giovedì 17 marzo 2011

È qui la festa?


Cavour era un grandissimo scopatore”, ma “circolava voce che Mazzini fosse impotente (Bruno Vespa - Panorama, 5.11.2010).


mercoledì 16 marzo 2011

[...]



“Sono favorevole alla costruzione di una sola centrale nucleare, di prima generazione e copertura in Eternit. Queste le coordinate del sito: 41 54 N, 12 27 E”




[*] Ma è attribuzione controversa, con precedenza cronologica per Librescamente.



Con una straordinaria faccia di culo


Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia cadrà il 20 settembre 2020, perché l’Italia si potrà dire unita solo dopo la breccia di Porta Pia. Il 17 marzo 1861 ci fu la proclamazione del Regno d’Italia, che a stretto rigor di logica si è potuta festeggiare solo fino al 1946, quando un referendum popolare sostituì il Regno con la Repubblica. Domani si festeggia il 150° anniversario di un grande passo verso l’Unità d’Italia, certo, che però sarà realizzata solo con l’annessione di Roma. L’Italia potrà dirsi unita solo quando Roma sarà strappata al Papa, e forse potrebbe dirsi ancora più unita di quello che è, perché non lo è del tutto, se gli fosse stata strappata interamente.
Ben vengano i festeggiamenti, dunque, ma avendo ben chiaro che dal 1861 al 1870 all’Italia mancava ancora un pezzo per dirsi veramente unita, e forse quello più importante, per il suo valore simbolico e per il fatto che restava ancora in mano al più strenuo oppositore dell’Unità d’Italia.
L’errore più grosso compiuto dai nostri padri fondatori fu quello di non sfrattare Pio IX dal Palazzo Apostolico, di lasciare che Roma fosse una doppia capitale, di consentire ai cattolici una doppia cittadinanza e una deroga permanente al dovere di essere leali verso lo Stato, per una superiore lealtà, tutta obbedienza, al capo di una confessione religiosa che a pieno titolo, col Concordato del 1929, sarebbe diventato un capo di Stato estero. Se le cose andarono più o meno bene fino a quando il Papa vietò loro di partecipare alla vita politica, tutto precipitò quando capì che poteva usarli per parassitare i gangli vitali della società e questo fu l’inizio della fine, cioè la fine di una compiuta laicità dello Stato.
In breve, la rete diocesana finì per sovrapporsi alle articolazioni dello Stato, duplicandone le funzioni e, quando possibile, vicariandole, addirittura sostituendole, mentre tenuti a scendere in politica con già come comuni cittadini, ma come cattolici, i più fidati uomini del Papa se ne facevano strumento, forti del consenso di masse superstiziose e ignoranti.
Sarebbe venuto il momento di poter perfino stravolgere la verità storica, ed ecco che ci siamo.

Con una straordinaria faccia di culo, in un messaggio indirizzato al Presidente della Repubblica, Benedetto XVI si concede il lusso di riscrivere la storia, certo che nessuno leverà voce per dargli del bugiardo: “Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento – scrive – costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale”.
Conta niente il fatto che fin dal Medioevo fu proprio il Papato ad essere il più acerrimo nemico dell’unità nazionale? Oggi, no. Oggi, Pio IX va a braccetto con Garibaldi e Benedetto XVI si sente autorizzato a dire che “anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé”. Sarà stato per saggiare la forza di questa identità che i pontefici non hanno mai esitato a chiedere aiuto a potenze straniere, sempre cattolicissime, per soffocare ogni tentativo di unificazione e lasciare frammentata la penisola?
“Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse – aggiunge Sua Santità – il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al cattolicesimo, talora anche alla religione in generale”. Patente reticenza, perché in realtà queste ragioni non sono affatto complesse: nella Chiesa il Risorgimento combatteva l’ostacolo più grosso all’Unità d’Italia. Con una straordinaria faccia di culo, invece, Benedetto XVI glissa e dice: “Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse [troppa grazia, Santità, troppa grazia!] non si può sottacere l’apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario”. Dimentica di aggiungere che questi cattolici furono quasi tutti scomunicati e le loro opere messe all’Indice.
E aggiunge: “La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico”, ma dimentica di dire che per questo furono trattati come miscredenti. “Questo processo – dice – ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di Questione Romana, suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale Conciliazione, nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto”.
E allora che senso si può dare al non expedit di Pio IX? “Anche negli anni della dilacerazione – dice Benedetto XVI – i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese”. Certo, ma beccandosi le maledizioni di un Papa al quale faceva comodo dichiararsi prigioniero agli arresti domiciliari.
Tali e tante bugie che il messaggio gli andrebbe rispedito indietro come irricevibile. In un punto è perfino offensivo: “La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa”, e anche qui la complessità sta per l’ostinazione a non volersi rassegnare alla perdita del potere temporale, ma figuriamoci se si può toccare il nervo scoperto. Lenire, lenire: “La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema”, aggiunge, ma stavolta neanche un cenno all’Uomo della Provvidenza che la favorì.

Conclusioni: “Nel guardare al lungo divenire della storia, bisogna riconoscere che la nazione italiana ha sempre avvertito l’onere ma al tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma, la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità. E la comunità nazionale ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la realizzazione delle condizioni favorevoli all’esercizio del ministero spirituale nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Passate le turbolenze causate dalla Questione Romana, giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata”.
Qui, con una straordinaria faccia di culo, è apposta una benedizione.


Il registro


Il cattodandy ama essere stuzzicato da argomenti sottili, da una logica ardita che sappia fare slalom tra ironia e paradosso, e va pazzo per quell’argomentare a lingua di Menelicche che, insieme al resto, trova su Il Foglio. Un’altra cosa è il tizio che, aspettando il commissario Moltalbano, lascia scorrere Minzolini e Ferrara, digerendo i suoi bravi quattro salti in padella. Qui non è opportuno prodursi in invettive contro le ragazzine che portano i jeans a vita bassa, come per curiosissima coincidenza accadde giusto un anno fa, il 15 marzo 2010, su Il Foglio. Qui è meglio invitare alla tolleranza e prendere le difese della povera Ruby, che è stata contestata al suo show di Maglie e, passatemi l’iperbole farfallina, è stata lapidata. Ci vuol poco a convincere lo spettatore che portasse un jeans a vita alta.


martedì 15 marzo 2011

La tragedia di un uomo ridicolo



Fare due ore di anticamera per essere ricevuti da Sua Eminenza che ti ha mandato a chiamare per farti una lavata di testa, passi. Sei un politico italiano, l’Italia è quella merda di paese che rappresenti al meglio, tutto è nell’ordine delle cose: corri, aspetta, prenditi il cazziatone di Sua Eminenza e torna alle tue abituali occupazioni. Ma essere trattato a pesci in faccia da uno dei suoi lacchè, che dopo averti fatto tanto attendere ti annuncia che c’è stato un contrattempo, non puoi essere ricevuto, ma sei avvisato, riga dritto, sennò sarai appeso per le palle al campanone, be’, dovresti andare a casa, farti sputare in faccia dai tuoi figli e appenderti da solo ad una trave. Per il collo, non per le palle: a cercarle non è detto che le trovi.
Povero Sandrino, ultimamente non gliene va bene una. Qui, per esempio, s’era permesso solo di avanzare “una riflessione onesta e costruttiva”, niente di che, peraltro non voleva dare il cattivo esempio, tanto meno aveva intenzione di sgarrare. Eccolo qui, è pronto a spiegare, aspetta solo che la porta s’apra… E la porta s’apre, dallo studio di Sua Eminenza esce un tizio, un po’ meno che portavoce e un po’ più che sagrestano. Non dubitiamo affatto – dice – che ci fosse cattiva intenzione, ci mancherebbe altro, ma le auguriamo che non capiti mai più, per il suo bene. Bisogna rialzare l’argine, vada. E il povero Sandrino va.


O vogliamo parlare di “rientro” demografico?


Tra 40 anni – forse anche meno – si spenderà più energia per estrarre greggio di quanta se ne potrà ricavare, e in pratica si potrà dire: “È finito il petrolio”. Potrebbero volercene altri 120 – secondo alcuni, ce ne vorranno dai 150 ai 200 – ma lo stesso discorso varrà pure per il combustibile nucleare.
Fonti energetiche alternative non mancano, ma anche chi pensa che il solo futuro possibile sia nel loro impiego ammette che non basterebbero a colmare il fabbisogno mondiale, non con questo indice di crescita della popolazione (tra meno di 50 anni saremo più di 10 miliardi), non con gli odierni standard di consumo pro-capite: non è un caso, infatti, che quasi tutti i paladini di sole, vento & biomasse abbiano un’idea di mondo diversa da quello che è, e ne vorrebbero uno meno affollato e dai più parchi bisogni.
Ma siamo in grado di pianificare un “rientro” demografico? Macché, neanche lo vogliamo. Riteniamo che il solo pensarlo sia un crimine contro Dio, perché il mondo è pieno di gente che ci crede, o contro la natura, che neanche sappiamo bene cosa sia, ma è certo che sia pure terremoti, maremoti, carestie, epidemie, ecc.
Non se ne parla: dobbiamo calcolare che saremo più di 10 miliardi tra meno di 50 anni, quando il petrolio sarà finito da almeno 10. Per allora sarà difficile convincere gli umani a più parchi bisogni, ma in qualche modo si dovrà farlo, non fosse altro che per l’aumento del costo dell’energia a fronte di un aumento della domanda. Potrebbe essere necessario l’uso della violenza fisica o almeno di quella psicologica, giocoforza.

Non è la soluzione definitiva, ma cos’altro ci consente di allontanare il più possibile uno scenario del genere? L’energia nucleare. Non è la soluzione definitiva e non è neanche una soluzione facile. Meno che mai adesso, con le notizie che arrivano da Fukushima. Ma non c’è altra via. O vogliamo parlare di “rientro” demografico?
È che, avendo bisogni tutt’altro che parchi, essendo abituati a poterli soddisfare a un costo relativamente basso, ci pare di aver diritto a inesauribile energia in assoluta sicurezza. In questo senso, il no al nucleare è isterico prima che ideologico.
Ci saremo costretti, non c’è altro da fare. Tanto vale concentrarsi sul farlo bene, ma coscienti che niente si ha per niente.



lunedì 14 marzo 2011

Nello spazio che fu di Max & Tux


scorci di cinismo rivelatore...
intrecci di motti spiritosi...
 cumulo di avvenimenti sbrigati in fretta...
personaggi spinti da destra a sinistra in due minuti...
pantomime satiriche istruttive...
caricature del dolore e della nostalgia…”

Manifesto futurista del teatro di varietà


Dovendo tirare le somme di tutto ciò che ho letto in giro sul ritorno di Ferrara in tv, mi pare di poter dire che l’attesa c’è, ed è dello stesso tipo che c’era in Piazza Maggiore, a Bologna, dove il nostro avrebbe dovuto tenere un comizio per la sua Lista «Aborto? No, grazie!», il 2 aprile del 2008. Anche stavolta, insomma, la piazza sembra pronta al lancio di insulti e pomodori, e il nostro sembra pronto ad eccitarla, già eccitato al solo pensiero di poterla provocare, come la piazza si aspetta.
Si dice che Marinetti fosse solito ingaggiare dei claqueur perché disturbassero le sue recite facendolo bersaglio di uova marce e scarponi, ma Ferrara è più furbo e sa come procurarsi a gratis l’atmosfera. Provocazione artistica o politica? In arte e in politica è lo stesso, il provocatore sa catturare il tipo di attenzione che vuole, e agisce come un terrorista, e conosce bene il modo di ottenere le reazioni volute. E non c’è alcun dubbio: leggendo le interviste concesse da Ferrara e i commenti alla vigilia della sua première nello spazio che fu di Max & Tux, il pubblico è caldo come occorre allo spettacolo. Probabilmente sarà proprio come nel varietà futurista: scorci di cinismo rivelatori, intrecci di motti spiritosi, ecc.



Come una botta di culo dentro l’altra


Mai più un colpo di stato come quello effettuato dalle “toghe rosse” tra il ’92 e il ’93, questo è il fine dichiarato della epocale riforma della giustizia che preme tanto a questo governo. E sia ripristinato il primato della politica, com’era nella Prima Repubblica, spazzata via da una magistratura politicizzata che si sostituì alla volontà popolare, coartandola. Povero Craxi, povera Dc, parrebbe che Berlusconi voglia vendicarli.
Poi, ospite di Lucia Annunziata, ieri, su Raitre, Angelino Alfano si lascia andare: “La nuova classe dirigente di questo paese non ci sarebbe – dice – se non ci fosse stata [la stagione di Mani pulite]. Quindi io non ho recriminazioni per quell’epoca storica. Anche a titolo personale” (In ½ h, 13.3.2011 – 00:10.50-00:10:57). Sgusciato dal baccello: “Se la procura di Milano non avesse spazzato via la vecchia classe dirigente – quella che a Palazzo Piacentini ci metteva un Gullo, un Gonella, un Reale, un Rognoni, un Vassalli, un Conso – col cazzo che sarei Guardasigilli!”. Sottinteso, ma neanche tanto: “Il berlusconismo deve tutto a Mani Pulite”.
E ti rendi conto che ha ragione: Berlusconi starebbe ancora a scodinzolare dietro a Craxi. Bacerebbe la mano a lui, non a Gheddafi.  E allora, sì, tutto mi torna: i leghisti e i missini erano giustizialisti, la Fininvest cavalcò Mani pulite e Berlusconi offrì a Di Pietro un ministero, proprio quello della Giustizia, ancora nel febbraio 1994... Senza il colpo di stato delle “toghe rosse” sarebbe ancora un cliente, grazie a quel colpo di stato è diventato padrone.

Aspetta, dove l’ho letto? “L’uscita da campo di Berlusconi sarebbe come il fallimento di una grossa azienda i cui dipendenti non godrebbero di nessuna cassa integrazione. Non parlo della Fininvest, ovviamente. Lei ha mai contato quante centinaia e centinaia di persone Berlusconi ha tratto dal nulla e che nel nulla ritornerebbero nella ferale eventualità che il loro principale uscisse di scena? Che farebbero, sono i primi nomi che mi vengono in mente, i ministri Gelmini, Alfano, Bondi, Carfagna? E le centinaia di onorevoli e senatori, eletti come tanti cavalli di Caligola, che tornerebbero a non essere nessuno? E la cerchia di quelli che si sono salvati dalle patrie galere perché Berlusconi li ha fatti eleggere?” (Andrea Camilleri/Saverio Lodato, Di testa nostra, Chiarelettere 2010).
Ecco. Il tenero Angelino sta dentro a una matrioska, come una botta di culo dentro l’altra.

[...]




“Berlusconi mi ha detto: «Lei non è un uomo Rai»”

Giuliano Ferrara – la Repubblica, 1.2.1989

 

Blogger fin dal 1963


Ricordo ancora – con una certa commozione – il primo post della mia vita, era il riassuntino di una discussione tra mio padre e un suo amico, al bar, sulla scomunica che Fidel Castro s’era beccato da Giovanni XXIII, l’anno prima. Adesso, quando Bertone plana a L’Avana, i barbudos lo accolgono con un bel pompino e lui ricambia con quel suo bel sorriso di cernia. Per dire di come il tempo scompiglia le chiome alle bambole che Sisifo non si stanca di ripettinare.


domenica 13 marzo 2011

La cosa atroce è che a due così, invece, sia concesso allevare figli








 

The Sound of Silence


Telecom, Farnesina, Bisignani, Baccini, Letta... La trama è intricata e in molti punti oscuri, comunque l’articolo era su Il Fatto Quotidiano di ieri e lo trovate qui, provate voi a raccapezzarvi sul raccapezzabile, se siete cultori del genere. Il poco che sono riuscito ad afferrare io è che un facoltoso imprenditore argentino, Matlas Garfunkel Madanes, dispone un bonifico da 5 milioni di dollari in favore de Il Velino in data 7 maggio 2010, quando la società editrice dell’agenzia di stampa (Impronta srl) è ancora nelle mani di Luca Simoni, amministratore delegato, e di Daniele Capezzone, direttore editoriale. Chissà che proprio lui, il facondissimo Daniele, non possa darci lumi. Trattandosi però di Simoni e Garfunkel, c’è da aspettarsi la cover di The Sound of Silence.


Il Premio «Stronzo d’Oro» di questa settimana...



Dopo uno strenuo testa a testa con un articolo di Fabrizio Cicchitto su il Giornale di venerdì, il Premio «Stronzo d’Oro» di questa settimana va a quel capolavoro di menzogna e ipocrisia che ieri apriva Avvenire.



sabato 12 marzo 2011

[...]




Ansa, 12.3.2011


- Mondo -
Terremoto di magnitudo 8,9.
Ha spostato l’asse terrestre.
Piegata antenna Tokyo Tower.
Capitale paralizzata.
Crollate dighe.
Onde anomale in tutto il Pacifico.
Incendi ed esplosioni anche in raffinerie.
No vittime italiane.



L’asse terrestre si sposta di dieci centimetri, un oceano è scassato da maremoti, e noi – qui – “no vittime italiane”. Probabilmente è completezza di informazione.


Aperitivo prima del polpettone


Joseph Ratzinger non è il primo e non sarà l’ultimo teologo a indossare i panni del biblista. Non è solo una questione personale, non si tratta solamente dell’umana aspirazione a evadere dalle proprie competenze per provarsi in altri campi. È che da sempre, da quando il cristianesimo s’è costruito in sistema, alla teologia è andato il compito di sorvegliare il resto, pronta a intervenire, spesso in modo risoluto, non di rado anche cruento, su quanto mettesse a rischio l’unità del tutto.
La minaccia derivante dallo studio della Bibbia è una preoccupazione costante della teologia, se si pensa al fatto che per secoli fu vietato accostarvisi senza la mediazione di un chierico, basti pensare al fatto che uno dei punti più drammatici sui quali si consumò lo scisma luterano fu la traduzione della Scrittura in lingua volgare e la sua diffusione a mezzo stampa, basti pensare al fatto che il modernismo mosse i suoi passi dalle ricerche storiche e dagli studi filologici sul cristianesimo delle origini. E il modernismo ha perso, ma ha provocato un altro scisma, anche se sommerso.

Non è soltanto la voglia di cimentarsi in un campo che non è mai stato suo, dunque, a muovere un teologo come Joseph Ratzinger a una prova come il suo Gesù di Nazaret, oggi al secondo volume, ma è l’esigenza di riaffermare il primato della lettura teologica su quella storico-critica, come peraltro è in manifesto con la Verbum Domini che seguì al Sinodo della Parola del 2008.
Dietro i modi miti di chi quasi si scusa per l’aver messo mano a una materia che non è sua, chiedendo un “anticipo di simpatia” verso il “suo” Gesù, c’è il teologo diventato pontefice che pretende una lettura dei vangeli sotto il vincolo della retta fede che sarebbe sola garanzia di retta interpretazione. Può esser troppo anche per chi è cattolico, perché il cattolicesimo si è un poco protestantizzato dal Concilio Vaticano II in poi, ma è più di troppo per chi non è cattolico, ed è pretesa folle per chi non è credente e al testo si accosta rifiutando soluzioni di lettura non argomentate dalla ragione, ancor più se si pretende che le incrostazioni depositatesi sul testo nei secoli di monopolio esegetico vengano considerate parti integranti dello stesso, come se l’autore della parola scritta diciotto o diciannove secoli fa respirasse ancora nel fiato di chi se ne dichiara interprete ufficiale.

Joseph Ratzinger lo sa bene e perciò ha messo le mani avanti da subito. Sapeva che avrebbe potuto imbrogliare – come ha imbrogliato, per quanto il credulone vorrà concedergli – sul processo e sulla morte, ma sapeva che stavolta l’“anticipo di simpatia” doveva essere enorme e ha ricordato che senza la fede nella resurrezione il crocifisso è solo un povero cristo.
Nei post che seguiranno a commento del Gesù di Nazaret vol. II lascerò da parte questa risibile richiesta: la pazzia di credere che un morto resusciti rimane tale anche davanti a un miliardo e dispari di pazzi che affermano sia accaduto. Mi limiterò al resto, perché intrattenermi sugli argomenti in favore dell’avvenuta resurrezione di un morto che un teologo pensa di poter dimostrare nella Scrittura con l’unica possibile lettura – quella teologica – è davvero troppo.


venerdì 11 marzo 2011

Il Pd non ha futuro





Riforma della Giustizia / 1



“Ordinamento giudiziario: (1) Unità del Pm (a norma della Costituzione - articoli 107 e 112
ove il Pm è distinto dai giudici); (2) Responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento
sull’operato del Pm (modifica costituzionale); […] (4) Riforma del Consiglio superiore
della magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento
(modifica costituzionale); (5) [...] Separare le carriere requirente e giudicante”
Licio Gelli, Piano di Rinascita Democratica, 1981 (?)

“Costruire nel paese le condizioni di un ricambio basato sulla ragion politica”
Giuliano Ferrara, Il Foglio, 11.3.2011
 
Vediamo di cosa si tratta.

L’art. 87 della Costituzione (Titolo II – Il Presidente della Repubblica) recita al comma decimo: “Il Presidente della Repubblica […] presiede il Consiglio superiore della magistratura…”. Qui l’art. 1 del testo di riforma presentato ieri dal Governo aggiunge: “… giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente”.
È fatta la cosiddetta “separazione delle carriere”.

Al comma secondo dell’art. 101 della Costituzione si legge: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Qui l’art. 2 del testo di riforma riscrive: “I giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono soggetti soltanto alla legge”, incorporando il primo comma dell’art. 104: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, levando “altro”, ma senza sostanziale variazione del senso. Almeno così pare.

Così parrebbe anche per l’art. 4 che corregge il comma primo dell’art. 102 (“La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”) che riscrive “giurisdizione” al posto di “funzione giurisdizionale”. Dato quanto alla voluta “separazione delle carriere”, la correzione sembra possa avere un suo senso.

L’art. 5 del testo di riforma riscrive l’art. 104 della Costituzione in funzione di questa separazione tra “giudici e pubblici ministeri”, mentre l’art. 6 e l’art. 7 vi aggiungono quanto ne consegue per i due distinti Consigli superiori della magistratura, quello giudicante e quello requirente, che, come abbiamo visto all’art. 1, sono entrambi sono presieduti dal Presidente della Repubblica.

L’art. 6 apporta una significativa modifica nella composizione del Consiglio superiore della magistratura giudicante, i cui componenti verrebbero ad essere “eletti per metà da tutti i giudici ordinari tra gli appartenenti alla medesima categoria previo sorteggio degli eleggibili e per metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”, mentre il Vicepresidente dovrebbe essere scelto “tra i componenti designati dal Parlamento”.
Anche qui, com’è nel testo della Costituzione, “i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono rieleggibili”, ma c’è una piccola variazione perché l’art. 104, al comma sesto, recita che “non sono immediatamente rieleggibili”.

L’art. 7, invece, norma la composizione del Consiglio superiore della magistratura requirente, i cui membri dovrebbero “eletti per metà da tutti i pubblici ministeri tra gli appartenenti alla medesima categoria previo sorteggio degli eleggibili e per metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. Anche qui il Vicepresidente dovrebbe essere scelto “tra i componenti designati dal Parlamento”, anche qui salta l’“immediatamente” relativo alla loro non rieleggibilità.

L’art. 8 del testo di riforma adegua l’art. 105 della Costituzione alla “separazione delle carriere” per quanto attiene all’autogoverno. Dove la Carta attualmente recita che “spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”, è fatta adeguata distinzione tra Consiglio superiore della magistratura giudicante e al Consiglio superiore della magistratura requirente.

Così è pure per l’art. 9 che separa in due la Corte di disciplina della magistratura. Anche qui è assunto il criterio che vuole “i componenti di ciascuna sezione […] eletti per metà dal Parlamento in seduta comune e per metà rispettivamente da tutti i giudici e i pubblici ministeri”, con un Presidente e un Vicepresidente che devono essere entrambi eletti “tra i componenti designati dal Parlamento”.

Siamo giusto a metà del testo di riforma, che è composto di 18 articoli, e forse già possiamo fare qualche considerazione.
Il Governo non si limita a separare le carriere, ma mette i duplicati del Consiglio superiore della magistratura e della Corte di disciplina della magistratura in un nuovo rapporto col Parlamento, che è d’ordine quantitativo e qualitativo. È riaffermata l’autonomia e l’indipendenza della magistratura così separata in due, ma il rapporto di subordine della Giustizia alla Politica è fortemente accentuato, anche se indirettamente, attraverso una ridefinizione degli organi di autogoverno e di controllo disciplinare. Se qui facciamo un salto all’art. 15 che intende modificare l’art. 112 della Costituzione (“Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”), aggiungendovi “secondo i criteri stabiliti dalla legge”, pare chiara l’intenzione di mettere la Giustizia al guinzaglio della Politica. D’altra parte, come vedremo più avanti, in almeno altri due punti, le prerogative della magistratura vengono a trovarsi condizionate dai “criteri stabiliti dalla legge”, cioè dal legislatore, cioè dalla Politica. L’erosione dell’autonomia e dell’indipendenza della Giustizia non è dichiarata come fine ultimo della riforma, ma è evidente che sia nel suo intento.
C’è da aspettarsi forti resistenze a questo disegno.


[segue]

giovedì 10 marzo 2011

Saviano non racconta balle


«Nel luglio del 1883 il filosofo Benedetto Croce si trovava in vacanza con la famiglia a Casamicciola, a Ischia. Era un ragazzo di diciassette anni. Era a tavola per la cena con la mamma, la sorella e il padre e si accingeva a prendere posto. A un tratto, come alleggerito, vide suo padre ondeggiare e subito sprofondare sul pavimento, mentre sua sorella schizzava in alto verso il tetto. Terrorizzato, cercò con lo sguardo la madre e la raggiunse sul balcone, da cui insieme precipitarono. Svenne e rimase sepolto fino al collo nelle macerie. Per molte ore il padre gli parlò, prima di spegnersi. Gli disse: «Offri centomila lire a chi ti salva». Benedetto sarà l’unico supersite della sua famiglia massacrata dal terremoto” (Roberto Saviano, Vieni via con me, Feltrinelli 2011 – pag. 7).

Non era la prima volta che Roberto Saviano raccontava questo episodio della vita di Benedetto Croce, l’aveva già fatto il 14 aprile 2009 su la Repubblica, e naturalmente nel corso di uno dei monologhi andati in onda su Raitre (Il terremoto a L’Aquila), poi raccolti nel volume della Feltrinelli , e sempre attribuendo al padre del filosofo la frase che solo lo scorso 8 marzo gli viene contestata da Marta Herling, nipote di Benedetto Croce, con una lettera al Corriere del Mezzogiorno:

“Da dove l’autore di «Gomorra» ha tratto la ricostruzione di quella tragedia? Dalla sua mente di profeta del passato e del futuro, di scrittore la cui celebrità meritata con la sua opera prima, è stata trascinata dall’onda mediatica e del mercato editoriale, al quale è concesso di non verificare la corrispondenza fra le parole e fatti, o come insegnano gli storici, fra il racconto, la narrazione degli eventi, e le fonti, i documenti che ne sono diretta testimonianza. […] Dove Saviano ha orecchiato la storia che racconta nell’incipit del suo monologo? Certo non dalla lettura del testo del suo protagonista principale poiché sopravvissuto, testo che si è tramandato intatto senza una parola in più di commento o di spiegazione, nella nostra memoria famigliare e nelle biografie del filosofo, che lo riportano a illustrare quella pagina tragica della vita sua e dei suoi cari”.

E qui la signora fa seguire il passo relativo ai fatti del luglio 1883 tratto da Memorie della mia vita (Istituto italiano per gli studi storici, 1966), nel quale senza dubbio non v’è traccia di quell’«offri centomila lire a chi ti salva». E dunque Saviano racconta balle? No, tutt’altro.
Il 13 aprile 1950 usciva su Oggi una lunga intervista al filosofo, raccolta da Ugo Pirro, che così scriveva:

“Nel disastro restò sepolta anche la famiglia Croce, compreso Benedetto. La madre e la sorella Maria furono inghiottite dalle macerie, il padre invece perì dopo lunghe sofferenze aspettando invano soccorso, ad un passo da Benedetto che nulla poteva fare perché incastrato con tutto il corpo dalle macerie della casa. Il giovane fu estratto con una gamba fracassata e un braccio ferito. Benedetto fu tra gli ultimi feriti ad essere trasportato a Napoli, le sue condizioni non destavano soverchie preoccupazioni. Un cronista, girando fra le corsie degli ospedali napoletani, lo intervistò e così riferì ciò che il giovane Croce raccontò di quella terribile notte: «Ieri fu trasportato a Napoli anche il figliuolo primogenito del comm. Croce; egli è gravemente ferito a una gamba e ad un braccio. Perirono il comm. Croce, la moglie e una figlioletta. Il giovinetto superstite di questa ricchissima famiglia foggiana, stabilita da lunghi anni a Napoli, conserva una memoria precisa dell’accaduto. La madre e la sorella sparirono nel vortice del crollamento, né si udì di loro alcuna voce. Egli, che era seduto ad un tavolino insieme col padre, precipitò. Il padre fu coperto tutto dalle macerie, ma parlò dalle nove e mezzo del sabato fino alle undici antimeridiane della domenica successiva. Benedetto era sepolto fino al collo nelle pietre, aveva però il capo fuori di esse. Il giovinetto fu estratto dalle rovine verso mezzogiorno, poco prima che il padre avesse cessato di parlare. Si racconta che con gran senso pratico dicesse al figlio ‘offri centomila lire a chi ti salva’»”.

Alla pubblicazione dell’intervista il filosofo non sollevò obiezioni, ma sua nipote ha da ridire ben 61 anni dopo.


Saggezza di Formica


“Occorre che la maggioranza parlamentare presenti in Parlamento il suo progetto di legge costituzionale già anticipato nel programma elettorale”, così Rino Formica (Il Foglio, 10.3.2011). È un invito a rileggere quel programma, al punto che riguarda la giustizia:

“Perfezionamento dell’azione intrapresa nella legislatura 2001/2006 dal Governo Berlusconi, con il completamento della riforma dei codici, la definitiva razionalizzazione delle leggi esistenti e l’attuazione dei principi enunciati dalle sentenze della Corte Costituzionale, non ancora trasposti in atti legislativi”.
Sono passati quasi tre anni, e a che punto siamo?

“Attuazione dei principi costituzionali del giusto processo per una maggiore tutela delle vittime e degli indagati”.
Col processo breve, quale tutela sarebbe garantita alle vittime?

“Aumento delle risorse per la giustizia, con un nuovo programma di priorità nell’allocazione delle risorse: più razionalità nelle spese, più investimenti nell’amministrazione della giustizia quotidiana, a partire dalla giustizia civile”.
Non ci sono stati solo tagli?

“Garanzia della certezza della pena, con la previsione che i condannati con sentenza definitiva scontino effettivamente la pena inflitta ed esclusione degli sconti di pena per i recidivi e per chi abbia commesso reati di particolare gravità e di allarme sociale”.
Ammesso che sia un segmento della soluzione ai problemi della nostra giustizia, che si è fatto?

“Inasprimento delle pene per i reati di violenza sui minori e sulle donne; gratuito patrocinio a favore delle vittime; istituzione del Tribunale della famiglia, per garantire i diritti fondamentali dei componenti del nucleo familiare”.
Qui si è fatto qualcosa, sì, ma nulla che possa definirsi riforma costituzionale.

“Costruzione di nuove carceri e ristrutturazione di quelle esistenti”.
Evitiamo di entrare in argomento.

“Rafforzamento della distinzione delle funzioni nella magistratura, come avviene in tutti i paesi europei; confronto con gli operatori della giustizia per una riforma di ancor maggiore garanzia per i cittadini, che riconsideri l’organizzazione della magistratura, in attuazione dei principi costituzionali”.
Principi rigidissimi che rendono necessaria una riforma costituzionale per introdurre le modifiche volute dal centrodestra: non di attuazione, dunque, si deve parlare, ma di revoca. Siamo al fuori programma.

“Limitazione dell’uso delle intercettazioni telefoniche e ambientali al contrasto dei reati più gravi; divieto della diffusione e della pubblicazione delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, con pesanti sanzioni a carico di tutti coloro che concorrono alla diffusione e pubblicazione”.
Si è tentato, giusto cielo, si è tentato. Ma pur con così larga maggioranza, poco o niente.

“Riforma della normativa anche costituzionale in tema di responsabilità penale, civile e disciplinare dei magistrati, al fine di aumentare le garanzie per i cittadini”.
Campa cavallo.

“Completamento della riforma del Codice di Procedura Civile con snellimento dei tempi di definizione ed incentivi alle procedure extra giudiziali”.
Aggiornatemi sul punto, ne so poco: che si è fatto?