosentino, Bertolaso. Poi D’Addario e Spatuzza. Casini? Manco per niente. Come non detto: Berlusconi ancora a pararsi il culo, Ferrara ancora a lamentarsi, metà incazzato (“Mi spiace, presidente, ma questo atteggiamento imprenditoriale ed egotistico in politica è un difetto”Il Foglio, 12.7.2010), metà rassegnato (“Berlusconi ha giocato sé stesso nell’avventura, e quando si difende con le unghie e con i denti, fa semplicemente politica, la fa nel modo legittimato dal ruolo che ha interpretato nella storia italiana, dal consenso che riceve, e dalla giusta, sacrosanta resistenza alla trasformazione di questo paese in una caserma o in una dépendance delle procure della Repubblica. Gli affari dell’establishment – insider trading compreso – sono affari di famiglia. Gli affari del signor Berlusconi sono gli affari della nazione. Punto e basta”Il Foglio, 6.9.2010).
Ma il governo appare sempre più isolato, Berlusconi pare sempre più alle corde e il povero Ferrara torna alla carica: “Vendere e liberalizzare, autorizzare, creare condizioni di business, far circolare i capitali privati, agganciarli a una strategia della ripresa” (Il Foglio, 18.10.2010). Niente, Berlusconi è sordo, e scoppia il caso Ruby.
Tutto sembra appeso al 14 dicembre, e parte la campagna acquisti, ma Ferrara guarda a dopo: “Se tra qualche anno diventeremo un paese in cui non dico si lavora, ma si lavoricchia in modo sensato e con qualche prospettiva per il cosiddetto precariato che non sia un posto improduttivo, e in cui si guadagna e si consuma in modo proporzionale alla ricchezza sociale prodotta, con uno scambio utile tra capitale e lavoro, e una crescita di cui beneficeranno la ricerca, la cultura, l’istruzione, la formazione e l’industriosità nazionale, ecco, non dipende tanto dal 14 dicembre, dipende dall’ipotesi che il modello americano di relazioni sociali spazzi via la nostra apparentemente comoda bardatura di convenienze e armonie prestabilite. Questa è politica, queste sono le rivoluzioni di cui abbiamo bisogno” (Il Foglio, 13.12.2010). Ma neanche il modello Marchionne riesce a distrarre Berlusconi dalla esclusiva cura dei cazzi propri, e Ferrara torna a lamentarsi: “Il governo perde il filo da tirare nella matassa della rivoluzione di Mirafiori” (Il Foglio, 10.1.2011).
La sfiducia non passa, ma Berlusconi rimane inchiodato in difesa, e Ferrara soffre, si deprime, manda a dire che volentieri tornerebbe in tv, se solo qualcuno glielo proponesse. Poi Amato parla di patrimoniale, e le opposizioni non raccolgono, ma Ferrara coglie al volo l’occasione per prodursi, in nome e per conto di Berlusconi, in un tentativo di revival del 1994: “Dal momento che il segretario del Pd è stato in passato sensibile al tema delle liberalizzazioni e, nonostante qualche sua inappropriata associazione al coro strillato dei moralisti un tanto al chilo, ha la cultura pragmatica di un emiliano, propongo a Bersani di agire insieme in Parlamento, in forme da concordare, per discutere senza pregiudizi ed esclusivismi un grande piano bipartisan per la crescita dell’economia italiana; un piano del governo il cui fulcro è la riforma costituzionale dell’articolo 41, annunciata da mesi dal ministro Tremonti, e misure drastiche di allocazione sul mercato del patrimonio pubblico e di vasta defiscalizzazione a vantaggio delle imprese e dei giovani” (Corriere della Sera, 31.1.2011).
La risposta è negativa. Bersani dice che Berlusconi non è credibile e Casini dice che è troppo tardi, ma erano risposte prevedibili, sicché il rifiuto può essere usato per rivestirsi da rivoluzionario: o col Cav. contro le tasse o col centrosinistra che ti mette le mani in tasca. Il Paese è fesso e può ricascarci. Se bisogna andare alle urne, andarci promettendo è la regola, non importa se si tratta di promesse vecchie di quasi vent’anni, e mai mantenute: un milione di posti di lavoro, rivoluzione liberale, abbasso le tasse, perché non dovrebbero crederci ancora?
Passi che le opposizioni non raccolgano, anzi, questo torna a fagiolo, ma gli imprenditori? Puttana Eva, la Confindustria è tiepida: “A parte una timida e formale dichiarazione, in questi sette giorni la Marcegaglia si è distratta […] Secondo Berlusconi bisogna agire per portare l’incremento della ricchezza al 3-4 per cento in cinque anni. Mi dicono che nel governo c’è chi ride della cosa e che il Cav si è già messo paura della propria audacia: ma, se si irride un obiettivo così evidentemente necessario, e per giunta possibile, è meglio affidare il Paese a Giuliano Amato e a Pellegrino Capaldo, impazienti di mettere le mani in tasca ai ceti medi e di porre una bella ipoteca di Stato sulle loro abitazioni. Sia come sia, questo obiettivo di crescita la Confindustria lo condivide? È interessata agli stati generali dell’economia promessi e promossi da Berlusconi entro la fine di febbraio? Piace agli imprenditori edili il piano casa il cui obiettivo è di attivare cinquanta miliardi di euro di investimenti? Gli imprenditori del Sud, che si sono associati con coraggio alla campagna contro le mafie e per la sicurezza fatta dal governo e da Maroni, non sarebbero contenti di raccoglierne i frutti? Deregolamentare l’economia con una riforma costituzionale che elimini la parte sovietica della Costituzione non è interesse generale e anche interesse dei buoni borghesi del XXI secolo? La Confindustria è un’associazione per lo sviluppo di un capitalismo liberale di mercato o è diventata un pigro centro di spesa improduttiva e di mediazione corporativa? Secondo me gli imprenditori che pagano le quote e lavorano nelle loro aziende questa domanda se la fanno. E la risposta?” (il Giornale, 6.2.2011).
Un messaggio alla Marcegaglia dalle pagine de il Giornale è più che un messaggio: è un ultimatum. Povero Ferrara, partito per la rivoluzione liberale bis e subito ridimensionato a un qualsiasi cane da guardia, poco più di un Porro (“Adesso ci divertiamo, attaccheremo la Marcegaglia come pochi al mondo”), neanche troppo divertito, però divertente.


[cfr. Aronne]