Joseph Ratzinger non è il primo e non sarà l’ultimo teologo a indossare i panni del biblista. Non è solo una questione personale, non si tratta solamente dell’umana aspirazione a evadere dalle proprie competenze per provarsi in altri campi. È che da sempre, da quando il cristianesimo s’è costruito in sistema, alla teologia è andato il compito di sorvegliare il resto, pronta a intervenire, spesso in modo risoluto, non di rado anche cruento, su quanto mettesse a rischio l’unità del tutto.
La minaccia derivante dallo studio della Bibbia è una preoccupazione costante della teologia, se si pensa al fatto che per secoli fu vietato accostarvisi senza la mediazione di un chierico, basti pensare al fatto che uno dei punti più drammatici sui quali si consumò lo scisma luterano fu la traduzione della Scrittura in lingua volgare e la sua diffusione a mezzo stampa, basti pensare al fatto che il modernismo mosse i suoi passi dalle ricerche storiche e dagli studi filologici sul cristianesimo delle origini. E il modernismo ha perso, ma ha provocato un altro scisma, anche se sommerso.
Non è soltanto la voglia di cimentarsi in un campo che non è mai stato suo, dunque, a muovere un teologo come Joseph Ratzinger a una prova come il suo Gesù di Nazaret, oggi al secondo volume, ma è l’esigenza di riaffermare il primato della lettura teologica su quella storico-critica, come peraltro è in manifesto con la Verbum Domini che seguì al Sinodo della Parola del 2008.
Dietro i modi miti di chi quasi si scusa per l’aver messo mano a una materia che non è sua, chiedendo un “anticipo di simpatia” verso il “suo” Gesù, c’è il teologo diventato pontefice che pretende una lettura dei vangeli sotto il vincolo della retta fede che sarebbe sola garanzia di retta interpretazione. Può esser troppo anche per chi è cattolico, perché il cattolicesimo si è un poco protestantizzato dal Concilio Vaticano II in poi, ma è più di troppo per chi non è cattolico, ed è pretesa folle per chi non è credente e al testo si accosta rifiutando soluzioni di lettura non argomentate dalla ragione, ancor più se si pretende che le incrostazioni depositatesi sul testo nei secoli di monopolio esegetico vengano considerate parti integranti dello stesso, come se l’autore della parola scritta diciotto o diciannove secoli fa respirasse ancora nel fiato di chi se ne dichiara interprete ufficiale.
Joseph Ratzinger lo sa bene e perciò ha messo le mani avanti da subito. Sapeva che avrebbe potuto imbrogliare – come ha imbrogliato, per quanto il credulone vorrà concedergli – sul processo e sulla morte, ma sapeva che stavolta l’“anticipo di simpatia” doveva essere enorme e ha ricordato che senza la fede nella resurrezione il crocifisso è solo un povero cristo.
Nei post che seguiranno a commento del Gesù di Nazaret vol. II lascerò da parte questa risibile richiesta: la pazzia di credere che un morto resusciti rimane tale anche davanti a un miliardo e dispari di pazzi che affermano sia accaduto. Mi limiterò al resto, perché intrattenermi sugli argomenti in favore dell’avvenuta resurrezione di un morto che un teologo pensa di poter dimostrare nella Scrittura con l’unica possibile lettura – quella teologica – è davvero troppo.