Confesso che di shibari sapevo poco o niente, ma adesso qualcosina sì e, ferme restando le osservazioni che ho già espresso sul caso Mulè (qui), vorrei rilevare che la tecnica non prevede l’impiego di corde strette attorno al collo. Si trattava di bondage, dunque, e includente la tecnica del cosiddetto breath control, ma parlare di shibari mi pare improprio, almeno nel caso di specie.
giovedì 15 settembre 2011
mercoledì 14 settembre 2011
L’imputabilità c’è
È difficile che si arrivi a una condanna, impossibile che i condannati arrivino ad espiarla, e tuttavia è evidente che Joseph Ratzinger, William Levada, Angelo Sodano e Tarcisio Bertone siano imputabili del reato di crimine contro l’umanità, anche se quasi certamente il Tribunale Penale Internazionale non arriverà a formalizzare l’accusa, ma per ragioni di mera opportunità.
Prima di analizzare gli elementi che rendono imputabili i quattro, bisogna precisare che la loro responsabilità è posta all’attenzione dei giudici in relazione ai ruoli di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (Ratzinger e Levada) e di Segretario di Stato (Sodano e Bertone), e dunque non è corretto dire che si voglia processare il Papa: la condotta di Ratzinger è in questione solo in relazione alla carica rivestita fino all’elezione al Soglio Pontificio (1981-2005). In discussione, infatti, è l’impunità che i titolari della Congregazione per la Dottrina della Fede e della Segreteria di Stato hanno garantito a numerosissimi esponenti del clero cattolico che si erano resi responsabili di abusi sessuali a danno di minori loro affidati, dall’anno in cui ai vescovi fu imposto l’obbligo dell’assoluto silenzio su questi delitti (Instructio de modo procedendi in causis de crimine sollicitationis, 1962).
In tal senso, c’è un’unica ragione perché l’accusa non sia rivolta pure ad Alfredo Ottaviani e a Franjo Šeper (Prefetti della Congregazione per la Dottrina della Fede rispettivamente dal 1959 al 1968 e dal 1968 al 1981), né ai predecessori di Sodano alla Segreteria di Stato, e cioè ad Amleto Giovanni Cicognani (1961-1969), Jean-Marie Villot (1969-1979) e ad Agostino Casaroli (1979-1990): sono morti. C’è però da precisare, in sede storica, che le responsabilità coprono un arco di tempo assai maggiore, perché la Instructio del 1962 era solo una riedizione di analogo decreto licenziato nel 1929, sul quale però non è possibile dir nulla, giacché non è mai stato reso pubblico. Della stessa Instructio del 1962, peraltro, si è saputo solo quarant’anni dopo e lì se n’è compresa la ragione, perché s’è visto che recava in frontespizio la seguente raccomandazione: “Servanda diligentiter in archivio secreto curiae pro norma interna non pubblicanda nec ullius commentariis agenda”.
Con la scoperta della Instructio del 1962 si è capito come i preti pedofili potessero godere della massima libertà d’azione, grazie alla copertura dei loro crimini assicurata da norme severissime: “Nel trattare queste cause la cosa che deve essere maggiormente curata e rispettata è che esse devono avere corso segretissimo e che siano sotto il vincolo del silenzio perpetuo una volta che si siano chiuse e mandate in esecuzione; inviolabilmente, tutti e ciascuno, a qualsiasi titolo si appartenga al tribunale o se a conoscenza dei fatti per incarichi relativi a queste cause, sono tenuti ad osservare quello strettissimo segreto che è comunemente definito segreto del Santo Uffizio, sotto pena di incorrere nella scomunica latae sententiae, immediatamente e senza altra dichiarazione”.
Appena la notizia di un abuso sessuale commesso da un prete ai danni di un minore arrivava al responsabile della diocesi, una coltre di omertà veniva stesa sui fatti perché non fosse in alcun modo intercettata dalla giustizia civile: si poteva contravvenire, certo, ma si usciva dalla grazia di Dio.
Almeno a quanto è dato sapere dopo aver ricostruito la carriera di molti preti pedofili, la giustizia ecclesiastica era mitissima, limitando per lo più la condanna al trasferimento dei colpevoli in un’altra diocesi. In pratica, li si autorizzava a reiterare i loro crimini, protetti da una rete che assicurava loro, insieme all’impunità, un facile approvvigionamento di nuove vittime.
Si è sempre reputato saggio affidare la cura di casi tanto delicati alla Congregazione per la Dottrina della Fede, tradizionalmente assai meglio armata nell’opera di controllo delle coscienze. La motivazione è sempre stata di quelle che svelano la natura più profonda della Chiesa: nell’abusare sessualmente di un minore, il prete pecca innanzitutto contro un sacramento, quello dell’ordinazione, e nel rivelare pubblicamente i crimini commessi da un suo pari, com’è nel caso in cui si rivolga alla giustizia civile per segnalarli, pecca contro un altro sacramento, quello della confessione. La vittima? Sì, nessuno nega sia in questione, poverina, ma la priorità sta nella difesa dei sacramenti. All’ex Sant’Uffizio, dunque, la cura delle norme che ne assicurino la tutela, e alla Segreteria di Stato, per il tramite delle Conferenze episcopali locali, la sorveglianza sui casi critici che possano farla venir meno. Un meccanismo efficace, lungamente collaudato, destinato a funzionare per chissà quanto tempo, soprattutto perché ignoto alle vittime e ai loro genitori, quasi sempre fervidi credenti, prima e, nonostante tutto, perché no, anche dopo l’abuso. La consegna del silenzio dietro minaccia di scomunica, l’allontanamento del pedofilo in una diocesi lontana, due caritatevoli carezze al piccino, un pugno di soldi ai familiari, e i sacramenti sono al sicuro. Tutto può durare in eterno, basta saper tenere segreto il meccanismo.
E infatti tutto fila liscio fino a quando la De crimine sollicitationis del 1962 rimane chiusa a chiave nel cassetto del vescovo e nessuno ne sa niente. Poi, la rete comincia a sfilacciarsi. Le vittime degli abusi sessuali cominciano a parlare e una lettera inviata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede ai Vescovi di tutta la Chiesa Cattolica e agli altri ordinari e membri della gerarchia ecclesiastica, che reca la firma del cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto, e che è del maggio 2001, rivela l’esistenza dell’Instructio del 1962, che ritocca in qualche punto, ribadendo: “Ogniqualvolta un ordinario o un membro della gerarchia ecclesiastica abbia una notizia almeno verosimile riguardo a un delitto riservato, dopo avere in precedenza compiuto una investigazione, segnali questa notizia alla Congregazione per la Dottrina della Fede che, qualora non avochi a sé la causa per circostanze concomitanti particolari, ordina che l’ordinario o il membro o della gerarchia ecclesiastica vada avanti attraverso il proprio tribunale trasmettendo le opportune norme”, le solite. La più significativa: “Casi del genere sono soggetti al segreto pontificio”.
È per questo riaffermare il principio che un prete cattolico debba essere sottratto alla giustizia civile che tra il 2004 e il 2005 la Corte Distrettuale del Texas dà avvio alla procedura di incriminazione del cardinal Ratzinger per obstruction of justice. L’elezione al Soglio Pontificio e l’acquisizione della carica di capo di stato estero gli procurano la suggestion of immunity e l’indagato non dovrà mai più rispondere del capo di imputazione che stava per essere formulato a suo carico: l’aver dato direttive generali al fine di coprire i responsabili di centinaia di abusi sessuali e, in particolare, di non aver dato seguito alle reiterate segnalazioni che gli giungevano da vescovi statutinensi (ma poi si è visto che era accaduto anche per casi analoghi in Germania), se non per ribadire, infastidito, la consegna al silenzio.
[segue]
martedì 13 settembre 2011
La schifezza
La piena unanimità di giudizio è cosa più unica che rara in campo artistico, ma sulla statua di Giovanni Paolo II alla Stazione Termini di Roma, pur nella varietà di accenti, si è raggiunta: anche se c’è chi ha eufemisticamente zufolato che peccasse di una “scarsa riconoscibilità” (Sandro Barbagallo, per L’Osservatore Romano), chi ha ellitticamente rilevato che “il bozzetto era molto diverso” (il cardinal Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura), e perfino chi all’ellissi ha preferito la spirale, limitandosi a dire che “le Autorità Vaticane e il Ministero dei Beni Culturali hanno seguito questa cosa passo passo e c’era un consenso obiettivo” (Gianni Alemanno, sindaco di Roma), tutti hanno espresso, più o meno esplicitamente, lo stesso parere: una schifezza.
Ora, a quattro mesi dall’inaugurazione, apprendiamo da Avvenire che proprio quanti sono a vario titolo responsabili della schifezza fanno fatica a prenderne atto:
Nessuno si aspettava che Oliviero Rainaldi si impiccasse per la vergogna, ma chi si aspettava che si offrisse per il rifacimento di un’opera già firmata ed esposta? Nessuno si aspettava che il Comune decidesse di rimuovere la statua sostituendola con un’altra, ma chi si aspettava che avesse tanta faccia tosta di annunciarne il rifacimento come “completamento”? Nessuno si aspettava che le gerarchie ecclesiastiche facessero pubblica richiesta di una riparazione a quello sfregio, ma chi si aspettava che dopo averne avuto garanzia facessero sfoggio di sufficienza dichiarando che la schifezza è addirittura meta di pellegrinaggi? Manca solo il tocco finale. Una targa recante la parafrasi: “Se mi sbagliate, mi rifacerete”.
“E noi il senso tradizionale lo dobbiamo rispettare”
Sabrina Ferilli vorrebbe tanto adottare un bimbo, ma le leggi italiane non glielo consentono perché non è sposata, e allora affida il suo amaro sfogo ad Alfonso Signorini: “Io mi domando se sia giusto non poter adottare come genitore singolo, visto poi che oggi un bambino che nasce all’interno di un matrimonio ha gli stessi diritti di un bambino che nasce fuori dal matrimonio” (Chi, 14.9.2011).
Occorre rammentare alla signora – anzi, signorina – che la legge che le vieta di coronare il suo sogno è stata scritta per garantire all’adottato di crescere in una famiglia così come intesa nel senso tradizionale, “e noi il senso tradizionale lo dobbiamo rispettare, perché invertire delle tendenze che sopratutto son cose giuste, quindi si appoggiano su fondamenti e principi giusti, non è mai positivo”. Il virgolettato è suo, da una puntata di Chiambretti Night del gennaio 2010, e dunque – col dovuto rispetto – non rompesse il cazzo.
Qui pro quo
C’è da promuovere il nuovo album, bisogna concedersi alla stampa, offrire a ciascuno la faccia che torni più simpatica. Ecco, è qui che dev’essersi creato il qui pro quo, perché Luca Carboni offre al giornale dei vescovi il mea culpa di un ribelle che s’era illuso di poter cambiare il mondo: “Ci sentivamo illuminati, pensavamo di aver capito tante cose, ma abbiamo portato avanti quegli stessi schemi che avevamo rifiutato” (Avvenire, 13.9.2011); e ai fascistoidi che comprano il giornale di Feltri e Belpietro offre il ritratto di uno che trova “certezze e speranze nella fede”, per il quale “i valori principali sono quelli del cristianesimo”, che però sente trascurati, lamentando addirittura una preoccupante “mancanza di preti” (Libero, 13.9.2011).
Si tratta di due interviste che probabilmente sono state concesse nella stessa giornata, a poca distanza l’una dall’altra, e l’artista deve aver fatto un po’ di confusione con le istruzioni avute dal suo agente. Insomma, il disgraziato scambio è evidente. D’altra parte – tutti sanno – “si piega tutto, tutto, dalle spalle alle antenne della tv” (Solarium, 1985).
lunedì 12 settembre 2011
Fatti in tempi certi
“Mi è venuta la curiosità – scrive nonunacosaseria – di sbirciare sul sito web della Lega Nord per vedere quante delle proposte programmatiche avanzate nel 2008 sono state poi messe in atto [e] ho scoperto – conclude – che le uniche richieste accolte dal governo Berlusconi sono la tassazione delle rimesse degli immigrati irregolari e l’apertura, in una villa brianzola, di qualche stanza travestita da ufficio ministeriale decentrato”. Vorrei aggiungere: non è tutto.
Sono passati tre mesi dal raduno di Pontida che pose a Berlusconi il terribile ultimatum riprodotto qui sotto. A tutt’ora, non uno dei “fatti in tempi certi” ha visto realizzazione e il fiero popolo padano fa finta di niente, tutt’al più mugugna.
“Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale…”
Incidente nella centrale nucleare di Marcoule, che sta in Francia, ma a 257 km da Torino e a 342 km da Genova. Fortunati i francesi, perché non c’è stata fuga di materiale radiattivo. Per i torinesi e i genovesi, invece, comunque non sarebbe stato un problema: hanno per tempo votato contro il nucleare.
Non era neanche giapponese
La vicenda di cui è protagonista l’ingegner Soter Mulè ci dà conferma di quanto già sapevamo: abbiamo magistrati e giornalisti tra i più cretini al mondo.
Accusato in un primo momento di omicidio volontario, come se l’intenzione di uccidere sia implicita nella pratica del bondage su un soggetto pure non consenziente, sul Mulè ora pesa l’ipotesi di omicidio preterintenzionale, perché la vittima – si è accertato – era consenziente. Saremmo dinanzi a una morte, dunque, avvenuta in conseguenza di percosse o lesioni personali? Niente affatto. Isolato da altre pratiche che qui paiono essere di fatto escluse dalla dinamica degli eventi che hanno portato alla morte di Paola Caputo, il bondage non provoca lesioni, né danni equivalenti a quelli riportati da percosse, che invece, nell’ipotesi di omicidio preterintenzionale, dovrebbero costituire il necessario fine doloso dell’“azione minore”, la quale, superando l’intenzione del reo, verrebbe così a produrre l’evento fatale. Ma qui, in tutta evidenza, quest’“azione minore” non era affatto contemplata dal “programma” concordato dal Mulè e dalla Caputo, né è stata posta in essere in violazione del patto.
È evidente che siamo di fronte a un mero incidente, ma è pure evidente che l’ipotesi di omicidio colposo dev’essere sembrata troppo mite, comunque inefficace a sanzionare sul piano morale una pratica che il magistrato fa fatica a ritenere legittima tra soggetti adulti e consenzienti. Delle due, una: saldo nel senso comune che è padre di ogni pregiudizio, il magistrato ritiene intrinsecamente violenta e dunque potenzialmente pericolosa la pratica del bondage, a dispetto di ogni piana evidenza; sennò – e allora sarebbe ancora peggio, perché non si tratterebbe solo di ignoranza – egli si sente in dovere, attraverso l’azione della pubblica accusa, di farsi latore di un pregiudizio espresso dal senso comune, che peraltro non è riuscito neanche a informare a sufficienza la lettera della legge affinché il Mulè sia poi effettivamente imputabile di lesioni o percosse.
C’è da aspettarsi che l’accusa di omicidio preterintenzionale venga formulata in ogni caso in cui un soggetto muoia di infarto miocardico o di ictus cerebrale durante un rapporto sessuale, anche di quelli che il senso comune non sottoporrebbe ad alcuna censura morale per le modalità con le quali viene espletato: si tratta di attività potenzialmente a rischio, sempre, anche da slegati. Se non dolo, ci sarebbe sempre da ipotizzare una colpa di là dalla più mite finalità di scoparsi – eventualmente – a sangue.
Analoghe considerazioni sono inevitabili per la gran parte dei giornalisti che si sono fiondati sulla vicenda con la morbosa voracità che i benpensanti si sentono autorizzati a esercitare sul privato di coloro che ritengono devianti. Il peggio ce lo ha offerto il Corriere della Sera. Così, Ester Palma pensa di poter ricavare un profilo “tutt’altro che rassicurante” dal più banale e anodino dei manifesti parafiliaci postato dal Mulè sulla sua pagina di Facebook, come se l’atmosfera che avvolge una parafilia sia penetrabile da altri che chi voglia condividerla.
Non da meno Fabrizio Peronaci, che in un’intervista via chat con una cultrice di Shibari si esibisce in domande del tipo: “A tua figlia trasmetteresti le stesse idee?”. È evidente che per il nostro la questione sia ideologica, non di gusto, e allora chissà quale ideologia ci sarà mai dietro il suo voyerismo, e chissà chi gliel’ha inculcata: mamma o papà?
Il peggio del peggio, invece, ce lo offre Paolo di Stefano: “Neanche la dignità di un luogo dotato di un minimo alone evocativo: non dico un castello, un palazzo nobiliare, un covento, un boudoir o un carcere, come se ne trovano nelle pagine del Marchese de Sade, ma almeno un appartamento, una villetta di periferia… No, no, un vano caldaia in via Settebagni, tra tubature, manopole, idrometri, idranti e cavi…”. E qui il Mulè non ha scampo: passi per il bondage, ma almeno praticarlo in un ambiente che soddisfacesse l’immaginario del giornalista. E poi, diciamocelo, la Caputo non era neanche giapponese...
[si consiglia: La posizione del liberale (senza corda) di Luca Massaro]
Aggiornamento “Il gip ha derubricato l’ipotesi di reato da omicidio preterintenzionale a omicidio colposo” (la Repubblica, 12.9.2011). Ritiro le osservazioni sui magistrati.
[si consiglia: La posizione del liberale (senza corda) di Luca Massaro]
“Nulla sarà più come prima”
C’era bisogno di due guerre da 3.000 miliardi di dollari per sconfiggere al Qaida? Non abbiamo il beneficio della controprova, sappiamo solo che anche questo ha dato avvio alla fine del primato politico ed economico degli Stati Uniti d’America: se Osama bin Laden aveva questo fine, ha trovato in Bush un eccezionale aiuto. Solo un ex alcolizzato rinato in Cristo poteva raccogliere la sfida di un ubriaco di Allah sul campo dello scontro di civiltà, e così è stato: per combattere la barbarie ci siamo imbarbariti un po’ anche noi, per far fronte al delirio di un califfato teocratico abbiamo messo in discussione le nostre liberaldemocrazie, alla disperazione di frustrati che si erano emarginati dalle sorti di progresso e di emancipazione che il mondo faticosamente cercava fra le sue perenni contraddizioni abbiamo opposto la disperazione delle nostre più logore isterie.
Quando dicevamo: “Nulla sarà più come prima”, più o meno consapevolmente facevamo professione di impotenza. Ora, dieci anni dopo, ci resta solo la consolazione di questa smisurata macchina retorica che mette mano a scrivere la storia dell’11 settembre, e guai a chi osa dire che quei morti sono stati traditi, vendicati in malo modo, svendendo libertà in cambio di una sicurezza che comunque non abbiamo trovato.
sabato 10 settembre 2011
Appunti per una storia del berlusconismo come malattia sociale / 1
Dopo i fasti mietuti grazie a Erminio Macario, Carlo Dapporto, Gino Bramieri e Walter Chiari, la barzelletta divenne di colpo impresentabile sul grande palcoscenico, e allora scese in platea. Accadde intorno ai primi anni ’70, quando il tema che meglio si adattava ai suoi schemi – la differenza tra maschio e femmina, tra ricco e povero, tra bianco e nero, e per ogni altra antinomia fin lì accettata come “naturale” – divenne questione “politicamente” sensibile. Fu per questo che, scesa dal palcoscenico, la barzelletta andò a prosperare negli ambienti culturalmente più retrivi, funzionando quasi sempre da valvola di sfogo delle più incoercibili pulsioni reazionarie, pubblicamente biasimate.
Quando queste ebbero modo di potersi rappresentare come liberatoria risposta alla “dittatura” del “politicamente corretto”, la barzelletta risalì sul palcoscenico (La sai l’ultima? – Canale 5, 1992), ma ormai non era più la stessa. Aveva perso ogni leggerezza, era diventata grassa e aggressiva, ostentamente provocatoria, come se non mirasse più soltanto a far ridere, ma anche a mettere in discussione ciò che l’aveva emarginata. Non è un caso che sia riapparsa in tv, e una tv commerciale, quando si ritenne, e a ragione, che i telespettatori fossero pronti a riaccoglierla così com’era diventata.
venerdì 9 settembre 2011
Te credo!
Una vignetta di Altan sull’ultimo numero de l’Espresso (37/LVII, pag. 15) mi sollecita ad una riflessione che vorrei sottrarre ad ogni pregiudizio. Provvidenzialmente mi soccorre Maranatha, rinomata ditta di arredi liturgici, della quale il giornale dei vescovi pubblica oggi una réclame a pag. 16 (Avvenire, 9.9.2011). So di contravvenire alla regola di non ospitare pubblicità su questo blog, ma si tratta di una eccezione che non ha alcun fine di lucro, e da subito, per evitare che il rifiuto possa sembrare scostumatezza, faccio presente che non accetterò neanche un euro dal titolare della Maranatha, neanche se insistesse.
Ma veniamo alla questione sollevata da Altan. Davvero il guardaroba di un pastore è poi così costoso? A quanto può ammontare il costo dello stretto necessario per non degradare la figura di un apostolo di Cristo a un poveraccio? Calcolando camici, casule, stole, pianete e tutto il resto, e in numero adeguato a coprire le esigenze imposte dal calendario liturgico, a quanto può arrivare la spesa perché i simboli siano soddisfatti?
Inutile dire che dipende da una innumerevole serie di fattori, sicché la spesa complessiva potrà essere assai variabile. Non a caso sarà bene prendere nota del listino prezzi della pregiata ditta del signor Rosario Sollazzo, che mi pare offrire ottima merce a prezzi relativamente bassi, comunque assai onesti.
Delizioso camice in lino ricamato a mano...... € 1.650
Elegante dalmatica con ricami di fattura superiore....... € 1.926
Piviale dalla linea sobria e nel contempo assai raffinata..... € 2.250
Casule: da sinistra a destra, un modello dal drop morbido (€ 740),
uno per occasioni speciali, ma ottimo anche per party e cocktail (€ 1.850),
e uno dalla linea più severa, particolarmente consigliato per le messe indoor (€ 1.390)
Stole: a sinistra, modello dal disegno semplice, concepito per
benedizioni a portatori di handicap, disoccupati e affini (€ 345);
a destra, prezioso capo ricamato a mano, ottimo per la celebrazione
di sponsali di consiglieri regionali, capomandamenti, ecc. (contattare per il prezzo)
Pianete: a sinistra, modello consigliato per offici in stadi e spianate (€ 2.346);
a destra, capo indispensabile per le messe in latino (€ 7.461)
All’essenziale, ovviamente, manca ancora qualcosina, sennò il pastore è come fosse nudo, e non sia mai.
A sinistra, pastorale per vescovi estroversi (€ 1.050);
a destra, modello sfiziosissimo, in argento lavorato a mano
(contattare in privato per il prezzo)
Mitrie: da sinistra a destra, modello per vescovi pre-conciliaristi (€ 533),
per vescovi post-conciliaristi (€ 556), per vescovi un po’ e un po’ (€ 880)
Pettorali: siamo su un terreno delicatissimo
(tutti pezzi senza indicazione di prezzo)
A sinistra: parasole che è un vero amore, per processioni estive;
a destra: sfarzoso anello raffigurante tre allegri suonatori di putipù
(come sopra, contattare per sapere il prezzo, ché metterlo on line farebbe scandalo)
Possiamo considerare al completo il guardaroba base, calcolando per ciascun capo almeno una mezza dozzina di esemplari di foggia diversa? Non proprio, perché fin qui abbiamo preso in considerazione solo quelli indossati in sede liturgica: sono quelli abitualmente inclusi alla voce “sostentamento del clero”.
Possiamo riandare alla vignetta di Altan e chiederci quanto pregiudizio dobbiamo sottrarle.
«Non rianimatemi»
Farsi tatuare in petto «Non rianimatemi» è un modo di fare testamento biologico che di fatto scavalca ogni comitato bioetico: anche se muto, il paziente parla al medico con la sua viva voce, attraverso un gesto ponderato, preordinato, irrevocato.
Naturalmente il medico potrà ignorare la volontà del paziente. Potrà accadere in forza di una legge che lo obblighi a ignorarla, e quasi sempre si tratterà di una legge scritta dal suo Dio, che certamente non è il Dio di quel paziente, sennò si tratterà di una legge scritta da uomini che negano un diritto dell’individuo, quello della sovranità sul proprio corpo e sulla propria mente, che certamente il paziente dichiara inalienabile. Superfluo dire che il medico agirà contro la sua volontà, che però qui è scritta nella sua carne: sarà come imporre un trattamento terapeutico che viene rifiutato nel mentre viene imposto. Una violenza che si autocertifica come violenza nel suo compiersi.
giovedì 8 settembre 2011
Analogie
L’andamento della pressione fiscale che dobbiamo attenderci da questa manovra finanziaria (da lavoce.info, via phastidio.net - partic.) è curiosamente analogo alla curva di un orgasmo di Vincenzo Visco.
mercoledì 7 settembre 2011
L’orgoglio radicale
Stamane, chiudendo la sua consueta rassegna stampa su Radio Radicale, Massimo Bordin ha detto: “Infine, sulla pagina delle lettere de Il Foglio, c’è un’appuntita critica ad un articolo di Angiolo Bandinelli da parte di un lettore a proposito di alcuni giudizi di Bandinelli sull’arte, che è questione opinabile per eccellenza. Ma tutto questo deve riempire di orgoglio i radicali perché la replica di Giuliano Ferrara è: «Da un maestro indiscusso, accettiamo ogni cosa». E quindi non solo difende Bandinelli, ma lo definisce pure un maestro indiscusso”.
Duole deludere lui e i radicali, ma il maestro indiscusso al quale faceva riferimento Ferrara non è Bandinelli, ma l’autore dell’appuntita critica, Giulio Paolini, pittore e scultore di fama internazionale. In quanto all’appuntita critica, si trattava della correzione di ben 5 errori, tutti gravi, commessi da Bandinelli nella sua sciatta pagina sull’Arte Povera, pubblicata su Il Foglio di sabato 3 settembre: non si trattava di giudizi personali, che sull’arte sono sempre opinabili perché attinenti al gusto, ma di solari cazzate, palesi errori di documentazione storica e tecnica. Ferrara non poteva che prenderne atto, ma, non potendo dare pubblicamente del coglione a Bandinelli, ha preferito dare dell’indiscusso maestro a Paolini, in ossequio al principio di autorità che così gli consentiva di svicolare dalle questioni di merito sollevate in quella asciutta letterina.
Qui potremmo fermarci, ma l’errore nel quale è incorso Bordin rivela un altro dato degno di interesse: l’orgoglio radicale, quel sentirsi sale della terra che promuove anche un cretino a superiore intelletto per il solo avere in tasca la tessera di un partito politico, che però sarebbe meglio definire setta. Non è il caso di intrattenerci troppo su questo, basterà solo rammentare a Bordin, se dovesse passare da queste parti, la differenza che c’è tra un Paolini
e un Bandinelli
e un Bandinelli
Così l’orgoglio radicale si dà una calmata.
martedì 6 settembre 2011
“L’Illuminismo dei cattolici”
Volendo schematizzare – scriveva Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, 4.9.2011) – di illuministi ce n’era di due tipi: quelli moderati, tipo Voltaire, Hume e Kant, e quelli radicali, tipo Diderot, d’Holbach e Lessing. Io penso che, a leggere L’Illuminismo dei cattolici (Avvenire, 6.9.2011), i primi avrebbero scosso il capo e i secondi sarebbero scoppiati a ridere.
Schematizzare può tornare utile a semplificare, ma lo stesso Firpo metteva in guardia: “Molte anime, molte differenze e anche aspri contrasti animavano quel complesso movimento che sotto il nome di Illuminismo percorse da un capo all’altro l’Europa del Settecento”. C’è da ritenere, dunque, che scuotere il capo e scoppiare a ridere non esaurirebbero la gamma di reazioni che oggi gli illuministi avrebbero alla lettura di un articolo così stronzo: c’è chi lo metterebbe via senza neanche arrivare in fondo, chi non perderebbe un attimo nell’iniziare a scrivere un pamphlet in risposta, chi si limiterebbe a staccare la pagina dal giornale dei vescovi per il pulirsi il culo, ecc. Una sola cosa è certa, ed è che nessun illuminista si sarebbe armato di un randello per andare ad appostarsi sotto casa di Pierangelo Sequeri, Francesco Botturi e Franco Cardini, i “tre esperti” che “replicano alle tesi di Massimo Firpo” e interpellati da Edoardo Castagna, autore dell’articolo, tanto meno sotto casa di quest’ultimo: la tolleranza, infatti, era caratteristica comune a tutti gli illuministi.
Anche per questo – Firpo teneva a precisarlo – va decisamente sfatato “il mito storiografico del nesso causa-effetto tra Illuminismo e Rivoluzione francese da cui sarebbero poi scaturite le fantomatiche genealogie che vi avrebbero colto l’archetipo del Terrore robespierrista e addirittura la matrice prima di tutte le più sanguinarie tirannie sperimentate in seguito dalla storia europea”, perché si tratta di un mito “coniato dai reazionari di fine secolo”, “di origine hegeliana, sviluppato e piegato alle loro costruzioni intellettuali anche da Marx e da Nietzsche, ripreso poi da Horkheimer e Adorno, e poi da Foucault”.
E dunque gli illuministi avrebbero in comune solo la tolleranza? Ovviamente, no. Basti la celeberrima pagina di Kant: “L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro…” (Was is Aufklaerung? – 1784). Parliamo del coraggio di servirsi della ragione, rifiutando la guida dell’autorità storicamente incarnata nei detentori del potere, che ci spacciano la loro verità come rivelata.
“Si comprende dunque – scriveva Firpo – come l’Illuminismo abbia potuto assumere anche un significato metastorico, diventando una sorta di temibile archetipo intellettuale, bersaglio di severe condanne da parte della Chiesa di ieri e di oggi”. Ecco, dunque, un altro carattere comune a tutti gli illuministi di ieri e di oggi: non essere cattolici. Anzi, trovarsi spessissimo su posizioni opposte a quelle della Chiesa, e perciò il doverne subire la condanna e non di rado la diffamazione. Poi, però, ci sono i molto fessi o i molto furbi che pensano di poter cambiare le carte in tavola inventandosi L’Illuminismo dei cattolici. Hanno bisogno di attenuare la condanna e di arrotondare la diffamazione a uncino.
“Firpo accusa Benedetto XVI – scrive Edoardo Castagna – di «aver più volte additato il deprecabile atto di nascita» dell’odierna civiltà proprio nei Lumi, tralasciando tra l’altro il celebre discorso di Subiaco del 2005 nel quale l’allora cardinal Ratzinger aveva ribadito che «è stato merito dell’Illuminismo aver riproposto i valori originari del cristianesimo, fin dal principio religione del logos»”.
Ecco, da subito, svelato il trucco: siamo di fronte a chi si sente molto furbo e pensa di avere a che fare con dei fessi. Ratzinger in persona avrebbe benedetto l’Illuminismo, ergo l’Illuminismo, se non cattolico, è cristiano: come se bastasse levare la maiuscola al Logos giovanneo, che è pura trascendenza, per ridurlo al logos degli illuministi, che è la ragione immanentissima. Cancellate centinaia di pagine del magistero petrino che condannano l’Illuminismo, almeno dalla Inscrutabile divinae di Pio VI (1725) e fino allo stesso Ratzinger nel 2008 (“Il Vangelo non sia in alcun modo confuso nelle menti dei credenti ai principi laici associati con l’Illuminismo”, e sì che l’Illuminismo ha “riproposto i valori originari del cristianesimo”). Ma non bisogna essere troppo severi col Castagna, in fondo cerca imitare un treccartaro un po’ più bravo di lui, e si può capire che non sia troppo lesto di mano. Bisogna essere clementi, passiamo agli esperti.
Pierangelo Sequeri: “L’allargamento del logos è l’istanza dell’Illuminismo incompiuta. Il formalismo di una ragione che non vuol sapere nient’altro di ciò che trova in se stessa, e da lì ricostruire tutto il mondo, è stato sconfitto dalla storia”. Ecco una interessante spiegazione di come l’Illuminismo abbia tradito il logos: ha voluto emanciparlo dal ruolo di ancella della fede, l’unica che dà luce vera. E allora che senso ha parlare di un Illuminismo dei cattolici? La fede non ti concede alternative: o cattolico o illuminista.
Francesco Botturi: “La domanda sulla compatibilità tra modello illuminista della ragione e antropologia religiosa o, più specificamene fede cristiana, percorre la storia intera della seconda modernità, sia sul fronte laico, sia su quello religioso. Le risposte sono state le più varie. Si pensi alle posizioni di un Leopardi, un Beccaria, un Cattaneo, da una parte e di un Taparelli d’Azeglio, un Manzoni, un Rosmini, dall’altra; tutte così diversamente connotate tra loro, benché confrontabili e interagenti. Una varietà che dipende dalla multiformità storica del fenomeno illuminista stesso, a cui ha corrisposto una variegata sensibilità religiosa e cristiana. La prima osservazione dovrebbe dunque concludere all’impossibilità di ricondurre l’Illuminismo ad uno schieramento bipartito o addirittura a un idealtipo univoco… Non tutto l’Illuminismo fu giacobino, per intenderci. Illuminista è anche e più vastamente la rivendicazione che tradizione e autorità ricevano il consenso della libertà”. E così, allargandolo di quel tanto da infilarci dentro anche Rosmini, abbiamo un l’Illuminismo che può arrivare pure a concepire la libertà della ragione come obbedienza al papa. Da rompergli il randello sul groppone, questo esperto.
Ma veniamo al nostro esperto preferito, il sempre impareggiabile Franco Cardini, quello che “noi ci dichiariamo integralmente e attualmente fascisti” (1965), quello che “a noi pare che i paesi a regime socialista siano più umani di quelli a regime capitalista” (1968), quello che “Goebbels è senza dubbio un geniale pioniere” (1974), quello che “piantatela una buona volta di rabbrividire dinanzi all’idea della pena capitale” (1981), quello che “non possiamo non dirci nietzscheani” (1983), quello che “io credo che Dio parli in tedesco con gli angeli” (1990).
Qui, mantenendosi a un livello appena più decente, ma neanche tanto, “non abbiamo nessuna ragione scientifica per sostenere che un sistema è migliore di un altro, a meno di affidarsi al determinismo storico o alla legge della giungla, per cui chi vince ha ragione perché vince. Come si fa a parlare del sistema nato dal sistema illuministico come il migliore dei mondi possibili, quando sappiamo tutti che anche il comunismo e il nazismo sono figli dei Lumi? Si può anche dire che sono figli degeneri, va bene: ma quando si ha una casistica storica che ci mostra come non esistano sistemi ottimali, con quale ottica si continua a percorre questa strada? Per non parlare che nel Settecento buona parte della Chiesa cattolica era coinvolta nel processo illuminista e in particolare nelle logge massoniche; soltanto dopo si è sviluppata una dialettica, con la massoneria che ha virato in senso anticattolico. L’Illuminismo è in gran parte legato al mondo cattolico”. Capite che, a volersi dire illuministi, qui conviene essere massimamente tolleranti e limitarsi a scuotere il capo pensando alle decine di encicliche che condannano la Massoneria. Poi, sì, sentirci ripetere che il comunismo e il nazismo siano figli dei Lumi si può cedere alla voglia di scrivere un pamphlet. Ma leggere che nessuna ragione scientifica possa serenamente dichiararsi in favore di un sistema razionale piuttosto di un sistema fideistico, be’, ecco, fa venir voglia di lasciar perdere il pamphlet e fare almeno un pensierino al randello. Pensierino fugace, perché in fondo siamo illuministi, mannaggia.
lunedì 5 settembre 2011
Un segno di rispetto
Quattro blogger che concorrono al Macchianera Blog Awards 2011, uno dei quali nemmeno sapevo chi fosse, mi hanno scritto per chiedermi il voto e sono certo che alcuni dei candidati, soprattutto quelli ai quali non ho mai fatto mancare le mie tangibili manifestazioni di stima, in qualche caso anche di simpatia, se lo aspettano, pur senza cedere alla tentazione di chiedermelo: questo post è una risposta ai quattro e un messaggio agli altri.
Premesso che avrei voluto tanto essere candidato anch’io, ma solo per poter scrivere adesso le stesse cose senza dover subire il sospetto che siano mosse dall’invidia, premesso che vorrei tanto vincere uno di quei premi ma solo per poterlo rifiutare con una motivazione ancora più dura di quella che qui porto, direi che questo genere di concorsi sono una vera vergogna. Potranno essere utili a chi li organizza per scroccare un po’ di visibilità, non caso li organizza Gianluca Neri, da quando non ha più niente da dire.
Per come vi si partecipa, poco importa se da candidati o da votanti, e, prim’ancora, per come sono concepite, per quella avvilente atmosfera che è comune alle mostre canine, si tratta di patetiche riproduzioni in scala 1:25 dei premi letterari di fine estate, che è sempre assai difficile dire se siano più tristi, volgari o tristi e volgari. Non vi voto, dunque, prendetelo come un segno di rispetto.
Per come vi si partecipa, poco importa se da candidati o da votanti, e, prim’ancora, per come sono concepite, per quella avvilente atmosfera che è comune alle mostre canine, si tratta di patetiche riproduzioni in scala 1:25 dei premi letterari di fine estate, che è sempre assai difficile dire se siano più tristi, volgari o tristi e volgari. Non vi voto, dunque, prendetelo come un segno di rispetto.
Duce, fattene una ragione
Claretta Petacci non riesci a levartela di dosso, te la ritrovi appesa accanto, a testa in giù, e può darsi che sia prova del suo immenso amore. Ci sono anche i gerarchi, è vero, almeno quelli più compromessi, quelli che non hanno fatto in tempo a tradirti per salvare il culo o che avevano scommesso che la tua buona stella avrebbe brillato in eterno, e anche loro penzolano, puoi dire che non ti hanno abbandonato, via. Per il resto, caro Duce, dovresti sapere come sono gli italiani, peraltro, e non a torto, li hai sempre intimamente disprezzati, anche quando ti consideravano un dio, e forse proprio per quello, perché di te in fondo non hai mai avuto stima, ma solo una formidabile superstima.
Sapendo bene, e da sempre, che la Sacra Patria è un Paese di Merda, ora non dovresti cadere dalle nuvole, che d’altra parte, a testa in giù, ti stanno ancora sotto gli stivali. “Cortigiani, vil razza dannata”, dice Rigoletto, ma potrebbe dirlo pure il Duca di Mantova, se solo il libretto non chiudesse col terzo atto, gli scandali di corte corressero di bocca in bocca per il Ducato, ecc. Non dovresti stupirti troppo, caro Duce, se prima ti adoravano come un’icona pop e ora ti rinfacciano i mille errori che ti hanno portato alla rovina, che è pure la loro. Prima non potevi tirare una scoreggia che tutti la prendevano per un ordine, perché si sa che “il Duce ha sempre ragione”, e tutti i tuoi difetti, anche i più miserabili, apparivano magnifiche virtù. Frivolo? Era sublime leggerezza. Narcisista? No, è che avevi il midollo di un leone. Puttaniere? Macché, incarnavi la leggenda del maschio latino. Cinico e bugiardo? Ma no, era la tua superiore arte del governo. Rivoluzionario a chiacchiere, ma più conservatore di un qualsiasi borghesuccio? Macché, novello Principe del Machiavelli. Ora, da cadavere, è solo un fastidioso residuo di devozione che impedisce loro di essere crudeli nel dirti che ha un alito da far schifo, e non si trattengono neppure dallo storcere il muso.
Quel ciccione che ti si strusciava addosso millantandosi tuo consigliere, per esempio. Ieri, meno di un anno fa: “Non mi sognerei mai di mettere becco nel suo modo di divertirsi, di stare con le donne, di considerare amici e amiche nelle ore libere, vorrei anche vedere” (Il Foglio, 1.11.2010). Oggi, invece, “dovrebbe vivere con intorno un mucchio di gente seria e responsabile, e ce n’è parecchia tra i suoi collaboratori, che abbia il potere di dirgli no, quella telefonata non la deve prendere, no, quell’operazione sottopelle è troppo a rischio, no, quello non è un tipo affidabile” (Il Foglio, 4.9.2011). Duce, fattene una ragione, sei fottuto.
“Chi ha orecchie per intendere intenda”
L’idea di spostare le feste patronali alla domenica più vicina, uno dei conigli più spelacchiati che questo governo ha tirato fuori dal cilindro della sua manovra finanziaria, ha provocato solo qualche mugugno clericale, e per la semplice ragione che questo già accade, almeno da due decenni, in gran parte del paese. Qualcuno ha sollevato la questione di principio, questo sì, ma si è capito subito che la consegna fosse quella di non insistere troppo, perché lo slittamento delle feste patronali era il contributo simbolico al risanamento economico del paese che la Cei considerava più che conveniente, e sul quale era disposta a cedere, anche per meglio difendere l’intangibilità di assai più sacri principi come le esenzioni fiscali e l’8xmille. E però c’è stata un’eccezione, perché da subito, e poi senza mai cedere, anzi, facendo voce sempre più grossa, il cardinale Crescenzio Sepe si è detto contrario a far slittare la festa di San Gennaro, patrono della città di cui è arcivescovo, arrivando a usare toni assai duri: “Il Senato faccia ciò che vuole, noi facciamo ciò che vogliamo, cioè ciò che vuole Dio, e chi ha orecchie per intendere intenda” (Corriere del Mezzogiorno, 4.9.2011).
Sarà che Napoli, più che una città, è una condizione dello spirito che accomuna il plebeo e il patrizio, ma in queste parole vibra l’eco della sfida che il contrabbandiere di sigarette oppone ad ogni ulteriore inasprimento delle pene che lo Stato decide di erogare a chi commette tale reato: lo Stato faccia ciò che vuole, ma io sono contrabbandiere e contrabbandiere resto. In più, è vero, Sua Eminenza ci aggiunge quel “chi ha orecchie per intendere intenda”, che per metà è evangelico e per metà è camorristico, perché equivale a quell’implicita proposta che in passato fu in più occasioni avanzata da qualche illuminato contrabbandiere di alto rango: concedere a Napoli uno statuto speciale in deroga alle prerogative del Monopolio di Stato. Al netto della sfida alla legalità, il contrabbandiere sembrò dar corpo a un’idea che profumava di liberismo e di federalismo. Così pure Sua Eminenza, sfidando il Parlamento.
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