mercoledì 30 marzo 2011

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Presunzione di innocenza


«Siamo sconvolti, non credevamo possibile una cosa del genere» (milano.corriere.it, 30.3.2011).


[grazie a Pietro Giorgianni per la segnalazione]

Spazio-tempo parallelo



Washington (Usa), 1943. Forti dubbi dell’amministrazione Roosevelt sull’opportunità di intervento militare in Italia per portare aiuto ai partigiani. Dubbi più che legittimi. Siamo sicuri, innanzitutto, che la caduta di Mussolini non spiani la via ad una deriva teocratica dei papalini o a una presa del potere da parte delle tribù mafiose del Sud? Non andremo mica a impantanarci in un conflitto lungo, costoso, dall’esito incerto, per portare la democrazia a gente che non sa cosa farsene? Siamo sicuri, infatti, che gli italiani siano antropologicamente maturi per la democrazia? Boh.
Di poi, è proprio un diavolo, ‘sto Mussolini? La Casa Bianca pensa che ci si possa discutere. Sarà un dittatore, non c’è dubbio. Sarà inaffidabile, smargiasso, aggressivo, ridicolo e tutto quello che si vuole. Ma siamo sicuri che abbattere il regime fascista spetti a noi? E dopo? Siamo sicuri che gli Stati Uniti non saranno ripagati con l’accusa di violazione della sovranità nazionale italiana e il sospetto di neocolonialismo?
Insomma, pare che nello Studio Ovale siano emerse perplessità dettate dal sano buon senso che fa di noi americani un popolo fighissimo, e che prima di dare il via ad una operazione rischiosa e incerta come il ventilato sbarco in Sicilia convenga ripensarci. Non sarebbe meglio una mediazione? Non potremmo limitarci ad una fly zone, ad un embargo, in attesa di vedere come butta?
Pare vada maturando proprio questa posizione alla Casa Bianca, contro ogni tentazione avventuristica, in difesa degli interessi di una nazione libera e democratica qual siamo. Perché libertà e democrazia sono un bene prezioso.


Un pizzico di faccia tosta



Il 21 marzo ho segnalato l’intervento che il professor Roberto De Mattei ha tenuto al microfono di Radio Maria a commento del terremoto in Giappone e ho sollevato la questione della compatibilità tra la sua vicepresidenza del CNR e le opinioni da lui espresse in quella occasione. Col passare dei giorni ho costatato che la mia perplessità era di tanti, e che spesso era espressa con severo biasimo. C’era bisogno che qualcuno desse modo al professore di potersene lamentare dandogli modo di atteggiarsi a vittima, e chi volete fosse? Bravi, avete indovinato.
Chi crede nel dogma dell’Immacolata Concezione non potrà quindi mai più insegnare all’Università? Chi fa la comunione, e quindi crede nella transustanziazione, dovrà nascondere la propria fede perché «antiscientifica»? Gli insegnanti credenti che svolgono un ruolo pubblico, non potranno più andare a parlare di ciò in cui credono alla radio, cattolica o meno?” (Il Foglio, 30.3.2011).
Stessa linea difensiva adottata da Rocco Buttiglione quando fu giudicato inadatto a ricoprire la carica di Commissario europeo per la giustizia, libertà e sicurezza per le sue opinioni sugli omosessuali, ma con una sola differenza: lì si trattava di ambito europeo, qui l’ambito è tutto italiano, e al vittimismo si può aggiungere un pizzico di faccia tosta, nella certezza che la vicepresidenza del CNR non è in discussione.


martedì 29 marzo 2011

Via, Marco, chiudi un occhio




“Di queste cose io devo parlare ad una sola persona, anche se mi imbarazza molto, perché riguarda la mia vita privata, le mie vicende personali. Credo che di queste cose io devo parlare solo a Marco Mezzaroma, che è la persona che amo, l’unica persona che amo, dal 2008. La persona che ho deciso di sposare nei prossimi mesi”. In realtà, Mara Carfagna dice molto, anche più di quanto fosse lecito chiederle. Di quello che c’è stato tra lei ed Italo Bocchino – dice – è tenuta a parlarne solo col suo fidanzato, e tuttavia – aggiunge – la cosa la imbarazza. Perché l’ha tradito? Pare non sia questo il punto: l’imbarazzo nasce dal dovergli rivelare vicende della sua vita privata.
È evidente che almeno fin qui – prima che gli eventi lo rendessero necessario – una parte della sfera privata di Mara Carfagna preferiva rimanere inaccessibile al fidanzato. Non ha importanza se a buon diritto o no: non siamo qui per giudicarla, ma solo per cercare di capire cosa ci sia dietro quei suoi occhioni da cerbiatta braccata. Anzi, sarà il caso di concederle un acconto di simpatia e pensare che tra lei e il fidanzato si fosse stretto il patto di tacere su ogni relazione affettiva e/o sessuale avuta in precedenza: in tal senso, che ci sia stata o meno una relazione con Italo Bocchino, si spiegherebbe l’imbarazzo a parlarne.
Sì, ma questa ipotesi non regge. Marco Mezzaroma – dice – è l’unica persona che amo. E aggiunge: dal 2008. Ora, ogni lettore di Chi sa benissimo che i due si sono fidanzati nel 2007, a Capri. Si parlò proprio di fidanzamento e non vi fu smentita, né dall’uno, né dall’altra. Dobbiamo ritenere, dunque, che Marco Mezzaroma non sia stato l’unica persona amata da Mara Carfagna, almeno per il primo anno di fidanzamento. Si potrebbe ipotizzare che invece lo fosse anche prima del 2008 – “intrattengo un rapporto imbarazzante con Italo, ma l’unico che amo è Marco” – ma non c’è adito a dubbio: Mara Carfagna dice che gli ha concesso un affetto esclusivo solo dal 2008. Non c’è l’implicita ammissione che dal 2007 al 2008 abbiamo amato almeno due persone?
Concediamo anche qui un acconto di simpatia alla nostra cerbiatta: può darsi che Chi abbia parlato di fidanzamento mentre invece si trattava di una relazione dai caratteri più fluidi, che in ogni caso non prevedesse un impegno affettivo esclusivo, almeno da parte di Mara Carfagna. Ma allora non si spiega l’imbarazzo.

Esaurita la simpatia, arriviamo al dunque. Mara Carfagna e Marco Mezzaroma hanno cominciato a frequentarsi nel 2007. Si trattava di un rapporto che ad Alfonso Signorini sarà parso conveniente definire fidanzamento, e su questo nessuno dei due ha avuto da ridire, per analoga o diversa convenienza. Pare assodato, invece, che Mara Carfagna e Italo Bocchino si frequentassero con assiduità almeno dal 2006 e abbiano continuato a farlo – con immutata assiduità – almeno fino alla scissione di Fli dal Pdl (seconda metà del 2010).
Non ha importanza di quale natura fossero i rapporti che intrattenevano, ma per il periodo che copre il 2007 fino al 2008 erano tali da provocare imbarazzo in Mara Carfagna, almeno a doverne parlare a Marco Mezzaroma, oggi, non avendolo mai ritenuto necessario, prima di oggi. C’è da ritenere che volentieri se lo sarebbe risparmiato, se non fosse venuta a trovarsi nella necessità di farlo: infatti, fa intendere che finora non aveva ritenuto indispensabile farlo, perché relative a vicende personali, a una sfera privata della sua vita della quale – adesso – è imbarazzante parlare.
Il nodo della questione è il seguente: dove cade il diritto alla privacy per doverne dar conto al fidanzato? Se non c’è stata relazione con Italo Bocchino, o se c’è stata quando non era da considerare tradimento, non si capisce l’imbarazzo. Se c’è stato tradimento, invece, si capisce l’imbarazzo. Si capisce pure il desiderio “che il vento se le porti”. Mara Carfagna dice che “è l’ultima volta che io parlo di mie vicende personali”, ma è come se dicesse “sì, ho tradito, ma sono pentita, prometto che non lo farò mai più”. Via, Marco, è sincera: chiudi un occhio.

lunedì 28 marzo 2011

Giulia’, ma che stai a di’?



Questo, però, una vita fa. Oggi, a “Vendola, che si proclama pasoliniano ogni due per tre”, Ferrara consiglia: “Caro Nichi, […] riprenditi dal tuo poeta preferito le doti di ironia e di scrittura corsara…” (Il Foglio, 28.3.2011). Insomma, Pasolini è diventato ironico. (Nessuna novità sugli Scritti corsari: Ferrara conferma che li ha scritti proprio Pasolini.)


Benedetto XVI alle Fosse Ardeatine: “Qui fu fatta gravissima offesa a Dio”.




La Chiesa davanti a Gheddafi


Il magistero morale della Chiesa ritiene “giusta” la guerra quando siano “contemporaneamente” presenti alcune condizioni: (1) “che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo”; (2) “che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci”; (3) “che ci siano fondate condizioni di successo”; (4) “che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2309). Ciò detto, non si capisce perché Sua Santità chieda – oggi, 27 marzo – che si sospendano le operazioni della Nato in Libia, dopo aver “invoc[at]o – non più tre settimane fa, all’Angelusassistenza e soccorso per le popolazioni colpite”, quelle che Gheddafi andava massacrando.
Ora, noi sappiamo che “le azioni manifestamente contrarie al diritto delle genti e ai suoi principi universali, non diversamente dalle disposizioni che le impongono, sono crimini [e che] lo sterminio di un popolo, di una nazione o di una minoranza etnica deve essere condannato come peccato mortale” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2313), e dunque l’invocazione ci stava.
Noi sappiamo pure che l’uso della forza era da considerare “giusto”: (1) Gheddafi non ha esitato a uccidere migliaia di libici che si limitavano a chiedere democrazia e a minacciare di massacrarne altre migliaia, quando fosse riuscito a riprendere il controllo della situazione, fra quanti, nonostante il massacro, avevano continuato a chiederla; (2) ha inoltre rifiutato ogni altra soluzione della crisi che non fosse il pieno ripristino della sua dittatura: ha rifiutato un salvacondotto, quando era nei guai, e si è negato ad ogni trattativa, quando rimontava sugli insorti; (3) almeno fino ad ora – siamo tutti nelle mani di Dio – le operazioni della Nato danno ragionevole certezza di poter raggiungere (anche solo indirettamente) il fine di rendere inoffensivo il dittatore; (4) l’uso della forza da parte della Nato non ha finora provocato mali e disordini più gravi del male da eliminare, né promette di provocarne. E dunque: come portare assistenza e soccorso agli insorti?
La scorsa settimana, sempre all’Angelus, diceva: “Le preoccupanti notizie che giungevano dalla Libia hanno suscitato anche in me viva trepidazione e timori. Ne avevo fatto particolare preghiera al Signore durante la settimana degli Esercizi Spirituali”. Ma il Signore – sia detto col massimo rispetto – manco per il cazzo. E allora Sua Santità rivolgeva “un pressante appello a quanti hanno responsabilità politiche e militari, perché abbiano a cuore, anzitutto, l’incolumità e la sicurezza dei cittadini e garantiscano l’accesso ai soccorsi umanitari”. Sì, ma come? Di là, il “peccato mortale” dello “sterminio di un popolo” in atto e, di qua, i soccorritori che non hanno altra scelta se non la distruzione degli strumenti di quello sterminio: che cazzo mi significa l’odierno “cessate il fuoco” di Sua Santità?
“Chiedo a Dio che un orizzonte di pace e di concordia sorga al più presto sulla Libia e sull’intera regione nord africana”, diceva la scorsa settimana. Se lo immaginava con Gheddafi al potere? Gheddafi non è disposto a rinunciarci: o potere o morte. Che facciamo? Lo lasciamo dov’è? Chiudiamo un occhio sulle migliaia di libici che ha massacrato, rimandandolo – quando sarà –al giudizio del Signore? Può darsi sia davvero questo l’orizzonte gradito a Benedetto XVI. Infatti, ora che gli insorti sembrano rimontare e Gheddafi è di nuovo nei guai, Sua Santità dice “urgente l’esigenza di ricorrere ad ogni mezzo di cui dispone l’azione diplomatica e di sostenere anche il più debole segnale di apertura e di volontà di riconciliazione fra tutte le Parti coinvolte, nella ricerca di soluzioni pacifiche e durature”.
Ognuno dovrebbe fare il suo mestiere: ai teologi le loro pippe, ai politici la ricerca di soluzioni pacifiche e durature. Certo, in culo al principio della laicità dello stato, i politici possono ispirarsi al magistero morale della Chiesa. E tuttavia, Catechismo della Chiesa Cattolica alla mano, come si possono prendere per buone le pippe di Benedetto XVI?

Siete stanchi? Se sì, fermatevi: la domanda che chiude il primo paragrafo di questo post stia lì a domanda retorica. Se invece avete ancora un poco di pazienza, andiamo avanti e ascoltiamo le voci di due ratzingeriani che più ratzingeriani non si può, entrambi in favore del “cessate il fuoco”: Giorgio Vittadini e Antonio Socci.
Giorgio Vittadini dice che “l’operazione militare in Libia è la logica espressione di una politica neocoloniale che ormai domina le dinamiche internazionali dell’Occidente”. Il colonialismo è stata l’altra faccia dell’evangelizzazione dei popoli, ma ora è cacca: non c’è più un Papa a dare il placet, e dunque no al colonialismo. Fin qui, fila. Ma “l’operazione militare in Libia è la logica espressione di una politica neocoloniale”? L’intervento umanitario è un “pretesto”, come dice Vittadini, o è quanto aveva chiesto proprio il papa, tre settimane fa? Siamo ancora alla stessa domanda: come fermare Gheddafi?
Ecco, per chi si arrovellasse su questo punto, diciamo subito che per Vittadini la domanda è impropria: Gheddafi non va necessariamente fermato. Vittadini chiede: “Quale è l’alternativa a un regime? Instaurare un sistema politico basato su elezioni multipartitiche, che precondizioni chiede? È possibile imporre la democrazia con la violenza?”.
Meglio la violenza della dittatura? Questa non è una domanda retorica, perché Vittadini pensa proprio che sia meglio quella. Lamenta, infatti, che “con la giustificazione di interventi umanitari Belgrado e la Serbia furono bombardati in modo indiscriminato portando alla caduta di Milosevic. Si ricomincia con Gheddafi: si e’ invocato un intervento per emergenza umanitaria per poi verificare in questi giorni che Francia e Gran Bretagna, con l’acquiescenza del pensiero debole Obama-Clinton e di altri, stanno conducendo, non un’operazione umanitaria, ma una vera e propria guerra per rovesciare il regime a spese della popolazione libica”. Di quale popolazione libica? Certo non di quella che chiede la democrazia. Deve trattarsi della popolazione che Gheddafi sta armando per difendere la dittatura.
Vittadini si dice di portatore della “linea della Santa Sede”, e Socci pure. “Nel caso della «guerra libica» – dice – sono in tanti ad aver mestato nel torbido, magari fomentando le rivolte per poi poter intervenire militarmente e mettere le mani sul petrolio libico”. Qui c’è qualcosa di più che il sospetto: le rivolte in favore della democrazia non erano spontanee – probabilmente perché non potevano esserlo – perché fomentate da avidi petrolieri.
Non è ipotesi da scartare: può darsi che sia stato proprio un petroliere a dare la benzina all’ambulante tunisino che si è dato fuoco scatenando la rivolta che ha abbattuto il regime di Ben Alì.

Qui sono stanco io, e mi fermo. Dovessi continuare, avrei solo parolacce.

domenica 27 marzo 2011

“Per ragioni di principio”


“Siamo assolutamente contrari a qualsiasi intervento armato in Libia”, scrive (Il Fatto Quotidiano, 19.3.2011); e aggiunge: “Per ragioni di principio”. Ora, non sarebbe ingiusto impiccare Massimo Fini a quanto scrisse nel suo cazzutissimo Elogio della guerra, che è del 1989, quando, con la fine della Guerra Fredda, molti pensavano che la Storia fosse giunta alla sua fine (Francis Fukuyama lo avrebbe teorizzato di lì a tre anni, nel 1992), e già qualcuno provava nostalgia – fra questi, appunto, Massimo Fini – per la nostra plurimillenaria abitudine a sgozzarci; io proverei a impiccarlo a ciò che scrisse nel 1999, nella prefazione alla riedizione di quel libro. 


Direi che “per ragioni di principio” la guerra meritasse ancora il suo elogio. E tuttavia il principio scricchiolava, perché la prefazione concludeva in questo modo:


Non ci si raccapezza, vero? Chissà che cosa vorrà dire mai, oggi, “principio”.

sabato 26 marzo 2011

venerdì 25 marzo 2011

Auditel


Da due settimane, intorno alle 20.30, Raiuno accusa un calo dello share che farebbe seriamente impensierire il proprietario della rete, se si trattasse di un privato. Si tratta di telespettatori che in buona parte ritornano su Raiuno, ma solo quando sono sicuri che Qui Radio Londra è terminata, e si è iniziato con poco meno di un milione, ma ormai si supera il milione e mezzo. Una analisi più dettagliata rivela una linea di tendenza che forse è ancora presto per considerare stabilizzata, ma che al momento non pare subire inversione: se la scorsa settimana si cambiava canale nel corso della trasmissione, adesso si evita anche la sigla di testa e si lascia Raiuno durante il blocco pubblicitario che segue la fine del Tg1. Se i numeri non ingannano, siamo passati dal sentiamo questo che ha da dire” al mamma mia, che palle”.
A chi gli chiede un commento sui dati di ascolto di Qui Radio Londra, Giuliano Ferrara risponde: “Non li ho nemmeno guardati”. DellAuditel può sbattersene, gli si può credere. Se si trattasse di una emittente privata, la trasmissione sarebbe in pericolo, ma la Rai è un servizio pubblico che non può appiattirsi sulla logica del profitto. Giuliano Ferrara lo sa e stavolta non scende in polemica sulle miserabili questioni di un milione di telespettatori in più o in meno.
Non come quando Radio Londra andava in onda su Canale 5 e i dati Auditel provavano, a suo parere, una correlazione tra quantità e qualità: “Sono furibondo perché anche oggi un quotidiano ha diffuso dati di ascolto del mio programma che falsano i dati diffusi dall’Auditel... Mi si possono muovere tutte le critiche possibili, ma non si possono falsificare i dati di ascolto”.
Non come quando a decidere le sorti de Il Professore fu la previsione di un flop: “Dopo che Berlusconi ebbe visionato le prime 3-4 prove del programma tirò un calcio tremendo nel televisore, fracassandolo... Mi disse: «Le proibisco di fare cose di questo genere, una trasmissione così non potrà mai fare più del 3% di share».
Ma nemmeno come quando conduceva Il Testimone su Raidue, emittente del servizio pubblico che allora era tenuta ad appiattirsi alle logiche del clientelismo craxiano, che era il suo solo profitto: “Un incredibile ritardo dellAuditel priva stranamente gli organi di informazione e lopinione pubblica di un dato di ascolto impressionante: è un risultato di cui possono, se lo vogliono, tenere conto quei critici che hanno mostrato una particolare malevolenza nei confronti di un programma televisivo che registra, con questa media di spettatori, un vero e proprio record”.
Non si capisce più se i dati di ascolto siano importanti o no. Diciamo che ieri lo erano e oggi no.  


Il post prende spunto da una breve di giornalettismo.com. I dati raccolti nella tabella sono estratti dagli aggiornamenti quotidiani di primaonline.it relativi alle ultime due settimane, ad esclusione di venerdì 25 marzo.

Il peggio, al meglio


Bruno Vespa si fa mediatore tra Ahmed Jibril, rappresentante del Consiglio nazionale transitorio, e Khaled Kaim, viceministro degli Affari esteri, e non si capisce bene con quale delega del Parlamento o del Governo, ma nella tela che vanamente cerca di tessere tra i due, in collegamento diretto rispettivamente da Bengasi e da Tripoli, c’è più Berlusconi che in Berlusconi.
Puntata di Porta a porta che vi invito a recuperare, perché riassume al meglio tutto il peggio di cui finora siamo stati capaci in politica estera, con l’evidenza di una ferma intenzione di mantenerci in quel solco, come opzione connaturata a carattere e tradizione: per i rapporti intrattenuti con Gheddafi dovremmo andare a nasconderci dalla vergogna e invece riteniamo di poterli vantare come un merito, per accreditarci come garanti di una uscita politica dalla crisi.

giovedì 24 marzo 2011

Avvenire, 24.3.2011



“Il divorzio è una grave offesa alla legge naturale” (Catechismo, 2384) e tuttavia, se hai gli occhi viola, puoi pure divorziare sette volte ché passa per inquietudine.


Giù le mani dalla mia vacca!



Come si concilia il mezzo miliardo di vecchie lire che Calisto Tanzi dice di aver dato a Giuliano Ferrara brevi manu ai tempi in cui innaffiava di denaro chi gli lisciasse la reputazione e il liberismo che ispirerebbe la politica economica del Governo? In una sinergia di quelle già sperimentate col caso Alitalia, qui in difesa dello yogurt di bandiera.

mercoledì 23 marzo 2011

Senza carità né misericordia


Su L’Osservatore Romano di domani troverete un articolo di Luca Possati, che dà il meglio di sé nella ricerca di rinascenze cristiane nel pop post-moderno, e il meglio del meglio lo dà quando pensa di averle trovate, come quella volta – ne ho già scritto – che gli parve che «Homer e Bart sono cattolici» In quell’occasione non gli andò benissimo: il produttore esecutivo di The Simpson smentì seccamente, e l’autore del saggio di cui l’articolo era una recensione si affrettò a precisare: “Non ho mai detto che Homer e Bart siano cattolici”.
Può darsi che io sia troppo severo, ma penso che la prima figura di merda sia tutta di chi firma l’articolo, ma la seconda vada equamente divisa col direttore che continua a pubblicarlo, e che la terza, nel caso, vada tutta intera all’editore che non licenzia il direttore. Ma è regola senza carità né misericordia, che invece sono i pilastri sui quali poggia la carriera di ogni avanzo di sagrestia.


Lasciate in pace la Daniela, si tratta solo di un banale refuso




 
dedicato a Daniele Luttazzi

martedì 22 marzo 2011

TIMES




Il labirinto gay

Stefano è inconsapevole vittima dello “strategismo sentimentale”.

Mendelssohn


La puntata di Qui Radio Londra andata in onda stasera meriterebbe mezza dozzina di post: uno sull’uso strumentale del caso Tortora, uno sulla tagliola preparata a Santoro, uno sulla teoria del magistrato-come-si-deve, uno sul termine “circo mediatico-giudiziario”, uno sulla denuncia che adesso arriva da De Magistris, ecc.
Se avrò un po’ di tempo, ne scriverò uno. Intanto è da segnalare un dettaglio: il magistrato-come-si-deve, invece di andare ad Anno Zero, la sera deve stare a casa. Ad ascoltare una sinfonia. Di Mendelssohn. Poco mancava che Ferrara dicesse pure quale.

Naturalmente qui vi limiterete a una mezza smorfia e tirerete avanti. Tutt’al più sarete tentati dal chiedervi che tipo di Presidente del Consiglio e che tipo di Raiuno ci meriteremmo in un mondo-come-si-deve nel quale il magistrato-come-si-deve a sera ascolta Mendelssohn.
Sbagliato, perché il nostro è esoterico e non parla mai a sproposito: se diceva “una sinfonia di Mendelssohn”, non diceva per dire: pensava alla Sinfonia n. 5 in Re Maggiore, Op. 107: meglio conosciuta come “La Riforma”. Capìta, la sottigliezza? 


Gas


Non ricordo il titolo del film, ma sono quasi sicuro che ci fosse Lino Banfi, forse pure Gloria Guida. Quasi sicuro, ma potrei sbagliare. Però di sicuro – questo l’ho chiarissimo – si raccontava della figlia del presidente della solita squadretta di serie C che scopicchiava segretamente col centravanti, un bomber belloccio che a un certo punto la molla…
Be’, non ha importanza, era solo per dire che, insieme ai travestimenti trash-fetish da infermiera e poliziotta che tanto piacciono al nostro amato premier, con la figlia che flirta con Pato, viviamo grazie a lui – si fa per dire – nel remake di una commediola vecchia di quarant’anni. Invece di Alvaro Vitali che tira una scoreggia con l’accendino al culo nell’esilarante effetto-lanciafiamme, abbiamo Ignazio La Russa, ma con poco gas.