Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia cadrà il 20 settembre 2020, perché l’Italia si potrà dire unita solo dopo la breccia di Porta Pia. Il 17 marzo 1861 ci fu la proclamazione del Regno d’Italia, che a stretto rigor di logica si è potuta festeggiare solo fino al 1946, quando un referendum popolare sostituì il Regno con la Repubblica. Domani si festeggia il 150° anniversario di un grande passo verso l’Unità d’Italia, certo, che però sarà realizzata solo con l’annessione di Roma. L’Italia potrà dirsi unita solo quando Roma sarà strappata al Papa, e forse potrebbe dirsi ancora più unita di quello che è, perché non lo è del tutto, se gli fosse stata strappata interamente.
Ben vengano i festeggiamenti, dunque, ma avendo ben chiaro che dal 1861 al 1870 all’Italia mancava ancora un pezzo per dirsi veramente unita, e forse quello più importante, per il suo valore simbolico e per il fatto che restava ancora in mano al più strenuo oppositore dell’Unità d’Italia.
L’errore più grosso compiuto dai nostri padri fondatori fu quello di non sfrattare Pio IX dal Palazzo Apostolico, di lasciare che Roma fosse una doppia capitale, di consentire ai cattolici una doppia cittadinanza e una deroga permanente al dovere di essere leali verso lo Stato, per una superiore lealtà, tutta obbedienza, al capo di una confessione religiosa che a pieno titolo, col Concordato del 1929, sarebbe diventato un capo di Stato estero. Se le cose andarono più o meno bene fino a quando il Papa vietò loro di partecipare alla vita politica, tutto precipitò quando capì che poteva usarli per parassitare i gangli vitali della società e questo fu l’inizio della fine, cioè la fine di una compiuta laicità dello Stato.
In breve, la rete diocesana finì per sovrapporsi alle articolazioni dello Stato, duplicandone le funzioni e, quando possibile, vicariandole, addirittura sostituendole, mentre tenuti a scendere in politica con già come comuni cittadini, ma come cattolici, i più fidati uomini del Papa se ne facevano strumento, forti del consenso di masse superstiziose e ignoranti.
Sarebbe venuto il momento di poter perfino stravolgere la verità storica, ed ecco che ci siamo.
Con una straordinaria faccia di culo, in un messaggio indirizzato al Presidente della Repubblica, Benedetto XVI si concede il lusso di riscrivere la storia, certo che nessuno leverà voce per dargli del bugiardo: “Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento – scrive – costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale”.
Conta niente il fatto che fin dal Medioevo fu proprio il Papato ad essere il più acerrimo nemico dell’unità nazionale? Oggi, no. Oggi, Pio IX va a braccetto con Garibaldi e Benedetto XVI si sente autorizzato a dire che “anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé”. Sarà stato per saggiare la forza di questa identità che i pontefici non hanno mai esitato a chiedere aiuto a potenze straniere, sempre cattolicissime, per soffocare ogni tentativo di unificazione e lasciare frammentata la penisola?
“Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse – aggiunge Sua Santità – il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al cattolicesimo, talora anche alla religione in generale”. Patente reticenza, perché in realtà queste ragioni non sono affatto complesse: nella Chiesa il Risorgimento combatteva l’ostacolo più grosso all’Unità d’Italia. Con una straordinaria faccia di culo, invece, Benedetto XVI glissa e dice: “Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse [troppa grazia, Santità, troppa grazia!] non si può sottacere l’apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario”. Dimentica di aggiungere che questi cattolici furono quasi tutti scomunicati e le loro opere messe all’Indice.
E aggiunge: “La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico”, ma dimentica di dire che per questo furono trattati come miscredenti. “Questo processo – dice – ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di Questione Romana, suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale Conciliazione, nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto”.
E allora che senso si può dare al non expedit di Pio IX? “Anche negli anni della dilacerazione – dice Benedetto XVI – i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese”. Certo, ma beccandosi le maledizioni di un Papa al quale faceva comodo dichiararsi prigioniero agli arresti domiciliari.
Tali e tante bugie che il messaggio gli andrebbe rispedito indietro come irricevibile. In un punto è perfino offensivo: “La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa”, e anche qui la complessità sta per l’ostinazione a non volersi rassegnare alla perdita del potere temporale, ma figuriamoci se si può toccare il nervo scoperto. Lenire, lenire: “La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema”, aggiunge, ma stavolta neanche un cenno all’Uomo della Provvidenza che la favorì.
Conclusioni: “Nel guardare al lungo divenire della storia, bisogna riconoscere che la nazione italiana ha sempre avvertito l’onere ma al tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma, la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità. E la comunità nazionale ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la realizzazione delle condizioni favorevoli all’esercizio del ministero spirituale nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Passate le turbolenze causate dalla Questione Romana, giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata”.
Qui, con una straordinaria faccia di culo, è apposta una benedizione.