Avete mai letto il
Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa? Quando avete due o tre orette da
perdere, fatelo. Arrivati in fondo, provate a tirare le somme: vedrete che vi
sarà impossibile avere un’idea precisa di quale società esca fuori da tutte
quelle pagine. Vi sembrerà di essere dinanzi a un monumento di ambiguità, sul
piano politico e su quello economico, del quale potrete farvi una ragione in
due soli modi.
Il primo è quello di cui ci dà esempio Massimo Faggioli
sull’ultimo numero di Leftwing: «Il magistero cattolico sulle questioni
economico-sociali è ben più antico del magistero del pontefice regnante,
chiunque egli sia. La forza intellettuale del cattolicesimo sta nel fatto che
sulle grandi questioni la tradizione viene ribadita e allo stesso tempo
sviluppata nel tentativo di essere fedeli al Vangelo in uno sforzo creativo di
rispondere alle emergenze sociali del mondo in cui viviamo. Nessuno ormai più
sostiene la naturale compatibilità del cattolicesimo col liberismo, né l’idea
di un “comunismo originario” nel magistero sociale di Gesù di Nazareth. Nei
suoi grandi documenti il magistero sociale cattolico tenta di non prestarsi
troppo allo Zeigeist, anche in materia economica. È sulla pelle delle persone
che si giocano le dottrine economiche, e la chiesa sa che un magistero sociale
respinto dai fedeli è come se non fosse stato mai proclamato».
Convincente? Può
darsi. Se non vi convince, ci sarebbe Antonio Gramsci: «Sul “pensiero sociale”
dei cattolici –scrive – mi pare si possa fare questa osservazione critica
preliminare: che non si tratta di un programma obbligatorio per tutti i
cattolici, al cui raggiungimento sono rivolte le forze organizzate che i
cattolici posseggono, ma si tratta puramente e semplicemente di un complesso di
argomentazioni polemiche positive e negative senza concretezza politica. Ciò
sia detto senza entrare nelle quistioni di merito, cioè nell’esame del valore
intrinseco delle misure di carattere economico-sociale che i cattolici pongono
alla base di tali argomentazioni. In realtà la Chiesa non vuole compromettersi
nella vita privata economica e non si impegna a fondo, né per attuare i
principi sociali che afferma e che non sono attuati, né per difendere,
mantenere o restaurare quelle situazioni in cui una parte di quei principi era
già attuata e che sono state distrutte. Per comprendere bene la posizione della
Chiesa nella società moderna, occorre comprendere che essa è disposta a lottare
solo per difendere le sue particolari libertà corporative (di Chiesa come
Chiesa, organizzazione ecclesiastica), cioè i privilegi che proclama legati
alla propria essenza divina: per questa difesa la Chiesa non esclude alcun
mezzo, né l’insurrezione armata, né l’attentato individuale, né l’appello
all’invasione straniera. Tutto il resto è trascurabile relativamente, a meno
che non sia legato alle condizioni esistenziali proprie. Per “dispotismo” la Chiesa intende l’intervento
dell’autorità statale laica nel limitare o sopprimere i suoi privilegi, non
molto di più: essa riconosce qualsiasi potestà di fatto, e purché non tocchi i
suoi privilegi, la legittima; se poi accresce i privilegi, la esalta e la
proclama provvidenziale» (Quaderni dal carcere, 5).
Analisi datata? Nel leggere
il Compendio vi sarà sfuggito che «la Chiesa non si fa carico della vita in
società sotto ogni aspetto, ma con la competenza sua propria, che è quella
dell’annuncio di Cristo Redentore. La missione propria che Cristo ha affidato
alla sua Chiesa non è d’ordine politico, economico o sociale: il fine che le ha
prefisso è di ordine religioso. Eppure proprio da questa missione religiosa
derivano un compito, una luce e delle forze che possono servire a costruire e a
consolidare la comunità degli uomini secondo la Legge divina. Questo vuol dire
che la Chiesa, con la sua dottrina sociale, non entra in questioni tecniche e
non istituisce né propone sistemi o modelli di organizzazione sociale: ciò non
attiene alla missione che Cristo le ha affidato» (68): qualsiasi sistema o
modello può andar bene, basta che consenta alla Chiesa la missione che le è
propria.
Crederemo,
insomma, a Massimo Faggioli che nel magistero sociale della Chiesa vede la «tradizione
cattolica di equilibrio tra capitale e lavoro» o ad Antonio Gramsci che gli riconosce «un puro valore accademico» e lo
definisce «elemento ideologico oppiaceo»?