giovedì 8 settembre 2011

Analogie



L’andamento della pressione fiscale che dobbiamo attenderci da questa manovra finanziaria (da lavoce.info, via phastidio.net - partic.) è curiosamente analogo alla curva di un orgasmo di Vincenzo Visco.
 

mercoledì 7 settembre 2011

L’orgoglio radicale


Stamane, chiudendo la sua consueta rassegna stampa su Radio Radicale, Massimo Bordin ha detto: “Infine, sulla pagina delle lettere de Il Foglio, c’è un’appuntita critica ad un articolo di Angiolo Bandinelli da parte di un lettore a proposito di alcuni giudizi di Bandinelli sull’arte, che è questione opinabile per eccellenza. Ma tutto questo deve riempire di orgoglio i radicali perché la replica di Giuliano Ferrara è: «Da un maestro indiscusso, accettiamo ogni cosa». E quindi non solo difende Bandinelli, ma lo definisce pure un maestro indiscusso”.
Duole deludere lui e i radicali, ma il maestro indiscusso al quale faceva riferimento Ferrara non è Bandinelli, ma l’autore dell’appuntita critica, Giulio Paolini, pittore e scultore di fama internazionale. In quanto all’appuntita critica, si trattava della correzione di ben 5 errori, tutti gravi, commessi da Bandinelli nella sua sciatta pagina sull’Arte Povera, pubblicata su Il Foglio di sabato 3 settembre: non si trattava di giudizi personali, che sull’arte sono sempre opinabili perché attinenti al gusto, ma di solari cazzate, palesi errori di documentazione storica e tecnica. Ferrara non poteva che prenderne atto, ma, non potendo dare pubblicamente del coglione a Bandinelli, ha preferito dare dell’indiscusso maestro a Paolini, in ossequio al principio di autorità che così gli consentiva di svicolare dalle questioni di merito sollevate in quella asciutta letterina.
Qui potremmo fermarci,  ma l’errore nel quale è incorso Bordin rivela un altro dato degno di interesse: l’orgoglio radicale, quel sentirsi sale della terra che promuove anche un cretino a superiore intelletto per il solo avere in tasca la tessera di un partito politico, che però sarebbe meglio definire setta. Non è il caso di intrattenerci troppo su questo, basterà solo rammentare a Bordin, se dovesse passare da queste parti, la differenza che cè tra un Paolini


e un Bandinelli
  


Così l’orgoglio radicale si dà una calmata.

martedì 6 settembre 2011

“L’Illuminismo dei cattolici”

Volendo schematizzare – scriveva Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, 4.9.2011) – di illuministi ce n’era di due tipi: quelli moderati, tipo Voltaire, Hume e Kant, e quelli radicali, tipo Diderot, d’Holbach e Lessing. Io penso che, a leggere L’Illuminismo dei cattolici (Avvenire, 6.9.2011), i primi avrebbero scosso il capo e i secondi sarebbero scoppiati a ridere.
Schematizzare può tornare utile a semplificare, ma lo stesso Firpo metteva in guardia: “Molte anime, molte differenze e anche aspri contrasti animavano quel complesso movimento che sotto il nome di Illuminismo percorse da un capo all’altro l’Europa del Settecento”. C’è da ritenere, dunque, che scuotere il capo e scoppiare a ridere non esaurirebbero la gamma di reazioni che oggi gli illuministi avrebbero alla lettura di un articolo così stronzo: c’è chi lo metterebbe via senza neanche arrivare in fondo, chi non perderebbe un attimo nell’iniziare a scrivere un pamphlet in risposta, chi si limiterebbe a staccare la pagina dal giornale dei vescovi per il pulirsi il culo, ecc. Una sola cosa è certa, ed è che nessun illuminista si sarebbe armato di un randello per andare ad appostarsi sotto casa di Pierangelo Sequeri, Francesco Botturi e Franco Cardini, i “tre esperti” che “replicano alle tesi di Massimo Firpo” e interpellati da Edoardo Castagna, autore dell’articolo, tanto meno sotto casa di quest’ultimo: la tolleranza, infatti, era caratteristica comune a tutti gli illuministi.
Anche per questo – Firpo teneva a precisarlo – va decisamente sfatato “il mito storiografico del nesso causa-effetto tra Illuminismo e Rivoluzione francese da cui sarebbero poi scaturite le fantomatiche genealogie che vi avrebbero colto l’archetipo del Terrore robespierrista e addirittura la matrice prima di tutte le più sanguinarie tirannie sperimentate in seguito dalla storia europea”, perché si tratta di un mito “coniato dai reazionari di fine secolo”, “di origine hegeliana, sviluppato e piegato alle loro costruzioni intellettuali anche da Marx e da Nietzsche, ripreso poi da Horkheimer e Adorno, e poi da Foucault”.
E dunque gli illuministi avrebbero in comune solo la tolleranza? Ovviamente, no. Basti la celeberrima pagina di Kant: “L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro…” (Was is Aufklaerung? – 1784). Parliamo del coraggio di servirsi della ragione, rifiutando la guida dell’autorità storicamente incarnata nei detentori del potere, che ci spacciano la loro verità come rivelata.
“Si comprende dunque – scriveva Firpo – come l’Illuminismo abbia potuto assumere anche un significato metastorico, diventando una sorta di temibile archetipo intellettuale, bersaglio di severe condanne da parte della Chiesa di ieri e di oggi”. Ecco, dunque, un altro carattere comune a tutti gli illuministi di ieri e di oggi: non essere cattolici. Anzi, trovarsi spessissimo su posizioni opposte a quelle della Chiesa, e perciò il doverne subire la condanna e non di rado la diffamazione. Poi, però, ci sono i molto fessi o i molto furbi che pensano di poter cambiare le carte in tavola inventandosi L’Illuminismo dei cattolici. Hanno bisogno di attenuare la condanna e di arrotondare la diffamazione a uncino.

“Firpo accusa Benedetto XVI – scrive Edoardo Castagna – di «aver più volte additato il deprecabile atto di nascita» dell’odierna civiltà proprio nei Lumi, tralasciando tra l’altro il celebre discorso di Subiaco del 2005 nel quale l’allora cardinal Ratzinger aveva ribadito che «è stato merito dell’Illuminismo aver riproposto i valori originari del cristianesimo, fin dal principio religione del logos»”.
Ecco, da subito, svelato il trucco: siamo di fronte a chi si sente molto furbo e pensa di avere a che fare con dei fessi. Ratzinger in persona avrebbe benedetto l’Illuminismo, ergo l’Illuminismo, se non cattolico, è cristiano: come se bastasse levare la maiuscola al Logos giovanneo, che è pura trascendenza, per ridurlo al logos degli illuministi, che è la ragione immanentissima. Cancellate centinaia di pagine del magistero petrino che condannano l’Illuminismo, almeno dalla Inscrutabile divinae di Pio VI (1725) e fino allo stesso Ratzinger nel 2008 (“Il Vangelo non sia in alcun modo confuso nelle menti dei credenti ai principi laici associati con l’Illuminismo”, e sì che l’Illuminismo ha riproposto i valori originari del cristianesimo”). Ma non bisogna essere troppo severi col Castagna, in fondo cerca imitare un treccartaro un po’ più bravo di lui, e si può capire che non sia troppo lesto di mano. Bisogna essere clementi, passiamo agli esperti.
Pierangelo Sequeri: “L’allargamento del logos è l’istanza dell’Illuminismo incompiuta. Il formalismo di una ragione che non vuol sapere nient’altro di ciò che trova in se stessa, e da lì ricostruire tutto il mondo, è stato sconfitto dalla storia”. Ecco una interessante spiegazione di come l’Illuminismo abbia tradito il logos: ha voluto emanciparlo dal ruolo di ancella della fede, l’unica che dà luce vera. E allora che senso ha parlare di un Illuminismo dei cattolici? La fede non ti concede alternative: o cattolico o illuminista.
Francesco Botturi: “La domanda sulla compatibilità tra modello illuminista della ragione e antropologia religiosa o, più specificamene fede cristiana, percorre la storia intera della seconda modernità, sia sul fronte laico, sia su quello religioso. Le risposte sono state le più varie. Si pensi alle posizioni di un Leopardi, un Beccaria, un Cattaneo, da una parte e di un Taparelli d’Azeglio, un Manzoni, un Rosmini, dall’altra; tutte così diversamente connotate tra loro, benché confrontabili e interagenti. Una varietà che dipende dalla multiformità storica del fenomeno illuminista stesso, a cui ha corrisposto una variegata sensibilità religiosa e cristiana. La prima osservazione dovrebbe dunque concludere all’impossibilità di ricondurre l’Illuminismo ad uno schieramento bipartito o addirittura a un idealtipo univoco… Non tutto l’Illuminismo fu giacobino, per intenderci. Illuminista è anche e più vastamente la rivendicazione che tradizione e autorità ricevano il consenso della libertà”. E così, allargandolo di quel tanto da infilarci dentro anche Rosmini, abbiamo un l’Illuminismo che può arrivare pure a concepire la libertà della ragione come obbedienza al papa. Da rompergli il randello sul groppone, questo esperto.

Ma veniamo al nostro esperto preferito, il sempre impareggiabile Franco Cardini, quello che “noi ci dichiariamo integralmente e attualmente fascisti” (1965), quello che “a noi pare che i paesi a regime socialista siano più umani di quelli a regime capitalista” (1968), quello che “Goebbels è senza dubbio un geniale pioniere” (1974), quello che “piantatela una buona volta di rabbrividire dinanzi all’idea della pena capitale” (1981), quello che “non possiamo non dirci nietzscheani” (1983), quello che “io credo che Dio parli in tedesco con gli angeli” (1990).
Qui, mantenendosi a un livello appena più decente, ma neanche tanto, non abbiamo nessuna ragione scientifica per sostenere che un sistema è migliore di un altro, a meno di affidarsi al determinismo storico o alla legge della giungla, per cui chi vince ha ragione perché vince. Come si fa a parlare del sistema nato dal sistema illuministico come il migliore dei mondi possibili, quando sappiamo tutti che anche il comunismo e il nazismo sono figli dei Lumi? Si può anche dire che sono figli degeneri, va bene: ma quando si ha una casistica storica che ci mostra come non esistano sistemi ottimali, con quale ottica si continua a percorre questa strada? Per non parlare che nel Settecento buona parte della Chiesa cattolica era coinvolta nel processo illuminista e in particolare nelle logge massoniche; soltanto dopo si è sviluppata una dialettica, con la massoneria che ha virato in senso anticattolico. L’Illuminismo è in gran parte legato al mondo cattolico”. Capite che, a volersi dire illuministi, qui conviene essere massimamente tolleranti e limitarsi a scuotere il capo pensando alle decine di encicliche che condannano la Massoneria. Poi, sì, sentirci ripetere che il comunismo e il nazismo siano figli dei Lumi si può cedere alla voglia di scrivere un pamphlet. Ma leggere che nessuna ragione scientifica possa serenamente dichiararsi in favore di un sistema razionale piuttosto di un sistema fideistico, be’, ecco, fa venir voglia di lasciar perdere il pamphlet e fare almeno un pensierino al randello. Pensierino fugace, perché in fondo siamo illuministi, mannaggia.

lunedì 5 settembre 2011

“Un grande meeting, quest’anno”



Un segno di rispetto


Quattro blogger che concorrono al Macchianera Blog Awards 2011, uno dei quali nemmeno sapevo chi fosse, mi hanno scritto per chiedermi il voto e sono certo che alcuni dei candidati, soprattutto quelli ai quali non ho mai fatto mancare le mie tangibili manifestazioni di stima, in qualche caso anche di simpatia, se lo aspettano, pur senza cedere alla tentazione di chiedermelo: questo post è una risposta ai quattro e un messaggio agli altri.
Premesso che avrei voluto tanto essere candidato anch’io, ma solo per poter scrivere adesso le stesse cose senza dover subire il sospetto che siano mosse dall’invidia, premesso che vorrei tanto vincere uno di quei premi ma solo per poterlo rifiutare con una motivazione ancora più dura di quella che qui porto, direi che questo genere di concorsi sono una vera vergogna. Potranno essere utili a chi li organizza per scroccare un po’ di visibilità, non caso li organizza Gianluca Neri, da quando non ha più niente da dire.
Per come vi si partecipa, poco importa se da candidati o da votanti, e, prim’ancora, per come sono concepite, per quella avvilente atmosfera che è comune alle mostre canine, si tratta di patetiche riproduzioni in scala 1:25 dei premi letterari di fine estate, che è sempre assai difficile dire se siano più tristi, volgari o tristi e volgari. Non vi voto, dunque, prendetelo come un segno di rispetto.
 

Duce, fattene una ragione


Claretta Petacci non riesci a levartela di dosso, te la ritrovi appesa accanto, a testa in giù, e può darsi che sia prova del suo immenso amore. Ci sono anche i gerarchi, è vero, almeno quelli più compromessi, quelli che non hanno fatto in tempo a tradirti per salvare il culo o che avevano scommesso che la tua buona stella avrebbe brillato in eterno, e anche loro penzolano, puoi dire che non ti hanno abbandonato, via. Per il resto, caro Duce, dovresti sapere come sono gli italiani, peraltro, e non a torto, li hai sempre intimamente disprezzati, anche quando ti consideravano un dio, e forse proprio per quello, perché di te in fondo non hai mai avuto stima, ma solo una formidabile superstima.
Sapendo bene, e da sempre, che la Sacra Patria è un Paese di Merda, ora non dovresti cadere dalle nuvole, che d’altra parte, a testa in giù, ti stanno ancora sotto gli stivali. “Cortigiani, vil razza dannata”, dice Rigoletto, ma potrebbe dirlo pure il Duca di Mantova, se solo il libretto non chiudesse col terzo atto, gli scandali di corte corressero di bocca in bocca per il Ducato, ecc. Non dovresti stupirti troppo, caro Duce, se prima ti adoravano come un’icona pop e ora ti rinfacciano i mille errori che ti hanno portato alla rovina, che è pure la loro. Prima non potevi tirare una scoreggia che tutti la prendevano per un ordine, perché si sa che “il Duce ha sempre ragione”, e tutti i tuoi difetti, anche i più miserabili, apparivano magnifiche virtù. Frivolo? Era sublime leggerezza. Narcisista? No, è che avevi il midollo di un leone. Puttaniere? Macché, incarnavi la leggenda del maschio latino. Cinico e bugiardo? Ma no, era la tua superiore arte del governo. Rivoluzionario a chiacchiere, ma più conservatore di un qualsiasi borghesuccio? Macché, novello Principe del Machiavelli. Ora, da cadavere, è solo un fastidioso residuo di devozione che impedisce loro di essere crudeli nel dirti che ha un alito da far schifo, e non si trattengono neppure dallo storcere il muso.
Quel ciccione che ti si strusciava addosso millantandosi tuo consigliere, per esempio. Ieri, meno di un anno fa: “Non mi sognerei mai di mettere becco nel suo modo di divertirsi, di stare con le donne, di considerare amici e amiche nelle ore libere, vorrei anche vedere” (Il Foglio, 1.11.2010). Oggi, invece, “dovrebbe vivere con intorno un mucchio di gente seria e responsabile, e ce n’è parecchia tra i suoi collaboratori, che abbia il potere di dirgli no, quella telefonata non la deve prendere, no, quell’operazione sottopelle è troppo a rischio, no, quello non è un tipo affidabile” (Il Foglio, 4.9.2011). Duce, fattene una ragione, sei fottuto.

“Chi ha orecchie per intendere intenda”



L’idea di spostare le feste patronali alla domenica più vicina, uno dei conigli più spelacchiati che questo governo ha tirato fuori dal cilindro della sua manovra finanziaria, ha provocato solo qualche mugugno clericale, e per la semplice ragione che questo già accade, almeno da due decenni, in gran parte del paese. Qualcuno ha sollevato la questione di principio, questo sì, ma si è capito subito che la consegna fosse quella di non insistere troppo, perché lo slittamento delle feste patronali era il contributo simbolico al risanamento economico del paese che la Cei considerava più che conveniente, e sul quale era disposta a cedere, anche per meglio difendere l’intangibilità di assai più sacri principi come le esenzioni fiscali e l’8xmille. E però c’è stata un’eccezione, perché da subito, e poi senza mai cedere, anzi, facendo voce sempre più grossa, il cardinale Crescenzio Sepe si è detto contrario a far slittare la festa di San Gennaro, patrono della città di cui è arcivescovo, arrivando a usare toni assai duri: “Il Senato faccia ciò che vuole, noi facciamo ciò che vogliamo, cioè ciò che vuole Dio, e chi ha orecchie per intendere intenda” (Corriere del Mezzogiorno, 4.9.2011).
Sarà che Napoli, più che una città, è una condizione dello spirito che accomuna il plebeo e il patrizio, ma in queste parole vibra l’eco della sfida che il contrabbandiere di sigarette oppone ad ogni ulteriore inasprimento delle pene che lo Stato decide di erogare a chi commette tale reato: lo Stato faccia ciò che vuole, ma io sono contrabbandiere e contrabbandiere resto. In più, è vero, Sua Eminenza ci aggiunge quel “chi ha orecchie per intendere intenda”, che per metà è evangelico e per metà è camorristico, perché equivale a quell’implicita proposta che in passato fu in più occasioni avanzata da qualche illuminato contrabbandiere di alto rango: concedere a Napoli uno statuto speciale in deroga alle prerogative del Monopolio di Stato. Al netto della sfida alla legalità, il contrabbandiere sembrò dar corpo a un’idea che profumava di liberismo e di federalismo. Così pure Sua Eminenza, sfidando il Parlamento. 
 

domenica 4 settembre 2011

Postmodernism is dead



Arriva su la Repubblica di sabato 3 settembre, tradotto da Anna Bissanti, un lungo articolo di Edward Docx, pubblicato alcuni mesi fa su Prospect Magazine col titolo Postmodernism is dead, che qui diventa Addio, Postmoderno. Tutta nel titolo, la tesi non è affatto nuova – basti pensare a The death of Postmodernism and beyond di Alan Kirby (Philosophy Now, 2006) – ma qui si fa forte di un argomento che l’autore ci offre come inoppugnabile: il 24 settembre, al Victoria and Albert Museum di Londra, si inaugurerà una prima retrospettiva globale di quanto il Postmodernismo ha prodotto in campo artistico, e tanto farebbe da lapide all’“idea predominante della nostra epoca”. Non ci vuol molto a capire, infatti, che per Docx non sarebbe morto solo un movimento artistico, ma “un modo di pensare e di fare”, perché col Postmodernismo siamo dinanzi a “una tendenza artistica evolutasi fino ad assumere significato sociale e politico”. Il consueto interpretare l’arte come prodotto di una società, dunque, qui è capovolto: “ogni forma d’arte è filosofia e ogni filosofia è politica”, ma il pensiero e l’azione sarebbero frutto della loro rappresentazione, non viceversa, sicché parrebbe che la fine di un mondo possa essere causata dal collasso della sua immagine, non il contrario, e che questa immagine non proceda dal mondo, ma lo preceda, anzi. Docx non chiarisce se questo assunto valga in assoluto o solo per il Postmodernismo e, in tal caso, perché. Verrebbe voglia di consigliargli di non sprecarsi in frivoli articoletti, ma di impegnarsi seriamente nella costruzione di una teoria, possibilmente solida, così poi vediamo se ci convince. Chissà, può darsi riesca a spiegarci l’avvento del nazismo col tramonto del Déco.
Il Postmodernismo, dunque, è morto. Era “scherzoso, intelligente, divertente, affascinante”, prediligeva “la mescolanza, l’opportunità, la ripetizione”, aveva un debole per “l’apparenza e l’ironia”, “mirava a rompere col passato”, era animato da “un forte desiderio di disfare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’individuo, l’intero territorio del dibattito occidentale”, insomma, era uno stronzetto mosso da pulsioni nichiliste che ci ha instillato una letale “mancanza di fiducia nei dogmi”, generando in noi una sensazione di confusioneche negli ultimi anni è diventata onnipresente, sicché erano in tanti a lamentare: “Nessuno ci sta dicendo che cosa fare”. Ma per fortuna, è finita: si avverte, infatti, “un crescente desiderio di una maggiore veridicità”, e “i valori tornano ad avere importanza”, e “stiamo entrando in una nuova era” che “potremmo provare a chiamare Età dell’Autenticità”. Non ci vuole molto per capire che l’anima del Postmodernismo era il Relativismo e che, pur riconoscendogli qualche merito, Docx gli rimprovera di averci fatti orfani della Verità, rendendoci così deboli e insicuri, vulnerabili alle bieche norme del mercato che hanno sostituito le leggi dei padri. Non si trattasse dell’articoletto di un professorino che insegna al Christ’s College di Cambridge, sembrerebbe il fervorino di un pretonzolo sulla crisi di un mondo che ha smarrito le sue radici cristiane. Ma la riflessione si mantiene a un livello basso, poco più articolato del malessere di una anziana signora con veletta davanti a una installazione di Hermann Nitsch.

sabato 3 settembre 2011

Allontanate i bambini



Bisogna avere tanta comprensione per il povero Sacconi. Gli era venuta la brillante idea di scorporare gli anni di università e quello della leva militare obbligatoria dal computo di anzianità per l’età pensionabile, il Consiglio dei Ministri l’aveva fatta sua, si era sentito un genio, avrà avuto la sensazione che la prostata gli resuscitasse . Poi, nel volgere di un giorno, la sua brillante idea si è rivelata una stronzata di notevole portata, anche un pochino incostituzionale, e il Consiglio dei Ministri l’ha subito ritirata, anche con un certo imbarazzo, cosa rara per quella carretta di svergognati. Povero Sacconi, si può capire gli sia venuto l’acido. Spettacolo inverecondo: prima di pigiare play, allontanate i bambini.


 


[grazie a Denis per la segnalazione]

venerdì 2 settembre 2011

“A vent’anni stavo in barca con D’Alema, a trent’anni dormivo a casa di Berlusconi”


Non fosse caduto in disgrazia, il suo curriculum vitae farebbe invidia a tanti: “A vent’anni stavo in barca con D’Alema, a trent’anni dormivo a casa di Berlusconi”. In un paese dove il successo è così spesso dato, e quasi sempre rappresentato, assai più che dal pubblico riconoscimento di meriti, dall’intimità privata che si riesce a poter vantare coi potenti, Giampaolo Tarantini non poteva a buon diritto dirsi un uomo di successo? Non fossero venuti a galla i suoi maneggi, che da subito, e per sua stessa ammissione, hanno mostrato i caratteri della spregiudicatezza che si è fatta ripetutamente prossima al reato, chi non avrebbe dato per scontato che tanta confidenza con due uomini così potenti, due autorevolissimi leader politici, due premier, fosse prova provata di qualche sua indubbia dote, ancorché ignota, comunque degna di un meritato successo? Tanto più solido, nel suo caso, per la caratura dei potenti coi quali, ancora fino a ieri, poteva vantare di aver intrattenuto rapporti personali, per il grado di intimità di queste frequentazioni, per la continuità nel tempo e per la trasversalità di ambienti.
Ora, ammettiamo per pura ipotesi che il nostro uomo di successo non sia in carcere, che le vicende delle quali è stato protagonista non siano mai arrivate sulle scrivanie dei magistrati che indagano sul suo conto, né nelle pagine di politica interna e di cronaca giudiziaria. Ammettiamo, dunque, di ignorare quanto sappiamo sul suo conto e di essere ospiti a casa sua, in poltrona, con un bicchiere in mano, a un metro da un tavolinetto sul quale, in splendide cornici di radica o d’argento, stiano due foto: Giampaolo Tarantini accanto a Massimo D’Alema, ritratto al timone della sua Ikarus; Giampaolo Tarantini sotto braccio a Silvio Berlusconi, sui prati della tenuta di Arcore. Chi oserebbe sospettare di essere a casa di un delinquente? Ve lo dico io: solo chi nutra il pregiudizio che, per sua intrinseca natura, il potere non possa fare a meno di concedere intimità a dei delinquenti.
Ve la sentite di farvi vittima di questo pregiudizio? O preferite rinunciare a un altro pregiudizio, che è quello di considerare di per se stesso un merito l’intimità coi potenti, che pure è esibita da tanti uomini di successo, non necessariamente delinquenti? Io vi consiglierei questa seconda opzione. E allora dovete cominciare a guardare con sospetto quel genere di foto, quel genere di cornici, quel genere di tavolinetti. Dovete cominciare a non invidiare la prossimità al potere e a sospettare della sua esibizione, che è colpevole sempre.

Non se ne andrà


Quando Silvio Berlusconi telefona a Valter Lavitola, lo scorso 13 luglio, sa bene che molto probabilmente quella conversazione sarà intercettata, perché l’uomo è coinvolto in almeno due inchieste ed è assai verosimile che le sue utenze telefoniche siano sotto controllo. Sa bene, dunque, che il contenuto di quella telefonata avrà buone possibilità di essere reso pubblico, anzi, non è escluso che decida di farlo proprio a tal fine, di modo che le sue affermazioni possano avere il sapore di uno sfogo sincero, fatto in piena libertà con persona dalla provata fede. È solo una mia ipotesi, ovviamente, ma mi pare abbia trovi fondamento da ciò che pare emergere come unica premura nel corso della conversazione telefonica: dichiararsi interamente estraneo ai traffici di Luigi Bisignani, dei quali Silvio Berlusconi tiene con insistenza a ribadire d’essere vittima, per il coinvolgimento, che pure concede possa essere inconsapevole, di Gianni Letta. Dietro ci sarebbe un complotto dei suoi “nemici”: Italo Bocchino, Massimo D’Alema, Ferruccio De Bortoli, Luca Cordero di Montezemolo.
Anche se la mia ipotesi fosse errata, sarebbe verosimile un simile scenario? Per meglio dire: è più probabile che Silvio Berlusconi ritenga davvero credibile questo complotto ai suoi danni o invece è possibile che voglia offrircelo come spiegazione dell’enorme intreccio che coinvolge tanti fra i suoi uomini più fidati (Denis Verdini e Marcello Dell’Utri, innanzitutto, oltre Gianni Letta)? La domanda ha senso solo fino a un certo punto, perché si tratta di un uomo malato per il quale non c’è troppa differenza tra ciò che crede davvero e ciò che vuole far credere: la realtà, per Silvio Berlusconi, è ormai soltanto ciò che può tornargli utile ad accreditarsi, innanzitutto dinanzi a se stesso, come innocente. Meglio: come al di sopra di ogni responsabilità.
In questa fantasiosa versione dell’enorme intrico di malaffare al quale diamo il nome di P4, che con quella telefonata ci è suggestivamente offerta come se certificata dalla nuda buona fede, risuona l’eco della frase che l’anno scorso Silvio Berlusconi citò dai falsi diari di Benito Mussolini, per calzarla: “Dicono che ho potere, ma non è vero. Forse ce l’hanno i gerarchi, ma non lo so”. Se questa ipotesi è valida, “tra qualche mese me ne vado da questo paese di merda di cui sono nauseato” è frase che pretenderebbe di certificare la sua buona fede, e in tal caso possiamo esser certi che non se ne andrà.

giovedì 1 settembre 2011

Non si dica

Il contribuente è “moralmente autorizzato” all’evasione fiscale se lo Stato lo tassa per più del 33% di quello che guadagna, questo almeno è quanto sosteneva l’ometto che prometteva “meno tasse per tutti”, e che ora, dopo non essere riuscito ad abbassarle, pensa all’eventualità del carcere per chi le evada. Non si dica che è una merda, è peggio. 

Se la Cei non recepisce il consiglio di Gennaro Acquaviva


Con una notevole faccia tosta, essendo stato il plenipotenziario per Bettino Craxi nelle trattative tra Stato e Chiesa per la revisione del Concordato del 1984, Gennaro Acquaviva spreca l’occasione di star zitto e interviene nel dibattito che in questi ultimi giorni si è riaperto sull’8xmille, sua creatura, e ammette che, sì, “quella percentuale è troppo alta” e “andrebbe ridotta al 7xmille” (Corriere della Sera, 30.8.2011).
Solo la quota relativa ai contribuenti che nella loro dichiarazione dei redditi fanno specifico indirizzo dell’8xmille alla Chiesa cattolica è nota: è solo il 40%, e già fanno poco più di un miliardo di euro. A questa cifra bisogna aggiungere la quota parte del restante 60% dei contribuenti che omette ogni indicazione, e che per circa il 90% prende comunque la via del Vaticano. Parliamo di una cifra mostruosa, e poco più della metà è rubata con un trucco schifoso: Gennaro Acquaviva pensa che forse è il caso di alleggerirla di qualche centinaio di milioni. Non di più, per carità di Dio, perché “la Chiesa cattolica tiene letteralmente in piedi e unito il nostro Paese” e, “se si fermano i preti e le parrocchie, si ferma l’Italia”. E questo forse dà unidea di cosa debba intendersi con “socialista” quando si parla del Psi di Bettino Craxi.
Sì, vabbe’, concesso, e quando questa sforbiciatina? Boh, chissà, stando a quanto è stato stabilito nel 1984 grazie all’illuminata opera di Gennaro Acquaviva, “la prima mossa è in mano alla Cei”. Tutt’è che adesso la Cei recepisca il suo autorevole parere, vediamo se lo recepisce, può darsi che lo recepisca. Potremmo concordare in questo modo: se la Cei non recepisce il consiglio di Gennaro Acquaviva, sarà lui a recepire il nostro, che è quello di andare a fare in culo. 

mercoledì 31 agosto 2011

Te Deum


Fino alla scorsa settimana, muoveva critiche all’alleanza corsa in soccorso dei ribelli e premeva perché si aprissero trattative con Gheddafi, come nemmeno più Frattini. Era contro ai bombardamenti, come nemmeno più Calderoli: “Da quando sono iniziati abbiamo dovuto ridurre il numero delle funzioni religiose”, e poi: “Non è vero che le bombe siano destinate solo a Gheddafi e chi lo sostiene”, e ancora: “Invece di buttare bombe bisognerebbe aiutare la Libia ad avere un futuro”.
Come? Monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, vicario apostolico a Tripoli, non doveva avere una risposta convincente, rompeva solo il cazzo, e lamentava: “Il mio appello è stato rigettato quasi con disprezzo”. Poi, oltre al disprezzo, qualcuno deve avergli fatto capire che era meglio se stava zitto, e deve averglielo fatto capire in modo assai convincente, perché con la scusa di aver bisogno di cure urgenti fuggiva in Italia e dall’Italia seguiva trepido le sorti del suo gregge.
Dall’Italia, mentre i bombardamenti stanavano Gheddafi dal suo bunker e lo costringevano alla fuga, le cose libiche mutavano di colpo prospettiva e Sua Eccellenza oggi sembra più sereno: “Sto finendo le cure e spero di rientrare presto a Tripoli, tra la mia gente”. Pronto ad officiare un bel Te Deum

[...]




martedì 30 agosto 2011

Tappeti persiani in puro acrilico


Il berlusconismo non è morto, basta guardare cosa è diventata la manovra finanziaria dopo il vertice di Arcore: i saldi dovrebbero rimanere invariati, i tempi dovrebbero essere rispettati, ma non si capisce come, si capisce solo che l’accordo accontenta gli interessi particolari di chiunque fosse in grado di farlo saltare facendo saltare il governo e mandando a picco la barca, e così si può dire che l’accordo c’è, ed è sul far finta che si troveranno 40-50 miliardi di euro senza aumentare l’Iva, senza toccare i redditi superiori a 90.000 o 200.000 euro, senza patrimoniale, senza tassare i beni di lusso, senza toccare i capitali scudati, senza far soffrire gli enti locali, senza toccare i privilegi di alcuna corporazione, mantenendo le agevolazioni fiscali di cui gode il Vaticano, senza aumentare le tasse sulle operazioni finanziarie, lasciando in pace i baby pensionati, strizzando un occhio a chi elude o evade, ma col solenne impegno a cambiare la Costituzione per abolire le Province.
L’Europa e i mercati avranno un annuncio, stamane, e suonerà trionfale al punto che per due o tre giorni potranno anche cascarci. Poi arriveranno le minacce da Bruxelles e gli speculatori capiranno che al morto è stato dato un velo di cipria. E allora ci sarà bisogno di un nuovo vertice di Arcore.
In questo il berlusconismo è ancora florido, e si tratta della sua vera anima, ben oltre il millantato dinamismo, l’esibito efficientismo, l’insistito esercizio di ottimismo, la pratica del ricatto e della lusinga, il vittimismo aggressivo, le leggi ad personam e le laute mance ai servi fedeli: durare per durare, vendendo tappeti persiani in puro acrilico.

Memento


Ora che possiamo ragionevolmente porre Muammar Gheddafi nella galleria dei dittatori del passato, occorre rammentare il convegno islamico-cristiano che promosse nel 1976 e la dichiarazione congiunta che firmò col rappresentante della Santa Sede, il cardinale Sergio Pignedoli, nella quale Gerusalemme era dichiarata “città araba” e gli israeliani erano definiti “occupanti”.

lunedì 29 agosto 2011

Allo stato attuale

Come era facilmente prevedibile, i privilegi del clero cattolico risultano intoccabili. Parte dell’opinione pubblica ha tentato di metterli in discussione, e non già per abolirli, ma solo per adeguarli alle difficili condizioni economiche del paese, senza trovare un solo esponente del ceto partitocratico disposto a farsene carico.
Dalle pagine di Avvenire, per voce di Angelino Alfano, il Pdl rinnova la stretta intesa con le gerarchie ecclesiastiche che Silvio Berlusconi aveva sigillato, all’indomani della sua vittoria elettorale del 2008, con una frase degna di passare alla storia: “Il Governo non può che compiacere il Papa e la sua Chiesa”. Il sostegno che la Segreteria di Stato Vaticano e la Cei avevano dato al centrodestra nel corso della campagna elettorale era stato pieno, la maggioranza parlamentare della quale godeva il Presidente del Consiglio era solidissima, gli scandali riguardanti la sua vita privata erano ancora da venire, il “caso Boffo” non aveva ancora rotto l’incanto, la crisi economica internazionale sembrava volgere al termine e comunque la posizione dell’Italia sembrava relativamente solida, di là dai guasti strutturali di sempre. Di lì a poco, in una impressionante catena di eventi a lui sfavorevoli, Silvio Berlusconi si sarebbe trovato in serie difficoltà su molti fronti, il clero cattolico avrebbe cominciato a smarcarsi, ma il dovere del Governo di compiacere il Papa e la sua Chiesa non sarebbe mai venuto meno sulle questioni rilevanti: i privilegi del clero cattolico in pressoché ogni settore della vita pubblica venivano mantenuti, consolidati e, per quanto possibile, accresciuti.
Ben al di là della conferma di un impegno a salvaguardare gli interessi vaticani sul territorio italiano, Angelino Alfano fa sue (“toto corde”) le ragioni che il giornale dei vescovi ha opposto a quanti si sono limitati a chiedere se la Chiesa fosse disposta a fare la sua parte a fronte di una manovra finanziaria che dovrà far cassa per oltre 40 miliardi, con l’intento dichiarato di tagliare le aree di privilegio: “per attaccare la Chiesa si usano cifre fantasiose e si inventano privilegi che non esistono”, “le sue presunte ricchezze sono ricchezze dei poveri”, “si è usato l’arnese rugginoso di un concetto di uguaglianza fasullo”, a farlo erano stati i soliti “nichilisti professionisti, con la loro cultura della morte e dell’edonismo vuoto”.
Non diversamente è stato per il maggiore partito di opposizione. Alcuni ex democristiani hanno subito liquidato come provocatorie le richieste di una equiparazione fiscale tra gli immobili di proprietà ecclesiastica destinati ad attività di natura “non esclusivamente commerciale” (e qui, una volta per tutte, c’è da chiarire che, dove il clero cattolico intraprende, nulla ha dichiarato fine esclusivamente commerciale), e poi è ufficialmente intervenuto il segretario, Pierluigi Bersani, a dimostrare tutta la sua goffa malafede invitando “chi discute di Ici e Chiesa” a “farsi un giro nelle Caritas” (come se fossero in discussione le sedi della Caritas).
La Lega ha evitato addirittura di esprimersi, in tutte le sue componenti, e così l’Idv di Antonio Di Pietro e i comunisti di Nichi Vendola. Qualche sussurro incomprensibile del Terzo Polo, ma intuibile come di fastidio a faccenda oziosa. Unici a parlare, i Radicali italiani di Mario Staderini e i Socialisti di Riccardo Nencini, in tutto sei gatti, che, trovandosi, hanno pensato bene di sollevare l’attenzione anche sull’8xmille, altro problema senza soluzione.
In generale, possiamo concludere che il nostro ceto politico non riesce a considerare privilegi quelli che dal Concordato del 1929 ad oggi sono maturati in posizione di prerogativa della Chiesa nei confronti dello Stato. D’altro canto, la Chiesa li rivendica come diritti che ormai sono inestricabili da quelli relativi alla libertà di culto. Su questo punto trova sostegno in un ceto politico che, fatta eccezione per forze prossime all’irrilevanza, è complessivamente organico al sistema entro il quale Stato e Chiesa hanno ampie aree di comune interesse a trasformare la cittadinanza in sudditanza. Allo stato attuale, questo sistema è inattaccabile. Chi ha sollevato la questione dei privilegi della Chiesa non poteva aspettarsi che averne conferma, e poi nientaltro. 

sabato 27 agosto 2011

Teorema


ad A.C.,
sperando gli passi presto

Seguo da quasi due anni, deliziato dalla sua scrittura, la rubrica tenuta da Guia Soncini su D, l’inserto che la Repubblica manda in edicola ogni sabato. Può darsi che stia scontando la colpa del pregiudizio che mi impediva di valutarne appieno i meriti ai tempi in cui scriveva su Il Foglio, ma a me pare che si tratti di una scrittura di gran classe, strettamente imparentata a quella di Edmondo Berselli e a quella di Alberto Arbasino, ma quello di prima dell’Alzheimer. Insomma, la Soncini mi piace e trovo che l’idea di “scrivere di canzonette” per trattare una materia incandescente come quella dei rapporti tra i sessi sia felicemente realizzata nei suoi pezzi senza mai scadere nella maniera, rischio sempre incombente quando si parla di tutto ciò che sta d’attorno e dentro l’innamoramento e l’amore.
Rischio altrettanto grosso è nel trattare una materia mostruosamente complicata come quella dei testi delle “canzonette”, che sono tanto più riusciti quanto più sono ambigui, e che dunque sembrano fatti apposta per prendersi gioco delle passioni che in essi provano a specchiarsi, ma anche delle intelligenze che provano a individuarle come costanti. Anche qui la Soncini non delude, avvalendosi di una naturale ironia che non risparmia neppure l’adolescente che le si attarda dentro.

Molte volte avrei voluto intrattenermi su un pezzo della Soncini, sempre per lodarne lo stile, qualche volta per dirmi del tutto in disaccordo con certe sue azzardate intuizioni circa le miserie e le debolezze dei maschi. Non si possono negare, né giustificare, ma forse non meriterebbero di essere liquidate con la sbrigativa diagnostica della Soncini, per la quale – pare di capire – ogni maschio men che perfetto come il bello, buono e saggio Jovanotti o è un sadico o è un narcisista.
Non ho mai commentato una pagina della Soncini – e qui assumo la posa di quel fesso di Raz Degan nella réclame del Jägermeister – non so perché. Ma oggi che scrive di Marco Ferradini, facendosi crudelmente beffa dei “disturbati” e delle “disturbate” che rientrano nel suo Teorema, due righe vorrei scriverle. E vorrei dire che, sì, è vero, quella canzone è odiosa e idiota, e serve soltanto a consolare i maschi che, incapaci di stabilire un serio e maturo rapporto affettivo con una femmina, si rifugiano nell’illusione di non sapere amare se non troppo, e quasi certamente invece non sanno amare affatto se non la loro emaciata proiezione dell’eterno femminino. E però si tratta di poveracci che scontano la loro impotenza affettiva per aver avuto in sorte un ben preciso tipo di madre. E alla femmina torniamo. A quella femmina che alleva il maschio in una dimensione che è tanto più anaffettiva quanto più implica possesso, esercizio del ricatto, sadomasochismo emotivo. E da dove esce questo tipo di femmina che, se non sarà la fidanzata di Marco Ferradini, sarà la mamma?


 

“Ciò che conta è altro”



Il controllo al quale è sottoposto un blogger non ha paragoni con la libertà di scrivere cazzate della quale residualmente gode un professionista della carta stampata. È la natura democratica del web che è intervenuta a fare la differenza, per ciò che oggi è pubblicato in rete ma anche sulla carta stampata, perché in rete il rapporto tra chi scrive una cazzata e chi la contesta è diventato diretto, talvolta immediato, spesso franco fino alla brutalità, e direttamente coinvolge chiunque l’abbia già letta, o proprio in seguito alla contestazione giunga a leggerla. Questo spiega perché una cazzata scritta sulla carta stampata tendesse ad essere dimenticata, quando ancora il web non esisteva, anche quando fosse stata validamente contestata sulla stessa carta stampata, e anche quando avesse dato vita a una querelle, anche notevole. In parte era perché gli archivi  non erano così accessibili come Internet ha reso possibile, ma credo che la ragione sia soprattutto unaltra: tra quanti scrivevano e quanti leggevano esisteva un filtro che la blogosfera ha in gran parte rimosso, costringendo gli uni e gli altri a riqualificare i loro ruoli. È così venuta meno la rigidità che era imposta loro in passato, ibridizzando lettura e scrittura in dibattito, sottraendo a chi scrive, non importa dove, lautorità che spesso gli era attribuita dal mero fatto di essere pubblicato, e conferendo a chi legge, non importa se un testo pubblicato esclusivamente in rete o su un giornale, il diritto di contestarne il contenuto e perfino la forma. Si tratta di una rivoluzione della quale già avvertiamo gli effetti e penso non sia esagerato porla accanto a quella che si ebbe passando dal testo manoscritto a quello stampato.

Devo confessare che quanto ho scritto finora voleva introdurre un mio commento a un titolo che oggi ho letto su il Giornale, a pag. 2: “Penati «graziato»: per un cavillo del gip sfugge alle manette”. Avrei voluto far finta di aver letto questo titolo su un blog, per abusare della brutalità che merita un blogger intellettualmente  disonesto, e infatti avrei voluto rivelare che si trattava di un articolo scritto da un professionista della carta stampata solo a conclusione del post. Avrei contestato l’uso del termine graziato, anche se messo tra virgolette, ma soprattutto avrei contestato l’uso del termine cavillo per una prescrizione, che  «grazia» gli avversari politici e manda «assolto» chi ti paga lo stipendio. L’intenzione era quella di un post non più lungo di dieci righe: tre di premessa, quattro o cinque di biasimo, due o tre di mesta riflessione su quanto letame sarebbe piovuto addosso a un blogger che avesse osato titolare un post a quel modo. E però mi sono fatto prendere la mano, e la premessa mi si è allungata quasi quanto una prefazione a chissà cosa e, mentre scrivevo, perdevo di vista il Giornale: la mente correva al trauma che hanno dovuto subire, in questi ultimi anni, quanti fino a ieri godevano di quell’autorità che spesso era loro attribuita dal fatto stesso di essere pubblicati.

Alcuni l’hanno presa bene, anzi, hanno in pieno raccolto la sfida che è sempre implicita nel voler essere autorevole, e che costa pazienza, onestà e umiltà. Per altri è stata una tragedia alla quale hanno reagito istericamente, per lo più da aristocratici che avessero sorpreso dei villani a stappare bottiglie nellangolo più prezioso della loro cantina. Il trauma è stato tanto più doloroso per chi più aveva dellautorevolezza di una firma su un pezzo di carta stampata un’idea già in gran parte obsoleta prima dell’avvento di Internet, e così abbiamo visto che le reazioni più scomposte venivano non già da quanti facevano le notizie, che anzi erano generalmente sollecitati a far meglio il loro mestiere, costretti a non poter più contar troppo sulla credulità dei lettori, ma da quanti  facevanol’opinione. Tra questi ultimi, per motivi psicologici facilmente intuibili, i più risentiti sono stati gli ultimi arrivati a conquistare il pulpito cartaceo. La loro è stata la tragedia di chi aveva sempre reputato indiscutibile un’opinione che arriva ad essere stampata: incontestabile se non dai propri pari, cioè da chi potesse avere diversa opinione, ma la esprimesse da un altro pulpito cartaceo. Per costoro deve essere stato davvero duro fare i conti con la blogosfera.

Queste considerazioni mi erano suggerite dalla natura delle affermazioni che hanno caratterizzato laspetto più interessante delle missive che un tizio mi ha inviato a margine di una polemica che abbiamo consumato pubblicamente a partire dalla pubblicazione di alcune sue opinioni sull’embrione e su Kant. Su quanto fossero sgangherate, anche se a fatica, non ha potuto che convenire e tuttavia mi ha mosso un grave rimprovero e un severo monito. In breve, sfrondando il superfluo, dimostrare da queste pagine che aveva scritto cazzate non toglieva nulla alla sua autorevolezza. Averlo dimostrato, mi scriveva, le procura plausi sul web, dove nulla conta nulla, ma non sfiora i piani dove vengono prese le decisioni [sic!]: sì, conveniva, probabilmente aveva citato Kant a cazzo di cane, e aveva dimostrato di non sapere affatto cosa sia la meiosi, ma “questo non sposta di una virgola la mia vita, non solo perché essa è fondata su tanti oggettivi privilegi e si svolge, di fatto, fra tante bellissime cose, ma perché ciò che conta è altro.  Non gli ho chiesto cosa, mi è sembrato di poterlo intuire, e di non aver bisogno di conferma.