domenica 16 ottobre 2011

Lo spontaneismo è sempre controproducente

A vederlo assaltare un autoblindo, ti viene il sospetto che si tratti di un infiltrato. Solo quando è morto, e gli scopri il volto, t’accorgi che si trattava di un ragazzo. Anche un bravo ragazzo, a detta di sua madre e dei suoi amici. Dovresti sentirti un verme: come hai potuto sospettare che si trattasse di un agente mandato in piazza a creare disordini? Devi deciderti: o smetti di sospettare che una pacifica protesta possa degenerare in altro solo a causa di un piano ordito da chi vuole sabotarla, e allora con coerenza devi mandare a cagare la madre e gli amici del ragazzo morto, o con animo sereno e onesto accetti l’evidenza che nessuna protesta può essere tanto pacifica da dare piena assicurazione che resti tale. In altri termini: o metti in discussione le ragioni della protesta, quali che siano, o metti in discussione il dogma della nonviolenza.
Io ti consiglierei la seconda opzione, perché la protesta è sempre legittima, è sempre un diritto, talvolta è addirittura un dovere. Il fatto è che in sé ha sempre il germe della violenza, anche quando riesce a rimanere pacifica, che senza dubbio può essere preferibile, spesso conveniente, e tuttavia non sempre riesce ad essere possibile, anche quando la piazza non sia infiltrata da agenti provocatori. Negare il germe della violenza nella protesta è da ingenui e gli ingenui non hanno alcun diritto di lamentarsi.
Tutto sta – io credo – nel decidere la forma da dare alla violenza che è insita nella protesta (è per questo che chi professa il dogma della nonviolenza rigetta addirittura il termine “protesta”): quando è preferibile che non si traduca in atti violenti, ma dia segno di sé solo in potenza, c’è bisogno che la massa sappia darsi struttura organizzata, rinunciando al lirismo del momento spontaneo. Ogni protesta che assume forma spontanea dà luogo prima o poi ad atti violenti, perché l’istinto a tradurre in atto la potenza è proprio di ogni massa non organizzata. “Il principale avvenimento all’interno della massa è la scarica. Prima, non si può dire che la massa davvero esista: essa si costituisce mediante la scarica. All’istante della scarica i componenti della massa si liberano delle loro differenze e si sentono uguali. […] Solo tutti insieme gli uomini possono liberarsi dalle loro distanze. È precisamente ciò che avviene nella massa. Nella scarica si gettano le divisioni e tutti si sentono uguali. […] Ma l’istante della scarica, tanto agognato e tanto felice, porta in sé un particolare pericolo. È viziato da un’illusione di fondo: gli uomini che d’improvviso si sentono uguali, non sono divenuti veramente e per sempre uguali” (Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi 1981).
Io ti consiglierei di unirti alla protesta di una massa non organizzata solo se sei disposto a fare i conti con quella perdita più o meno grande della responsabilità personale che è inevitabile quando vuoi illuderti. Per meglio dire: nel farti parte di una massa non organizzata, ti assumi una quota di responsabilità che è sempre superiore a quella tua, e non parlo di responsabilità giuridica, ovviamente, ma di quel genere di obbligazione che è ineludibile nel mettere le proprie ragioni insieme a quelle altrui, nello stesso istante, nello stesso luogo, in nome di una comune protesta. Devi mettere in conto come minimo la delusione di veder fallire la protesta negli obiettivi che le avevi personalmente assegnato, fino ad essere costretto a constatare che tra un bravo ragazzo morto e uno schifoso agente provocatore passa la stessa differenza che c’è tra un Francesco Caruso e un Francesco Cossiga, che in pratica, per gli obiettivi che ti eri posto nel partecipare alla protesta, è nulla. Lo spontaneismo è sempre controproducente.

sabato 15 ottobre 2011

[...]

Per la prima volta negli Stati Uniti

 
(ANSA) - WASHINGTON, 14 OTT - Il Grand Jury di Kansas City ha deciso di incriminare il vescovo della città, Robert Finn, con l’accusa di aver ritardato la denuncia e coperto un prete accusato di aver abusato di una bambina.


venerdì 14 ottobre 2011

Se fossero stati 60


I deputati radicali preannunciano il ricorso all’autorità giudiziaria per rivalersi delle notizie false o tendenziose che dovessero essere diffuse riguardo alle ragioni che li hanno spinti a rigettare la linea scelta da tutte le altre opposizioni, e dicono che hanno deciso di partecipare al voto di oggi per gli stessi motivi per i quali hanno partecipato ai lavori d’aula di ieri, e cioè per ribadire il loro rispetto delle istituzioni e della funzione parlamentare, come sempre, da sempre. Non si capisce, allora, che senso abbia far presente che non sono stati in alcun modo determinanti, né al raggiungimento del quorum né a quello della fiducia: se fossero stati 60, invece di 6, sarebbe potuto venir meno il loro rispetto delle istituzioni e della funzione parlamentare? Non si tratta, d’altra parte, delle istituzioni e del parlamento che i radicali considerano ampiamente degenerati in regime partitocratico? Infine, davvero i radicali hanno sempre, e da sempre, avuto tanto ossequio per le istituzioni e il parlamento?
Non vorrei essere fatto oggetto di attenzioni dell’autorità giudiziaria su invito dei deputati radicali, ma ritengo assai deboluccia la loro posizione. Come dimostra il fatto che hanno votato contro la fiducia al governo, non si tratta certamente di tristi figuri che barattano il loro voto in cambio di favori, ma ritengo che non abbiano deciso di essere presenti in aula per ragioni di principio, ma che ancora una volta abbiano deciso di sfruttare al meglio un’occasione per lucrare un po’ di quella visibilità della quale sono comprensibilmente affamati. Naturalmente, quando dico “deputati radicali”, dico Marco Pannella. Perché dietro questa ennesima prova di opportunismo travestito da ossequio per le regole è evidente il mestiere del tirar la corda fino alla rottura, senza mai romperla. Altrove non poteva durare mezzo secolo, in Italia sì.  

Rumore

Sul cosiddetto “decreto ammazzablog” pare davvero che si sia fatto molto rumore per nulla (Daniele Minotti, via Massimo Mantellini). Ovviamente nessuno potrà mai convincerne quanti ritengono che mai nessun rumore sia per nulla.

Stizza


Umberto Eco doveva aspettarsi una punizione perché era colpevole di aver detto: «Non credo che Benedetto XVI sia un grande filosofo, né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale. Le sue polemiche, la sua lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane, nemmeno uno studente della scuola dell’obbligo le formulerebbe come lui. La sua formazione filosofica è estremamente debole» (Berliner Zeitung, 19.9.2011). Ci pensa il giornale del Papa, con un articolo a firma di Silvia Guidi, impreziosito dalla foto che vedete qui sopra (L’Osservatore Romano, 13.10.2011). Nessun riferimento alle dichiarazioni fatte da Umberto Eco, naturalmente, tanto meno un’obiezione ragionata: solo un dispettuccio, anche se assai stizzito.  È evidente che le critiche da lui mosse a Benedetto XVI hanno duramente colpito, perché toccavano il punto più sensibile della reputazione che  l’Opus Dei è venuta cucendo addosso a Joseph Ratzinger dalla metà degli anni Ottanta in poi.
Ho argomentato in più occasioni, anche prima della sua elezione al Soglio Pontificio, quanto Umberto Eco ha detto al Berliner Zeitung, e la reazione de L’Osservatore Romano mi sembra sia la migliore dimostrazione che sulla costruzione del grande bluff, al quale ha contribuito anche buona parte del mondo laico, il nervo è ancora più scoperto di quanto ritenessi. 

giovedì 13 ottobre 2011

“I see no reason not to believe her”


Update
Yesterday we posted about a viral video clip of people walking on water that that a local news team mistook for being true. Today we’ve got another story to go in the “always check your sources” file. The Sensacionalista, a Brazilian satirical news site (think a low-scale Onion written in Portuguese), posted a story last week about an American woman who claimed she was impregnated by a 3D porn film. The quirky joke was soon being reported all over the internet as fact. And, this time, it wasn’t just some local affiliate news program that got duped; the popular tech site Gizmodo took the bait as well!
The original story was hilariously ridiculous. As the Sensacionalista “reported,” an American soldier named Erick Jhonson (the botched American name should have tipped someone off) returned from war to discover that his wife had given birth to a half black child. The only problem was, both he and his wife were white! When he confronted his wife, she claimed that she had been impregnated from watching a pornographic film shown in 3D. “Jhonson” was said to be suspicious of the story but not altogether unconvinced. The story includes a quote from him stating, “with today’s technology anything is possible.”
 Funny, huh? Well, that jokey piece was soon translated to English and making its way from tech site to tech site, all the while being presented as a true story. Unfortunately, whoever translated it, didn’t also translate the Sensacionalista slogan: “the newspaper exempt from truth.” Soon enough, it ended up at the doorstop of Gizmodo, the technology blog owned by Gawker and famous recently for breaking the 4th generation iPhone story. Gizmodo passed the story along, much to the delight of the Sensacionalista who responded with this headline: “One of world’s largest online news publishes satire as if it were real.” Gizmodo quickly deleted the story, going so far as to clean out their online cache so no one could see it. All that is left are a few dead links on Google.
 To make matters worse, the American tech blogs weren’t the only ones negatively affected by the mistake. The Sensacionalista is just a small website who took some random picture of a white woman with an interracial baby off the internet to accompany the story. As the story began picking up steam, The Brazilian site published this update (pardon the imperfect translation): “A week ago we published an article about the woman who claimed to get pregnant after watching a porn movie 3d. The article was fake and we used the photo that we found on the Internet. Unfortunatelly, the article spread around the world because some sites thought that it was real. That was not our intention. Sensacionalista is a small site from Brazil. We never thought that this could happen. That’s why we are asking this family to accept our sincere apology. That woman and her baby in the photo had nothing to do with this article. They are just a normal family trying to live they’re own lives. We apologize for wrongfully taking their photo and putting it in our article. Please, not to publish this article again and next time check what you read before you write. This site is a humor site. Nothing here is real.”
We can only assume from reading this that the real woman pictured had been accused of cheating on her husband by people who recognized her from the photo. The Sensacionalista acted fast and removed the photo, presumably after being contacted by the woman, her family, or perhaps even her attorney.
The funniest part of the whole incident is the tone that most of these news articles took in reporting the story. Nearly every one insulted the “husband” for being stupid enough to believe such a ridiculous tale. 
Now what is it they say about the pot calling the kettle black?

martedì 11 ottobre 2011

[...]

Scajola congiura? Se sì, a sua insaputa.

lunedì 10 ottobre 2011

Il rasoio di Giovanardi

Quello di Carlo Giovanardi è riduzionismo: dato un fenomeno negativo (stragi del sabato sera, strane oscillazioni in Borsa, rocker particolarmente scostumati, ecc.), lo riduce a effetto di ciò che ritiene il male assoluto, che per lui è – risaputamente – la droga. Si tratta di un’applicazione radicale del cosiddetto “rasoio di Ockham”, il metodo che prende nome da Guglielmo di Ockham, teologo e filosofo medioevale, che, drogato, senza dubbio approverebbe.

Coda

Ho scritto che Wikipedia “è tra i «siti informatici» che hanno attivamente protestato, arrivando addirittura ad oscurare le sue pagine, ma non si capisce perché abbia sospeso la protesta, «tesa esclusivamente alla salvaguardia di un sapere libero e neutrale», visto che «le modifiche al ddl [che peraltro] verranno discusse solo a partire dal prossimo mercoledì 12 ottobre» risparmierebbero solo i blog”.
Giovanni Luca Ciampaglia mi dà la seguente spiegazione, alla quale penso sia opportuno dare rilievo:



Forse posso dare un po’ di contesto. Il motivo della sospensione della protesta è che le modalità con cui s'è arrivati a quella decisione sono state fortemente criticate all’interno della comunità. Oltre ad essere stata messa in atto da un gruppo relativamente ristretto di amministratori rispetto all’intera comunità di itwiki, per molti il vero problema è che la semplice idea di protestare sia in violazione del principio di neutralità che è alla base della filosofia del progetto. Il passatempo preferito dei wikipediani è di spaccare il capello in quattro, tuttavia la maggioranza della comunità (su fino al fondatore Jimmy Wales) ha preferito la linea pragmatica ed ha supportato la scelta della Wikipedia Italiana, che in ogni caso è una comunità totalmente autonoma rispetto a quella Inglese. Sempre per lo stesso motivo di rimanere sul programatico, una volta ottenuta la visibilità mediatica, e visto che un oscuramento prolungato avrebbe creato più confusione che altro (si sa, le notizie girano, ma girano distorte: moltissima gente per esempio pensava che a chiudere itwiki fosse stato il governo!), s’è deciso di sospendere l’oscuramento. Dietro Wikipedia c’è molta più politica di quanto possa sembrare a prima vista. Ma la cosa bella è che tutte le discussioni sono lì, disponibili per chiunque.



Mariastella al Cern

Apperò!

È davvero un peccato che Alfonso Luigi Marra si sia giocata ogni credibilità coi suoi romanzi e con quanto vi ha messo d’accanto, perché la sua proposta referendaria è estremamente interessante. Se uno fa lo sforzo di non pensare che è l’autore de Il labirinto femminile, e gli dà attenzione per capire quali leggi intende abrogare, e perché, scappa quasi di essere d’accordo.

«Il termine blog è la contrazione di web-log...»

Al netto degli eccessi retorici, in qualche caso davvero insopportabili, la protesta che ha agitato la gran parte della nostra blogosfera ha preso di mira il punto del comma 29 del ddl intercettazioni in cui l’espressione «sito informatico» faceva aspecifica inclusione dei blog. Ricavo conferma di questa impressione dal corale sospiro di sollievo che si è levato alla notizia che il testo sarà quasi certamente emendato, mantenendo l’obbligo di rettifica per le sole testate giornalistiche on line.
Quanti volevano che fosse fatta questa distinzione contestavano il fatto che un blog fosse considerato «sito informatico»? Non penso, peraltro l’espressione è pacificamente accolta nella definizione di blog anche da Wikipedia: «In informatica, e più propriamente nel gergo di Internet, un blog è un sito web...». No, quasi sicuramente volevano che al blog fosse riconosciuto lo statuto di «particolare sito informatico». E quale particolarità volevano che fosse riconosciuta? [Qui, su Wikipedia, credo valga la pena di un breve inciso. È tra i «siti informatici» che hanno attivamente protestato, arrivando addirittura ad oscurare le sue pagine, ma non si capisce perché abbia sospeso la protesta, «tesa esclusivamente alla salvaguardia di un sapere libero e neutrale», visto che «le modifiche al ddl [che peraltro] verranno discusse solo a partire dal prossimo mercoledì 12 ottobre» risparmierebbero solo i blog.]
E, dunque, cos’è che fa di un blog un «sito informatico» diverso dagli altri, almeno per ciò che attiene all’obbligo di rettifica? In altri termini, perché non sarebbe giusto trattare un blog come un qualsiasi altro «sito informatico»? Anche qui converrà chiedere lumi a Wikipedia: «Il termine blog è la contrazione di web-log, ovvero “diario in rete”». E ancora: «L’autore (blogger) pubblica più o meno periodicamente, come in una sorta di diario online, i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni ed altro».
Siamo ancora nel vago, ma ce n’è abbastanza per poter escludere dalla categoria dei blog tanti «siti informatici» che si dichiarano e generalmente vengono considerati tali, anche dalla pagina di Wikipedia, per quanto in più o meno palese contraddizione con la definizione data.  Un «nanopublishing» è un blog? Un «corporate blog», un «blogames» o un «M-blog» sono blog? Non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello il mettere in discussione la loro piena libertà di stare on line, ma sono blog? Le bacheche on line di personaggi pubblici (politici, uomini di spettacolo, giornalisti, ecc.) sono blog? A mio modesto avviso, no. Si tratta di «siti informatici» che fin troppo spesso non hanno neanche la buona grazia di fingersi “diario in rete”. Godranno dei benefici concessi ai blog, se vi saranno. E non mi pare affatto giusto.
Prendo i primi 250 nella classifica di BlogBabel. Se solo depenno le vetrinette di azienda, i civettini di trasmissione televisiva e i siti web di vario vippume, scendono a 89. Se depenno pure i blog collettivi, che non ho mai capito perché ci ostiniamo a considerare blog quando sono imprese redazionali, arrivo a 31. Gli altri 219 meritano una pari tutela giuridica? 
Il rischio di essere frainteso è altissimo e dunque voglio spiegarmi con due o tre esempi. Antonio Di Pietro non ha altro modo di essere attivo in rete se non con un blog? Ammesso e non concesso che a Gad Lerner non bastino L’Infedele, la Repubblica e Vanity Fair per dire tutto quello che ha da dire, e senta l’esigenza di far sentire la sua voce pure in rete, perché chiamare blog il suo «sito informatic? È Renato Brunetta che scrive i suoi post? Bah, sarà, ma io ci leggo lo stile di Vittorio Pezzuto, suo portavoce. Se fosse, il blog di Brunetta rimane un diario personale? Il Post è un blog o un webmagazine? Troppa confusione, troppi blogger che non riconosco come blogger.
Forse ha ragione Fabristol: «In rete non c’è più niente da leggere, in rete non c’è più niente da creare, in rete non c’è più niente da dire». È che la rete è diventata terra di saccheggio della tv e della carta stampata. Perfino Il Foglio, che sulla blogosfera sputa fin dal 2002, ha i suoi blog. La blogosfera è diventata sempre più simile al mondo dellinformazione del quale voleva farsi alternativa. Ha clonato le sue conventicole e le sue dinamiche, ne ha preso tutti i vizi, e anche qualche tic, per giunta fra i più ridicoli. La contaminazione tra web e tv, tra web e carta stampata, altrove è stata fertile. Qui, in Italia, no

venerdì 7 ottobre 2011

mercoledì 5 ottobre 2011

La Cassazione del Tg3

“Nel nostro ordinamento vige il principio del libero convincimento del giudice. Noi abbiamo ritenuto che tutte quelle prove – pur molto significative, importanti, ecc. – non ci convincessero”. Così dice Claudio Pratillo Hellmann, presidente della Corte d’Appello di Perugia, al microfono di Alvaro Fiorucci (Tg3, 5.10.2011). È il modo migliore per aprire il servizio, che per qualche istante – solo qualche istante – sembra prendere la piega giusta. Infatti Flavia Paone – è lei che firma il pezzo – chiosa: “Oltre ogni ragionevole dubbio: solo in questo caso si può condannare qualcuno nel nostro sistema giudiziario. E di dubbi, nel processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito, ne erano rimasti troppi. Lo spiega oggi il Presidente della Corte d’Appello di Perugia, che in quella camera di consiglio c’è stato per ore”. D’altra parte, a chi tocca stabilire se le prove che l’accusa porta a carico di un imputato di omicidio siano davvero convincenti? Ai parenti della vittima? A Bruno Vespa? A quanti si sono appassionati al caso? Decidiamo con un referendum? Potrà dar fastidio quando la sentenza non incontra il nostro pieno gradimento, ma forse sarà il caso di lasciare la decisione ai giudici.
Sembra che anche Flavia Paone convenga, ma subito si capisce che lo fa a malincuore. Poi il malincuore diventa franco malumore, incazzatura acida, e allora il suo servizio prende una brutta piega. Di insinuazione in insinuazione cerca di condurci alla convinzione che la sentenza di assoluzione sia stata ingiusta, anzi, sommamente ingiusta. E comincia col parlarci del povero Rudy Guede, “condannato per concorso in omicidio, ma in concorso con chi, a questo punto, non si capisce più”.
Se vogliamo assecondare Flavia Paone, dobbiamo chiederci perché Guede stia in galera e quei due no. Se vogliamo assecondarla, dobbiamo convenire che il concorso non possa esserci stato che con quei due, impossibile pensare ad altri complici, sarebbe una inutile perdita di tempo visto che ne abbiamo già due a disposizione, che per giunta hanno tutte le carte in regola per stare sul cazzo a Flavia Paone: se Guede è colpevole, dunque, devono esserlo anche Knox e Sollecito. E qui, volendo assecondarla, viene il sospetto che il processo d’appello ai due sia stato del tutto superfluo, visto che Guede era già stato condannato in secondo grado.
A Flavia Paone sfugge – o vuol farselo sfuggire o vuole che sfugga a chi le presta attenzione – che sulla presenza di Guede sulla scena del delitto non ci sono dubbi (egli stesso non l’ha mai smentita), mentre per Knox e Sollecito sono stati tanto seri da non consentire una condanna “oltre ogni ragionevole dubbio”. In pratica, il fatto che Guede stia in galera e che quei due siano liberi non è affatto un controsenso, né logico, né giudiziario. E tuttavia Flavia Paone ci invita a cercare un senso in quello che ci invita a considerare un controsenso: Rudy è povero, è nero, non è particolarmente carino, non aveva avvocati famosi a difenderlo, non aveva dalla sua la simpatia dei media, nessun potente perorava la sua causa; per Amanda e Raffaele, tutto il contrario.
Flavia Paone non può esserne sicura, ma pare esserne proprio convinta: “Forse sarebbe andata diversamente se anche lui [Rudy Guede] avesse goduto dei mezzi economici e del potere comunicativo degli altri due: facce telegeniche per accattivarsi il pubblico, lobbies innocentiste a far pressione mediatica e, soprattutto, avvocati di grido con parcelle da svariati zero, principi e principesse del foro capaci di far riscrivere la verità giudiziaria e far passare due fidanzatini per le vittime del nostro sistema”. Quasi certamente colpevoli, insomma, e allora ingiustamente assolti.
“Oltre ogni ragionevole dubbio”, si diceva, e si diceva del “principio del libero convincimento del giudice”. Cazzate, in quella camera di consiglio non deve aver avuto alcun peso il fatto che le prove a carico dei due fossero tutt’altro che certe, comunque non convincenti al punto da azzardarsi alla condanna di due innocenti. Quand’anche lo siano, sono colpevoli per aver usato tutti i mezzi a loro disposizione per non essere condannati. Il signore che era intervistato in apertura del servizio li assolti perché si è fatto infinocchiare (chi lo avrebbe mai detto, sembrava una persona così seria), ma per fortuna abbiamo il Tg3 che rimette le cose in ordine sotto il cielo: assolti dalla giustizia in forza dei loro mezzi economici? Proprio per quelli condannati da Flavia Paone, tiè! Certo, “nessuno può dire con certezza quanto questa calcolata e costosa riabilitazione dell’immagine di Amanda abbia influenzato la Corte d’Appello”, ma che importa? La Cassazione del Tg3 ha emesso la sua inappellabile sentenza. 

Una cover

Trovando piene di buon senso le sue ragioni, avevo promesso a un mio affezionato lettore di non interessarmi più di Mario Adinolfi: “Mi pare un personaggio sin troppo privo di autorevolezza, fascino, seguito e spessore per meritare attenzione – mi diceva Rocco Maggi – specie da parte sua”. Ho mantenuto la promessa e ho evitato di intrattenermi sulle sue trivialità omofobe su Facebook, sulla sua uscita da un partito in cui non ha mai contato più del sei di picche, sulla grama fine di The Week, ecc. Mio malgrado, però, devo tornare sul personaggio, anche stavolta per accontentare un mio lettore, altrettanto affezionato. Nicola Bergonzi, infatti, mi informa del “lieto fine” al quale è giunta l’ultima avventura del personaggio sulla quale mi sono intrattenuto, quella dell’aggressione da lui subita lo scorso 8 gennaio.
Occorre rammentare che Adinolfi aveva cercato di spacciare una banale lite per motivi di viabilità (cinque o sei ragazzini in motorino gli avevano dato del “ciccione” provocandogli lesioni guaribili in un quarto d’ora) come un vile agguato dai molto nascosti risvolti politici, per lui evidentissimi: “Sabato sera – aveva detto – Blob ha rimandato in onda la scena, tratta da Agorà su Raitre, in cui il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, si augura platealmente che io venga picchiato. Tre ore dopo è stato accontentato. […] Tutto questo credo ci costringa una riflessione sul punto a cui è arrivata la conflittualità nel paese, la tensione tra noi, rompendo gli argini della civile convivenza. Non siamo agli Stati Uniti, dove sui siti di destra si indicano gli obiettivi, poi arriva il ragazzino pazzo che spara in testa alla deputata. Ma siamo in un clima simile e se non ce ne rendiamo conto in tempo, poi sarà troppo tardi. È un impegno che prendo io per primo, con i segni in faccia di un’aggressione incomprensibile. O, forse, comprensibilissima”. Due o tre settimane prima, insomma, aveva avuto uno scazzo in tv con Alessandro Sallusti e ora insinuava che l’aggressione fosse maturata in seguito a quell’episodio: una vittima della violenza fascista, una specie di Matteotti, una roba che, a volerci credere, sarebbe stata degna della unanime commozione.
Di oggi è la nuova – naturalmente resa pubblica dallo stesso Adinolfi – che la querela è ritirata: “Quando è stato il momento di firmare alcune scartoffie, il ragazzo che con il suo branco di bulletti mi ha preso a cascate in faccia, ha impiegato due minuti buoni per ogni firma, vergata con la grafia di un bimbo della seconda elementare... E allora ho capito molto, mi si è stretto il cuore e ho rimesso la mia denuncia nei suoi confronti”. Che carino, che gran cuore. Una cover di Vasco Rossi, più o meno.

Nella peggiore delle ipotesi

Qui rispondo a quanti mi hanno scritto in questi ultimi giorni per chiedermi cosa farei nel caso in cui il decreto cosiddetto ammazzablog passasse senza emendamenti correttivi costringendomi a rettifiche su rettifiche. Credo di aver trovato una soluzione.
Pare che il responsabile del blog non sarebbe comunque tenuto a render conto di quanto i suoi lettori lasciano a commento dei suoi post. Bene, io sposterei il testo del post nella pagina dei commenti, limitandomi a mettere in pagina solo il titolo e una foto. Posterei il commento in forma anonima, sarebbe il primo della lista. Leggermi costerebbe al mio lettore due clic invece di uno.
Chiunque ritenga di essere stato diffamato da quanto è scritto in quel primo commento non avrà che da rivolgersi alla polizia postale, che avrà comunque modo di risalire a me. Se non fossi capace di dimostrare che quanto ho scritto non corrisponda al vero, ne risponderei ai sensi dell’art. 595 c.p., come ritengo giusto. Non mi sono mai sottratto al dovere di rendere conto di ciò che scrivo, ma finora non ho mai dovuto affrontare contenziosi giudiziari. Non escludo possa accadere, e in quel caso sono disposto a battermi. Ma pubblicare una rettifica che non ritengo legittima, mai. Meglio smettere di bloggare. 

Postilla Pare che non sia necessario.

martedì 4 ottobre 2011

Chiedete a Ovidio Marras

La sua vittoria stupisce chi non ha fiducia nella giustizia, non lui, che probabilmente non ha mai dubitato: “Se avevo ragione, per forza dovevo vincere, anche se quelli hanno tanti soldi” (Tg3, 4.10.2011). “Quelli” sono i padroni della Sitas (Gaetano Caltagirone, Luciano Benetton, Claudio Toti, il Monte dei Paschi di Siena), “lui” è Ovidio Marras, un agricoltore sardo di 82 anni: gli avevano costruito un mega albergo sulla stradina che porta a casa sua, e il giudice ne ha ordinato l’abbattimento.
Hanno usato la metafora di Davide e Golia, ma si sa che i giornalisti hanno scrittura necessariamente svelta, inevitabilmente poco meditata: tra Davide e Golia era la forza fisica a pesare sul pronostico, e usarla come metafora del peso del denaro in un contenzioso giudiziario equivale a dare per scontato che la sentenza sia il risultato di un duello tra avvocati, tutto muscolare. Ovidio Marras non ha voluto darlo per scontato, probabilmente avrà pensato che quello era un luogo comune che si conferma nell’accettarlo come verità.
“Avevo ragione, per forza dovevo vincere”: una fiducia nella giustizia che non ci dà risposte ma ci interroga. Chinare il capo dinanzi al più forte? Fidare nel Giudizio Universale? Soluzioni che hanno il fascino della tradizione, che è il luogo in cui l’individuo è debole e piccino: può solo consegnarsi mani e piedi a una Natura spietata coi deboli o a un Dio la cui giustizia non è di questo mondo. È vita? Dipende da chi la vive.
E, dunque, che resta a chi non tollera di aver ragione e di doversi rassegnare a perdere? Chiedete a Ovidio Marras.

Non chiedete a quelli di Nonciclopedia: erano sicuri che il loro fosse “umorismo di qualità”, ma hanno rinunciato a dimostrarlo a un giudice, e all’annuncio della querela dei legali di Vasco Rossi hanno perso la sicurezza, conservarla costava sacrificio, una roba seccante. Forse era meglio sottoporre a riflessione i concetti di “umorismo” e di “qualità”, ma prima della querela, meglio ancora se prima della pubblicazione di quella pagina. Ma questo implicava responsabilità, una roba ancora più seccante.
Non chiedetelo neppure a Vasco Rossi, del quale potremmo dire tutto ciò che era scritto su quella pagina, per poi scusarcene in caso di querela, certi che la ritirerebbe. No? E perché no? Sfoggeremmo tutto il nostro vittimismo, grideremmo che vogliono metterci il bavaglio, troveremmo senza dubbio il caldo e solidale abbraccio della rete, quel “drogato che a volte spaccia e a volte canta, utilizzando sempre le solite tre parole e le solite tre note” si cagherebbe addosso per lo tsunami e ci perdonerebbe, senza dubbio. Anzi, non perdiamo tempo: mi pento del virgolettato qui sopra, lo cancello, chiedo scusa se può essere sembrato diffamatorio e dichiaro solennemente che non avevo intenzione di offendere il cantante. (Tu, Gilioli, tieniti pronto a darmi una mano nel caso che questa rettifica non basti. Vorrai mica consegnarmi a Golia? Ti sto sul cazzo? Via, sii buono. Capriccioli, per piacere, raccomandami a Gilioli, diglielo tu quanto sono buono.)

Non chiedetelo neppure alle merde che ieri, alla sentenza della Corte d’Appello che ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito, hanno inscenato quella lugubre parodia di Cassazione: non chiedete a loro cosa resti a chi ha ragione e confida nel diritto per poter aver giustizia. La forza del denaro, la forza del numero, la legge del luogo comune che pretende di essere accettato in forza della verità che impone senza avere alcun bisogno di ragioni, tanto meno dimostrate: non sapranno consigliarvi di fidare in altro. Non perdete tempo, chiedete a Ovidio Marras.