lunedì 13 giugno 2011

Il brutto della democrazia

Perché sia scongiurato il massimo effetto sottrattivo del voto degli italiani all’estero, che è calcolato intorno al 2-3%, il quorum dei votanti in patria dovrebbe raggiungere il 52-53% alle 15.00 di oggi: al 41% delle 22.00 di ieri mancherebbero ancora 5-6 milioni di votanti e dunque, al netto di ogni speranza, tutto è ancora in forse e, insomma, siamo ancora in tempo per chiederci se questi referendum abbiano o no un significato politico. Però dobbiamo fare in fretta, perché tra poche ore sarà tutto più confuso.
Qualche giorno fa, mettendo le mani avanti, Fabrizio Cicchitto ha dichiarato: “Il tentativo di strumentalizzare i referendum dando un significato politico è del tutto destituito di fondamento”. Questo è errato, perché i quesiti sui quali gli italiani erano chiamati a esprimersi erano relativi a leggi volute da questo governo ed è quindi legittimo, niente affatto strumentale, che le opposizioni vedano nel raggiungimento del quorum un ulteriore calo di consenso alla maggioranza. Ora c’è da chiedersi: se il quorum non fosse raggiunto, le opposizioni sarebbero disposte a considerarlo come un segno che il governo ha ancora un largo consenso? E il governo rinuncerebbe a strumentalizzare il mancato quorum dandogli un significato politico? Non c’è bisogno di essere maghi per prevedere che in tal caso vi sarebbe una reciproca inversione di lettura: Silvio Berlusconi e i suoi pretenderebbero che il fallimento dell’iniziativa referendaria fosse letto come un segnale di fiducia che il paese rinnova al governo, mentre alle opposizioni non resterebbe che denunciare i trucchi che hanno indotto all’astensione.
Reazioni ampiamente prevedibili stando a quanto hanno investito le parti in gioco: la maggioranza si è interamente spesa, prima, ad evitare i referendum e, poi, ad evitare il raggiungimento del quorum, mentre le opposizioni hanno voluto, da un lato, ideologizzare la portata dei quesiti e, dall’altro, farne un test supplementare sull’agonia del berlusconismo. A pagarne le spese è stata la sostanza dei problemi posti dai quesiti e personalmente sono pentito di essere andato a votare. Ma non potevo farne a meno, perché poi mi sarei sentito un verme. Il brutto della democrazia è che certe volte devi amarla anche se ti mette sotto il muso tutti i suoi peggiori difetti.

venerdì 10 giugno 2011

giovedì 9 giugno 2011

Non era colpa del cetriolo


Non era colpa del cetriolo. Non era colpa della soia. Adesso dicono sia colpa della barbabietola, ma vedrete che pure lei alla fine risulterà innocente. Dio non voglia che sia colpa del finocchio, sennò Carlo Giovanardi chi lo tiene?

Il vento è vento


Il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa esorta a “elevare i livelli di sicurezza dell’energia nucleare” (470), ma non ci sputa sopra, anzi raccomanda di non “divinizzare la natura o la terra, come si può facilmente riscontrare in alcuni movimenti ecologisti” (463). Per quanto attiene all’acqua, invece, prende atto che “la sua distribuzione rientra, tradizionalmente, fra le responsabilità di enti pubblici, perché l'acqua è stata sempre considerata come un bene pubblico, caratteristica che va mantenuta qualora la gestione venga affidata al settore privato” (485), opzione che quindi non viene affatto condannata. Ma il vento spira in altra direzione, la gente sente tanto i referendum, il quorum sarà raggiunto quasi certamente, la Chiesa non può farsi trovare a culo scoperto e se lo copre con la sciarpa arcobaleno di padre Alex Zanotelli.
Fino a ieri non era così. Nel 2007, il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ci spiegava che “la Santa Sede è favorevole e sostiene l’uso pacifico dell’energia nucleare”, perché “escludere l’energia nucleare per una questione di principio, oppure per la paura dei disastri potrebbe essere un errore: si pensi all’Italia che nel 1987 ha abbandonato la produzione di energia nucleare, ma che oggi importa la stessa energia nucleare dalla Francia ed esporta centrali nucleari all’estero mediante società a capitale pubblico”. Posizione coerente col fatto che la Santa Sede è tra i membri fondatori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, in linea con quanto aveva sempre sostenuto fin dagli anni Settanta (“Si dovrà trovare il modo di rendere accessibili a tutti i popoli le incalcolabili risorse dell’energia nucleare per il loro uso pacifico” – Paolo VI, 24.5.1978) e fino all’altrieri (“La Santa Sede, approvando pienamente le finalità dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ne è membro fin dalla sua fondazione e continua a sostenerne l’attività. I cambiamenti epocali avvenuti negli ultimi 50 anni evidenziano come, nel difficile crocevia in cui l’umanità si trova, sia sempre più attuale e urgente l’impegno di favorire l’uso pacifico e sicuro della tecnologia nucleare” – Benedetto XVI, 29.7.2007).
Stavolta nessun invito all’astensione, il gregge segua il vento: con viatico di Sua Santità, che invita a un “cambio di mentalità”. Il vento è vento. 

Il fantasma di Occhetto


Le vittorie di Milano e Napoli sarebbero l’alba del domani? Se il buon giorno si vede dal mattino, all’orizzonte si levano bagliori preoccupanti.
Neanche ha il tempo di indossare la fascia tricolore e Pisapia si ritrova Vendola sulle spalle a dar sfogo, tutto brillo d’identità, proprio alla macchietta che Libero e il Giornale hanno agitato a scopo intimidatorio fino al ballottaggio. Neanche ha il tempo di scrollarsi di dosso il Pisapippa che gli ha appiccicato Grillo e si piglia i mugugni di chi non gradisce Tabacci in giunta.
Non meglio a Napoli: neanche ha il tempo di indossare la fascia tricolore e a De Magistris riviene il raptus da pm imprudente, entrando a gamba tesa in Calciopoli. Uomo nuovo, si è detto, e chi va a scegliere come primo interlocutore? Il cardinale Sepe.
Bah, va male, molto male. A destra, tutti marci dentro e fuori. A sinistra, i soliti squinternati. Sicché i referendum sono diventati altra cosa da quella che dovevano essere: quello sul legittimo impedimento ha inglobato gli altri tre. Piaccia o no, del nucleare avremo bisogno. Piaccia o no, i quesiti sull’acqua non sono sulla sua privatizzazione. Ma dirlo è peccato: più impopolare che essere filoisraeliani e dire che Vecchioni e Jovanotti fanno cagare.
Probabilmente ci libereremo di Berlusconi, probabilmente non si rifarà la Dc, ma Dio ci liberi dal fantasma di Occhetto. 

martedì 7 giugno 2011

Lo spirito del '94 (reloaded)


Giuliano Ferrara chiama a raccolta i liberi servi del berlusconismo” per una “volitiva e inconcludente discussione” sul se e sul come si possa recuperare lo “spirito del ’94”. Tolti i virgolettati, siamo ancora a quanto diceva il 26 novembre 1994, quando il Berlusconi I scricchiolava, come oggi scricchiola il Berlusconi IV.

Trecento metri a piedi


La sezione elettorale in territorio italiano più vicina non dista più di trecento metri dalla Città del Vaticano, ma agli elettori italiani residenti in Vaticano vengono inviate le schede elettorali come se abitassero in Argentina. Il costo per il nostro erario sarà irrisorio e probabilmente al Papa fa piacere, quando vuole, ribadire che è il capo di uno stato estero, anche con queste piccolezze. Sta di fatto che i cittadini italiani residenti in Vaticano sono meno di 20 e si risparmia loro quei trecento metri a piedi.

    

lunedì 6 giugno 2011

Il modello

Nel 1920, su un giornale bavarese, apparve il seguente annuncio a pagamento: “Impiegato statale di medio livello, cattolico, 43enne, cerca ragazza cattolica, vergine, che sia brava in cucina, nel cucito e nelle pulizie domestiche. Gradita la dote, ma non è indispensabile”. Rispose una certa Maria Peintner, 36enne, figlia illegittima di un mugnaio, cuoca, non particolarmente carina, e quattro mesi dopo i due si sposarono.
Dei tre figli che ebbero, uno oggi dice: Purtroppo dobbiamo constatare, specialmente in Europa, il diffondersi di una secolarizzazione che porta all’emarginazione di Dio dalla vita e ad una crescente disgregazione della famiglia. Si assolutizza una libertà senza impegno per la verità, e si coltiva come ideale il benessere individuale attraverso il consumo di beni materiali ed esperienze effimere, trascurando la qualità delle relazioni con le persone e i valori umani più profondi”.
Sì, avete indovinato, parliamo di Joseph Ratzinger, il figlio del gendarme e della cuoca. Quando parla dei “valori umani più profondi”, avrà come punto di riferimento quei due poveracci dei genitori? Lamenta che oggi “si riduce l’amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di pulsioni istintive, senza impegnarsi a costruire legami duraturi di appartenenza reciproca e senza apertura alla vita”: avrà come modello il puro sentimento che unì i suoi genitori in virtù delle reciproche convenienze? Una nubile attempata in cerca di una sistemazione e un celibe intenzionato a risparmiare sulle spese per la domestica: penserà a questo quando parla del “valore unico e insostituibile della famiglia fondata sul matrimonio”?
“Care famiglie – esorta – siate coraggiose! Non cedete a quella mentalità secolarizzata che propone la convivenza come preparatoria, o addirittura sostitutiva del matrimonio! Mostrate con la vostra testimonianza di vita che è possibile amare, come Cristo, senza riserve, che non bisogna aver timore di impegnarsi per un’altra persona!”. Naturalmente i tempi sono cambiati, neanche un cenno alla dote.

Commemorando e ricommemorando

Venti morti e più di trecento feriti: si commemorava la Naksa, la sconfitta che gli israeliani infersero nel 1967 a una coalizione di tre o quattro stati arabi che avevano accumulato truppe e armi pesanti ai confini dello Stato di Israele, dando l’impressione di non avere intenzioni pacifiche. Quella volta furono gli israeliani ad attaccare per primi, come avevano già fatto nel 1956 contro l’Egitto, ma è che subito dopo la sua fondazione, nel 1948, lo Stato di Israele era stato attaccato da cinque o sei paesi (Siria, Egitto, Libano, Iraq, ecc.), che subirono una disfatta percepita in tutto il mondo arabo come catastrofe (Nakba), commemorata tre o quattro settimane fa con un prezzo di poco inferiore: una dozzina di palestinesi morti e circa duecento feriti.
È che il modo in cui i palestinesi amano commemorare Naksa e Nakba non è immune da pericoli: violare i confini di uno stato sovrano, per giunta tirando sassi ai soldati israeliani che stanno lì per evitare che vengano violati, è per lo meno rischioso. Rischio che pare non impensierire i commemoranti, che infatti a questo genere di scampagnate oltre frontiera portano pure mogli e figli.
Non so se ansa.it possa essere citata come fonte attendibile. Se è così, pare che anche oggi le cose siano andate come il 15 maggio scorso: “I primi incidenti si sono verificati sulla Collina delle urla, nei pressi del centro druso di Majdal Shams, dove centinaia di dimostranti palestinesi e siriani provenienti da Damasco si sono lanciati contro le postazioni israeliane. Mediante megafoni, i militari hanno allora avvertito in arabo che chi avesse oltrepassato i reticolati di confine sarebbe stato colpito da proiettili. Poi hanno sparato in aria, a scopo dissuasivo. Infine hanno sparato alle gambe di chi maggiormente si esponeva. In questa fase il bilancio delle vittime è rimasto contenuto. Ma alcune ore dopo oltre un migliaio di persone si sono radunate a Quneitra, nella zona centrale del Golan, per cercare di forzare da là le linee israeliane”.
In casi come questi è difficilissimo stabilire di chi sia la colpa, tutto sta nell’essere sostenitore delle ragioni dei palestinesi o di quelle degli israeliani. Evitiamo di andare troppo a ritroso nel tentativo di verificare in radice le une e le altre (da un lato c’è chi ritiene che gli ebrei starebbero meglio in Australia o in Madagascar o sparsi un po’ di qua e di là, dall’altro c’è chi sostiene che vi sia traccia della loro presenza nelle terre che oggi occupano, datata tre o quattro millenni) e limitiamoci a dire che chi sostiene la causa palestinese considererebbe cosa ragionevole che i soldati israeliani accogliessero gli sconfinanti con ghirlande di fiori e caraffe di limonata. Anche stavolta sono stati delusi e dunque anche stavolta dobbiamo aspettarci una chiamata al lutto.


domenica 5 giugno 2011

Catturata in Canada la farfalla che col suo battito d'ali ha provocato il tifone Songda nelle Filippine



“Un sistema marcio fino al midollo”

Tolto l’ultimo capoverso che pare appiccicato in coda un po’ a sproposito, condivido quasi interamente La politica del conte Ugolino (Il Fatto Quotidiano, 4.6.2011). Trattandosi di un articolo di Massimo Fini, al quale da queste pagine non sono mai state risparmiate critiche, mi affretto all’atto dovuto di segnalarlo come ottima analisi.   

sabato 4 giugno 2011

Dicevo e scrivevo, un cazzo

L’innata propensione ad accomodare i fatti alle proprie opinioni correnti spinge Giuliano Ferrara a pensare che sia un diritto di natura liberamente disponibile e disinvoltamente fruibile, così, spiazzando il biografo, scrive: Tra il 1989 e il 1992 […] facevo in un certo senso il rompicoglioni personale di Bettino Craxi. Scrivevo e gli dicevo […]: […] non chiudere alla democrazia maggioritaria e alla preferenza unica, […] riforma questo partito del cazzo” (Il Foglio, 4.6.2011).
Ora c’è da rammentare a chi ha memoria labile che nel suddetto arco di tempo Craxi e il craxismo erano nel punto più alto della loro parabola, che di lì a poco avrebbe invertito repentinamente il verso, prima col terremoto elettorale del 5-6 aprile 1992 e poi con l’arresto di Mario Chiesa; e non risulta affatto che Ferrara avesse previsto, tanto meno che consigliasse al segretario del Psi di aprire al maggioritario, ancor meno che lo esortasse a ripulire quel covo di filibustieri, né per presentimento, né per ragionamento. Anzi, nella puntata del 25 maggio 1989 di Radio Londra, scagliava fulmini sulla proposta di legge che mirava a una riforma elettorale in senso maggioritario, denunciandola come un tentativo di strozzare il Psi tra Dc e Pci. D’altro canto, dopo il crollo elettorale di Dc, Pds e Psi del 1992 esortava l’ex Pci a dar manforte al Caf dalle pagine del Corriere della Sera: “Non resta che lo spazio di un governo di grande coalizione”, che così, a naso, sembra roba molto impropriamente maggioritaria. E dunque? Sarà mica che si accomodino i fatti con troppa libertà? “Scrivevo e gli dicevo”: “gli dicevo” può darsi, “scrivevo” non risulta. A meno che non fosse scritto molto tra le righe, come consigliava Mosè Maimonide.
Per la riforma del partito che Ferrara dovrebbe aver consigliato a Craxi, idem con patate. Anzi, che con la scusa che la politica ha i suoi costi e che non siamo anime belle o mammolette, avendo dalla nostra, e insieme, il Machiavelli e il Guicciardini, potremmo riscrivere anche oggi quel discorso con quale Craxi chiamava in correità tutto il sistema partitico, pretendendo che gli si parasse il culo. Bene, è proprio sotto quel culo che tanti socialisti costruirono le loro ricchezza personali: tra un Martelli che lo raccomandava e un Manca che lo lisciava, ci pensò pure Ferrara, peraltro vantando di aver trovato la agognata sistemazione. Da lì sotto non emerse mai un suo mugugno a lamentare che lì si rubava e che occorreva fare pulizia. Tutt’al più gli sarà scappata una smorfia di fastidio nel constatare che il Psi era ormai diventata una organizzazione a delinquere, ma deve essere stata fuggevole e ce la siamo persa.

Tre «no» e un «sì»

Voterò «sì» all’abrogazione della legge che, anche dopo la parziale correzione che la Corte Costituzionale ha apportato al testo lo scorso 13 gennaio, continua a legittimare per premier e ministri l’impedimento al presentarsi in un’aula di tribunale per rispondere delle imputazioni loro ascritte (referendum n. 4, scheda verde): la ritengo ingiusta, odiosamente ingiusta. Dirò tre «no», invece, ai restanti quesiti.
Sui due che i sostenitori del «sì» sono stati bravi a far credere che pongano in questione la “privatizzazione dell’acqua” (referendum n. 1, scheda rossa, e n. 2, scheda gialla) faccio miei gli argomenti di Annalisa Chirico, partendo da una personale convinzione che ha molti punti di analogia con quella di GiovanniFontana e che alcuni mesi fa ho declinato anche sull’opzione nuclearista (qui), sulla quale il disastro di Fukushima non è riuscito a farmi cambiare idea. In breve, non trascuro di considerarne i costi e i rischi, ma la ritengo obbligata – se non oggi, quando forse sarà troppo tardi – con l’attuale trend demografico mondiale, l’esaurimento dei giacimenti petroliferi e la mancanza di fonti alternative di energia capaci di far fronte – almeno per ora, come onestamente ammettono gli antinuclearisti meno ideologizzati – al fabbisogno previsto già tra venti o trenta anni.
Questa è la ragione per la quale dirò «no» al quesito n. 3 (scheda grigia) e so bene che si tratta di una posizione impopolare, peraltro largamente destinata a perdere laddove fosse raggiunto il quorum. Ma la scelta dell’astensione per far fallire un referendum mi è sempre parsa intellettualmente disonesta, per principio. E allora andrò a votare: tre «no» e un «sì».

venerdì 3 giugno 2011

A un anno di distanza

Ho dedicato molta attenzione all’omicidio di monsignor Luigi Padovese (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7) e oggi, a un anno di distanza, trovo buona concordanza tra le mie impressioni di allora e quanto leggo su Avvenire, dove finalmente si ammette che la versione del movente religioso, strillata come sola possibile a cadavere ancora caldo, ha perso ormai ogni credibilità (Padovese «vive»). A tal riguardo devo rinnovare il richiamo al fatto che del Padovese si scrisse che era senza dubbio un «martire della fede» solo ai piani bassi della macchina propagandistica (Il Foglio, Tempi, lo stesso Avvenire), mentre Benedetto XVI subito tenne a precisare: “Sicuro è che non si tratta di un assassinio politico o religioso, si tratta di una cosa personale” (2), e nella omelia funebre il cardinale Dionigi Tettamanzi non fece mai cenno alla morte del Padovese come al prezzo del sangue pagato in testimonianza della fede (4).
Oggi si concede che “a distanza di 12 mesi rimangono gli interrogativi sul suo brutale omicidio”, “gli inquirenti devono ancora stabilire perché Altun abbia ucciso”, “le domande sulla morte di Padovese rimangono per il momento senza risposta”: non è affatto certo che sia stato un martirio, non più, e comunque Avvenire pare non voglia insistere nella versione del crimine di matrice islamista tanto cara a Ferrara e ad Amicone. In questo nuovo modo di leggere la vicenda, oggi finalmente aperta ad altre possibili interpretazioni, il giornale dei vescovi non può più escludere con lo sdegno di un anno fa lipotesi che il Padovese sia stato ucciso da Murat Altun per le sue pressanti avances sessuali, che a mio parere era ed è la più credibile, oltre ad essere quella che il reo confesso ha dichiarato come reale movente.


Problemini

Viene a porsi un problemino che mi pare non sia stato messo in adeguato rilievo: lo statuto del Pdl non contempla la figura del segretario politico, sicché Angiolino Alfano si trova a ricoprire una carica che in pratica non ha poteri, se non quelli che gli sono stati attribuiti con procedura a dir poco irrituale. Tenuto conto di cosa sia il Pdl, questo non stupisce più di tanto. Il fatto è che questo nodo pare destinato a rendere drammaticamente esplicita, prima o poi, la totale assenza di regole in un partito che Silvio Berlusconi ha sempre concepito e continua a concepire come proprietà privata. Ne dà ottima rappresentazione una intervista concessa ieri a Radio Radicale da Alessandra Mussolini, che non sarà fra i più autorevoli esponenti del Pdl, ma solleva la questione in termini che dovrebbero almeno impensierire chi ha a cuore la già instabile formazione politica. 

 
Non è tutto, perché in coda allintervista emerge un altro problemino, altrettanto delicato, anche se di natura tutt’altro che formale: dover giocoforza accontentare i Responsabili penalizza i Pazienti, che così cominciano a sentirsi Fessi.


Parrebbe, insomma, che per la maggioranza attualmente in pugno al centrodestra i pericoli non vengano da quelli che sono stati comprati ma da quelli che cominciano a chiedersi perché darsi a gratis. Il governo parrebbe rischiare di essere azzoppato più dai peones del Pdl che dalla Lega. Se alle opposizioni conviene che il Berlusconi IV abbia fine al più presto, si dovrebbero acuire le contraddizioni in seno alla maggioranza portando queste insofferenze in superficie. Per esempio, dovrebbe essere messa all’ordine del giorno la discussione su temi di forte impatto, sui quali il governo sia ripetutamente costretto a porre la fiducia. Il calendario della Camera dovrebbe diventare incandescente, insostenibile alla pazienza dei Pazienti. Chissà se Gianfranco Fini può nulla.


“Il contributo dei cattolici all’Unità d’Italia”

Torno sulla faccia tosta delle gerarchie ecclesiastiche che dall’inizio di quest’anno, 150° dall’Unità d’Italia, cercano di rifilarci la schifosissima menzogna che il processo di unificazione nazionale ebbe il contributo anche della Chiesa. Ci torno perché, se si fa passare questa bugia, proveranno a farci credere che fu Pio IX a partire da Quarto, sbarcare a Marsala, ecc. Me ne dà occasione il resoconto che zenit.org ci offre del convegno, tenutosi a Roma il 26 maggio, su Il contributo dei cattolici all’Unità d’Italia”, organizzato dalla fondazione Italia Protagonista, che fa capo ad autorevoli ex colonnelli di Gianfranco Fini, oggi neo caporalmaggiori di Silvio Berlusconi, e dall’associazione cristianista Cuore Azzurro, della quale è presidente – Dio, com’è piccolo il mondo! – l’autore dell’articolo su zenit.org. Ce la suoniamo e ce la cantiamo da soli, insomma, e il ritornello ripete che l’Unità d’Italia ebbe il contributo dei cattolici.
Ora, qui ci troviamo di fronte a una questione delicata. Per intenderci, è la stessa di quando si cerca di dimostrare che Pio XII fosse grande amico dei ebrei portando come prova il fatto che sette preti e cinque suore salvarono un tot di ebrei prima e dopo il 1943, come se il suo silenzio sul rastrellamento del Ghetto di Roma e la deportazione degli ebrei che i nazisti gli facevano sotto il naso sia da considerare un dettaglio. Mutatis mutandis, pare che siano stati identificati alcuni cattolici fra quanti volevano un’Italia unita.
Non bisogna avere pregiudizi: vediamo che si sono detti, i signori convegnisti, così vediamo di cosa si sono convinti e, soprattutto, di cosa vorrebbero convincerci.

“«C’è un rapporto inscindibile tra l’Unità d’Italia e storia del cattolicesimo», lo ha affermato monsignor Rino Fisichella. Ribaltando i luoghi comuni che indicano l’Unità d’Italia come una guerra contro il Vaticano, il Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione ha spiegato che «ne è passata di acqua sotto i ponti da quando un frate francescano fra Giacomo da Poirino venne sospeso a divinis con la colpa di essere andato al capezzale di Cavour e di averlo confessato in punto di morte»”.
Passaggio davvero interessante: pare che, passando, l’acqua abbia cambiato i ponti. Cavour scomunicato dalla massima autorità della Chiesa cattolica al pari di chiunque volle e fece l’Unità d’Italia, sospeso a divinis – sempre dalla massima autorità della Chiesa cattolica – il frate che si era azzardato a somministrargli gli estremi sacramenti, ma è passato tanto tempo, possiamo chiudere un occhio sull’accaduto, minimizzarne il senso. Sì, sembrerebbe proprio che la Chiesa fosse aspramente ostile a un’Italia unita, ma sono passati 150 anni, il tempo che fa di una inoppugnabile realtà storica un luogo comune.
«È vero – concede Sua Eccellenza – il non expedit è un fatto storico, ma nella Chiesa c’erano anche gruppi che lavoravano per la riconciliazione, i cosiddetti ‘cattolici transigenti’». Eccoli qui! Ecco gli immancabili equipollenti dei preti e delle suore che diedero aiuto a questo o a quell’ebreo! E chi furono – quanti furono – questi ‘cattolici transigenti’?
Lucetta Scaraffia ha provato ha indicarli nei membri di quelle “congregazioni di vita attiva, soprattutto quelle di origine piemontese come i salesiani e le figlie di Maria Ausiliatrice, o le suore carcerarie della marchesa di Barolo, [che] hanno realizzato una collaborazione fattiva con i governi che si sono susseguiti al potere nei primi decenni dell’Italia unita”. Sì, ma appunto dopo l’Unità d’Italia. Ma prima? Quanti e quali furono i cattolici che, sbattendosene della massima autorità della Chiesa cattolica, si spesero per l’Unità d’Italia? Lo ha detto il senatore Stefano De Lillo, dopo un breve inciso del senatore Maurizio Gasparri, per il quale “senza la religione cattolica, l’Italia non sarebbe quello che oggi è”. Chiuso l’inciso con un “grazie al cazzo”, veniamo a De Lillo, il quale non ha saputo fare più di due nomi: Antonio Rosmini e Silvio Pellico.
“Di Pellico il senatore De Lillo ha ricordato la grandezza umana e culturale. I suoi libri più famosi Le mie prigioni e I doveri degli italiani sono stati tradotti in più di 269 lingue, e sono ancora le opere italiane più diffuse al mondo. Per il senatore De Lillo «l’eroismo e i valori espressi nella battaglia per la libertà e per il rispetto dei diritti umani di Pellico è paragonabile a quelli del Mahatma Ghandi per l’India e di Nelson Mandela per il Sudafrica»”.
Sì, tutto perfetto, ma stiamo parlando dello stesso Pellico messo in galera dagli austriaci alleati col Papato contro l’Unità d’Italia? Rosmini, poi. Parliamo del Rosmini le cui opere furono messe all’Indice dal Sant’Uffizio?

giovedì 2 giugno 2011

Ci siamo, ci siamo quasi

2 giugno 1946, si sottovaluta l'importanza della data



[...]


“Simbolo della civiltà e della cultura”



Vedere il “simbolo religioso” nel crocifisso spesso è difficile, talvolta impossibile, e questo il caso del crocifisso in pugno al sostenitore di Ratko Mladic (la Repubblica, 1.6.2011 – pag. 21). In questo caso è possibile cadere in errore perché insieme al crocifisso – zoomando indietro a inquadrare gli altri sostenitori del “boia di Srebrenica” – era esibito anche un altro simbolo: quello della mano destra alzata a mostrare tre dita, simbolo della Santissima Trinità, nel gesto che è lo stesso delle guardie svizzere quando prestano giuramento. Insomma, ad essere ingenui o perfidi, il crocifisso qui esposto in luogo pubblico (Belgrado, 30.5.2011) potrebbe sembrare proprio un “simbolo religioso”. Non è così, perché per fortuna – come ci ha più volte ricordato Benedetto XVI, con cataratte d’eco della gerarchia ecclesiastica, fin giù all’ultimo chrétien di Avvenire – il crocifisso è anche – chissà, forse soprattutto – “simbolo della civiltà e della cultura”. Si badi bene: non già di una civiltà e una cultura, ma della civiltà e della cultura per antonomasia. Chi potrà mai negare il diritto al popolo serbo di rivendicare con orgoglio le sue radici cristiane?