mercoledì 23 marzo 2011

Senza carità né misericordia


Su L’Osservatore Romano di domani troverete un articolo di Luca Possati, che dà il meglio di sé nella ricerca di rinascenze cristiane nel pop post-moderno, e il meglio del meglio lo dà quando pensa di averle trovate, come quella volta – ne ho già scritto – che gli parve che «Homer e Bart sono cattolici» In quell’occasione non gli andò benissimo: il produttore esecutivo di The Simpson smentì seccamente, e l’autore del saggio di cui l’articolo era una recensione si affrettò a precisare: “Non ho mai detto che Homer e Bart siano cattolici”.
Può darsi che io sia troppo severo, ma penso che la prima figura di merda sia tutta di chi firma l’articolo, ma la seconda vada equamente divisa col direttore che continua a pubblicarlo, e che la terza, nel caso, vada tutta intera all’editore che non licenzia il direttore. Ma è regola senza carità né misericordia, che invece sono i pilastri sui quali poggia la carriera di ogni avanzo di sagrestia.


Lasciate in pace la Daniela, si tratta solo di un banale refuso




 
dedicato a Daniele Luttazzi

martedì 22 marzo 2011

TIMES




Il labirinto gay

Stefano è inconsapevole vittima dello “strategismo sentimentale”.

Mendelssohn


La puntata di Qui Radio Londra andata in onda stasera meriterebbe mezza dozzina di post: uno sull’uso strumentale del caso Tortora, uno sulla tagliola preparata a Santoro, uno sulla teoria del magistrato-come-si-deve, uno sul termine “circo mediatico-giudiziario”, uno sulla denuncia che adesso arriva da De Magistris, ecc.
Se avrò un po’ di tempo, ne scriverò uno. Intanto è da segnalare un dettaglio: il magistrato-come-si-deve, invece di andare ad Anno Zero, la sera deve stare a casa. Ad ascoltare una sinfonia. Di Mendelssohn. Poco mancava che Ferrara dicesse pure quale.

Naturalmente qui vi limiterete a una mezza smorfia e tirerete avanti. Tutt’al più sarete tentati dal chiedervi che tipo di Presidente del Consiglio e che tipo di Raiuno ci meriteremmo in un mondo-come-si-deve nel quale il magistrato-come-si-deve a sera ascolta Mendelssohn.
Sbagliato, perché il nostro è esoterico e non parla mai a sproposito: se diceva “una sinfonia di Mendelssohn”, non diceva per dire: pensava alla Sinfonia n. 5 in Re Maggiore, Op. 107: meglio conosciuta come “La Riforma”. Capìta, la sottigliezza? 


Gas


Non ricordo il titolo del film, ma sono quasi sicuro che ci fosse Lino Banfi, forse pure Gloria Guida. Quasi sicuro, ma potrei sbagliare. Però di sicuro – questo l’ho chiarissimo – si raccontava della figlia del presidente della solita squadretta di serie C che scopicchiava segretamente col centravanti, un bomber belloccio che a un certo punto la molla…
Be’, non ha importanza, era solo per dire che, insieme ai travestimenti trash-fetish da infermiera e poliziotta che tanto piacciono al nostro amato premier, con la figlia che flirta con Pato, viviamo grazie a lui – si fa per dire – nel remake di una commediola vecchia di quarant’anni. Invece di Alvaro Vitali che tira una scoreggia con l’accendino al culo nell’esilarante effetto-lanciafiamme, abbiamo Ignazio La Russa, ma con poco gas.

Vabbe’, va’


“Gli uomini perdono rapidamente la capacità di concepire la diversità, se per qualche tempo si sono disabituati a vederla”, così ha detto Vladimir Luxuria nel corso della presentazione del suo libro Le favole non dette (Bompiani, 2009) agli studenti del liceo artistico «Filiberto Menna» di Salerno. Prego notare: 2009.

No, scherzavo, è che stamane mi sento d’uno stronzo che non potete immaginare… L’ha detto John Stuart Mill, chiudendo il III capitolo di On liberty.



lunedì 21 marzo 2011

Branchie


Su Il Sole-24Ore di ieri trovavi:
● Sua Eccellenza, monsignor Bruno Forte, che ti leggeva a cazzo di cane la sentenza della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quella sul crocifisso,
● Sua Eminenza, il cardinal Gianfranco Ravasi, che cercava di convincerti di un fondo di fede nel disperato nichilismo di Emil Cioran,
● l’usignuol de’ la Cei, il poeta Davide Rondoni, che si intratteneva sul disagio di noi umani prendendo spunto da Alberto Bevilacqua,
● Daniele Bellasio, che sembrava in bigodini sotto il casco del coiffeur: “Non c’è che dire: il primo presidente afro-americano della storia degli States è di un fotogenico pazzesco”,
● Christian Rocca, che ci teneva a dirti di aver composto ben 3 brani in 3 giorni grazie a un software buono anche per chi non sa leggere la musica, né scriverla, né suonarla,
● Marco Ferrante, che si produceva in una marchetta a forma di epopea,
● Franco Debenedetti, un po’ meno lucido del solito,
● Alberto Mingardi, un po’ più opaco di sempre.
Insomma, il giornale sembrava Il Foglio con l’herpes.

Ora, sì, quando un quotidiano ha una caduta verticale di copie vendute, sarà colpa del direttore e i signori industriali hanno fatto bene a liberarsi di Gianni Riotta, ma siamo onesti: a togliere solo la testa al pesce, puzzano le branchie.

L’idea della Provvidenza

Commentando la tragedia abbattutasi sui siciliani col terremoto di Messina del 1908, monsignor Vincenzo Manzella scriveva: “Le catastrofi sono talora esigenza della giustizia di Dio, della quale sono giusti castighi. Le grandi catastrofi sono una voce paterna della volontà di Dio, che ci richiama al fine ultimo della nostra vita. Se la terra non avesse catastrofi, eserciterebbe su di noi un fascino irresistibile, e non ricorderemmo che siamo cittadini del cielo. In secondo luogo, le catastrofi sono i giusti castighi di Dio. Alla colpa del peccato originale si aggiungono le nostre colpe personali e quelle collettive, e mentre Dio premia e castiga nell’eternità, è sulla terra che premia o castiga le nazioni”.
Ora questo non stupisce perché in ogni prete c’è uno stronzo, figuriamoci in un vescovo. Quello che stupisce è ciò che ha detto il vicepresidente del CNR, il notorio professor Roberto De Mattei, commentando ciò che scriveva il Mazzella per una sua meditazione sulla tragedia abbattutasi sui giapponesi col terremoto dello scorso 11 marzo. Alzate il volume delle casse e ascoltate con la massima attenzione:


Quale altro paese al mondo può vantare alla vicepresidenza di un Consiglio Nazionale delle Ricerche uno che si esprime in questi termini su terremoti e maremoti? Solo l’Italia, è evidente. In qualsiasi altro paese sarebbe spalmato di pece, cosparso di piume e dato alle fiamme, qui gli diamo lo stipendio di alto dirigente di ente pubblico.

Non biasimate quelli della Hostessweb.it



Una delle 500 hostess che sette mesi fa affollarono la lezione coranica di Gheddafi a Roma sostiene oggi: “Il popolo voleva bene al suo leader ed era orgoglioso di avere qualità della vita superiore agli altri vicini di casa africani. Magari Gheddafi avrà anche le sue colpe, i suoi metodi diversi dai nostri, ma è stato l’unico ad aver dato un’identità alla Libia” (La Stampa, 21.3.2011).
Posizione insostenibile, vero? Ma non è quella che abbiamo sostenuto noi italiani, prima che per Gheddafi mettesse male, quando stipulavamo un Trattato di amicizia che ci impegnava a non interferire negli affari interni libici e a non offrire aiuto (neanche logistico) ad eventuali aggressioni al regime libico? In Parlamento non ebbe pure i voti del Pd? E tutti, da Andreotti a Craxi, da Dini a Prodi, da D’Alema a Berlusconi, non hanno sempre detto tutti: “Magari Gheddafi avrà anche le sue colpe, ma...”? Facendo zoom indietro, non era la posizione di tutti quelli che avevano affari in Libia? 
Cos’è cambiato che renda oggi insostenibile la posizione della figliola, che invece rendeva sostenibile quella in tutto sovrapponibile che è stata di tutti i governi della Prima e della Seconda Repubblica, col rinforzo delle relative opposizioni? Che per Gheddafi mette male e che ogni altro affare in Libia è possibile solo riposizionandosi contro Gheddafi. Ogni altro affare della figliola in Libia, invece, è possibile solo se Gheddafi rimane in piedi: come possiamo biasimarla?

La figliola – Rea Beko, 28 anni, immigrata albanese, perfettamente integrata sul piano culturale – non è sola, perché “al fianco del raìs si schiera anche tutta Hostessweb.it, il sito che ha pianificato incontri e viaggi di Gheddafi con le ragazze italiane e che sta organizzando a Roma, per sabato prossimo, una manifestazione in suo favore: «Siamo indignati dal comportamento degli Stati che stanno usando una scusa vergognosa per colonizzare nuovamente un Paese prima considerato ‘amico’», dice il fondatore Alessandro Londero” (Corriere della Sera, 21.3.2011). Come biasimarlo? Se Gheddafi è fatto fuori, Hostessweb.it ha perso un cliente difficilmente rimpiazzabile in Libia.
Temendo che la vittoria degli insorti potesse farci perdere un cliente, non abbiamo fatto finta che a Bengasi e a Tripoli non stesse accadendo niente? Fino a quando è stato possibile, sì. Non volevamo disturbare. Quando abbiamo visto che stavamo perdendo il cliente, non abbiamo cercato di rimpiazzarlo in loco? Ci siamo lamentati dei mille morti in piazza, come non abbiamo mai fatto per i milleduecento ammazzati da Gheddafi nel carcere di Tripoli, nel 1996. Quando abbiamo visto che Gheddafi rimontava sugli insorti, non ci siamo un po’ cagati addosso? Quando l’Onu si è mosso per mettere fine al massacro, non abbiamo tirato un sospiro di sollievo, annullando unilateralmente il Trattato di amicizia, già unilateralmente sospeso?
Mettetevi nei panni della Beko e del Londero. Non vedete che ci state dentro come nei panni di Berlusconi? Provate, vedrete che vi sentirete pure nei panni di D’Alema, che approva la risoluzione Onu, ma adesso trova che si stia esagerando e insiste nel sottolineare che la risoluzione non indica l’obiettivo di far cadere Gheddafi, ma solo quello di stare a guardare dall’alto, tifando per i buoni con qualche missiletto, di tanto in tanto.
Non biasimate quelli della Hostessweb.it: siamo tutti noi.

Un’altra puttanata



“Guardate queste foto aveva detto – sono state scattate da fotografi autorizzati e poi date ai grandi giornali popolari”. Volevate che ammettesse di aver detto una puttanata? Accontentatevi del fatto che non la ribadisca, già è tanto che Giuliano Ferrara corregga quanto ha sostenuto a Qui Radio Londra (Raiuno, 16.3.2011) facendo il nome di Zappadu (Il Foglio, 21.3.2011). Smentita troppo implicita? Non siate troppo esigenti, via, passate oltre.
Passate oltre e beccatevi quest’altra puttanata, quella “della giovanissima accompagnatrice del premier a un tavolo di industriali e banchieri (mammà al seguito)”. Si tratta della famosa cena che si tenne a Villa Madama il 19 novembre 2008, quando Noemi Letizia fu presentata agli illustri convitati come “figlia di carissimi amici di Napoli”. Mammà non c’era e alla fine della cena la “pupilla” fu vista allontanarsi su un’auto blu – da sola, a quanto ricordano tutti i presenti interpellati – al seguito dell’Audi A8 nera del premier.

domenica 20 marzo 2011

Chance, il falegname


Nel resto del mondo cade per lo più in giugno, ma qui da noi in Italia – come in altri paesi di tradizione cattolica, anche se non in tutti – la Festa del Papà cade il 19 marzo, con la Festa di San Giuseppe. Superfluo dire che l’accorpamento non è casuale: il padre putativo di Gesù è offerto dalla Chiesa, ovunque può, come ideale modello di paternità. Si può accettarlo o no, ma questo invita tutti, cattolici e no, a meditare su quanto è stato inoppugnabilmente dimostrato, non più di quattro o cinque anni fa, dal cattolicissimo Istituto Mendel: “Dalle nostre stime – affermava il direttore, professor Bruno Dallapiccola – emerge che in Italia fino al 10% dei bebè nati ogni anno ha un papà differente da quello presunto. Un dato frutto di osservazioni e ricerche nazionali, confermato anche a livello europeo, e che storicamente ha visto picchi pari al 20% nel nostro paese”.
Ecco, pensavo al fatto che neghiamo l’accesso alla fecondazione assistita eterologa, ma offriamo a tutti i cornuti una chance di potersi sentire santi.

Fra “le attrezzature e materiali necessari alle aule delle scuole”, fin dal 1928


Un po’ di storia Con la legge n. 4671 del 17 marzo 1861, non solo non si ha ancora “Unità d’Italia” – manca ancora Roma, che non sarà italiana prima del 1870 – ma neanche si ha costituzione ex novo di un entità politica statuale, perché – semplicemente – il Regno di Piemonte e Sardegna cambia nome e, in ragione dell’avvenuta annessione di gran parte dei territori della penisola, diventa Regno d’Italia. Le leggi del Regno di Piemonte e Sardegna diventano leggi del Regno d’Italia e fra queste v’è il regio decreto n. 4336 del 15 settembre 1860 che all’art. 140 dispone l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, in forza dello Statuto Albertino del 4 marzo 1848, nel quale la religione cattolica apostolica e romana è dichiarata “sola religione di Stato”.
Con la presa di Roma, il 20 settembre 1870, le relazioni tra Stato e Chiesa diventano pessime. “La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario – ha detto Benedetto XVI qualche giorno fa – ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di Questione Romana, suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale Conciliazione, nessun conflitto si verificò nel corpo sociale”. Questo non è del tutto vero, perché l’ostilità del clero verso un’Italia finalmente unita si espresse non di rado in forme prossime all’istigazione dei cattolici alla disobbedienza civile, ed ebbe in risposta reazioni anche vivaci da quegli ambienti della neonata società italiana che esprimevano la crescente esigenza di uno Stato laico e aconfessionale, e che avrebbero dovuto aspettare ancora un secolo per vedere abolito il principio di “religione di Stato”. Contro lo Statuto Albertino, contro il decreto regio del 1860, molti crocifissi furono rimossi dalle aule scolastiche.
“L’aspettativa di una formale Conciliazione” – come la chiama Benedetto XVI – fu soddisfatta dall’“uomo della Provvidenza”, il cavalier Benito Mussolini, e neanche un mese dopo la Marcia su Roma il Ministero della Pubblica Istruzione emette la circolare n. 68 del 22 novembre il 1922, che recita: “In questi ultimi anni, in molte scuole primarie del Regno l’immagine di Cristo ed il ritratto del Re sono stati tolti. Ciò costituisce una violazione manifesta e non tollerabile e soprattutto un danno alla religione dominante dello Stato così come all’unità della nazione. Intimiamo allora a tutte le amministrazioni comunali del Regno l’ordine di ristabilire nelle scuole che ne sono sprovviste i due simboli sacri della fede e del sentimento nazionale”. Seguirà il regio decreto n. 965 del 30 aprile 1924, che all’art. 118 dispone: “Ogni scuola deve avere la bandiera nazionale, ogni aula il crocifisso e il ritratto del re”; e ancora un’altra circolare del Ministero della Pubblica Istruzione: “Il simbolo della nostra religione, sacro per la fede quanto per il sentimento nazionale, esorta e ispira la gioventù studiosa che nelle università e negli altri istituti superiori affina il suo spirito e la sua intelligenza in previsione delle alte cariche alle quali è destinata” (n. 2134 del 26 maggio 1926); e ancora un regio decreto, il n. 1297 del 26 aprile 1928, che mette il crocifisso fra “le attrezzature e materiali necessari alle aule delle scuole”. Coi Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929, “l’Italia riconosce e ribadisce il principio stabilito dall’articolo 1 dello Statuto Albertino del 4 marzo 1848, secondo il quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione di Stato”.
Si dovrà attendere il nuovo Concordato del 18 febbraio 1984 per vedere abolito il concetto di “religione di Stato” e il 20 novembre 2000 per una sentenza della Corte Costituzionale (n. 508) perché i principi di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (Costituzione, art. 3) e di eguale libertà di tutte le religioni dinanzi alla legge (Costituzione, art. 8) stabilisca che “l’atteggiamento dello Stato deve essere segnato da equidistanza e imparzialità, indipendentemente dal numero di membri di una religione o di un’altra, né dall’ampiezza delle reazioni sociali alla violazione di diritti dell’una o dell’altra”.

All’oggi “L’Italia è stata assolta dalla colpa di ledere i diritti umani per la presenza di un crocifisso su una parete, colpevole – per alcuni – di indottrinare con la sua presenza. Era necessaria l’assoluzione della Corte europea. Amen” (Avvenire, 20.3.2011). Prima di commentare l’“assoluzione” c’è da dire che non più di due anni fa la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo era fra gli “alcuni”: “Lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nel quadro dell’istruzione pubblica obbligatoria dove la presenza ai corsi è richiesta senza considerazione di religione e che deve cercare di insegnare agli allievi un pensiero critico. La Corte non vede come l’esposizione nelle aule di scuole pubbliche di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo (la religione maggioritaria in Italia) potrebbe servire al pluralismo educativo che è essenziale alla preservazione d’una società democratica come la concepisce la Convenzione [Europea dei Diritti dell’Uomo], e alla preservazione del pluralismo che è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nel diritto nazionale. La Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo confessionale nell’esercizio del settore pubblico relativamente a situazioni specifiche che dipendono dal controllo governativo, in particolare nelle aule, viola il diritto dei genitori di istruire i loro bambini secondo le loro convinzioni e il diritto dei bambini scolarizzati di credere o non di credere. La Corte considera che questa misura violi questi diritti poiché le restrizioni sono incompatibili con il dovere che spetta allo Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio del settore pubblico, in particolare nel settore dell’ istruzione. Perciò la Corte stabilisce che in questo caso c’è stata violazione dell’articolo 2 del protocollo n. 1 e dell’articolo 9 della Convenzione”.
Ciò detto, vediamo in base a quali elementi, oggi, riunita in Grande Camera, la Corte si ricrede e assolve l’Italia: “Dalla giurisprudenza della Corte emerge che l’obbligo degli Stati membri del Consiglio d’Europa di rispettare le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori non riguarda solo il contenuto dell’istruzione e le modalità in cui viene essa dispensata: tale obbligo compete loro nell’esercizio dell’insieme delle funzioni che gli Stati si assumono in materia di educazione e d’insegnamento. Ciò comprende l’allestimento degli ambienti scolastici qualora il diritto interno preveda che questa funzione incomba alle autorità pubbliche. Poiché la decisione riguardante la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche attiene alle funzioni assunte dallo Stato italiano, essa rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 2 del protocollo n. 1”.
In pratica: nel nostro “diritto interno” sono ancora vigenti le norme relative all’“allestimento degli ambienti scolastici” così come dettate dal regio decreto del 1924 e da quello del 1928. E dunque, sì, come afferma la Convenzione, “lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche”, ma – appunto – “nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento” che assume sulla base del suo “diritto interno”, che definisce il crocifisso elemento indispensabile dell’arredo scolastico.

Problemini Questa sentenza può essere considerata una vittoria per un cattolico? Di fatto, essa si limita a sancire il primato del “diritto interno” italiano sull’arredo scolastico. Viene ribadito, infatti, che “il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso”, ma si accoglie quanto era nel ricorso del Governo italiano, che sosteneva che “la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche rispecchia ancora oggi un’importante tradizione da perpetuare; aggiungeva poi che, oltre ad avere un significato religioso, il crocifisso simboleggia i principi e i valori che fondano la democrazia e la civilizzazione occidentale, e ciò ne giustificherebbe la presenza nelle aule scolastiche”. Bene, “la Corte sottolinea che, se da una parte la decisione di perpetuare o meno una tradizione dipende dal margine di discrezionalità degli Stati convenuti, l’evocare tale tradizione non li esonera tuttavia dall’obbligo di rispettare i diritti e le libertà consacrati dalla Convenzione e dai suoi Protocolli” e, visto che “il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione hanno delle posizioni divergenti sul significato del crocifisso e che la Corte Costituzionale non si è pronunciata sulla questione, la Corte considera che non è suo compito prendere posizione in un dibattito tra giurisdizioni interne”.
“Amen”, commenta Avvenire, ma non s’avvede che manca un pronunciamento della Corte Costituzionale. Sarà quando sarà, ma potrà cambiare tutto. Da parte sua, la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non ha smentito quanto è affermato nella sentenza del 3 novembre 2009, ma si limita a prendere atto che in Italia, per le questioni relative all’arredo di luoghi pubblici, residua un pezzo dello Statuto Albertino, cristallizzato nella legislazione fascista e poi fatta norma non scritta nella pratica democristiana del «quieta non movere» seppur in contraddizione col dettato costituzionale. L’Europa ha dichiarato che in Italia il crocifisso è da considerare suppellettile di ambiguo significato, “la Corte constata che, nel rendere obbligatoria la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche, la normativa italiana attribuisce alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico”, ma Avvenire esulta. Non capisce. Più verosimilmente, non vuol capire.

Morra cinese



Con pena, schifo e rabbia si può giocare a morra cinese (come con carta, sasso e forbici: la pena vince sullo schifo, che vince sulla rabbia, che però vince sulla pena) e mi pare non ci resti altro passatempo in attesa che questo governo imploda.
Prendete il ministro dell’Ambiente: “Non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare, non facciamo cazzate. Bisogna uscirne, ma in modo soft. Ora non dobbiamo fare niente, si decide tutto tra un mese”. Carta, sasso o forbici? Io dico sasso, e perdo solo con chi dice carta.


venerdì 18 marzo 2011

Elamadonna!!!



“Tutto iniziò nel 1987 in Brasile, quando Maria iniziò a rivelare ad un giovane di nome Diego Régis una serie di messaggi inquietanti riguardanti il mondo, tra cui anche il Giappone. Ecco l’impressionante sequenza:
28 aprile 2005: Cari figli, la terra è piena di malvagità e i miei poveri figli camminano come ciechi spiritualmente. Gli uomini hanno sfidato il Creatore e per questo saranno puniti severamente. Il Signore pulirà la terra e i suoi fedeli vivranno felici. L’umanità sperimenterà grandi sofferenze. Il Giappone soffrirà per un grande sisma di dimensioni mai viste in tutta la sua storia.
2 agosto 2005: Il Giappone vivrà momenti di angoscia, ma il peggio dovrà ancora venire.
31 dicembre 2005: Il Giappone berrà il calice amaro della sofferenza.
4 marzo 2006: Il Giappone berrà il calice amaro del dolore.
5 febbraio 2010: Accadrà in Giappone e si ripeterà nel Paraíba. Ovunque si udranno grida di disperazione.
20 marzo 2010: Un grande sisma scuoterà il Giappone e i miei poveri figli piangeranno e si lamenteranno.
17 aprile 2010: Una grande distruzione si verificherà in Giappone. Pregate. Pregate. Pregate.
29 maggio 2010: Il Giappone soffrirà e il dolore sarà grande per i miei poveri figli.
28 ottobre 2010: La morte passerà per il Giappone lasciando una grande scia di distruzione.
Puntualmente, l’11 marzo 2011, le premonizioni si sono avverate”

Corale per coltelli



 




Il nipote di Mubarak


“I’m very suspicious about what is going on in the Arab world, especially in Egypt. Hosni Mubarak was not an ideal leader, and he was immersed in corruption, but he was also the last obstacle to the Islamist tsunami. Mubarak put Egypt in the Western orbit” *.


Intermezzo




Lesto come la mosca sullo stronzo


Ho già commentato le tante puttanate scritte da Benedetto XVI nel Messaggio al Presidente della Repubblica in occasione dei 150 anni dell’Unità politica italiana, e ho iniziato col dire che la prima era già nel titolo. Nel 1861, infatti, all’Italia mancava ancora Roma per dirsi unita: l’Unità d’Italia si avrà solo 9 anni dopo, quando i bersaglieri sfonderanno Porta Pia, beccandosi la scomunica che fin lì era toccata a chiunque si era azzardato a pensare Roma senza Papa-Re. Scomunica che non sarà mai revocata, neanche dai pontefici che, facendo di necessità virtù, col tempo smisero di considerarsi prigionieri dello Stato e pian pianino, dietro favore dopo favore, dietro privilegio dopo privilegio, cominciarono a capire che perdere il potere temporale era stato conveniente.
Sotto le mistificazioni che in questi ultimi anni hanno portato le gerarchie ecclesiastiche ad avanzare la pretesa di un merito nel processo unitario, a fianco di Cavour, Mazzini e Garibaldi, i fatti sono ancora lì, intatti, e ci vuole una straordinaria faccia di culo, come dicevo commentando il Messaggio di Sua Santità, per affermare che “l’identità nazionale degli italiani costituì la base più solida della conquistata unità politica” perché “fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche”, ma neanche tanto. L’opportunità di stanare il Papa-Re dal Palazzo Apostolico, nel quale s’era rintanato dichiarandosi prigioniero, non venne presa in debita considerazione (dargli un calcio in culo o mettergli una corda al collo ci avrebbero promosso a paese normale) e, com’è tristemente noto, prevalse l’infausta idea di lasciarlo lì, per evitare la guerra civile che avrebbe scatenato, ma sottovalutando gli oneri che ne sarebbero derivati.
Fra questi fu messo quello della rimozione del 20 settembre 1870 dalla memoria degli italiani, perché riconoscerla come data della vera Unità d’Italia sarebbe stato scortese verso il Papa. Si sottovalutava la straordinaria faccia di culo che lo Spirito Santo gli conferisce al momento dell’elezione, perché nel 140° anniversario di Porta Pia, sei mesi fa, abbiamo visto il suo Segretario di Stato in prima fila, a garantirci una “ritrovata concordia tra comunità civile ed ecclesiale”. Qualcuno, per un attimo, ha pensato che stesse per chiedere allo Stato una pensione per gli eredi degli zuavi papalini, e invece si è limitato a concedere che Roma è “indiscussa capitale d’Italia”, apparentemente a gratis.

Divagavo, come al solito. Volevo dire che, dopo aver commentato le puttanate di Benedetto XVI, ci tocca dare un’occhiata pure a quelle del cardinale Angelo Bagnasco, che ieri ha tenuto un’omelia ad hoc, nel corso della quale ha detto che “la Patria, nello stesso linguaggio comune, esprime una paternità, così come la Madrepatria esprime una maternità: il popolo che nasce da ideali alti e comuni, che vive secondo valori nobili di giustizia e solidarietà, che sviluppa uno stile di relazioni virtuose, respira un anima spirituale capace di toccare le menti e i cuori, è un popolo vivo, prende volto, assapora e si riconosce uno, diventa Nazione e Patria, offre sostanza allo Stato”. Superfluo aggiungere che l’Italia può vantare tutto ciò solo grazie al cristianesimo, anzi, grazie al cattolicesimo, sicché viene quasi il sospetto che non ci sia possibilità di Patria, forse neanche Nazione, senza la vidima della relativa conferenza episcopale.
Bastasse, volesse il cielo che bastasse, ma non basta. Perché a commento delle puttanate di Sua Eminenza, lesto come la mosca sullo stronzo, arriva l’editoriale di Francesco D’Agostino: “Non c’è dubbio che il Risorgimento abbia avuto diverse anime e non tutte coerenti tra loro. Una delle idee guida dei patrioti risorgimentali (e sicuramente la più caduca) consisteva nell’appassionato desiderio di dare vita, costruendo uno Stato unitario, a una nuova Italia capace di entrare nel concerto europeo come una grande potenza, non inferiore, né idealmente né materialmente, a nessun’altra. Un desiderio nobile, ma pericoloso, perché tale da stravolgere quello che c’è di veramente buono nel patriottismo, deformandolo nel nazionalismo” (Avvenire, 18.3.2011). E qui è fatto evidente che, a impiccare Pio IX o a esiliarlo in Oceania, il nostro patriottismo sarebbe senza dubbio degenerato in nazionalismo, forse truce, quasi certamente guerrafondaio. Parola di Bagnasco, che fino a pochi anni fa era a capo dei cappellani militari, però commentata da D’Agostino.


“Der Jüngling ruft ihn an, verspricht ihm die hohe Summe”


Il 10 marzo mi sono intrattenuto sulla vicenda che ha preso le mosse da una lettera di Marta Herling, nipote di Benedetto Croce, pubblicata due giorni prima sul Corriere del Mezzogiorno. La signora accusava Roberto Saviano di aver attribuito al padre del filosofo, con intento strumentale (“mistificazione della storia e della memoria”), una frase che questi avrebbe rivolto al figlio quando entrambi erano sotto le macerie del terremoto di Casamicciola, nel 1883: “Offri centomila lire a chi ti salva”. Per reperire la fonte dalla quale lo scrittore aveva attinto (Ugo Pirro - Oggi, 13.4.1950) bastava consultare Google, e qualche giorno dopo se ne aveva conferma dallo stesso, ospite di Enrico Mentana al Tg7.
Polemica chiusa? Macché. Le critiche a Saviano non accennano a sopirsi. Possiamo riassumerle in ciò che scrive Giancristiano Desiderio, oggi, sempre sul Corriere del Mezzogiorno: “Saviano dimentica di dire alcune cose fondamentali: che la storia delle centomila lire non esce dalla bocca di Croce e neanche dalla bocca di Pirro. Dimentica di dire che l’intervista di Pirro fa riferimento a un cronista anonimo del 1883”.
Non troppo anonimo, in verità, perché Saviano lo identifica in Carlo Del Balzo, che infatti attribuisce quella frase al padre di Croce nel suo Cronaca del tremuoto di Casamicciola (1883). A Desiderio non basta: “Chi disse a Carlo Del Balzo, uomo politico e romanziere, che il povero Pasquale Croce disse al figlio l’idea delle centomila lire? Non lo sappiamo perché Del Balzo non lo dice. Ma è certo che non lo dice Croce dal momento che Del Balzo non afferma neanche che fu il primogenito del signor Croce a riportagli le parole del padre. Ciò nonostante, Saviano crede a Del Balzo e non a Croce. E forse nei prossimi giorni rivelerà un’altra fonte. Magari può citare Casamicciola di Dantone, sempre del 1883, ma non vi troverà nulla di buono per suffragare il suo racconto”.
Bene, qui Desiderio è in errore perché il brano citato da Pirro è tratto proprio dal volume di Ernesto Dantone, dove a pag. 143 si legge la frase: “Offri centomila lire a chi ti salva”. Questo potrebbe significare poco, se non fosse che il brano che contiene quella frase, prima di passare in Pirro (1950) e in Saviano (2010, 2011), è riportato in un giornale ad ampia diffusione come il Corriere del Mattino, il 31 luglio 1883, che indica la fonte nello stesso Croce, intervistato quando è ancora ricoverato in un ospedale napoletano. Anche qui, come nel 1950, nessuna smentita da parte dell’interessato.
Nessuna smentita nemmeno a quanto scriverà, un mese dopo, Woldemar Kaden: “Er soll dem Ersten besten hunderttausend, zweihunderttausend Francs bieten, wenn er sie rettet, nur nicht sterben, den Erstickungstod sterben. Es vergehen wieder Stunden, der Tag muss bald grauen, da kommt Jemand im hastigen Lauf heran. Der Jüngling ruft ihn an, verspricht ihm die hohe Summe” (Die Insel Ischia in Natur-, Sitten- und Geschichts-Bildern aus Vergangenheit und Gegenwart).