giovedì 7 giugno 2012
mercoledì 6 giugno 2012
lunedì 4 giugno 2012
[...]
«… mi copro col mantello il capo e più non sento,
e mi addormento, mi addormento, mi addormento…»
Se avessimo la sensibilità di un Filemazio alla vigilia del crollo dell’Impero, leggeremmo nel passaggio di Venere davanti al Sole il sopraggiungere di un nuovo populismo, quello da «poveri ma belli», sul vecchio, quello da «ricchi ma cafoni».
Nulla di nuovo, in Vaticano
Nulla di nuovo, in Vaticano. Una dozzina d’anni fa si scoprì subito che il corvo era monsignor Luigi Marinelli. Non aveva resistito alla vanità di celarsi in anonimato dietro un anagramma del cognome: Millenari. Anche allora il corvo si disse portavoce di un gruppo di prelati mossi dall’urgenza di purificare il tempio: «L’alleanza di Dio con i poveri e gli umili è in contraddizione con l’arroganza di ogni potere… È venuto il tempo che la Chiesa chieda perdono a Cristo per le sue tante infedeltà e tradimenti dei suoi ministri, specialmente di quelli costituiti in autorità al vertice della gerarchia ecclesiastica».
Non si è mai saputo di chi fosse portavoce, il tempio continuò ad essere la fogna che è sempre stata da diciassette secoli in qua e rimane il sospetto che Via con vento in Vaticano (Kaos Edizioni, 1999) fosse solo lo sbocco di bile di un poveraccio che in Curia non aveva fatto carriera, un «sommergendo» che si era visto sorpassato da tanti «emergenti», «impuniti che hanno dalla loro parte la presunzione del perbenismo preconfezionato, in qualunque modo agiscano... cadetti di una scuderia alla quale è permessa l’allegra esperienza di sorvolare l’apprendistato per immettersi immediatamente nelle competenze dei livelli superiori» (pag. 146, cap. XII).
Libro zeppo di indiscrezioni, tutte molto imbarazzanti, ma Marinelli non faceva nomi, tutt’al più nomignoli, e solo chi era molto addentro ai cunicoli fognari poteva riconoscere, in quella galleria di incorreggibili viziosi e di spietati carrieristi, monsignor De Giorgi, monsignor Gugerotti, monsignor Gantin, monsignor Rigali e gli altri. Quasi ad uso interno, quel libro.
Anche allora si disse fosse per amore della verità, perché nei Vangeli sta scritto: «Oportet ut scandala eveniant». In realtà, nei Vangeli sta scritto tutt’altro: «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono» (Lc 17, 1); «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo» (Mt 18, 7). Insomma, Gesù consiglierebbe al corvo di tacere, ma ogni tanto il corvo parla, e ogni volta imbecca un allocco che gli fa il favore di aiutarlo a regolare i suoi conti, a partita chiusa o a partita aperta.
Innegabile che stavolta il corvo abbia imbeccato Gianluigi Nuzzi a partita ancora aperta, innegabile che stavolta il tiro si sia alzato, tuttavia lo schema è sempre lo stesso: offrendo agli anticlericali una ghiotta occasione di polemica, si mira a suscitare un’ondata di sconcerto e di sdegno da parte del laicato cattolico e del basso clero. È lo sgambetto agli «emergenti» al quale i «sommergendi» ricorrono in ultima istanza. Superfluo rilevare che quanti si nutrono dell’ideale di una Chiesa ripulita da ogni «sporcizia» temporale si fanno inconsapevole strumento di queste manovre.
La Chiesa è sempre stata così, non potrà mai essere diversa. Diciassette secoli di storia dovrebbero bastare a capire che è «semper renovanda», ma che in questo rimarrà sempre uguale. «Sarebbe poco serio riferirsi ai primi tre secoli [della sua storia], prendendoli a modello, per accusarla di essere diventata poi poco evangelica: non vi è dubbio, infatti, che i cristiani siano caduti spesso in tentazione [dal IV secolo in poi], ma è altresì vero che prima di Costantino questa tentazione non ebbe modo di presentarsi... Appena la Chiesa ebbe ottenuto la libertà religiosa, la tentazione del potere si trasformò in una realtà che avrebbe accompagnato costantemente l’esistenza dell’istituzione ecclesiastica»: non è un suo nemico a dirlo, ma un autorevole studioso della sua storia, padre Juan Maria Laboa, fondatore della rivista Communio (Momenti cruciali nella Storia della Chiesa, Jaca Book 1986 - pag. 291). Dimentica di dire che anche prima di acquisire la libertà religiosa le coltellate tra i suoi membri più autorevoli non sono mai mancate, basti rammentare il modo in cui san Paolo regolò i suoi contrasti con san Pietro.
Il problema non è la «sporcizia» che si annida nella Chiesa, il problema è che la Chiesa è inemendabilmente sporca, come lo è necessariamente ogni piramide gerarchica che in cima abbia un’entità autocratica. Tanto più inemendabilmente sporca, in questo caso, perché questa struttura si vuole a immagine del corpo mistico del Cristo vivente. Del tutto naturale che ogni tanto in quel ventre s’oda un borgorigma e ne esca un peto. Star lì a dire che puzza di brutto è un esercizio vacuo. Questa è la risposta a quanti mi hanno chiesto perché finora non mi ci sono applicato.
sabato 2 giugno 2012
venerdì 1 giugno 2012
[...]
Il sintomo più eloquente del degrado della vita politica italiana è insorto nel momento in cui la realtà ha superato la satira in iperbole e i politici hanno accostato, prima, e sorpassato, poi, le parodie che ne caricaturizzavano i tratti salienti. Le gerarchie ecclesiastiche non sono state da meno e da qualche tempo sono di casa, perfettamente a loro agio, nei più malevoli luoghi comuni anticlericali. Quando Michele Serra, per esempio, scrive che «nessuno, nei palazzi vaticani, sa esattamente perché trama, ruba lettere, origlia dietro le tende, versa gocce di veleno in ogni bicchiere incustodito», ma «lo fa solo per rispettare usanze antichissime, le cui origini di perdono nella notte dei tempi», sicché «un papa tradizionalista come Ratzinger non può non cogliere l’omaggio alla tradizione, e apprezzarlo» (l’Espresso, 23/LVIII – pag. 11), siamo a una satira che fotografa la realtà senza alcuna forzatura umoristica.
A parte, ma perché Michele Serra è così brillante su la Repubblica e su l’Espresso, ma fa tanto cagare quando scrive testi per la tv?
domenica 27 maggio 2012
Lunga vita a Benedetto XVI
Quello di Benedetto XVI si sta rivelando uno splendido pontificato, almeno per noi anticlericali. Mai tanta merda è venuta a galla dal fondo dell’acquasantiera come in questi anni, immergerci due dita per farsi il segno della croce impone ormai più stomaco che devozione. Lunga, lunga vita a Benedetto XVI.
venerdì 25 maggio 2012
Una teodicea laica
Gli elementi che abbiamo a disposizione non ci consentono di avere alcuna certezza riguardo al movente della strage di Brindisi, ma l’ipotesi dell’attentato mafioso è avanzata come la più verosimile da molti commentatori, alcuni dei quali arrivano a considerarla la sola degna di considerazione. Non riesco a farmene una ragione, perché a me pare che quella dell’attentato mafioso sia l’ipotesi che regga meno. Eviterò di passare in rassegna i dati che tenderebbero ad escluderla, che sono tanti, limitandomi a considerare l’argomento che invece li ritiene utili per avvalorarla. È l’argomento usato da Enrico Deaglio nel corso dell’ultima puntata de L’Infedele (La7, 21.5.2012): “Quando succedono cose di questo genere, la prima reazione da parte delle autorità e dello Stato è quella di dichiarare «anomala» la cosa, soprattutto quando si tratta di mafia. «La mafia non usa le bombole di gas». Una volta si diceva: «La mafia non usa esplosivi, la mafia non colpisce fuori dalla Sicilia, la mafia non sequestra le persone, la mafia non uccide le donne, non uccide i bambini, non uccide i preti». Tutte cose che sono state smentite… In tutti i casi in cui si è detto che non era la mafia, era la mafia”.
Ritengo che non sia il caso di soffermarmi troppo sul difetto logico che sostiene questo tipo di argomentazione – rimando a ciò che ha scritto Chaïm Perelman ne Il dominio retorico (Einaudi, 1981) sul sofisma della transitività del rapporto di inclusione o di implicazione (pag. 80 e seguenti) – ma penso invece sia opportuno segnalare il rischio che consegue da questa sbrigativa reductio: tutto ciò che non sembra mafioso può esserlo, anzi, tanto più può essere mafioso quanto meno lo sembra. Ce n’è abbastanza per ipotizzare un movente mafioso in ogni crimine dalle finalità ignote, fino all’insinuazione – fatta da Gad Lerner a sostegno della tesi di Enrico Deaglio – che la mafia è in grado di servirsi anche di uno squilibrato. Si arrivasse, dunque, ad appurare che il responsabile della strage di Brindisi è stato proprio uno squilibrato, non cadrebbe l’ipotesi di una regia mafiosa. Farla cadere significherebbe fare il gioco del diavolo, il cui più subdolo intento è convincere che non esista.
Parlare di metodo mi pare improprio, direi si tratti piuttosto di atteggiamento. Quando non è l’abito mentale di quelli che Leonardo Sciascia definì «professionisti dell’antimafia», è espressione di una teodicea laica che eleva la mafia a radice di ogni male e che trova variante monomaniacale in chi al posto della mafia vede meglio i Savi di Sion, la Cia, gli Ufo o la Trilaterale. Tuttavia ogni teodicea necessita di sintomi, ancorché aleatori.
Qui, nel caso della strage di Brindisi, abbiamo l’intitolazione dell’istituto professionale davanti al quale è scoppiato l’ordigno e il 20° anniversario della strage di Capaci: elementi che sarebbero decisivi, insieme agli altri «anomali», che in quanto «anomali» non sarebbero da considerare contraddittori, ma coerenti ai primi. I 4 giorni d’anticipo rispetto a tale anniversario non sembrano aver peso e in realtà non si capisce perché la bomba non sia stata fatta esplodere il 23 maggio, se doveva essere un infame sfregio alla memoria di Giovanni Falcone e di sua moglie. Così il fatto che la scuola scelta per l’attentato sia intitolata a Francesca Laura Morvillo: perché proprio a Brindisi, perché proprio l’autobus che veniva da Mesagne e non quello arrivato poco prima, perché gpl e non tritolo – dettagli irrilevanti.
Ho orrore di questo atteggiamento, ancor di più ne ho nel constatare quanto sia altamente contaminante.
lunedì 21 maggio 2012
Da buttare
La curiosità mi ha portato all’acquisto de I giorni della tempesta di Antonio Socci (Rizzoli, 2012), del quale avevo da tempo smesso di leggere articoli e saggi, per la noia mortale che mi infliggevano. Stavolta si trattava di un romanzo e il romanzo è un genere a parte: si può essere un pessimo giornalista ma un ottimo romanziere, e viceversa. Per giunta mi invogliava la trama, riassunta nel risvolto di copertina. Insomma, ho cominciato a leggere il volume con una disposizione d’animo assai benevola, anzi, più benevola del solito, perché confesso che mi auguravo di poter scandalizzare i lettori di questo blog con una recensione piena di elogi: non vedevo l’ora di appuntarmela in petto come prova di grande onestà intellettuale.
Beh, con tutta la buona volontà, mi è stato impossibile: Antonio Socci scrive male, non ha ritmo, riesce ad abortire ogni embrioncino di costrutto narrativo. Non mi aspettavo un capolavoro, ma dagli ingredienti – un assassinio, carte rubate dagli archivi vaticani, le rivelazioni di una veggente, un conclave, le spoglie di san Pietro – pensavo si potesse trarre almeno un buon thriller. E invece ne è uscito un pretenzioso fumettone scritto coi piedi, sciatto e banale, gonfio di una prosa faticosa e affaticante. Da buttare.
domenica 20 maggio 2012
[...]
Mercoledì 23 maggio, ventennale della strage di Capaci, al «Francesca Laura Morvillo Falcone» di Brindisi si sarebbero tenute le lezioni come in un qualunque altro giorno feriale e molto probabilmente, visto a chi è intestato l’istituto, si sarebbe tenuto anche qualche rito commemorativo. Quale migliore occasione per la mafia, se l’intenzione fosse stata quella di ferire la memoria di una nazione? E allora perché farlo esplodere quattro giorni prima, quell’ordigno? E perché a Brindisi? Ma, poi, la mafia usa bombole di gpl per i suoi attentati?
Presto ancora per dirlo, tuttavia se qualcosa non possiamo escludere è che si stia commettendo lo stesso errore che commettemmo con la strage di Bologna: da subito ci sembrò neofascista e ci vollero trent’anni per cominciare a sospettare che forse non lo fosse. Stesso rischio, perché la storia delle stragi in questo paese è senza dubbio storia di depistaggi, ma anche di tesi delle quali ci si innamora a prima vista, per restar loro fedeli anche quando tradiscono, per continuare a usarle come armi improprie. In molti casi, chi depista non sa quale sia la vera pista. Può accadere perfino che depisti maldestramente alla verità, se non a quella storica, a quella processuale.
È che siamo sentimentalisti, d’altra parte è difficile non esserlo quando i nervi sono scossi da così una rabbia così giusta, da una sensazione di impotenza tanto odiosa: una cosa tanto mostruosa come quella accaduta ieri ci sembra possa essere frutto solo di un’intelligenza all’altezza di tanta mostruosità, facciamo enorme fatica a immaginare che si possa avere un così bestiale disprezzo per la vita degli innocenti senza una posta in gioco che sia adeguatamente alta. Non possiamo accontentarci di un movente, tanto meno se troppo miserabile per un delitto così atroce, e allora dobbiamo immaginarlo entro un disegno, una trama, una strategia, meglio se fitta di richiami e di rimandi. Ci ferisce l’idea che la bestia sappia essere feroce anche per poco e allora dobbiamo evocare grandezze criminali pari al nostro sgomento e al nostro dolore.
Io penso che l’ordigno esploso ieri a Brindisi non abbia altro legame col ventennale della strage di Capaci se non quello che ci è necessario darci per trovare un poco di sollievo.
giovedì 17 maggio 2012
Meno di un caffè al giorno
Tenuto conto delle grandi vittorie referendarie degli anni Settanta e Ottanta, della violenta reazione clericofascista che ne seguì, delle successive puttanate tipo la candidatura di Ilona Staller e Toni Negri, la liquidazione del Partito Radicale, la fiducia accordata alla rivoluzione liberale di Silvio Berlusconi, il ruolo dato a Daniele Capezzone, e dello odierno stato in cui versano i radicali, con le casse vuote e le iscrizioni al loro minimo storico, credo che sarebbe opportuno capovolgere la citazione di Gandhi: “Prima vinci, poi ti combattono, poi ti deridono. Poi ti ignorano”.
“Offri centomila lire a chi ti salva”
Poco prima di morire, Pasquale Croce raccomandò a Benedetto, suo figlio, che gli era a pochi metri di distanza, sotto le macerie del terremoto di Casamicciola: “Offri centomila lire a chi ti salva”. Se ne ha notizia per la prima volta sul Corriere del Mattino del 31 luglio 1883, tre giorni dopo il terremoto: “Ieri fu trasportato a Napoli anche il figliuolo primogenito del commendator Croce; egli è gravemente ferito a una gamba e ad un braccio. Perirono il commendator Croce, la moglie e una figlioletta. Il giovinetto superstite di questa ricchissima famiglia foggiana, stabilita da lunghi anni a Napoli, conserva una memoria precisa dell’accaduto. La madre e la sorella sparirono nel vortice del crollamento, né si udì di loro alcuna voce. Egli, che era seduto ad un tavolino insieme col padre, precipitò. Il padre fu coperto tutto dalle macerie, ma parlò dalle nove e mezzo del sabato fino alle undici antimeridiane della domenica successiva. Benedetto era sepolto fino al collo nelle pietre, aveva però il capo fuori di esse. Il giovinetto fu estratto dalle rovine verso mezzogiorno, poco prima che il padre avesse cessato di parlare. Si racconta che con gran senso pratico dicesse al figlio: «Offri centomila lire a chi ti salva»”.
Poco più di un mese dopo, a Lucerna, veniva dato alle stampe Die Insel Ischia in Natur-, Sitten- und Geschichts-Bildern aus Vergangenheit und Gegenwart, di Woldemar Kadel, dove a pag. 59 si legge: “Er soll dem Ersten besten hunderttausend, zweihunderttausend Francs bieten, wenn er sie rettet, nur nicht sterben, den Erstickungstod sterben”. La frase attribuita al padre di Benedetto Croce è riportata anche in Casamicciola di Ernesto Dantone (Perino Editore, 1883) e in Cronaca del tremuoto di Casamicciola di Carlo Del Balzo (Tipografia Carluccio, De Blasio & C., 1883).
Ho già citato questi scritti in due post del marzo dello scorso anno, mentre il Corriere del Mezzogiorno, con diversi articoli a firma di Marco Demarco, Giancristiano Desiderio e altri, avallava e sosteneva l’accusa di “mistificazione della storia e della memoria”, che dalle sue stesse pagine erano state mosse a Roberto Saviano da Marta Herling. Saviano non aveva fatto altro che riportare la frase che Pasquale Croce aveva rivolto al figlio nella notte tra il 29 e il 30 luglio 1883, prendendola da un’intervista di Ugo Pirro al filosofo apparsa su Oggi, il 13 aprile 1950.
Fin lì, Benedetto Croce non si era mai disturbato a smentire il cronista del Corriere del Mattino che lo aveva intervistato tre giorni dopo il terremoto, né a smentire Kadel, né Dantone, né Del Balzo, e non si disturbò neppure a smentire Pirro. Doveva accadere che a smentire Saviano fosse la Herling e che il Corriere del Mezzogiorno le desse man forte con una campagna di stampa dai toni odiosi, che oggi lo scrittore ritiene sia stata diffamatoria, querelando la casa editrice del giornale e chiedendo risarcimento per il danno subìto.
Io mi auguro che la sua richiesta venga accolta, perché ho prova certa che a muovere quella campagna sia stata una palese malafede: in data 11 marzo 2011, infatti, e cioè il giorno dopo che la lettera della Herling desse avvio alla querelle, inviai una e-mail al direttore del Corriere del Mezzogiorno, producendo le fonti di cui sopra, senza avere alcuna risposta, né pubblica, né privata. E aspetto di sapere dal giudice che si occuperà del caso se fossero documenti degni di attenzione, perché sono sicuro che costituiranno argomento.
martedì 15 maggio 2012
Tutto è maledettamente relativo
Dalla Sala Stampa Vaticana neanche due righe. Non uno dei battaglieri polemisti di Avvenire è sceso in campo. L’Osservatore Romano tace, e siamo già al quarto giorno. Neanche un cenno da Radio Vaticana. Idem da Sat2000. Nemmeno il più sfessato dei bloggucci dell’ampia e variegata area cattolica ha finora sfiorato l’argomento. Evidentemente la consegna è del silenzio. Autoconsegna, per meglio dire. D’altra parte, l’articolo di Horacio Verbitsky (Videla, il Vaticano sapeva – Il Fatto Quotidiano, 11.5.2012) è stato ripreso solo da altri due o tre quotidiani e, giacché produce prova inoppugnabile di una schifezza estremamente imbarazzante e tentare di metterci una toppa è praticamente impossibile, meglio far finta che non sia accaduto niente, meglio evitare che monti il caso. Nessuno si azzarda ad insinuare che il documento sia un falso, nessuno si azzarda a tentare una spiegazione che almeno in parte attenui l’atroce verità che inequivocabilmente prova: il Vaticano sapeva dei sequestri, delle torture e degli assassini che gli uomini di Jorge Videla andavano compiendo tra il 1976 e il 1983, e tacque. Di più: per mano dei massimi rappresentanti della Conferenza Episcopale Argentina offrì collaborazione alla giunta militare perché su tutto calasse il silenzio, a fronte del sospetto che in tanti maturava e che solo anni dopo avrebbe dovuto trovare l’agghiacciante conferma nelle confessioni degli aguzzini portati alla sbarra.
Il verbale dell’incontro che si tenne tra Videla e l’allora presidente della Conferenza Episcopale Argentina, il cardinale Raul Francisco Primatesta, e i suoi due vicepresidenti, il cardinale Juan Aramburu e monsignor Vicente Zazpe, non lascia alcun dubbio in proposito: mentre migliaia di argentini (tra i 9.000 e i 30.000) scomparivano da case, scuole, fabbriche, uffici, per essere dapprima trattenuti in centri di detenzione clandestina e poi gettati nell’Oceano Atlantico o nel Rio de la Plata da aerei militari in volo, sennò sepolti in fosse comuni, talvolta ancora vivi, gli alti prelati concordavano con la giunta militare il miglior modo per tenere l’opinione pubblica argentina e quella internazionale all’oscuro di tutto. Era il 10 aprile 1978 e questo chiama in causa almeno due pontefici, che a norma del Diritto Canonico vigente a quei tempi non potevano non sapere (c’è da supporre che Giovanni Paolo I non abbia fatto in tempo a sapere, perché nel corso del suo brevissimo pontificato non si ebbero udienze ad limina apostolorum dell’Episcopato Argentino).
Mentre la Chiesa scagliava fulmini e saette contro l’aborto, i suoi porporati andavano a pranzo con i carnefici del popolo argentino. Erano i tempi in cui il Nunzio Vaticano in Argentina, il cardinale Pio Laghi, benediceva la dittatura militare, giacché “i valori cristiani sono minacciati dal comunismo e l’Argentina reagisce come un qualsiasi organismo che genera anticorpi verso i germi che tentano di distruggere la sua struttura e crea la sua difesa servendosi dei mezzi imposti dalla situazione… Si tratta di idee che mettono in pericolo valori essenziali, sicché va applicato il pensiero di San Tommaso d’Aquino, secondo cui in tali casi l’amore per la Patria è equivalente all’amore per il Signore: difendendo la Patria, gli uomini d’armi, a tutti i livelli, compiono il dovere prioritario di amare Dio e la Patria in pericolo”.
Ragioni che oggi nessuno ha più il coraggio di impugnare per difendere la linea che il Vaticano adottò in Argentina. Proprio vero che i valori non negoziabili sono acqua fresca e che tutto è maledettamente relativo.
Mentre la Chiesa scagliava fulmini e saette contro l’aborto, i suoi porporati andavano a pranzo con i carnefici del popolo argentino. Erano i tempi in cui il Nunzio Vaticano in Argentina, il cardinale Pio Laghi, benediceva la dittatura militare, giacché “i valori cristiani sono minacciati dal comunismo e l’Argentina reagisce come un qualsiasi organismo che genera anticorpi verso i germi che tentano di distruggere la sua struttura e crea la sua difesa servendosi dei mezzi imposti dalla situazione… Si tratta di idee che mettono in pericolo valori essenziali, sicché va applicato il pensiero di San Tommaso d’Aquino, secondo cui in tali casi l’amore per la Patria è equivalente all’amore per il Signore: difendendo la Patria, gli uomini d’armi, a tutti i livelli, compiono il dovere prioritario di amare Dio e la Patria in pericolo”.
Ragioni che oggi nessuno ha più il coraggio di impugnare per difendere la linea che il Vaticano adottò in Argentina. Proprio vero che i valori non negoziabili sono acqua fresca e che tutto è maledettamente relativo.
sabato 12 maggio 2012
mercoledì 9 maggio 2012
La valigia
I composti del verbo fare hanno forme di coniugazione talvolta poco corrette ma ormai d’uso comune. Disfare, per esempio. Disfo la valigia o la disfaccio? Sarà il caso che la disfi o la disfaccia? Che dite: la disfiamo o la disfacciamo? Tu la disferesti o la disfaresti? La disfi o la disfai? Alcuni la disferebbero, altri la disfarebbero. E dunque, ‘sta benedetta valigia, la disferemo o la disfaremo? È il caso di decidersi perché, quando sarà, dovremo capire se la stiamo disfando o disfacendo.
lunedì 23 aprile 2012
Sensologia
Quasi ogni
giorno è Giornata Mondiale di qualcosa, della Donna, della Gioventù, della
Poesia, della Tubercolosi, del Gatto, del Pupazzo di Neve, e ormai siamo
all’inflazione, con qualche divertente sovrapposizione, come al 15 aprile, che
è insieme Giornata Mondiale del Dialogo e Giornata Mondiale del Silenzio. Nate
per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale su temi di interesse generale
che i promotori sentono trascurati, le Giornate Mondiali sono ormai diventate ricorrenze
vuote di senso, come inevitabilmente accade con tutto ciò che si consegna
all’abitudine. Buone tutt’al più a riempire una o due pagine di giornale, com’è
accaduto ieri, Giornata Mondiale della Terra, e qui sorge il problema che è posto
in quella che Mario Perniola ha definito sensologia, e cioè «la trasformazione
dell’ideologia in una nuova forma di potere che dà per acquisito un consenso
plebiscitario fondato su fattori affettivi e sensoriali» (Contro la
comunicazione, Einaudi 2004). Un efficace esempio ci è offerto dalle due pagine
del Corriere della Sera di ieri.
Accanto ad un articolo di Fulco Pratesi, che
illustrava le «dieci azione concrete per aiutare l’ambiente» proposte dal WWF (acquista
prodotti locali, mangia meno carne, bevi acqua del rubinetto, ecc.), c’era lo
spazio per dar voce a tre esperti di clima, energia e nutrizione, ma si è
preferito darla a Erri De Luca, Mauro Corona e Antonio Pascale: «i consigli di
tre scrittori», e che consigli.
Erri De Luca proponeva di fare a meno del
riscaldamento domestico suggerendo questa alternativa: «Si può sfruttare una
fonte inesauribile di caloria [sic!], la più potente che esiste nel corpo
umano. Si tratta dell’amore. Due che si amano sentono freddo solo quando si
sciolgono dagli abbracci. L’amore è un’energia pulita e rinnovabile nel modo più
impensato: spendendola tutta intera nell’arco del giorno, amando a più non
posso fino all’esaurimento della scorta…». Suppongo sia superfluo ogni commento
nel merito, d’altronde Erri De Luca è fatto così, basta aver letto qualche sua
pagina: direi che sta alla letteratura come un maestro di sci sta a una
danarosa in menopausa, lirico come il terzo Negroni, intenso come la vaselina.
Non da meno Mauro Corona, che consigliava di «tornare tutti agricoltori»,
perché «non possiamo più pretendere di andare a comprare il cibo ma imparare a
farcelo». Anche qui penso non valga neanche la pena di sollevare obiezioni, d’altronde
Mauro Corona è fatto così, basta avergli dato uno sguardo di sfuggita, la prosa si intuisce.
Dulcis
in fundo, Antonio Pascale: «Staccate dalla presa il caricabatteria del
cellulare: consuma o,o1 kWh al giorno, in un anno la stessa quantità di energia
che occorre per un bagno caldo». Un buon consiglio, senza dubbio, ma era il
caso di esagerare aggiungendo «contribuirete a salvare il mondo»?
Che senso ha
chiedere un parere informato a tre scrittori di cassetta, invece che a tre
esperti, su temi come quelli in discussione con la Giornata Mondiale della Terra?
In forza di quale convinzione si dà peso, come abbiamo visto, al banale o all’assurdo?
Siamo alla «trasformazione dell’ideologia in una nuova forma di potere»: dando «per
acquisito un consenso plebiscitario fondato su fattori affettivi e sensoriali»,
quelli razionali e scientifici diventano irrilevanti. Superflui gli esperti, occorre
che «le acrobazie e le incongruenze
della comunicazione mediatica siano recepite come manifestazioni della potenza
e della fecondità creativa della vita», servono i poeti da brindisi, meglio se alticci.
mercoledì 18 aprile 2012
È già accaduto, accadrà ancora
È già accaduto. Si ebbe un improvviso crollo della fiducia nei partiti, poi la magistratura fece il resto, e la Dc eslose in frammenti, il Psi si polverizzò, i partitini cosiddetti laici si nebulizzarono, il Pci e il Msi s’affrettarono a cambiar nome, faccia e anima, però perdendo pezzi, e non irrilevanti. Tra le macerie si fecero spazio quanti avevano capito per tempo che il sistema fosse inemendabile, poi va’ a capire se fin da subito sapessero che tutto dovesse cambiare, come dicevano, perché tutto restasse uguale, come s’è visto. Oggi siamo solo all’inizio di un’altra ondata di “antipolitica” ed è ancora presto per dire se i 12 milioni di italiani che non sanno chi votare daranno o no alla morte della Seconda Repubblica il tratto devastante che ebbe la morte della Prima. Sappiamo che a cogliere l’attimo, allora, furono Berlusconi, Bossi e Di Pietro, immaginiamo che stavolta tocchi a Grillo, forse a Passera, o sarà il vuoto di cui i politologi negano l’esistenza.
A più d’uno, allora, sembrò arrivato il momento giusto perché i radicali raccogliessero i frutti della loro lunga e faticosa semina antipartitocratica, ma Pannella fu preso da quella che Massimo Teodori ha acutamente definito “irresistibile pulsione alla dissoluzione” (Marsilio, 1996). Accadrà anche stavolta, non c’è alcun dubbio. Anche stavolta, i radicali non riusciranno ad impedire a Pannella di buttare al vento l’occasione di presentarsi agli italiani come matura classe dirigente o via, non esageriamo, il menopeggio sulla piazza: non tantissimo, sia chiaro, ma levando i vecchi tromboni e le trombette nate vecchie, nemmeno poco. Anche stavolta, non c’è alcun dubbio, chi si azzarderà a denunciare la delirante megalomania di Pannella, a segnalare nel suo velleitarismo la malata vocazione all’irrilevanza – sola condizione che gli consente di sentirsi martire, sola a dargli la sensazione di esser vivo – sarà scomunicato e costretto ad allontanarsi, per non subire l’intollerabile molestia della quale è regolarmente fatto oggetto il membro di una setta che osi mettere in discussione le decisioni del capo carismatico.
[Di recente ho letto l’inchiesta sul reverendo Jim Jones e la sua setta del Tempio del Popolo che Ron Javers e Marshall Kilduff firmarono per The San Francisco Chronicle a poche settimane dal suicidio di massa del 18 novembre 1978 (The Suicide Cult, Bantam Books 1978) e ho trovato non meno di due dozzine di punti di concordanza con la storia della “cosa radicale”.]
«Pensar male» e «pensar bene»
L’implicazione d’ordine morale è inevitabile – direi necessitata – nella definizione del «malpensante», cioè di chi è «incline a pensare male, a formulare giudizi negativi sugli altri» (Devoto-Oli), di chi «tende a vedere il male ovunque o ad avere una cattiva opinione degli altri» (De Mauro), di chi «per propria natura è incline a pensare male del prossimo e a interpretare nel senso peggiore le azioni e i comportamenti altrui» (Treccani): ogni definizione del «malpensante», infatti, non può fare a meno di usare un termine – il «male» – che non ha alcun senso fuori dall’ambito morale. In quest’ambito, com’è noto, il «male» (ma anche il «bene») pretende statuto di assoluto e nel farsi avverbio rimanda inesorabilmente al «pessimo» (e all’«ottimo») che impronta il pregiudizio «pessimistico» (o quello «ottimistico»), sicché «pensar male» (o «pensar bene») si fa strumento obbligato della costruzione di un sistema entro il quale tutto regge, ma solo se si assume che l’uomo sia «intrinsecamente cattivo» (o «intrinsecamente buono»). Il «malpensante», dunque, sarebbe chi inclina a un pregiudizio «pessimistico» sulla natura umana, facendole con ciò quel torto che difficilmente gli uomini perdonano, soprattutto se hanno bisogno di essere confortati dall’«ottimismo» del «benpensante». È del tutto ovvio, dunque, che sul «malpensante» pesi la tacita condanna di quanti hanno bisogno del conforto che è il tacito patto dei «benpensanti». È altrettanto ovvio, però, che fuori dalla tautologia sulla quale poggia ogni morale, e per la quale «il male è male» e «il bene è bene», «pensar male» non abbia alcun senso. In altri termini, solo a un «benpensante» è dato il poter rilevare un errore morale nel «malpensante»: solo chi ha bisogno di pensare che l’uomo sia «intrinsecamente buono» può permettersi di liquidare il «pensar male» come semina di ingiusto sospetto. (Qui conviene sorvolare sulla natura di questo bisogno, ma abbiamo già detto che ha per oggetto un conforto. Senza dilungarci troppo sul movente psicologico che mira a questo genere di conforto, possiamo però identificarlo come istanza difensiva e consolatoria, tra le procedure nevrotiche post-traumatiche: il «benpensante» ha bisogno di sentirsi «buono tra i buoni» per costruirsi un involucro protettivo che lo difenda dalle minacce esterne e dalle paure interne.)
Ciò premesso, devo dire che non mi riconosco nel «malpensante» sul quale G. scaglia i suoi strali di «benpensante» (non lo linko e non lo cito per esteso, adeguandomi al suo canone allusivo). Dichiaro la mia estraneità a quell’ambito morale entro il quale è d’obbligo decidere se l’uomo sia «intrinsecamente buono» o «intrinsecamente cattivo» e infatti ogni volta che «penso male» di qualcosa o di qualcuno faccio esercizio di un sospetto che è metodo scettico applicato alla logica interna a un sistema: formulo un giudizio negativo o esprimo una cattiva opinione non già sul piano morale ma su quello logico, sicché non dico mai «questa tal cosa (questa tal persona) è cattiva», ma «forma o sostanza di questa tal cosa (affermazioni o azioni di questa tal persona) non mi convincono della ratio che ostentano», e dunque il mio sospetto non si appunta mai su ciò che le rivelerebbe «cattive», ma su quanto, a mio parere, sempre argomentato, le rivela intrinsecamente contraddittorie, dunque soggette ad implosione logica se sgusciate dal mallo ipocrita. Offro le mie argomentazioni ad ogni confutazione, ma non posso ritenere valida quella che pretenda di eluderle dichiarandole viziate da un pregiudizio che a ben vedere è solo la negativa di un proiettato: rigetto, infatti, le definizioni del «malpensante» con le quali ho aperto questo post, perché implicano l’uso di categorie che non ritengo efficaci nella formazione del giudizio che si sussume al «pensare».
lunedì 16 aprile 2012
[...]
Non sono disposti a rinunciare neanche all’ultima tranche dei rimborsi elettorali: «Cancellare del tutto i finanziamenti pubblici ai partiti - dicono - sarebbe un errore drammatico: la politica finirebbe nelle mani di lobbies, centri di potere e di interesse particolare». Perché, ora che i partiti sono finanziati con denaro pubblico, la politica in quali mani è?
mercoledì 4 aprile 2012
Il filo
Chissà se Günter Grass scriveva già poesie ai tempi in cui vestiva l’uniforme delle Waffen-SS, chissà se anche allora, come oggi, aveva tanto a cuore la pace mondiale. Se sì, avrebbe potuto scrivere già allora i versi che ci offre oggi: la pace mondiale è minacciata dagli ebrei, scrive, ed è quello che avrebbe potuto scrivere già allora, perché la tesi che gli ebrei fossero una minaccia alla pace mondiale era quella portante del Mein Kampf, che le Waffen-SS erano tenute ad avere in fondo allo zaino, tra due cambi di mutande e la maglia di lana pesante. La vita può trasformare un ragazzino della cazzuta gioventù hitleriana in un bonario cazzone socialdemocratico insaccato in amabile tweed e mite velluto a coste, può rivoltare un uomo come un guanto: di fatto non scompare il filo antisemita che ne cuce insieme le sagome.
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