mercoledì 28 settembre 2011

Vito Mancuso, Io e Dio, Garzanti 2011

Consiglio la lettura di Io e Dio, l’ultimo libro di Vito Mancuso (Garzanti, 2011), ma cominciando da pag. 191; arrivati a pag. 386, consiglio di tornare all’inizio del volume, ma tralasciando le avvertenze e il prologo, del tutto superflui, cominciando da pag. 19, per arrivare fino a pag. 133. A questo punto, volendo, potete anche rinunciare a leggere il resto, soprattutto se avete già letto L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina, 2007). Da pag. 135 a pag. 190, infatti, e da pag. 387 fino alla fine di Io e Dio, Vito Mancuso non fa che riproporre la sua riforma del cristianesimo, costruendo un traballante edificio con materiali di risulta (mistica new age, fisica delle particelle, un po’ di Hans Küng e molto altro ancora). Qui, assai più che nel 2007, ci tiene ad esser chiaro, e ci prova. Il risultato non cambia: il cattolicesimo di un lefebvriano fa paura, quello di Mancuso (perché ci tiene a dirsi cattolico, non gli basta dirsi cristiano) fa ridere. Ottima, invece, la pars destruens (pagg. 191-386 + pagg. 19-133), come ho detto.
Non ricordo più chi, qualche mese fa, mi ha scritto chiedendomi una lista di volumi per approfondire le tematiche relative alla crisi del cattolicesimo lungo gli ultimi tre secoli: mi sono fatto prendere la mano e sono arrivato a impilare qualcosa sulle 120-150.000 pagine. Ecco, se mi sta leggendo, rettifico: le circa 300 pagine di Io e Dio che ho qui consigliato sul totale delle 448 sono un buon bignamino di tutta quella pila. Risparmia, te la cavi con € 18,60.

In morte di un cinquantapollici

Raiuno, h. 20.36: “Un grande italiano, Gaetano Salvemini, diceva che l’Italia è fatta così: se ti accusano di aver stuprato la statua della Madunina che sta sul Duomo di Milano, la prima cosa che devi fare è riparare all’estero, poi dopo si vede”.
Tenevo più al posacenere che al televisore, e per fortuna ha sfondato lo schermo del Samsung senza riportare danni. Mi pento del gesto, ovviamente, non sono poi così bestia, ma è stato un gesto d’impeto, di quelli che non ti lasciano nemmeno una frazione d’attimo per ragionare.
Un clericofascista di merda cita Gaetano Salvemini, l’antifascista e l’anticlericale, per giustificare la latitanza di Valter Lavitola: la prima cosa che ti capita sotto mano è il posacenere, nemmeno fai in tempo a realizzare, lo afferri e lo lanci. Ti penti prima che arrivi, ma quando è già partito. (Mi aspettavo uno scoppio, delle scintille, ma evidentemente accade solo coi televisori a tubo catodico.)

Ovviamente tutti sanno che non è stato Salvemini a ispirare la latitanza di Lavitola: è stato Berlusconi, suo padrone, e padrone di Ferrara. Sulla frase di Salvemini, invece, ci sarebbe molto da dire.
È attribuita a lui, ma nessuno produce mai la fonte. Qualcuno dice che si trovi su un numero di Non mollare, il giornale al quale diede vita nel gennaio del 1925, insieme a Carlo Rosselli, a Ernesto Rossi, a Piero Calamandrei e ad altri antifascisti, e che interruppe le pubblicazioni nell’ottobre di quell’anno. Fu proprio per quello che scriveva su quel giornale che Salvemini fu arrestato, in giugno. A luglio fu processato e gli fu concessa la libertà provvisoria: ne approfittò per fuggire in Francia, il mese dopo. La frase che anche stasera gli viene attribuita è introvabile nelle copie anastatiche del giornale che La Nuova Italia editò nel 1955, ma ce n’è una abbastanza simile di Piero Calamandrei, proprio a commento della fuga di Salvemini, in uno dei saggi di accompagnamento all’edizione (poi per Bollati Boringhieri, 2005): “Se mi accusassero di avere rubato la Torre di Pisa, io, intanto, mi darei alla latitanza”.
È difficile ricostruire i passaggi che hanno portato alle modifiche della frase e al cambio di attribuzione, ma nella forma che stasera ci era offerta da Ferrara appare in bocca a Bettino Craxi (Massimo Franco, Hammamet, Mondadori 1995), e di lì un po’ dappertutto, citata quasi sempre da chi in questi anni ha voluto dipingere il segretario del Psi, il vecchio padrone di Ferrara e di Lavitola, come un perseguitato politico costretto all’esilio.

Ma non ha importanza. Mettiamo che sia stato Salvemini, e non Calamandrei. Che si trattasse della Madonnina del Duomo di Milano, e non della Torre di Pisa. Che si trattasse di uno stupro, e non di un furto. Mettiamo che davvero Salvemini abbia detto o scritto quella frase: usarla per giustificare la latitanza di Lavitola non merita un posacenere in faccia?

lunedì 26 settembre 2011

Vi tocca

Nel giorno in cui Francesco Alberoni dà il suo addio al Corriere della Sera, e tra tanti sospiri di sollievo, ecco che arriva la notizia che a via Solferino arriva Christian Rocca. Come quando si fa appena in tempo a scansare una cacca di gabbiano per pestare una merda di cane.

Dal rinascere al sopravvivere


La successione di Dalai Lama in Dalai Lama è assicurata dalla reincarnazione. Quando ne muore uno, infatti, i suoi poteri sono temporaneamente trasferiti a un reggente, al quale è demandato il compito di individuare il nuovo Dalai Lama nella reincarnazione di quello morto. Sempre stato così, almeno fino ad oggi, ma le cose potrebbero cambiare: Tenzin Gyatso, tredicesima reincarnazione di Gendun Drup (1391-1474) e perciò quattordicesimo Dalai Lama, ha annunciato che sarà egli stesso a scegliere il suo successore.
Sarebbe stato un duro colpo alla dottrina della reincarnazione anche se Tenzin Gyatso si fosse limitato ad annunciare che lascerà indicazioni al reggente per facilitargli il compito di individuare il nuovo Dalai Lama nel nascituro in cui si reincarnerà, perché il ciclo di rinascita non è nella disponibilità volitiva né in quella precognitiva del morituro, ma qui siamo ben oltre: Sua Santità conta di potersi reincarnare in qualcuno già nato prima che egli muoia.
Siamo alla mutazione genetica di un asse dinastico che per più di sei secoli è stato – insieme – spirituale e temporale, e che potrebbe anche continuare ad esser tale, ma irreparabilmente indebolito dalla caduta del suo pilastro dottrinario: dalla morte di Tenzin Gyatso in poi, di Dalai Lama in Dalai Lama, non verrebbe più trasmesso l’ente sovrapersonale che animava Gendun Drup e i suoi successori, ma solo un pacchetto di autorità morale e di potere politico. Siamo di fronte ad un processo che possiamo considerare analogo (analogo, non simile) a quello della secolarizzazione, che in occidente ha messo in discussione il carattere divino della norma morale e la natura trascendente di quella politica. Qui, però, il processo non è mosso dal basso: ciò che dà carattere trascendente della successione dinastica e sacralità alla persona del Dalai Lama è messo di fatto in discussione dall’alto, dal quattordicesimo Dalai Lama. E tuttavia, come spesso accade quando si assiste a una profonda revisione dottrinaria in ambito religioso, anche qui la spinta viene dall’esterno, perché ogni confessione religiosa, per sua stessa natura, è ostile ad ogni innovazione e tende alla conservazione.

Le ragioni che spingono Tenzin Gyatso a sovvertire i fondamenti della dottrina della rinascita, e così, pur di preservarne il controllo da parte della casta sacerdotale, a snaturare l’istituto della successione dinastica, sono abbastanza note: teme che le autorità politiche cinesi possano interferire nella successione con l’investitura di un Dalai Lama di proprio gradimento, il che darebbe luogo agli analoghi dei drammatici contenziosi che l’occidente ha vissuto in epoche lontane, quando l’autorità di un Papa era insidiata da quella di un Antipapa. In scala diversa, siamo dinanzi a quanto già accade in Cina con l’ordinazione di vescovi da parte delle autorità civili, e in patente violazione del diritto canonico. Ma ciò che spinge Tenzin Gyatso ad annunciare una reincarnazione così atipica non è solo ciò che accade con la creazione di vescovi graditi a Pechino e sgraditi a Roma: c’è un precedente che tuttora tiene aperto un contenzioso sulla persona del Panchen Lama.
Il Panchen Lama ha spesso rivestito la funzione di reggenza alla morte del Dalai Lama, l’unico al quale è secondo nella gerarchia tibetana. Anche per il Panchen Lama la successione è assicurata dalla sua reincarnazione, con modalità del tutto simili a quelle fino ad oggi in vigore per la successione dinastica del Dalai Lama. Il fatto è che alla morte del decimo Panchen Lama, il molto venerabile Lobsang Gyaltsen (1938-1989), Tenzin Gyatso aveva individuato la sua reincarnazione nel piccolo Gedhun Choekyi, che a sei anni divenne undicesimo Panchen Lama, per essere subito rapito dalle autorità cinesi, che lo sostituirono con Gyaincain Norbu, Panchen Lama di proprio gradimento. Con l’annuncio fatto di recente, Tenzin Gyatso cerca di evitare che accada qualcosa di simile alla sua morte.
Per evitarlo – per evitare che alla sua morte ci siano due Dalai Lama e la comunità tibetana possa subire uno scisma religioso e una spaccatura politica – è disposto a sacrificare il principio dottrinario che dà a un Dalai Lama la stessa ragion d’essere, almeno come è sempre stato fino ad oggi: qualcosa in più di un re, qualcosa in più di un grande sacerdote, qualcosa in più delle due cose insieme. C’è l’implicita ammissione che la dottrina è sempre stata funzionale all’istituzione, e non viceversa, come si è dato a credere ai tibetani per oltre sei secoli. Ogni secolarizzazione, in fondo, trae origine dall’impossibilità del trascendente a celare troppo a lungo la sua funzione, che è sempre subalterna all’immanente, anche quando dichiara esattamente il contrario.

domenica 25 settembre 2011

«Un’attenta contemplazione»

Certamente sovrastimato come teologo, Benedetto XVI può essere considerato un grande filosofo solo da chi mastica poco di filosofia, mentre c’è bisogno di un tasso glicemico superiore ai 350 mg/dl per definirlo «superprofessore di filosofia politica» (Il Foglio, 24.9.2011), ma per arrivare a dire che «la sua meditazione dinanzi alla Pietà di Etzelbach intreccia sensibilità artistica e teologia» (asianews.it, 24.9.2011) si deve essere ciechi.
Ecco la meditazione: «Una particolarità dell’immagine miracolosa di Etzelsbach è la posizione del Crocifisso. Nella maggior parte delle rappresentazioni della Pietà, Gesù morto giace con il capo verso sinistra. Così l’osservatore può vedere la ferita del costato del Crocifisso. Qui a Etzelsbach, invece, la ferita del costato è nascosta, perché la salma, appunto, è orientata verso l’altro lato. A me sembra che in tale rappresentazione si nasconda un profondo significato, che si svela solo ad un’attenta contemplazione: nell’immagine miracolosa di Etzelsbach i cuori di Gesù e di sua Madre sono rivolti l’uno verso l’altro; i cuori s’avvicinano l’uno all’altro. Si scambiano a vicenda il loro amore».
Ma la distanza tra il cuore di Maria e quello di Gesù è davvero minore nella Pietà di Etzelbach che in qualsiasi altra Pietà? Quella di Benedetto XVI è «un’attenta contemplazione»?

 
  


Più cretina che malvagia

L’outing è pratica disdicevole? Penso che lo sia soltanto quando è praticata in forma anonima e senza produrre prove validamente documentate di ciò che si rivela. E dunque anch’io ritengo disdicevole la pagina di listaouting.wordpress.com, e tuttavia non condivido affatto le ragioni di principio che sento addurre a pressoché unanime condanna dell’outing come strumento politico. Senza dubbio si tratta di una pratica ritorsiva, ma come negare i suoi caratteri di difesa?
Non voglio dilungarmi troppo in premesse: rimando a Wikipedia per tutto ciò che attiene alle ragioni che hanno dato vita all’outing, ai problemi di metodo che sono posti nella sua pratica, alle controverse questioni che ha fin da subito sollevato sul piano morale e su quello politico, ecc. Si tratta – leggo – di una iniziativa che è concepita come “arma politica di difesa contro quegli omosessuali conservatori che, per allontanare da sé i sospetti di omosessualità, si rivelano particolarmente fanatici nella deprecazione e addirittura nella persecuzione pubblica dell’omosessualità”: violazione della privacy, senza dubbio, ma finalizzata a combattere uno dei più deleteri effetti dell’ipocrisia, che è quello di produrre un danno a una componente politicamente debole nella società, con la finalità di trarne un vantaggio tutto personale.
Nel caso dell’omosessuale che, rivestendo un ruolo pubblico, promuova o sostenga iniziative di franca impronta omofoba, poco importa se la sua ipocrisia sia un mezzo per procurarsi un personale consenso politico o per cercare un personale riparo dalla discriminazione che intanto non risparmia gli altri omosessuali o, ancora, per risolvere in modo nevrotico una personale conflittualità interiore: di fatto, la sua ipocrisia produce un danno oggettivo, e lo produce in offesa a quanti vengono con ciò nel legittimo diritto di difendersene.
Ora, senza dubbio, la privacy è sacra e anche un ipocrita ha buon diritto di lamentarsi se la sua è violata. Ma ogni onore porta un onere, e l’ipocrita che riveste un ruolo pubblico ha verso la propria privacy l’obbligo di una cura particolare, proprio nel malaugurato caso che essa sia violata: se non ci riesce, e il suo privato viene a rivelarsi in patente contraddizione con quanto ha sempre voluto dar da credere per ciò che pubblicamente ha detto e ha fatto, al più merita di essere risarcito per l’intrusione che la sua privacy ha subito, non già del danno personale che ne è derivato. Potrà avere l’umana comprensione dei pietosi, ma non potrà lamentare la perdita del consenso che chiedeva e otteneva in forza dei suoi argomenti omofobi.
A un omosessuale che rivesta un ruolo pubblico, e che non voglia pubblicamente rivelare le proprie preferenze sessuali, non resta che una sola coerenza a prova di infortunio: rinunciare a posizioni omofobe. Questo è quanto riesce ad ottenere l’outing, come pratica ritorsiva, ma anche come strumento deterrente. Non è questo che ci si può aspettare dall’iniziativa di listaouting.wordpress.com, che si esaurisce nella vuota illazione, moralmente disdicevole, e soprattutto dagli effetti potenzialmente controproducenti. Più che malvagia è stata operazione cretina.

sabato 24 settembre 2011

venerdì 23 settembre 2011

In premessa ad un eventuale commento del Discorso al Bundestag

Quel Salomone che ieri, dinanzi al Bundestag, Sua Santità ha preso a esempio di sovrano saggio e giusto, dal cuor docile alla legge di Dio, in realtà era un fetente. Tanto per dirne una, fece uccidere suo fratello, Adonia, e quanti sospettava avessero con lui tramato per scippargli il trono (1 Re 2, 12-46). Si dirà che bisogna contestualizzare questi omicidi. Convengo, ma non possono essere datati che assai dopo la consegna del Decalogo a Mosè.
Com’è che allora Salomone s’è guadagnato fama di sovrano saggio e giusto, e dal cuor docile alla legge di Dio, anche se per la conquista e la difesa del potere si è servito di strumenti criminosi? Presto detto: deve il favore a Zadok, da Salomone promosso a Gran Sacerdore al posto di Ebiatar, sospettato di essere invischiato nelle trame di Adonia.
È così che Salomone arriva al Bundestag come esempio di saggezza e di giustizia, in quanto obbediente alla legge di Dio: passato di mano in mano da Gran Sacerdote a Gran Sacerdote, da Zadok a Benedetto XVI.

En passant occorre rilevare che la Bibbia è ormai poco letta anche nella patria di Lutero, perché nessun parlamentare s’è levato a contestare quell’esempio di merda.

giovedì 22 settembre 2011

Amnistia, sì, ma

In più occasioni, almeno da un anno e mezzo in qua, mi sono espresso in favore di un’amnistia, ma ho sempre tenuto a precisare che, pur essendo diventata a mio parere indispensabile a fronte delle condizioni in cui versano le carceri italiane, fosse e sia da ritenere misura solo emergenziale, perché una soluzione strutturale del problema sta solo nell’abrogazione delle norme che attualmente portano alla reclusione immigrati clandestini, tossicodipendenti, indagati e imputati in attesa di giudizio, che insieme superano il 65% dellodierna popolazione carceraria. Ho tenuto a precisare pure che l’urgenza di un’amnistia non è posta solo da ragioni umanitarie, e quindi non sarebbe da intendersi esclusivamente come misura in favore dei detenuti, ma anche, direi soprattutto, da ragioni che sono di tutti, perché a base dello stato di diritto, di fatto sospeso col negare a un detenuto i diritti che gli sono inalienabili, qualunque sia il crimine per il quale sconti la sua pena. Amnistia, dunque, e per il ripristino della legalità, entro la quale la certezza della pena non implichi più un supplemento di sanzione illegalmente inflitta, né le esigenze cautelari si traducano in tortura.
Posizione abbastanza simile a quella dei radicali, che però hanno progressivamente messo in secondo piano, nelle ultime settimane, l’importanza di un riassetto strutturale del sistema normativo, spingendo l’acceleratore sull’iniziativa in favore dell’amnistia come madre di ogni riforma. Probabilmente si tratta di una scelta tattica, perché non ho dubbi nel ritenere che anche per loro l’amnistia non sia il traguardo ultimo, e tuttavia, si sa, il tatticismo è vizio che distoglie sempre dal traguardo ultimo, fino ad allontanarlo.
Sento con preoccupazione questo rischio nelle recenti dichiarazioni pubbliche di Marco Pannella: comincia a parlare di amnistia come soluzione dei problemi di Silvio Berlusconi. Per meglio dire: anche dei suoi problemi. Fatto sta che un provvedimento emergenziale che dovrebbe portare allo sfollamento di carceri congestionate fino all’inverosimile corre così il serio rischio di essere strumentalmente utilizzato da alcuni e quindi comprensibilmente osteggiato da altri. Avremmo l’amnistia anche per chi è già detenuto, ma soprattutto per chi vuole evitare il giudizio e una eventuale giusta pena (non necessariamente detentiva).
La cosa peggiore, credo, è che a trovarne beneficio non sarebbero immigrati clandestini, tossicodipendenti, indagati e imputati in attesa di giudizio – rimarrebbero in vigore le leggi che ne vogliono la detenzione e le carceri si riaffollerebbero in meno di due anni – ma solo quanti hanno commesso gli stessi reati per i quali Silvio Berlusconi è indagato e imputato, insieme a quanti stanno in carcere per pene detentive di entità inferiore a quelle previste per quei reati. Invece dell’ennesimo provvedimento ad personam, avremmo messo in atto un provvedimento a misura del profilo criminale che è nelle ipotesi accusatorie pendenti su una sola persona. Che in questo caso è in grado, sì, di fare molto per accontentare Marco Pannella, ma rifilandogli una vittoria politica svuotata di ogni senso, sia umanitario, sia legalitario. Sicché è comprensibile che, dopo tanto sbattersi, i radicali siano smaniosi di passare all’incasso, ma temo che così corrano il rischio di intascare ancora una volta, e soltanto, un soldo che non vale niente. 

mercoledì 21 settembre 2011

Il ritorno di Qui Radio Londra

Non riesco più a trovare in rete i dati Auditel relativi alla fascia del cosiddetto prime time access (ora vengono accorpati a quelli del tg che li precede) e quindi non ho modo di sapere se va riconfermandosi, dopo la lunga pausa estiva, la caduta dello share che si è sempre avuta, senza eccezioni, tra la chiusura del tg1 e la sigla di testa di Qui Radio Londra (dal 4 all’11%, con una perdita netta fino a un massimo di 1.800.000 telespettatori), né di sapere se sia riconfermato il dato, altrettanto costante, di un sensibile incremento degli accessi a Raiuno (da 2 al 7%) sulla sigla di coda della trasmissione o nei minuti subito seguenti.
Può darsi che questi dati, relativi ai mesi in cui la trasmissione è andata in onda (15 marzo-30 maggio), siano migliorati con le prime tre puntate di settembre, soprattutto se comparati a quelli del tg1, che sono in caduta libera (-4/7%), mentre è più difficile pensare che abbiano avuto un’inversione di tendenza in assoluto, sicché non si capisce quali elementi consentano a Giuliano Ferrara di affermare: «La mia curva di ascolti è in salita e io sono soddisfatto» (il Giornale, 19.9.2011), soprattutto se si tiene conto del fatto che l’affermazione è stata antecedente alla ripresa della sua striscia quotidiana. Intuito, probabilmente. Con azzardo di previsione, è evidente.
Nell’impossibilità di una verifica, che sarebbe comunque assai parziale dopo solo tre puntate dal ritorno sul piccolo schermo, siamo costretti, almeno per il momento, a sospendere ogni giudizio su un indicatore peraltro assai poco attendibile nella valutazione della qualità di un prodotto televisivo, ma che tuttavia, piaccia o non piaccia, è quello che solitamente ne segna la sorte, legandola allo share che raccoglie. Fino a quando è stato possibile seguirne l’andamento, che si è rivelato in costante flessione (relativa e assoluta), quello raccolto da Qui Radio Londra è stato in ogni caso assai inferiore a quello delle aspettative. D’altra parte è lo stesso Giuliano Ferrara a riconoscerlo nel tentativo di trovarne spiegazione: «Non è un momento felice per la tv generalista». Ancora: «Veniamo dopo il tg1, c’è un pacco di pubblicità». E ancora: «Una sorta di fisiologico calo di ascolti ce l’avevo anche tanti anni fa, quando iniziavo dopo “Tra moglie e marito” di Marco Columbro su Canale 5». Ma non si era detto di «una curva di ascolti in salita»?
Per qualsiasi altra trasmissione in quella fascia di ascolto, che è di ampiezza ridotta ma produce vistosi effetti sul prime time a seguire, a parità di rendimento si sarebbe optato per la sospensione, nel rispetto della crudele logica del mercato. D’altra parte è noto che la Rai segua da tempo un’altra logica, che è quella di assecondare i gusti di Silvio Berlusconi. È così che trasmissioni a lui sgradite vengono via via eliminate dal palinsesto, anche se hanno ottime prestazioni e procurano un sensibile utile all’azienda. Solo questo spiega il ritorno in tv di Giuliano Ferrara dopo la sua deludente performance primaverile. Solo questo spiega perché gli sia stata offerta una presenza su una rete pubblica e non sulle frequenze Mediaset: prendendo mezza dozzina di piccioni con una sola fava, Silvio Berlusconi ha premiato un servo fedele, e senza cacciare un solo euro dalle sue tasche, si è assicurato altri cinque minuti al giorno di propaganda su una rete Rai, non ha arrecato alcun danno alle sue tv, ma anzi lo ha arrecato alla concorrenza, procurando un ulteriore utile alla sua azienza.
È un modus operandi del quale si è sempre avuto sospetto, ma del quale abbiamo prova provata almeno da quando fu reso pubblico il contenuto delle telefonate tra lui e Agostino Saccà, per poi essere confermato, e proprio di recente, dalla funzione di specchietto per le allodole affidata a Fabrizio Del Noce ai festini di Arcore: la Rai è considerata un bottino personale dal quale l’imperatore attinge per fare regalini alle signorine che gli leccano le palle. Nel caso dei cinque minuti dopo il tg1, a chi gli lecca il culo.
Ogni altra considerazione sui contenuti di Qui Radio Londra è superflua, perché si tratta delle stesse cose che Giuliano Ferrara scrive su Il Foglio, su il Giornale e su Panorama: su Raiuno le arrangia nel modo che gli sembrano più digeribili per un pubblico di più basso livello, sicché eccede in strizzatine docchio e altre gigionerie, con faticosi cedimenti a quello che ritiene sia lumore dello spettatore medio e altre ruffianate da ambulante nella piazza del villaggio, per lidea di villaggio che si è fatto ai tempi in cui bucava il piccolo schermo. Armi ormai spuntate, e questo forse spiega perché non siano apprezzate nemmeno da chi sceglie il tg di Augusto Minzolini. 

Postilla Wil mi informa che tvblog.it riporta i dati di ascolto della puntata di Qui Radio Londra di ieri: share del 16,21%, con una perdita di circa il 7% rispetto al tg1. Peggio dell’ultima puntata prima della pausa estiva. Intuito fallace. Azzardo di previsione errato. Un grazie a Wil per avermi segnalato una fonte Auditel per le considerazioni a venire.

Il caso Sofri (jr)

Il pasticciaccio nasce come quello che causò qualche imbarazzo a Futuro e libertà, non più di nove mesi fa, quando ilfazioso.com scoprì che l’intestatario del sito web del neonato partitello di Gianfranco Fini era Luca Sofri. L’account di riferimento al dominio aveva per e-mail la stessa che Luca Sofri aveva usato per aprire una pagina su Facebook intestata a un altro Sofri, quello anziano, e ora i responsabili del social network hanno sospeso l’account, oscurando la pagina.
Adriano Sofri se ne lamentava pubblicamente alcuni giorni fa, chiarendo i dettagli della vicenda, tranne uno, quello essenziale a motivare un provvedimento altrimenti odiosamente arbitrario: «Ho da un paio d’anni una pagina Facebook a mio nome. Siccome non può avere più di 5 mila “amici”, ne aprii un’altra intitolata “Conversazione con A.S.”. Sono stato inopinatamente squalificato, con il seguente messaggio esplicativo, che dichiara che io non sono io […] Adesso, scomparsa la mia pagina con le migliaia di commenti e messaggi, leggo quello che gli altri scrivono nella seconda pagina, restata aperta a tutti tranne che a me, che ne sono il titolare» (Il Foglio, 15.9.2011).
Lamentela sostanzialmente legittima, formalmente un po’ meno. L’e-mail che gli annunciava il provvedimento di sospensione, infatti, chiariva: «Il tuo account è stato disabilitato poiché violava le “Condizioni di Facebook”. Abbiamo determinato che il tuo profilo non ti rappresenta in modo autentico, e ciò rappresenta una violazione delle nostre normative». Senza spiegare che la pagina era stata aperta dal figlio, contravvenendo alle condizioni poste nell’offerta del servizio, tutto rimaneva molto vago.
 D’istinto veniva voglia di solidarizzare, ma nella vicenda rimaneva un buco, che ieri la sollecitudine filiale cercava di tappare, ma molto goffamente. Sarebbe bastato ammettere di aver commesso una leggerezza, ma figuriamoci se Luca Sofri ne è capace. Ecco, allora, il suo fragile castello di strabiche insinuazioni.
Si comincia fin dal titolo del suo fluviale post: «Schiavi di Facebook». Non è chiaro chi costringa un poveretto ad aprire una pagina su un qualsiasi social network, né è chiaro chi gli impedisca di chiuderla sottraendosi alla schiavitù. In realtà molte altre cose non sono chiare, sicché il post solleva diverse questioni, mentre la più importante rimane inevasa: perché Luca Sofri si ostina a combinare guai ad amici e parenti?

Scrive: «Non sono un estimatore di Facebook: anzi. Mi pare che sia una grande rete con straordinarie opportunità declinata invece alla circolazione di contenuti mediocri o futili e all’investimento di molto tempo in attività poco fertili, a differenza di altri luoghi della rete. Un grande posto dove “sono tutti” e quindi vanno tutti, e poi quando sono lì non sanno cosa fare tranne commenti da macchinetta del caffè e opinionismo autoesauriente».
Questo eccellente esempio di opinionismo autoesauriente si cestina da solo con la spiegazione del perché su Facebook ci sia una pagina intestata a Luca Sofri, e una a il Post: «Non è così per tutti, e il Post è il primo a cercare ancora malamente di sfruttare la grande estensione di quella rete per diffondere contenuti di qualità – a suo dire –, ma mi sembra che il mezzo di per sé inclini poco alla qualità e molto alla quantità: di utenti e tempo di assorbimento».
Perché quelle due pagine rimangono aperte? Probabilmente per le stesse ragioni che trattengono quanti diffondono – a loro dire – contenuti di qualità, che invece sono commenti da macchinetta del caffè.
Diciamo che la prima questione sollevata si affloscia nella presunzione di essere tra gli eletti che diffondono contenuti di qualità in luogo dove i comuni mortali diffondono contenuti mediocri o futili. Non si capisce cosa consenta a Luca Sofri di lamentarsi dell’ambientaccio che si ostina a frequentare pur con la puzza al naso, anzi, si capisce: siamo di fronte al caratteristico esemplare – in minima scala – di quella sinistra che si sente investita della missione di emancipare a vario titolo le masse, ma che ha l’inguaribile difetto di schifarle quando quelle si ostinano a preferire un bifolco come Gigi D’Alessio a un genio come Morgan. Donde la certezza che Morgan sia un genio? Piace a me ed è simpatico alla mia signora. Ma veniamo alla questione centrale.

«Mio padre ha un profilo su Facebook, come molte persone, e lo usa con alterne intensità: si trova tuttora agli arresti domiciliari e quindi è un’opportunità piuttosto attraente di avere relazioni con gli altri. Glielo aprii io un paio d’anni fa, pur con la mia scarsa dimestichezza, fornendo un indirizzo di mail creato da me, per occuparmi così io di eventuali complicazioni e per non far ricadere sul suo le cataste di comunicazioni inutili e ammorbanti con cui Facebook perseguita le mail degli utenti. Ne ha fatto abbastanza uso, in questi due anni (a occhio), raccogliendo migliaia di amici e quindi essendo costretto poi a far costruire una pagina per superare l’altra sciocchezza del tetto dei cinquemila. La settimana scorsa mi ha chiesto di dare un’occhiata perché non riusciva più ad accedere al suo profilo, e conseguentemente alla pagina. E in effetti Facebook rifiutava il login, e con successivi link alludeva a qualche tipo di violazione nell’identità dell’utente. Ho seguito tutte le richieste e sono giunto a una pagina che diceva che in caso di disattivazione dell’account avrei dovuto eseguire alcune pratiche esoteriche online e allegare a una mail la copia di un documento. Ho fatto come richiesto, e nessuno mi ha risposto. Ho fatto come richiesto una seconda volta, e ho ricevuto questo»; e qui segue l’e-mail già diffusa dal babbo.
«Ci sono alcune cose che fanno molto ridere – prosegue Luca Sofri, ma si capisce che non sta ridendo affatto – a cominciare dal concetto che il profilo di mio padre non lo rappresenti in modo autentico (a differenza dei nostri)». Sarà per i limiti di chi non arriva a cogliere il genio di Morgan, ma non si capisce com’è che i responsabili di Facebook avessero il dovere di sapere che il padre avesse delegato il figlio a compiere le operazioni necessarie per aprire una pagina. Anzi, anche questo si capisce, ma con la presunzione di sentirsi persona universalmente nota, sicché chi è che può ignorare che tra padre e figlio non vi sia solidità di intenti in tutto?
Lo si ignora? Luca Sofri non si scoraggia: risponde all’e-mail, «spiegando che se l’account di mail li avesse indotti in errore era solo perché è intestato al figlio del titolare, ma come dimostrava il documento, tutto quanto lo rappresentava in modo molto autentico e i rapporti familiari sono sereni». Vi verrà da chiedervi chi rilasci i certificati di sereni rapporti familiari. Presto detto: «Mio padre [ha] raccontato l’avvenuto in una rubrica a sua firma sul Foglio e […] Vittorio Zambardino lo [ha] ripreso sul sito di Repubblica».

La documentazione non deve aver soddisfatto i responsabili di Facebook. Bestie. Si capisce la reazione avuta da Sofri senior, soprattutto considerando il fatto che si servisse di un servizio senza aver letto né sottoscritto le condizioni di utilizzo: «Ma non li posso denunciare?». Reazione emotivamente legittima, che conferma l’anelito di giustizia che lo anima da sempre, anche se in passato qualche giudice vi ha intravvisto qualche eccesso di impulsività.
Più razionale, invece, il figlio: «Ho risposto di no». Con motivi ragionevoli, bisogna dire. Mancava solo un’ammissione: «Babbo, purtroppo sono io ad aver fatto una cazzata». Non sappiamo se Luca Sofri ci sia riuscito: non pervenuto, e in fondo si tratta di questioni private.
Quello che però vale la pena di segnalare è che l’anelito di giustizia non è passato di padre in figlio come carattere recessivo: «Continuerò a stressare Laura [una degli addetti alle comunicazioni con gli utenti di Facebook, quella cui è toccato il caso Sofri] perché riapra quel benedetto profilo, e non le righerò la macchina con una chiave solo perché ha in ostaggio la mia famiglia”. E qui Laura può dirsi fortunata, perché poteva andarle peggio: poteva essere additata su il Post come boia, qualche testa calda passava dalle parole ai fatti rigandole la macchina, e poi ci toccava passare altri vent’anni a firmare appelli in favore di Luca Sofri, troppo buon cazzone per essere il mandante.
 

martedì 20 settembre 2011

Il rispetto che si deve a un malato

Silvio Berlusconi merita il rispetto che si deve a un malato. Comprensibile l’esasperazione di chi non vede l’ora che il governo del paese venga tolto dalle mani di un malato, ma ritengo che gli insulti e gli sberleffi siano controproducenti, oltre che impietosi, così com’è del tutto inutile, oltre che provocatorio, chiamarlo a una qualsiasi forma di responsabilità. Non può dar conto di se stesso, di ciò che dice, di ciò che fa, sarebbe il caso di prenderne atto. Si dovrebbe essere cauti nel farlo bersaglio del biasimo e del dileggio che tuttavia – sono disposto a concedere – è pressoché impossibile frenare, perché la sua è una malattia incurabile, per di più pericolosa tenuto conto dei mezzi che sono a disposizione del malato, senza dubbio alimentata dalla convinzione di essere oggetto di attacchi ingiusti a fronte della sua sconfinata voglia di essere amato da tutti. Siamo al punto in cui basta un niente, anche una battuta più crudelmente azzeccata delle tante, a poter scatenare una reazione violenta, certamente autodistruttiva, ma anche distruttiva. Si dovrebbe smettere di parlarne rivolgendosi a lui, anche indirettamente, ma discuterne come un caso clinico la cui diagnosi è indiscutibile, il decorso imprevedibile, la prognosi infausta, la terapia impossibile, rammentando che l’eutanasia, dove e quando sia consentita, è praticabile solo su chi la chieda.
Chi proprio non riesce a provare per Silvio Berlusconi i sentimenti che bisogna imporsi di provare per un malato accumuli tutta la sua esasperazione in attesa di saldare il conto con quanti hanno alimentato la sua malattia con la cieca adulazione. Il malato va sempre rispettato, chi lo ha portato all’ultimo stadio può essere scorticato vivo. Prendete, per esempio, quello che ieri sera, su Raiuno, gli continuava a consigliare di chiedere scusa, come aveva già fatto domenica su il Giornale, dopo averlo drogato per anni di lodi e complimenti. Ecco, prendetevela con quello, ma promettete di non torcere un capello al poveretto. 

lunedì 19 settembre 2011

“Si tratta di una uscita disperata”

L’ipotesi di Andrea Petrocchi merita molta attenzione.

La stampella


Non vale neanche la pena di discutere sulle prodigiose qualità del liquido che la fede vuole sia il sangue di San Gennaro, non in assenza dell’analisi chimica su un suo campione, sempre negata. Non vale la pena di discutere neanche sulla fede, perché la fede non tollera discussioni, certe volte neanche dubbi, ritenendoli offensivi. Meno che mai varrà la pena di discutere su cosa muova i napoletani a credere che alla periodica liquefazione del contenuto di due ampolline, ripetutamente agitate in una chiesa affollata di gente sudata, non sappiamo se previo trattamento nei giorni antecedenti, sia legata la certezza della buona sorte. Varrebbe la pena di discutere, eventualmente, su cosa sarebbe Napoli, oggi, dopo che il prodigio si è verificato più di 1.800 volte (3 volte ogni anno, dal 1389 ad oggi), se solo la metà della metà della metà delle speranze riposte nel miracolo avessero trovato riscontro nei fatti, lungo i secoli: sarebbe un paradiso terrestre. Oppure, rivoltando la questione, potremmo chiederci cosa sarebbe Napoli, oggi, se non avesse goduto, lungo i secoli, della benevola protezione di San Gennaro, comprovata dalla costanza del prodigio, ma è possibile immaginarla peggio di com’è? No, neanche su questo varrà la pena di aprire una discussione.
Pensandoci bene, converrà evitare pure di discutere sul perché la Chiesa non considera un “miracolo” la periodica liquefazione del contenuto di quelle due ampolline, ma consente che la tradizione religiosa popolare lo ritenga tale, e un suo cardinale, Crescenzio Sepe, lo definisca proprio “miracolo”. Converrà evitare pure di discutere sul perché la Chiesa abbia consentito lo slittamento delle feste patronali alla domenica più vicina, fatta eccezione per quella di San Gennaro, santo che ha depennato dal suo calendario. Insomma, dobbiamo lasciar perdere ogni questione che richiederebbe l’uso della logica: siamo di fronte a un problema che non tollera alcun genere di analisi, siamo di fronte a un fenomeno che non consente alcun tentativo di decostruzione. Al massimo ci è consentito chiacchierarne, come si fa quando ci si intrattiene a parlare del tempo che fa? Piove? Sì, ne viene giù tanta. Fa caldo? Come no, non si respira.

E dunque anche quest’anno, puntuale come proprio quest’anno era davvero indispensabile, il 19 settembre, un lunedì che più feriale non si poteva, San Gennaro non ha mancato all’appuntamento. Anzi, non hanno fatto in tempo a tirar fuori la lipsanoteca dal suo ripostiglio che subito s’è avuta la lieta notizia: il sangue, o quello che è, era già bello fluido.
Sarà stata la tripletta che Edison Cavani ha rifilato ieri sera al Milan o il fatto che sulla linea intransigente del cardinale Sepe, fermo nell’opporsi allo slittamento della festa patronale, c’è stato il tempestivo e pieno appoggio di De Magistris (Comune), di Cesaro (Provincia), di Caldoro (Regione) e, ancora non è chiaro a quale titolo, di Lepore? Non importa, l’importante è che anche quest’anno i napoletani possano sentirsi sul capo la mano protettrice del loro santo, sennò chissà in quale degrado sarebbero precipitati. Camorra, disoccupazione, immondizia, cose così, ma per fortuna il santo ha detto no e in città – Deo gratias – si respira.
Perché si tratterà di gente maltrattata dalla storia, come recitano i volumi lassù in alto, o di plebe inetta a diventare popolo, com’è evidente già da un qualsiasi quarto piano, ma quello che le dà la forza di tirare avanti è la stampella delle sue superstizioni, e guai a toccargliela. Anzi, se non si vuole offendere la sua zoppia e vedere come è lesta a inseguirti e a pigliarti a calci, conviene rispettarla come terza gamba.
Chiedevano a De Magistris, ieri: “Che farà, signor sindaco, bacerà o non bacerà la teca che contiene il sangue di San Gennaro?”. “Si vedrà sul momento – rispondeva – non mi sembra una questione importante”. “Non mi sembra importante”, un cazzo. Quanto ci mette la plebe a fare a pezzi un Masaniello? Vieni, Giggi’, ti conviene, bacia la stampella. La Chiesa non dice che si tratti di un miracolo, non sai se davvero è sangue quello che sta lì dentro, ma ti basti sapere che si tratta di onorare una superstizione e, se non lo fai, i superstiziosi si sentono traditi. E sia chiaro che non lo stai facendo a titolo personale: portati appresso la fascia e il gonfalone, così si capirà che la stai baciando a nome di tutta la città, compresi i non credenti che ti hanno votato ritenendoti il primo menopeggio che passava, compresi i musulmani di Piazza Mercato ai quali hai chiesto il voto non più di qualche mese fa.  

Pastorale sulla patonza

Gian Antonio Stella rileva che “le autorità vaticane sembrano aver scelto di tacere, per ora”, e si chiede cosa faranno “dopo aver letto quei dialoghi finiti su tutti i giornali del pianeta” (Corriere della Sera, 18.9.2011). È probabile che il rilievo sia provocatorio e la domanda sia retorica, ma non è difficile immaginare cosa stia accadendo e cosa accadrà. Lo schema dovrebbe essere lo stesso di due anni fa, quando il sepolcro imbiancato andava scoperchiandosi.
La base cattolica è divisa. La maggioranza, che nonostante tutto rimane filoberlusconiana, è molto imbarazzata, ma si sforza di non darlo a vedere: in parte tace, in parte mugugna, in parte taglia corto col cinico buonsenso di chi è disposto a chiudere un occhio sui peccati mortali del premier, purché questo governo continui a farsi garante dei valori non negoziabili. La minoranza antiberlusconiana, invece, comincerà a stracciarsi le vesti per lo scandalo, anche rumorosamente.
La Cei rifletterà questa composita gamma di reazioni: qualche vescovo sarà duro, anche durissimo, forse arriverà perfino a essere esplicito; i più condanneranno il peccato ma risparmieranno il peccatore, diranno che il tutto il problema sta nel fatto che la patonza giri, non già in chi la fa girare; i vertici si produrranno in pastorali d’ampio respiro sociologico, stigmatizzando il gran girare di patonza, dal ’68 ad oggi. Avvenire sarà polifonico e Tarquinio orchestrerà meglio di Perosi, a meno che non abbia pure lui una condanna per molestie in qualche casellario giudiziario.
La Segreteria di Stato e L’Osservatore Romano saranno molto vaghi, allusivi forse, comunque ambigui come conviene, sicché chi ha orecchie per intendere potrà intendere, ma a proprio rischio. Infine, però, parlerà Benedetto XVI: en passant, tra una catechesi su Santa Irmgarda e un appello in favore dei cristiani perseguitati nel Borneo inferiore, dirà che Satana ci tenta, incessantemente, e spesso con la patonza.
Niente di più, niente di meno, pregiatissimo Stella.

domenica 18 settembre 2011

Prima puntata della nuova serie di In Onda

Luca Telese non è riuscito a trovare neanche una parola sulla cravatta o sulla pettinatura di Nicola Porro.

sabato 17 settembre 2011

Vanity Fair, 37/2011 - pag. 84



 Tranquilla, Barbara, a chi mai potrebbe saltare in testa di farti certe proposte?  

venerdì 16 settembre 2011

C’è teatrino e teatrino



Ci vorrebbe il genio di Makkox. Un Berlusconi che muove i fili di una marionetta dalle sembianze di un Ferrara che a sua volta muove i fili di una marionetta dalle sembianze di un Berlusconi intento a scrivere: “Caro direttore, è vero, come Lei scrive, che il mio comportamento…”. Come titolo metterei: C’è teatrino e teatrino.

Fakfa

Blažek, lo scarafaggio, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nella sua tana, in un minuscolo e lindo impiegato. Giaceva sulla schiena, curva com’è dei dipendenti del catasto, e sollevando un po’ la testa vide un ventre molle, chiaro, coperto da peli lunghi e radi. Il mucchietto di terriccio sul quale s’era addormentato gli si era appiccicato addosso e due gambe e due braccia, mostruosamente grosse rispetto al tronco, si muovevano davanti ai suoi occhi.
“Che mi è successo?” pensò. Non era un sogno. La sua tana, un bel buco da blatta, anche se un po’ piccolo, stava lì come l’aveva lasciato prima di addormentarsi…

If

Ho visto alla tv, su un palco, Bersani, Vendola e Di Pietro far le prove generali per una coalizione di programma. Facciano pure, poi, quando hanno un minutino, trovassero modo di farmi sapere se in questo programma c’è o non c’è l’impegno a mettere in discussione il regime concordatario, a provvedere alla drastica riduzione dei benefici di cui gode la Chiesa cattolica, a istituire il registro nazionale delle unioni civili di coppie dello stesso sesso e di sesso diverso, a consentire il matrimonio ai gay, ad abrogare la legge 40/2004, a depenalizzare il consumo delle cosiddette droghe leggere e sperimentare il regime di somministrazione controllata per quelle cosiddette pesanti, a facilitare il ricorso all’aborto farmacologico e l’accesso ai metodi contraccettivi, a istituire corsi di educazione sessuale nella scuola dellobbligo, a consentire il testamento biologico e a favorire  la libera e responsabile scelta eutanasica, alla regolamentazione e al controllo della prostituzione, a difendere e a sostenere la libertà di ricerca scientifica, all’abrogazione del reato di clandestinità e a una dozzina di cosette che adesso, preso alla sprovvista, non saprei mettere in questo elenco. Se ne manca una sola, andassero a cagare tutti e tre.