sabato 12 marzo 2011

Aperitivo prima del polpettone


Joseph Ratzinger non è il primo e non sarà l’ultimo teologo a indossare i panni del biblista. Non è solo una questione personale, non si tratta solamente dell’umana aspirazione a evadere dalle proprie competenze per provarsi in altri campi. È che da sempre, da quando il cristianesimo s’è costruito in sistema, alla teologia è andato il compito di sorvegliare il resto, pronta a intervenire, spesso in modo risoluto, non di rado anche cruento, su quanto mettesse a rischio l’unità del tutto.
La minaccia derivante dallo studio della Bibbia è una preoccupazione costante della teologia, se si pensa al fatto che per secoli fu vietato accostarvisi senza la mediazione di un chierico, basti pensare al fatto che uno dei punti più drammatici sui quali si consumò lo scisma luterano fu la traduzione della Scrittura in lingua volgare e la sua diffusione a mezzo stampa, basti pensare al fatto che il modernismo mosse i suoi passi dalle ricerche storiche e dagli studi filologici sul cristianesimo delle origini. E il modernismo ha perso, ma ha provocato un altro scisma, anche se sommerso.

Non è soltanto la voglia di cimentarsi in un campo che non è mai stato suo, dunque, a muovere un teologo come Joseph Ratzinger a una prova come il suo Gesù di Nazaret, oggi al secondo volume, ma è l’esigenza di riaffermare il primato della lettura teologica su quella storico-critica, come peraltro è in manifesto con la Verbum Domini che seguì al Sinodo della Parola del 2008.
Dietro i modi miti di chi quasi si scusa per l’aver messo mano a una materia che non è sua, chiedendo un “anticipo di simpatia” verso il “suo” Gesù, c’è il teologo diventato pontefice che pretende una lettura dei vangeli sotto il vincolo della retta fede che sarebbe sola garanzia di retta interpretazione. Può esser troppo anche per chi è cattolico, perché il cattolicesimo si è un poco protestantizzato dal Concilio Vaticano II in poi, ma è più di troppo per chi non è cattolico, ed è pretesa folle per chi non è credente e al testo si accosta rifiutando soluzioni di lettura non argomentate dalla ragione, ancor più se si pretende che le incrostazioni depositatesi sul testo nei secoli di monopolio esegetico vengano considerate parti integranti dello stesso, come se l’autore della parola scritta diciotto o diciannove secoli fa respirasse ancora nel fiato di chi se ne dichiara interprete ufficiale.

Joseph Ratzinger lo sa bene e perciò ha messo le mani avanti da subito. Sapeva che avrebbe potuto imbrogliare – come ha imbrogliato, per quanto il credulone vorrà concedergli – sul processo e sulla morte, ma sapeva che stavolta l’“anticipo di simpatia” doveva essere enorme e ha ricordato che senza la fede nella resurrezione il crocifisso è solo un povero cristo.
Nei post che seguiranno a commento del Gesù di Nazaret vol. II lascerò da parte questa risibile richiesta: la pazzia di credere che un morto resusciti rimane tale anche davanti a un miliardo e dispari di pazzi che affermano sia accaduto. Mi limiterò al resto, perché intrattenermi sugli argomenti in favore dell’avvenuta resurrezione di un morto che un teologo pensa di poter dimostrare nella Scrittura con l’unica possibile lettura – quella teologica – è davvero troppo.


venerdì 11 marzo 2011

Il Pd non ha futuro





Riforma della Giustizia / 1



“Ordinamento giudiziario: (1) Unità del Pm (a norma della Costituzione - articoli 107 e 112
ove il Pm è distinto dai giudici); (2) Responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento
sull’operato del Pm (modifica costituzionale); […] (4) Riforma del Consiglio superiore
della magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento
(modifica costituzionale); (5) [...] Separare le carriere requirente e giudicante”
Licio Gelli, Piano di Rinascita Democratica, 1981 (?)

“Costruire nel paese le condizioni di un ricambio basato sulla ragion politica”
Giuliano Ferrara, Il Foglio, 11.3.2011
 
Vediamo di cosa si tratta.

L’art. 87 della Costituzione (Titolo II – Il Presidente della Repubblica) recita al comma decimo: “Il Presidente della Repubblica […] presiede il Consiglio superiore della magistratura…”. Qui l’art. 1 del testo di riforma presentato ieri dal Governo aggiunge: “… giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente”.
È fatta la cosiddetta “separazione delle carriere”.

Al comma secondo dell’art. 101 della Costituzione si legge: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Qui l’art. 2 del testo di riforma riscrive: “I giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono soggetti soltanto alla legge”, incorporando il primo comma dell’art. 104: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, levando “altro”, ma senza sostanziale variazione del senso. Almeno così pare.

Così parrebbe anche per l’art. 4 che corregge il comma primo dell’art. 102 (“La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”) che riscrive “giurisdizione” al posto di “funzione giurisdizionale”. Dato quanto alla voluta “separazione delle carriere”, la correzione sembra possa avere un suo senso.

L’art. 5 del testo di riforma riscrive l’art. 104 della Costituzione in funzione di questa separazione tra “giudici e pubblici ministeri”, mentre l’art. 6 e l’art. 7 vi aggiungono quanto ne consegue per i due distinti Consigli superiori della magistratura, quello giudicante e quello requirente, che, come abbiamo visto all’art. 1, sono entrambi sono presieduti dal Presidente della Repubblica.

L’art. 6 apporta una significativa modifica nella composizione del Consiglio superiore della magistratura giudicante, i cui componenti verrebbero ad essere “eletti per metà da tutti i giudici ordinari tra gli appartenenti alla medesima categoria previo sorteggio degli eleggibili e per metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”, mentre il Vicepresidente dovrebbe essere scelto “tra i componenti designati dal Parlamento”.
Anche qui, com’è nel testo della Costituzione, “i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono rieleggibili”, ma c’è una piccola variazione perché l’art. 104, al comma sesto, recita che “non sono immediatamente rieleggibili”.

L’art. 7, invece, norma la composizione del Consiglio superiore della magistratura requirente, i cui membri dovrebbero “eletti per metà da tutti i pubblici ministeri tra gli appartenenti alla medesima categoria previo sorteggio degli eleggibili e per metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. Anche qui il Vicepresidente dovrebbe essere scelto “tra i componenti designati dal Parlamento”, anche qui salta l’“immediatamente” relativo alla loro non rieleggibilità.

L’art. 8 del testo di riforma adegua l’art. 105 della Costituzione alla “separazione delle carriere” per quanto attiene all’autogoverno. Dove la Carta attualmente recita che “spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”, è fatta adeguata distinzione tra Consiglio superiore della magistratura giudicante e al Consiglio superiore della magistratura requirente.

Così è pure per l’art. 9 che separa in due la Corte di disciplina della magistratura. Anche qui è assunto il criterio che vuole “i componenti di ciascuna sezione […] eletti per metà dal Parlamento in seduta comune e per metà rispettivamente da tutti i giudici e i pubblici ministeri”, con un Presidente e un Vicepresidente che devono essere entrambi eletti “tra i componenti designati dal Parlamento”.

Siamo giusto a metà del testo di riforma, che è composto di 18 articoli, e forse già possiamo fare qualche considerazione.
Il Governo non si limita a separare le carriere, ma mette i duplicati del Consiglio superiore della magistratura e della Corte di disciplina della magistratura in un nuovo rapporto col Parlamento, che è d’ordine quantitativo e qualitativo. È riaffermata l’autonomia e l’indipendenza della magistratura così separata in due, ma il rapporto di subordine della Giustizia alla Politica è fortemente accentuato, anche se indirettamente, attraverso una ridefinizione degli organi di autogoverno e di controllo disciplinare. Se qui facciamo un salto all’art. 15 che intende modificare l’art. 112 della Costituzione (“Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”), aggiungendovi “secondo i criteri stabiliti dalla legge”, pare chiara l’intenzione di mettere la Giustizia al guinzaglio della Politica. D’altra parte, come vedremo più avanti, in almeno altri due punti, le prerogative della magistratura vengono a trovarsi condizionate dai “criteri stabiliti dalla legge”, cioè dal legislatore, cioè dalla Politica. L’erosione dell’autonomia e dell’indipendenza della Giustizia non è dichiarata come fine ultimo della riforma, ma è evidente che sia nel suo intento.
C’è da aspettarsi forti resistenze a questo disegno.


[segue]

giovedì 10 marzo 2011

Saviano non racconta balle


«Nel luglio del 1883 il filosofo Benedetto Croce si trovava in vacanza con la famiglia a Casamicciola, a Ischia. Era un ragazzo di diciassette anni. Era a tavola per la cena con la mamma, la sorella e il padre e si accingeva a prendere posto. A un tratto, come alleggerito, vide suo padre ondeggiare e subito sprofondare sul pavimento, mentre sua sorella schizzava in alto verso il tetto. Terrorizzato, cercò con lo sguardo la madre e la raggiunse sul balcone, da cui insieme precipitarono. Svenne e rimase sepolto fino al collo nelle macerie. Per molte ore il padre gli parlò, prima di spegnersi. Gli disse: «Offri centomila lire a chi ti salva». Benedetto sarà l’unico supersite della sua famiglia massacrata dal terremoto” (Roberto Saviano, Vieni via con me, Feltrinelli 2011 – pag. 7).

Non era la prima volta che Roberto Saviano raccontava questo episodio della vita di Benedetto Croce, l’aveva già fatto il 14 aprile 2009 su la Repubblica, e naturalmente nel corso di uno dei monologhi andati in onda su Raitre (Il terremoto a L’Aquila), poi raccolti nel volume della Feltrinelli , e sempre attribuendo al padre del filosofo la frase che solo lo scorso 8 marzo gli viene contestata da Marta Herling, nipote di Benedetto Croce, con una lettera al Corriere del Mezzogiorno:

“Da dove l’autore di «Gomorra» ha tratto la ricostruzione di quella tragedia? Dalla sua mente di profeta del passato e del futuro, di scrittore la cui celebrità meritata con la sua opera prima, è stata trascinata dall’onda mediatica e del mercato editoriale, al quale è concesso di non verificare la corrispondenza fra le parole e fatti, o come insegnano gli storici, fra il racconto, la narrazione degli eventi, e le fonti, i documenti che ne sono diretta testimonianza. […] Dove Saviano ha orecchiato la storia che racconta nell’incipit del suo monologo? Certo non dalla lettura del testo del suo protagonista principale poiché sopravvissuto, testo che si è tramandato intatto senza una parola in più di commento o di spiegazione, nella nostra memoria famigliare e nelle biografie del filosofo, che lo riportano a illustrare quella pagina tragica della vita sua e dei suoi cari”.

E qui la signora fa seguire il passo relativo ai fatti del luglio 1883 tratto da Memorie della mia vita (Istituto italiano per gli studi storici, 1966), nel quale senza dubbio non v’è traccia di quell’«offri centomila lire a chi ti salva». E dunque Saviano racconta balle? No, tutt’altro.
Il 13 aprile 1950 usciva su Oggi una lunga intervista al filosofo, raccolta da Ugo Pirro, che così scriveva:

“Nel disastro restò sepolta anche la famiglia Croce, compreso Benedetto. La madre e la sorella Maria furono inghiottite dalle macerie, il padre invece perì dopo lunghe sofferenze aspettando invano soccorso, ad un passo da Benedetto che nulla poteva fare perché incastrato con tutto il corpo dalle macerie della casa. Il giovane fu estratto con una gamba fracassata e un braccio ferito. Benedetto fu tra gli ultimi feriti ad essere trasportato a Napoli, le sue condizioni non destavano soverchie preoccupazioni. Un cronista, girando fra le corsie degli ospedali napoletani, lo intervistò e così riferì ciò che il giovane Croce raccontò di quella terribile notte: «Ieri fu trasportato a Napoli anche il figliuolo primogenito del comm. Croce; egli è gravemente ferito a una gamba e ad un braccio. Perirono il comm. Croce, la moglie e una figlioletta. Il giovinetto superstite di questa ricchissima famiglia foggiana, stabilita da lunghi anni a Napoli, conserva una memoria precisa dell’accaduto. La madre e la sorella sparirono nel vortice del crollamento, né si udì di loro alcuna voce. Egli, che era seduto ad un tavolino insieme col padre, precipitò. Il padre fu coperto tutto dalle macerie, ma parlò dalle nove e mezzo del sabato fino alle undici antimeridiane della domenica successiva. Benedetto era sepolto fino al collo nelle pietre, aveva però il capo fuori di esse. Il giovinetto fu estratto dalle rovine verso mezzogiorno, poco prima che il padre avesse cessato di parlare. Si racconta che con gran senso pratico dicesse al figlio ‘offri centomila lire a chi ti salva’»”.

Alla pubblicazione dell’intervista il filosofo non sollevò obiezioni, ma sua nipote ha da ridire ben 61 anni dopo.


Saggezza di Formica


“Occorre che la maggioranza parlamentare presenti in Parlamento il suo progetto di legge costituzionale già anticipato nel programma elettorale”, così Rino Formica (Il Foglio, 10.3.2011). È un invito a rileggere quel programma, al punto che riguarda la giustizia:

“Perfezionamento dell’azione intrapresa nella legislatura 2001/2006 dal Governo Berlusconi, con il completamento della riforma dei codici, la definitiva razionalizzazione delle leggi esistenti e l’attuazione dei principi enunciati dalle sentenze della Corte Costituzionale, non ancora trasposti in atti legislativi”.
Sono passati quasi tre anni, e a che punto siamo?

“Attuazione dei principi costituzionali del giusto processo per una maggiore tutela delle vittime e degli indagati”.
Col processo breve, quale tutela sarebbe garantita alle vittime?

“Aumento delle risorse per la giustizia, con un nuovo programma di priorità nell’allocazione delle risorse: più razionalità nelle spese, più investimenti nell’amministrazione della giustizia quotidiana, a partire dalla giustizia civile”.
Non ci sono stati solo tagli?

“Garanzia della certezza della pena, con la previsione che i condannati con sentenza definitiva scontino effettivamente la pena inflitta ed esclusione degli sconti di pena per i recidivi e per chi abbia commesso reati di particolare gravità e di allarme sociale”.
Ammesso che sia un segmento della soluzione ai problemi della nostra giustizia, che si è fatto?

“Inasprimento delle pene per i reati di violenza sui minori e sulle donne; gratuito patrocinio a favore delle vittime; istituzione del Tribunale della famiglia, per garantire i diritti fondamentali dei componenti del nucleo familiare”.
Qui si è fatto qualcosa, sì, ma nulla che possa definirsi riforma costituzionale.

“Costruzione di nuove carceri e ristrutturazione di quelle esistenti”.
Evitiamo di entrare in argomento.

“Rafforzamento della distinzione delle funzioni nella magistratura, come avviene in tutti i paesi europei; confronto con gli operatori della giustizia per una riforma di ancor maggiore garanzia per i cittadini, che riconsideri l’organizzazione della magistratura, in attuazione dei principi costituzionali”.
Principi rigidissimi che rendono necessaria una riforma costituzionale per introdurre le modifiche volute dal centrodestra: non di attuazione, dunque, si deve parlare, ma di revoca. Siamo al fuori programma.

“Limitazione dell’uso delle intercettazioni telefoniche e ambientali al contrasto dei reati più gravi; divieto della diffusione e della pubblicazione delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, con pesanti sanzioni a carico di tutti coloro che concorrono alla diffusione e pubblicazione”.
Si è tentato, giusto cielo, si è tentato. Ma pur con così larga maggioranza, poco o niente.

“Riforma della normativa anche costituzionale in tema di responsabilità penale, civile e disciplinare dei magistrati, al fine di aumentare le garanzie per i cittadini”.
Campa cavallo.

“Completamento della riforma del Codice di Procedura Civile con snellimento dei tempi di definizione ed incentivi alle procedure extra giudiziali”.
Aggiornatemi sul punto, ne so poco: che si è fatto?

[...]




“La «nostra» società”


I bambini hanno necessariamente bisogno di una madre e di un padre per crescere bene? La loro psiche rivela disturbi particolari se vengono allevati da una coppia gay? Su Avvenire, lo scorso 16 febbrario, Giuseppe Anzani lo dava per scontato, ma l’Associazione Italiana di Psicologia è intervenuta a correggere quelle che ha definito “affermazioni che non trovano riscontro nella ricerca internazionale sul rapporto fra relazioni familiari e sviluppo psico-sociale degli individui”, perché “il benessere psicosociale dei membri dei gruppi familiari non è tanto legato alla forma che il gruppo assume, quanto alla qualità dei processi e delle dinamiche relazionali che si attualizzano al suo interno”.
Cose ormai risapute, ma chissà quante altre volte si dovrà ripeterle a chi difende, anche contro l’evidenza, questi e cento altri logori luoghi comuni. Poi, però, c’è il professor Francesco D’Agostino, che non nega l’evidenza, ma cerca di eluderla: il problema non sarebbe “psicologico, bensì antropologico”.
“Almeno in linea di principio – scrive – potremmo anche concordare [“«che ciò che è importante per il benessere dei bambini è la qualità dell’ambiente familiare che i genitori forniscono loro, indipendentemente dal fatto che essi siano conviventi, separati, risposati, single, dello stesso sesso» (come sostiene il comunicato degli psicologi)”]; ma ciò che dovrebbe piuttosto stare a cuore a tutti è riaffermare che ogni società, o almeno certamente la «nostra» società, si fonda su strutture familiari stabili e riconosciute, dotate di una potenziale e naturale fecondità, di un fondamento morale personale (il reciproco impegno dei coniugi) e di un riconoscimento giuridico pubblico (il matrimonio). […] Dovrebbe essere chiaro agli occhi di tutti che la cura e la protezione cui hanno diritto i bambini vanno ordinariamente garantite da una coppia genitoriale e da un «normale» contesto familiare e non da una mera «buona volontà» psicologica di adulti disposti generosamente a prendersi cura di loro” (Avvenire, 9.3.2011).
D’improvviso, il bambino ha smesso di stare al centro della questione: nel negare la sua adozione da parte di una coppia gay, il suo benessere sembrava fosse la cosa più importante, adesso non lo è più. Adesso al centro delle preoccupazioni è “la «nostra» società”, “il «normale» contesto familiare”, “l’esperienza storica e morale plurisecolare”. E qui ogni “ricerca internazionale sul rapporto fra relazioni familiari e sviluppo psicosociale degli individui” diventa inutile: le tautologie di «nostro» e «normale» rendono insignificante ogni rilievo scientifico. Provate a cambiare i termini della questione e con questo tipo di argomentazione, contro ogni ragione, si può difendere ogni cosa: basta sia «normale» ed è «nostra», basta sia «nostra» ed è «normale».

mercoledì 9 marzo 2011

“Confidente e spia”


Luca ha visto alla tv (Blob – Raitre, 8.3.2011) un Ferrara d’annata nell’atto di dar fuoco al suo bollettino di pagamento dell’abbonamento Rai (Radio Londra – Canale 5, 14.2.1989) e si chiede se il Ferrara che a giorni esordirà su Raiuno con una rubrica quotidiana abbia avuto il buon gusto di rinnovarlo, e quando.
Luca non spreca alcuna indignazione sul gesto di 22 anni fa, perché sa che pretendere coerenza su un arco di tempo così lungo sarebbe troppo, ma si limita a chiedere se vi possa essere compatibilità tra il continuare a non pagare l’abbonamento Rai e lavorare per la Rai, pagato coi soldi della Rai, che poi sono i soldi di chi paga l’abbonamento Rai. In questo modo aggira ogni obiezione che potrebbe sollevarsi a una richiesta di coerenza, che è termine sfuggente e ambiguo col quale i cretini ritengono di poter crocifiggere un uomo alle opinioni che aveva ieri o l’altrieri, ma fa una richiesta di congruità logica. Infatti, per ciò che realmente conta sul piano di una retta argomentazione, “due affermazioni di una stessa persona in momenti diversi della sua vita possono essere presentate come incompatibili, se tutti gli enunciati di quella persona sono trattati come costituenti un unico sistema; se invece si tratta di diversi periodi della sua vita come non solidali tra loro, l’incompatibilità scompare” (Chaïm Perelman, Il dominio retorico, Einaudi 1981).

E tuttavia Luca non tiene conto di una cosa: ciò che fa “unico sistema” in Ferrara – e che lo rende perfino coerente – è il suo continuum, prima sotto la protezione di Craxi e dopo sotto quella di Berlusconi, contra rem publicam, della quale la tv pubblica è espressione sotto il controllo parlamentare. Il continuum, in Ferrara, c’è ed contro le prerogative del Parlamento. Dagli schermi della Fininvest, grazie a Berlusconi e in favore di Craxi, la Rai era concorrente. Oggi tutto cambia, ma è tutto uguale: grazie a Berlusconi (proprietario di Mediaset, concorrente della Rai) e in favore dello stesso Berlusconi (presidente del Consiglio che mira a erodere le prerogative parlamentari in vista dell’esautorazione di fatto), la tv pubblica resta concorrente, ma stavolta può essere avversata dal di dentro. Il mancato rinnovo dell’abbonamento sarebbe congruo, compatibile e coerente.
Se fosse necessaria controprova, basta scorrere la prefazione di Radio Londra (Leonardo editore, 1991), il volume che raccoglie i suoi interventi televisivi: “Non sono un giornalista [...] Non amo, anzi detesto, il giornalismo come professione [...] La prima regola di questo mestiere è compromettersi [...] La lotta politica moderna si fa sui giornali e alla televisione [...] La bugia professionale è il comune collante deontologico [...] Il giornalista che piace a me è complice e traditore, gentiluomo e ladro, confidente e spia”.


Un’altra lezioncina


“Nella tradizione giacobina la giustizia non è un istituto indipendente, nonostante l’articolo XVI della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: è l’arma del popolo sovrano, dell’esecutivo che esso elegge. Qui è il suo vizio d’origine, e ancor oggi il pubblico ministero francese non è al servizio di tutti ma mantiene un rapporto di dipendenza dal governo” (Le procure sotto tutelala Repubblica, 9.3.2011). Dopo quella del pastore Peter Ciaccio sul “puritanesimo” (youtube.com, 12.2.2001), questa di Barbara Spinelli sul “giacobinismo” è un’altra lezioncina che tornerebbe utile ai dipendenti di Silvio Berlusconi che sono addetti a stampa e a tv.
Il “puritano” non è chi affida al moralista il controllo dello Stato, ma è chi ritiene doverosa la tutela del decoro delle istituzioni da parte dei suoi rappresentanti, che appunto la rappresentano ma non la incarnano, e dunque devono al vestito che hanno addosso un’attenzione maggiore rispetto a quella verso quanto c’è dentro, perché poi il vestito deve essere restituito.
Il “giacobino” non è chi si oppone alla separazione delle carriere, ma chi la vuole, e “giacobinismo” non è mettere il potere politico sotto il tallone della magistratura, ma proprio tutto il contrario: potremmo dire che “giacobina” è proprio l’idea che in democrazia la sovranità si concentri tutta sul popolo, che elegge governi e parlamenti non sottoposti al vaglio di poteri terzi”, potremmo dire che i veri “giacobini”, oggi, in Italia, siano i populisti del centrodestra che chiedono l’impunità dell’eletto e l’incontestabilità del suo legiferato sul piano della costituzionalità.
Eppure sono loro che accusano di “giacobinismo” chi invece chiede nell’equilibrio dei poteri la garanzia che la democrazia non degeneri plebeitarismo, le élites non si facciano oligarchia.


martedì 8 marzo 2011

“La vita è piena di sorprese”


Un Regalzi da incorniciare.

 

ottomarzo




L’implausibile


Non ho visto la puntata di Dr. House – Medical Division che ispira il post di Berlicche, ma credo sulla parola a quanto scrive: “Dal punto di vista medico il plot è così implausibile da affondare nel ridicolo”. È il motivo per il quale ho smesso di seguire la serie a metà della sua seconda stagione e non faccio fatica a immaginare che, ormai alla settima, gli autori possano aver toccato il fondo dell’inverosimile, infatti – è vero – “cure di staminali embrionali non ne esistono, figuriamoci una in grado di rimettere in piedi in un giorno”. Tutto il resto, però, mi pare regga.
Non è affatto inverosimile, innanzitutto, che un cattolico si faccia crocifiggere. Due anni fa, per esempio, solo nelle Filippine furono in 29. La Chiesa ufficialmente disapprova, è opportuno dirlo, ma l’usanza è radicata in parecchi paesi, soprattutto fra sudamericani e latinos, con qualche sporadico caso anche in Europa.
La fede di chi si fa crocifiggere sarà malata? Senza dubbio, ma è proprio questo il caso in Piccoli sacrifici (Italia 1, 4.3.2011), dove il crocifisso è latino e affetto da patologia neurologica (“sclerosi al cervello”, leggo): nulla di inverosimile, dunque. È inverosimile, invece, che Berlicche scriva: “La fede raffigurata nel telefilm è la sua caricatura: una convinzione cieca, senza argomentazioni”, perché la fede è questo, anche quando non è caricaturizzata: sennò come si argomenta, di grazia, la resurrezione di un morto, la verginità di una puerpera, la sua ascensione in cielo, ecc.? E tuttavia son dogmi, bisogna averne convinzione cieca, sennò non ci si può dire cattolici. E qui mi limito a dire che Berlicche dovrebbe sorvegliare di più il lessico.

Che c’è di inverosimile, poi, in un cattolico che preferisca morire piuttosto che salvarsi con mezzi moralmente illeciti? La Chiesa non fa sante le donne che rifiutano l’aborto anche sapendo che la gravidanza le ammazzerà? È proprio il caso del latino che rifiuta la cura di staminali embrionali prescritta da House. Che c’è di inverosimile? Che c’è di implausibile?
Ma non è tutto. Berlicche scrive che, per guarire lo sclerotico contro la sua volontà, House “lo inganna facendogli perdere la fiducia in Dio”. Questo è doppiamente odioso, convengo. Anzi, ritengo sia del tutto speculare all’arbitrio del medico cattolico che commetta analoga ingiustizia nei confronti del paziente senza speranze, che vorrebbe essere lasciato morire in pace piuttosto che essere fatto appendice di una macchina. Ma Berlicche non darebbe dell’assassino al medico che staccasse la spina? E allora perché trova odioso l’arbitrio di House? Probabilmente – vado a naso – la ragione sta solo nel fatto che qui lo scopo – lo stesso scopo – sia raggiunto facendo perdere la fede al paziente.
Insomma, parrebbe che per Berlicche ci sia paziente e paziente: se è credente, la terapia dovrà badare innanzitutto a non fargli perdere la fede, anche a costo di lasciarlo morire; se invece non è credente, la terapia dovrà assecondare la fede del medico, anche costo di tenere in vita il paziente contro la sua volontà.
Di più: il medico non credente dovrebbe comportarsi come un medico credente anche dinanzi a un paziente non credente, meglio se per legge. Berlicche non lo scrive, non in questo post. Quando affronterà la questione del ddl sul fine vita che è in discussione in Parlamento, vedrete, non mancherà. 



Il burlone ne starà preparando una. Delle sue.




Mica tutti i preti sono pedofili



[un grazie a distantisaluti.com]

Uno, cento, mille Machiavelli


Giuseppe Prezzolini trova un’immagine di grande efficacia in coda a Vita di Nicolò Machiavelli fiorentino: dice che “leva lo sgabello sotto il sedere ai profeti disarmati”. Bene, non resta che concentrarci sullo sgabello: cos’è?

Luca era gay?

Lo scorso 30 novembre, a Orvieto, Luca Seidita si suicidava lasciando un biglietto sul quale c’era scritto: “Volevo diventare sacerdote. Tutta la mia vita è stata dedicata a questo. Mi è stato negato”. Il vescovo di Orvieto, monsignor Giovanni Scanavino, diceva: “Per lui questo diniego era stato un dramma assoluto”. Interrogato sul rifiuto opposto al giovane da Roma, il portavoce della Santa Sede non rispondeva: “Si tratta di un sacramento e la Santa Sede non può dare spiegazioni sul perché venga dato o non dato. Noi non diciamo niente e non abbiamo niente da dire”.
Vi avevo fatto cenno il 15 gennaio, qui, e la storia sembrava chiusa, ma ora si riapre. Anzi, si schiude interamente.

È notizia di ieri: a Orvieto arriva un altro vescovo e monsignor Scanavino viene rimosso. Si era permesso di contestare il no che aveva portato Seidita a disperazione, e questo naturalmente non era tollerabile. Viene fuori quello si poteva intuire senza grosso sforzo di immaginazione: da Orvieto qualcuno aveva scritto a Roma che il giovane era gay, e Roma s’era mossa. Ma Luca era gay? Pur avendolo d’accanto per cinque anni, monsignor Scanavino non se n’era mai accorto. Andando via, mugugna che la diocesi orvietana è “malata di cancro”.
Gli avevano chiesto di dimettersi, ma si era rifiutato. Poi arrivava una lettera che gli comunicava il rincrescimento di Sua Santità per la situazione che si era venuta a creare, con un ulteriore invito alla rinuncia della guida pastorale della diocesi, “per il bene maggiore dell’unità della Chiesa di Orvieto”. E un vescovo non può opporre un rifiuto al Papa, sennò può scordarsi la pensione, e monsignor Scanavino ha 71 anni.
Occorre ascoltarlo con attenzione...


... per poi tornare a quanto scrivevo il 15 gennaio riguardo a quel “processo che non è solo formativo, ma trasformativo” di uomo in prete. Scrivevo che “in seminario accadono cose che noi laici non possiamo neanche immaginare”, ma qui se ne coglie qualcosa. Basti quanto Sua Eccellenza dice due o tre volte nel corso della conferenza stampa: “Il morto non c’è stato”. Naturalmente fa riferimento ai problemi che ha avuto con Roma, ma il morto, che invece qui c’è stato, eccome, è inspiegabilmente volatilizzato.
Dimenticavo. Rimane fuori dalla vicenda se Luca fosse davvero gay o no.

lunedì 7 marzo 2011

“Pericolo di vita”


“Si avverte con stupore che l’affermazione
viene formulata con parole che ne annullano l’intenzione,
mentre il lapsus mette a nudo l’interna insincerità.
Il lapsus verbale diventa qui […] un mezzo per tradire se stesso
[…] avente l’effetto sconvolgente di una rivelazione”

Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, 1904


Antonio Socci fa il suo “appello a tutti i parlamentari, di tutti gli schieramenti, al di là delle divisioni ideologiche, politiche o culturali [ad] approvare subito la legge sulla (cosiddetta) «Dichiarazione anticipata di trattamento» e approvarla così com’è [non foss’altro per quel suo] preziosissimo comma 6 dell’art. 4, che recita testualmente: «In condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato, la dichiarazione anticipata di trattamento non si applica»” (Libero, 5.3.2010); e l’ottimo Ivo Silvestro ci scova un lapsus: “pericolo di vita” in luogo di “pericolo di morte”. Lapsus tanto più interessante se si tiene conto che “testualmente” il comma 6 fa riferimento non a un “pericolo”, ma a un “pregiudizio della vita dell’incapace stesso”.
Non è difficile leggere la verità che il lapsus rivela: la vicenda di sua figlia Caterina, rianimata d’urgenza dopo un arresto cardiaco senza aver potuto evitare pesanti esiti neurologici, è vissuta nel dubbio – almeno nel dubbio, a voler essere cauti – che sia quel genere di vita ad essere il reale “pericolo”, non già la morte. Almeno inconsciamente, c’è uguale sentire tra Antonio Socci e Beppino Englaro: quel genere di vita è peggio della morte. Con una sola, grandissima differenza: Eluana lo pensava e aveva chiesto al padre di evitarlo, mentre è difficile pensare che per Caterina sia stato possibile disporre in tal senso.
Direi sia la prova provata che il testamento biologico è necessario: perché a chiunque sia data la possibilità di veder rispettare le proprie volontà, quando incapace. Così Eluana e Beppino Englaro non dovranno aspettare 17 anni anni per vederle realizzate, Caterina potrà lasciare che sia fatta la volontà di Dio e suo padre non sarà costretto a incorrere in lapsus imbarazzanti.

1956




L’alleanza terapeutica

 
Non potrei mai dare della testa di cazzo a un collega, perché violerei le norme della deontologia professionale. Mi astengo, dunque, da ogni giudizio su chi ha firmato il comunicato dell’Amci (Associazione medici cattolici italiani) in favore della legge sul fine vita, e mi limito a sollevare qualche perplessità.
In primo luogo: “Nella realtà concreta della professione medica – c’è scritto – è più presente il rischio dell’abbandono piuttosto che quello dell’accanimento terapeutico”. E allora che senso ha fare una legge? Hanno ragione quanti affermano che non serve?
Di poi: “Le Dat non possono costituire un testamento vincolante per il medico curante il quale, ben attento alla relazione umana che lo lega al suo paziente, avrà sempre a cuore di rispettare l’alleanza terapeutica, fondamento della professione medica, tenendo conto, nell’assunzione delle proprie inalienabili responsabilità, delle volontà espresse dal paziente o dal suo fiduciario”. Le quali, tuttavia, alla faccia dell’alleanza, possono essere ignorate quando il paziente o il suo fiduciario esprimessero la decisione di non volere un tubo nello stomaco o un ago in vena. Aghi e tubi non sono attrezzi terapeutici? Non è accanimento terapeutico imporli contro la volontà del paziente? L’alleanza terapeutica non dovrebbe avere come base minima una concordata condotta del terapeuta?
 
Qui mi fermo, sennò finisco per violare le norme della deontologia professionale.
 
 

La trattativa


A maggio e a luglio dell’anno prima c’erano state le stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Nel maggio del 1993, a Firenze, la mafia fa strage in Via dei Georgofili. Due mesi dopo, fa scoppiare bombe a Roma e a Milano. Gli attentati sono rivendicati, con la minaccia di fare centinaia di morti. Di lì a poco, il 31 ottobre, si scopre un furgone imbottito di esplosivo nei pressi dello stadio Olimpico, qualcosa non ha funzionato e non è esploso. È l’avventura terrorista dei corleonesi di Totò Riina.
Col 1° novembre, sempre del 1993, arriva la scadenza del 41bis per molti detenuti e il ministro della Giustizia, Giovanni Conso, non lo rinnova a 140 di loro. Da quel momento in poi la mafia smette di piazzare bombe.

“Se ne può desumere che la trattativa/ricatto abbia avuto i suoi effetti tra luglio e novembre?”. La domanda è posta proprio da Conso, in apertura dell’audizione dell’11 novembre 2010 presso la Commissione parlamentare antimafia.
“Innanzitutto di fronte a me stesso – aggiunge – e di fronte alla verità, e alla storia, giacché il tema è tale da incidere sulla storia del paese, ho il dovere di ammettere che la questione ha proprio questa consistenza: perché non sono stati prorogati?”. E da subito chiarisce: “Posso garantire, posso garantirlo sotto ogni forma di giuramento, che da parte mia non c’è mai stato neanche un barlume di trattativa. Per principio non avrei mai trattato con nessuno degli appartenenti a questa parte anti-stato”.

Possiamo credergli solo se crediamo al suo giuramento? Conso sembra capire di chiedere troppo e concede: “L’apparenza potrebbe trarre in inganno: non si sono rinnovati quei provvedimenti restrittivi – si può argomentare – e così si è favorita questa parte”. E allora? Come possiamo evitare di farci ingannare dall’apparenza senza dover fidare solo sul suo onore? È semplice: abbiamo tutto ciò che Conso ha detto e scritto riguardo al 41bis prima di quel mancato rinnovo del 6 novembre 1993.
E cosa ne abbia sempre pensato, senza mai farne mistero, Conso lo rammenta agli auditori, ma prima fa presente che quel rinnovo non fosse un atto dovuto, ma del tutto discrezionale. E non si trattava di mandarli liberi, ma solo di sospendere una misura utile, sì, ma che Conso aveva sempre considerato, e continua a considerare, sul confine tra diritto e arbitrio, tra pena e tortura. E tuttavia utile, quando applicata con giudizio. Per esempio, nel gennaio del 1994, non esita a rinnovare il 41bis ad un altro pacchetto di detenuti.

Questo è quanto pensava, e continua a pensare, del 41bis. E non aveva notizia di richieste da parte dei corleonesi, tanto meno aveva contatti con intermediari: tutto fu deciso in piena autonomia, sulla base del suo personale convincimento che levare il “carcere duro” a quei 140 mafiosi di basso profilo fosse – insieme – cosa possibile senza essere dannosa e forse anche utile.
Questo può dirsi trattare? Così pare a quanti hanno prima coccolato e poi abbandonato la teoria della trattativa tra mafia e Berlusconi come contesto nel quale prende vita Forza Italia. Come se non fosse più possibile dopo le dichiarazioni di Conso, come se la decisione da lui presa nel novembre del 1993 fosse “la” trattativa, e ogni “altra” trattativa venga così ad essere esclusa. Con sommo imbarazzo della teoria.

Io credo a Conso. Intendeva mandare un segnale ai corleonesi dopo la cattura di Totò Riina: era un prezzo piccolo in cambio di un vantaggio che gli sembrò essere acquisito con la fine degli attentati. A torto o a ragione, chi può dire? Rinnovare o no il 41bis a quei mafiosi era in sua facoltà, la legge non glielo imponeva, né gli imponeva di consultare alcuno.
Siamo nella pienezza del diritto. Mancano addirittura i prerequisiti della trattativa. C’è un uso temperato della misura restrittiva. Ed è dichiarato il fine. Sulla bontà del mezzo spettava decidere al Guardasigilli. Dovrebbe essere la prova che i principi possono cimentarsi con la realtà senza uscirne troppo malconci. E invece, per chi voleva che Spatuzza avesse in pugno una verità piana, è un colpo micidiale. Da rimuovere.
È in questo deficit di fede nello stato di diritto che la sinistra giustizialista confessa il suo limite. Sarebbe stato utile correggere la teoria, si è limitata a ritirarla.