Il povero Giuliano Ferrara andava sgolandosi da mesi. Già all’indomani del caso Noemi non vedeva altra via d’uscita: “O accetta di naufragare in un lieto fine fatto di feste e belle ragazze oppure si mette in testa di ridare, senza perdere più un solo colpo, il senso e la dignità di una grande avventura politica all’insieme della sua opera e delle sue funzioni” (Il Foglio, 18.6.2009). Ma Silvio Berlusconi pareva non volerne sapere e si arroccava in difesa. Da prenderlo a schiaffoni: “Avevo suggerito che non si può vivere un permanente 24 luglio. Un capo di governo intelligente deve sapere voltare pagina, mettersi sopra la mischia” (Il Foglio, 31.8.2009). Macché. Partito e governo, giornali e tv, tutti precettati a parargli il culo. E il povero Ferrara si disperava: “Semplicemente gli si chiede di riprendere in mano le sue idee sulla crescita, esposte nel discorso di apertura della legislatura e in mille altre occasioni, e di rilanciarle nella forma di decisioni e atti di riforma che incidano sul fisco, sulla concorrenza e sulla competitività […] Gli si chiede di varare una seria e profonda riforma della giustizia, […] di provvedere con lungimiranza al deficit energetico, […] di integrare le giuste misure di contrasto dell’immigrazione clandestina selvaggia […] Gli si chiede di occuparsi della cultura, dell’istruzione, della salute […] Gli si chiede di andare in Parlamento spesso, di dare il senso di una qualche considerazione istituzionale alla classe dirigente eletta, e di cambiare completamente registro con la stampa […] In televisione meglio andarci di rado” (Il Foglio, 28.9.2009).
Peggio che parlare a un sordo, per giunta chiuso dentro a un bunker: lodo Alfano, legittimo impedimento, processo breve, no alle intercettazioni, l’agenda di governo era inchiodata, il parlamento come non esistesse. Una tortura: “Da mesi ci sono due Berlusconi. Uno che riesce a imporre il suo passo: fa la politica estera, affronta le emergenze. L’altro è sempre sotto assedio mediatico: vita privata, scandali e indagini anche le più fumose, duelli rusticani nel partito di maggioranza, propalazioni sui programmi del governo, uscite individualiste, rivalità, voci sulle nomine che contano, fatterelli vari che creano imbarazzo […] Se Berlusconi non si dà una vera spinta per le riforme, se non decide di intaccare qualche stallo e non fa alcune scelte vere, che costano qualche forzatura ma alla fine rimettono in moto non solo l’immagine ma il ruolo, la funzione politica del leader, il rischio di una lunga degenerazione cortigiana della sua leadership può diventare il nostro penoso e surreale teatrino quotidiano” (Il Foglio, 22.2.2010). E ancora doveva consumarsi la rottura con Fini.
Anche lì il povero Ferrara fu costretto a sgolarsi invano: “Fini rivendica rispetto, uno spazio vitale, non essere umiliato e marginalizzato platealmente, vuole ossigeno per continuare a crescere sulla propria strada, costruendo il profilo di una conversione repubblicana che, tutto considerato, gli fa onore e fa onore al Cav. che l’ha resa possibile, al pari della conversione governativa e costituzionale della Lega di Bossi e Maroni. E allora, se chiede questo e non altro, che senso ha fargli la faccia feroce, caro Cavaliere?” (Il Foglio, 19.4.2010). Macché. “Che fai, mi cacci?”. E quello lo caccia sul serio. Povero Ferrara, disperato: “Che facciamo, presidente? Passiamo i prossimi tre anni a sparlare di Bocchino e a straparlare di Fini, a litigare, a guardarci in cagnesco? […] Anche la solitudine può far danni seri, e al Cav. capita da qualche tempo, ma sempre più spesso, di rimanere isolato, estraneo a sé stesso perché estraniato da gente che gli parli in modo non professionale, con un minimo di decente distanza, in perfetta autonomia, in privato”, pazzo o mal consigliato, ma basta: “Berlusconi deve restituirci se stesso per come lo abbiamo conosciuto” (Il Foglio, 3.5.2010). Rewind, play: un milione di posti di lavoro, rivoluzione liberale, abbasso le tasse, ecc. Ci hanno creduto una volta, ci hanno creduto ancora, perché non potrebbero ricrederci?
Macché. Scajola, Cosentino, Bertolaso. Poi D’Addario e Spatuzza. Casini? Manco per niente. Come non detto: Berlusconi ancora a pararsi il culo, Ferrara ancora a lamentarsi, metà incazzato (“Mi spiace, presidente, ma questo atteggiamento imprenditoriale ed egotistico in politica è un difetto” – Il Foglio, 12.7.2010), metà rassegnato (“Berlusconi ha giocato sé stesso nell’avventura, e quando si difende con le unghie e con i denti, fa semplicemente politica, la fa nel modo legittimato dal ruolo che ha interpretato nella storia italiana, dal consenso che riceve, e dalla giusta, sacrosanta resistenza alla trasformazione di questo paese in una caserma o in una dépendance delle procure della Repubblica. Gli affari dell’establishment – insider trading compreso – sono affari di famiglia. Gli affari del signor Berlusconi sono gli affari della nazione. Punto e basta” – Il Foglio, 6.9.2010).
Ma il governo appare sempre più isolato, Berlusconi pare sempre più alle corde e il povero Ferrara torna alla carica: “Vendere e liberalizzare, autorizzare, creare condizioni di business, far circolare i capitali privati, agganciarli a una strategia della ripresa” (Il Foglio, 18.10.2010). Niente, Berlusconi è sordo, e scoppia il caso Ruby.
Tutto sembra appeso al 14 dicembre, e parte la campagna acquisti, ma Ferrara guarda a dopo: “Se tra qualche anno diventeremo un paese in cui non dico si lavora, ma si lavoricchia in modo sensato e con qualche prospettiva per il cosiddetto precariato che non sia un posto improduttivo, e in cui si guadagna e si consuma in modo proporzionale alla ricchezza sociale prodotta, con uno scambio utile tra capitale e lavoro, e una crescita di cui beneficeranno la ricerca, la cultura, l’istruzione, la formazione e l’industriosità nazionale, ecco, non dipende tanto dal 14 dicembre, dipende dall’ipotesi che il modello americano di relazioni sociali spazzi via la nostra apparentemente comoda bardatura di convenienze e armonie prestabilite. Questa è politica, queste sono le rivoluzioni di cui abbiamo bisogno” (Il Foglio, 13.12.2010). Ma neanche il modello Marchionne riesce a distrarre Berlusconi dalla esclusiva cura dei cazzi propri, e Ferrara torna a lamentarsi: “Il governo perde il filo da tirare nella matassa della rivoluzione di Mirafiori” (Il Foglio, 10.1.2011).
La sfiducia non passa, ma Berlusconi rimane inchiodato in difesa, e Ferrara soffre, si deprime, manda a dire che volentieri tornerebbe in tv, se solo qualcuno glielo proponesse. Poi Amato parla di patrimoniale, e le opposizioni non raccolgono, ma Ferrara coglie al volo l’occasione per prodursi, in nome e per conto di Berlusconi, in un tentativo di revival del 1994: “Dal momento che il segretario del Pd è stato in passato sensibile al tema delle liberalizzazioni e, nonostante qualche sua inappropriata associazione al coro strillato dei moralisti un tanto al chilo, ha la cultura pragmatica di un emiliano, propongo a Bersani di agire insieme in Parlamento, in forme da concordare, per discutere senza pregiudizi ed esclusivismi un grande piano bipartisan per la crescita dell’economia italiana; un piano del governo il cui fulcro è la riforma costituzionale dell’articolo 41, annunciata da mesi dal ministro Tremonti, e misure drastiche di allocazione sul mercato del patrimonio pubblico e di vasta defiscalizzazione a vantaggio delle imprese e dei giovani” (Corriere della Sera, 31.1.2011).
La risposta è negativa. Bersani dice che Berlusconi non è credibile e Casini dice che è troppo tardi, ma erano risposte prevedibili, sicché il rifiuto può essere usato per rivestirsi da rivoluzionario: o col Cav. contro le tasse o col centrosinistra che ti mette le mani in tasca. Il Paese è fesso e può ricascarci. Se bisogna andare alle urne, andarci promettendo è la regola, non importa se si tratta di promesse vecchie di quasi vent’anni, e mai mantenute: un milione di posti di lavoro, rivoluzione liberale, abbasso le tasse, perché non dovrebbero crederci ancora?
Passi che le opposizioni non raccolgano, anzi, questo torna a fagiolo, ma gli imprenditori? Puttana Eva, la Confindustria è tiepida: “A parte una timida e formale dichiarazione, in questi sette giorni la Marcegaglia si è distratta […] Secondo Berlusconi bisogna agire per portare l’incremento della ricchezza al 3-4 per cento in cinque anni. Mi dicono che nel governo c’è chi ride della cosa e che il Cav si è già messo paura della propria audacia: ma, se si irride un obiettivo così evidentemente necessario, e per giunta possibile, è meglio affidare il Paese a Giuliano Amato e a Pellegrino Capaldo, impazienti di mettere le mani in tasca ai ceti medi e di porre una bella ipoteca di Stato sulle loro abitazioni. Sia come sia, questo obiettivo di crescita la Confindustria lo condivide? È interessata agli stati generali dell’economia promessi e promossi da Berlusconi entro la fine di febbraio? Piace agli imprenditori edili il piano casa il cui obiettivo è di attivare cinquanta miliardi di euro di investimenti? Gli imprenditori del Sud, che si sono associati con coraggio alla campagna contro le mafie e per la sicurezza fatta dal governo e da Maroni, non sarebbero contenti di raccoglierne i frutti? Deregolamentare l’economia con una riforma costituzionale che elimini la parte sovietica della Costituzione non è interesse generale e anche interesse dei buoni borghesi del XXI secolo? La Confindustria è un’associazione per lo sviluppo di un capitalismo liberale di mercato o è diventata un pigro centro di spesa improduttiva e di mediazione corporativa? Secondo me gli imprenditori che pagano le quote e lavorano nelle loro aziende questa domanda se la fanno. E la risposta?” (il Giornale, 6.2.2011).
Un messaggio alla Marcegaglia dalle pagine de il Giornale è più che un messaggio: è un ultimatum. Povero Ferrara, partito per la rivoluzione liberale bis e subito ridimensionato a un qualsiasi cane da guardia, poco più di un Porro (“Adesso ci divertiamo, attaccheremo la Marcegaglia come pochi al mondo”), neanche troppo divertito, però divertente.