Nell’episodio
narrato da Giovanni Ferrara ne Il fratello comunista (Garzanti, 2007 – pag. 87), e
che risale ai primi anni ’70, suo nipote appare tal qual è oggi. Non deve scandalizzare, dunque, quando afferma che «Mussolini era uno che ci sapeva fare» (Agorà – Raitre, 17.5.2013): era cretino già allora.
venerdì 17 maggio 2013
mercoledì 15 maggio 2013
Volerlo, deciderlo, farlo
Chi ha
un certa consuetudine con queste pagine di diario pubblico sa bene che, pur
essendo medico, ho sempre evitato di impancarmi a esperto in materia, e il più
delle volte, quando ho trattato un tema di natura clinica (per lo più è
accaduto in ordine a questioni di natura bioetica), mi sono sempre limitato ad
argomentare sulla base di elementi che non implicassero speciali competenze: il
metodo che mi sono imposto è stato quello di applicare un minimo di logica a
dati che chiunque potesse aver modo di verificare, anche senza avere una laurea
in medicina o una pratica clinica. Anche per questo non sono mai ricorso alla
casistica personale, tanto meno in quella forma aneddotica che ho sempre considerato più
scorretta, perché più insidiosa, dell’assunzione di autorità: la casistica
personale, infatti, supplisce alla inaffidabilità dei piccoli numeri con la
suggestione della narrazione didascalica e fa subdolamente, anche quando
involontariamente, cattiva didattica. Io ho sempre voluto evitare la didattica,
anche quando in piena onestà di coscienza potevo ritenerla buona, e non ho mai
pensato che un procedere secondo logica necessitasse d’altro che strumenti logici.
Non
verrò meno a questa regola neppure oggi, dunque mi intratterrò sul caso di
Angelina Jolie evitando ogni considerazione di tipo specialistico, trascurando
del tutto gli elementi di pertinenza genetica, oncologica, epidemiologica, ecc.
Sulla base delle mie conoscenze e della mia esperienza ritengo che la scelta
della signora non sia affatto folle, anzi, mi pare ampiamente motivata, ma
vorrei trattare la questione sotto un altro punto di vista, che da quanto ho
letto a firma di espertoni, espertucci e nient’affatto esperti mi sembra sia
stato del tutto trascurato. Questo punto di vista rende irrilevante il fatto
che io sia specializzato in ostetricia e ginecologia e che da più di trent’anni
il mio lavoro consista anche nella diagnosi di carcinomi mammari: «ritengo che
la scelta della signora non sia affatto folle, anzi, mi pare ampiamente
motivata», fate finta l’abbia detto un agronomo o un imbianchino.
E
dunque, a rischio di apparire rozzo al mio lettore: a chi appartiene il corpo
di Angelina Jolie? Voglio dire: quand’anche il rischio dello sviluppo di un
carcinoma mammario avesse ragion d’essere solo in una sua fobia, quand’anche l’intervento
al quale si è sottoposta non sia soluzione congrua per un rischio reale, o
addirittura fosse sostanzialmente inutile, chi avrebbe potuto impedirle di fare
del suo corpo quello che voleva? E in forza di quale diritto che annullasse quello
di disporne liberamente? Per motivi religiosi o igienici ci si può amputare il
prepuzio. Ci si può liberare di pene e testicoli se ci sente femmina
imprigionata in un corpo maschile. C’è qualche parte del mio corpo che mi è
vietato sottoporre a piercing o tatuaggio? Potrei continuare all’infinito,
perché le pratiche di intervento cruento sul corpo umano, anche di là da
indicazioni poste da specifiche condizioni cliniche, sono infinite, e in buona
parte praticate fin dalla notte dei tempi. Escluse quelle che vengono
effettuate su soggetti che le subiscono in mancanza di piena libertà e
responsabilità, quali sarebbero quelle da vietare, o da condannare moralmente,
o da biasimare come pericoloso cattivo esempio, e perché?
Io
ritengo che il polverone sollevato dalla confessione di Angelina Jolie sia
quasi del tutto dovuto all’elevata valenza simbolica che ha il seno femminile.
Avesse deciso di farsi asportare la milza per ragioni analoghe a quelle che l’hanno
portata alla mastectomia bilaterale, la confessione non avrebbe suscitato tanto
scalpore. In più, alla mastectomia bilaterale è seguito l’impianto di protesi
mammarie, che non alterano la fisionomia del soggetto sottoposto a quel tipo di
intervento demolitore, e che per giunta è scelta sempre più spesso adottata da
chi abbia subito una mastectomia per un carcinoma mammario già sviluppato. E
dunque? Cos’è successo di così sconvolgente con la decisione di Angelina Jolie?
Non è neanche la prima ad adottare questa decisione a fronte di un alto rischio
genetico per lo sviluppo di un carcinoma mammario. La cosa sconvolgente – per chi
ne è stato sconvolto – è stata la ratio che ha guidato verso la decisione:
estromettere da un progetto di vita, per quanto fosse possibile, un rischio;
farlo con determinazione, estromettendo anche tutto ciò che è il fatalistico
mettersi nelle mani della provvidenza; elevare la femminilità al di sopra dello
stereotipo che allega il genere al proiettato fantasmatico di una cultura
maschilista. Un po’ come scegliere il taglio cesareo anche quando il parto
potrebbe essere spontaneo: per il semplice volerlo, deciderlo, farlo. Beh, sì, non
c’è dubbio, c’è chi può rimanerne sconvolto.
Un’altra escort
Francamente
incomprensibili, le dichiarazioni del dottor Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione
nazionale magistrati, che s’è lamentato del video girato da Giuliano Ferrara in
parrucca rossa (non metto il link per decenza): mirava a screditare la dottoressa Ilda Boccassini, ha detto. In
realtà, se pure fosse stato questo, l’intento, non si capisce come sperasse di
raggiungerlo. Si tratta di una patetica buffonata che scredita, se ancora fosse stato necessario, chi l’ha
ideata e chi l’ha realizzata, questo sì, ma non c’è da stupirsene, tenuto conto
che, al punto in cui è giunto il processo a carico di Silvio Berlusconi, ai suoi
lacchè non resta altro. Tanto meno è il caso di dolersene, perché il vero senso di quel
video è di natura esorcistica: con la parodia del pm si è tentato di attenuare
la schiacciante mole delle prove che ha prodotto a sostegno della sua tesi
accusatoria. Esorcismo ad uso interno, buono a stemperare l’ansia dei
cortigiani e dei servi in attesa della sentenza che molto probabilmente sarà di condanna. Uno spettacolino di corte,
direi. A giudicare dalla fattura, aggiungerei che non siamo troppo lontano dai
gusti del principe: non c’era già un’altra escort che si travestiva da Ilda
Boccassini ai festini in casa Berlusconi?
martedì 14 maggio 2013
Aspettiamo la sentenza
Della
signora Karima El Marough, in arte Ruby Rubacuori, ha detto che ha una «furbizia
orientale». Più che un pregiudizio razziale mi pare un luogo comune salgariano,
d’altra parte il Marocco è più a occidente di Milano.
Poi ha detto: «La Procura condanna…», invece
di dire: «La Procura chiede la condanna…». Un lapsus, senza dubbio, e i lapsus rivelano
gli intimi desideri di chi vi incorre, ma cosa c’è di strano nel fatto che un
pm desideri la condanna dell’imputato che ritiene colpevole?
E poi? Quale altra
pecca si rimprovera alla dottoressa Ilda Boccassini? Ma, soprattutto, tra coloro che straparlano
di queste due sbavature come se fossero i punti sui quali crolla tutto l’impianto
accusatorio, quanti hanno ascoltato tutte le cinque ore e un quarto della
requisitoria?
Io l’ho fatto e la mole di prove dirette e indirette portate a
supporto della tesi di colpevolezza mi sembrano più che sufficienti a
dimostrare che Silvio Berlusconi è davvero responsabile di quanto gli è
attribuito nella formulazione d’accusa.
Non parlo di ciò che qualche moralista
può rinfacciargli sul piano umano o di ciò che qualche cultore del galateo
istituzionale può rimproverargli sul piano del decoro e dello stile: parlo del reato di
sfruttamento della prostituzione minorile, un reato per il quale egli stesso si
è speso perché fossero inasprite le pene.
Aspettiamo la sentenza, d’intanto mi
sembra di poter dire che il pm abbia lavorato bene. E mi sembra di trovarne conferma
negli strepiti di chi oggi, dopo la requisitoria, afferma che è inconsistente,
che Silvio Berlusconi non ha mai pagato una puttana in vita sua, tanto meno
minorenne, e fino a ieri si affannava a trovargli attenuanti definendolo «utilizzatore
finale».
[...]
Solo Napolitano
poteva tenere a battesimo un governo come quello in carica, ed è per questo che
chi nel Pd voleva un’alleanza con Berlusconi ha dovuto bruciare Marini e Prodi,
escludendo a priori l’appoggio a Rodotà. L’idea è venuta appena il risultato
elettorale ha fatto cadere il sogno di portare Bersani a Palazzo Chigi, ma
forse era già in fieri da prima che si andasse al voto, da quando si era
cominciato a capire che al Senato sarebbero mancati i numeri, però la speranza
di rabberciare la maggioranza col voto di qualche transfuga del M5S non le dava
ancora la forza che avrebbe acquistato il 26 febbraio. Lì si è deciso di darle
corpo, e a qualsiasi prezzo. Il tradimento del mandato elettorale si sarebbe
consumato in modo palese, la base del partito si sarebbe lacerata, l’alleanza
con Sel sarebbe saltata: tutto
questo si sapeva, ma lo stesso si è deciso di dar vita a un governo al quale Berlusconi
avrebbe potuto staccare la spina in ogni momento, quando gli sarebbe tornato
comodo, senza perdere neanche un voto. Non c’erano alternative? Più corretto dire
che sono state scartate tutte: l’obiettivo era il governo che in campagna
elettorale si era solennemente escluso potesse nascere. Quale logica ha
sostenuto questa linea?
Io penso
che la regia dell’operazione abbia la chiara impronta di quella «destra
comunista», già tutta in embrione nella «svolta di Salerno», che portò Togliatti
all’alleanza con Badoglio e Casa Savoia. Il fatto che quella «svolta»
rispondesse unicamente agli interessi di Stalin, e che Togliatti si sia
limitato ad obbedire agli ordini partiti dal Cremlino, passa in secondo piano per
Mario Pirani (la Repubblica, 14.5.2013), che pure risale a quel periodo per
spiegarsi la logica che ha dato vita al governo Letta. Ora, è vero, la storia
non concede controprove, ma sappiamo che Togliatti fu sempre supino ai voleri di Stalin: è
azzardato immaginare che, se a Mosca fosse tornato comodo che il Pci imboccasse
la via insurrezionale, Togliatti non avrebbe mai teorizzato alcuna «via
italiana al socialismo», Secchia non avrebbe mai lasciato il posto ad Amendola
al quarto piano del Bottegone, Napolitano e i miglioristi sarebbero stati
strozzati in culla, ammesso e non concesso che avessero potuto emettere un
vagito? Non ha senso discutere del passato ricorrendo ai «se», d’accordo, ma
una cosa è certa: la «svolta di Salerno» fu la madre di tutti i successivi tentativi,
riusciti o falliti, che il Pci mise in atto per arrivare nella mitica «stanza
dei bottoni», e fu sempre evocata, in primo luogo dai suoi dirigenti, come una scelta
coraggiosa di maturità politica contro ogni velleitarismo e ogni avventurismo. Non
mancò mai, d’altronde, chi nella linea decisa da Togliatti nel 1944 vide la prima
grande prova del suo cinismo, il primo dei tanti tradimenti che la dirigenza
del Pci avrebbe consumato ai danni dei suoi militanti e dei suoi elettori. Tutto
sommato, è un errore, perché già nel 1936, quando il regime fascista sembrava
indistruttibile, Togliatti gli offriva collaborazione dalle pagine di Stato
Operaio: «Noi tendiamo la mano ai fascisti, nostri fratelli… Siamo disposti a
combattere assieme a voi e a tutto il popolo italiano per la realizzazione del
programma fascista del 1919».
Anche
nel comunista più ripulito persiste incoercibile la tentazione al compromesso
con quello che è indicato come peggior nemico del popolo fino a quando c’è speranza di
sconfiggerlo e annientarlo. Naturalmente parlo del comunista che abbia
responsabilità dirigenziali e che il crollo del muro di Berlino ha impreziosito
con un «post»: parlo del post comunista che sta al Quirinale o in Largo del
Nazareno. Fino a quando Berlusconi è stato con un piede nella fossa, la sua
demonizzazione era uno strumento eccezionale per galvanizzare militanti ed
elettori, per fare incetta di voti di quanti volevano sbarazzarsi della mostruosa atipia. Poi, quando sfuma il sogno di poterlo impiccare a testa in giù, ecco
l’impellente bisogno di un governo di «coesione nazionale», di una «große
Koalition», lamentando «il fatto – e qui cito Napolitano – che in Italia si sia
diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni,
convergenze tra forze politiche diverse», «segno di una regressione, di un
diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere
le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che
ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche». Di
colpo, l’elettore che votava Pd per mero antiberlusconismo, convinto che quello
fosse il voto utile, diventa un bruto, o come minino un incolto che nulla sa
della politica come arte del possibile.
«Quando
si ricordano queste cose agli odierni contestatori – scrive Pirani
– essi obiettano che la coerenza di quegli anni era fattibile con un partito
ferreamente disciplinato ed egemonizzato dal suo capo. Ma non era così. Come i
pochi superstiti di quell’epoca possono testimoniare, la lotta per affermare la
linea togliattiana di unità nazionale fu asperrima nel Pci e traversò, almeno
fino al 1948, la sua trasformazione in “partito nuovo”. Quella fase fu
accompagnata da polemiche dure per convincere alla “linea” le organizzazioni
meridionali che risentivano del plebeismo rivoltoso della base cui faceva da
contrappunto il settarismo di ascendenza partigiana nel centro nord. Solo un
convinto, continuo, diffuso impegno pedagogico poteva avere la meglio sulle derive
di sinistra e sulle resistenze dei vecchi quadri». Tutto vero, ma Pirani
sorvola sulla natura di quell’«impegno pedagogico»: in sostanza consisteva nell’educare
i quadri dirigenti a mentire ai militanti e i militanti ad adeguarsi ad ogni
mutamento tattico senza farsi troppe domande.
lunedì 13 maggio 2013
Mission impossible
Ve lo dicevo: il narcisismo di Marco Pannella non tollererà a lungo la ferita che gli ha provocato la nomina di Emma Bonino alla Farnesina. Bene, è già in chiara sofferenza. Al momento, si contorce,
smania...
The next day
Sono tra
quanti hanno accolto con gioia l’uscita di un album di David Bowie dopo dieci anni
di assenza e non sono rimasto deluso dall’ascolto dei 14 brani in esso
contenuti, anzi, penso che tre o quattro siano decisamente belli: Dirty boys, I’d rather be high, Heat e, più di tutti, Where
are we now?, un piccolo capolavoro che un clip diretto da Tony Oursler rende
ancora più incisivo.
Ciò che invece mi ha fatto cadere le braccia è stato
quello diretto da Floria Sigismondi per The next day, il brano che dà il titolo
all’album. La regista c’entra fino a un certo punto perché David Bowie ha
tenuto a render noto di aver scritto lui la sceneggiatura, segno che dev’esserne
particolarmente fiero. Bene, penso si tratti di una delle cose più brutte viste
negli ultimi anni. Mi risparmio di descriverlo, eccolo:
Un
inqualificabile polpettone che può trovare ragione solo nell’intento di provocare la reazione di qualche associazione cattolica, come
d’altronde è immancabilmente accaduto, per lucrarne un poco di pubblicità. Il problema non sta nella sensibilità che è stata ferita
– all’arte è consentito stressare ogni permalosità – ma nella sgangherata struttura concettuale del prodotto e nella deprimente soluzione formale che gli è stata data: siamo davanti a un plot che non ha alcuna consistenza, che scorre sciatto, senza alcuna logica a sostenerlo, tanto meno quella che muove il testo della canzone. Una vera cagata.
Nota Necessario rifarsi gli occhi, dopo un Bowie così infelice: «Space Oddity, uno dei successi di David Bowie, cantata nello spazio dall’astronauta canadese Chris Hadfield nel suo ultimo giorno al comando della ISS, a poche ore dal suo ritorno sulla Terra… Un videoclip del genere, “lontano sopra il mondo”, il Duca Bianco se lo sogna» (repubblica.it).
Nota Necessario rifarsi gli occhi, dopo un Bowie così infelice: «Space Oddity, uno dei successi di David Bowie, cantata nello spazio dall’astronauta canadese Chris Hadfield nel suo ultimo giorno al comando della ISS, a poche ore dal suo ritorno sulla Terra… Un videoclip del genere, “lontano sopra il mondo”, il Duca Bianco se lo sogna» (repubblica.it).
domenica 12 maggio 2013
«La mafia è l’essenza della Sicilia»
@ementana decide che non cinguetterà più, la polemica divampa fino a lambire i massimi sistemi e della scintilla che ha appiccato il
fuoco – l’affermazione fatta da Giuliano Ferrara nel corso di una trasmissione
condotta da Enrico Mentana: «La mafia è l’essenza della Sicilia» (La7,
7.5.2013) – non se ne parla, come se gli insulti piovuti via Twitter addosso ai
due fossero del tutto gratuiti. A chiudere la questione su questo punto – a pensare
di averla chiusa – è stato lo stesso Ferrara, che su Il Foglio di venerdì
10 maggio, rispondendo alle proteste di una lettrice siciliana, ha scritto: «Io
parlavo dell’essenza. Legga “Cose di Cosa nostra”, il bel libro di Giovanni
Falcone e Marcelle Padovani. […] [Falcone] ha detto quel che io ho ripetuto». Vi risulta che qualcuno si sia preso il disturbo di andare a leggere cosa
avesse davvero scritto Falcone? A me non risulta. Bene, ci ho pensato io.
Mi ha
mosso innanzitutto l’incredulità nel fatto che Falcone potesse aver detto una
tale scempiaggine, ma ad andare in libreria, a procurarmi il libro, a leggerlo
dalla prima all’ultima riga delle sue 190 pagine mi ha spinto il fatto che
Ferrara avesse aspettato 48 ore per dare quella risposta. Perché? Semplice: non
poteva farlo prima, non aveva ancora trovato l’intoccabile al quale mettere in bocca
quella stronzata. A trovarglielo è stato Salvatore Merlo che in un articolo
pubblicato sullo stesso numero de Il Foglio riportava un brano di quel libro: avrebbe
dovuto dimostrare che «anche Falcone ne faceva una questione di essenza».
Leggiamolo: «Un giorno ho assistito a Palermo a una scena di strada estremamente
significativa. Un tizio protesta contro un altro che ha parcheggiato di
traverso, intralciando la circolazione. Si agita, urla. L’altro lo osserva
indifferente e poi continua a parlare con un suo amico come se niente fosse. Il
tizio non fa una piega e se ne va senza fiatare. Aveva capito, davanti all’atteggiamento
sicuro dell’interlocutore, che, se avesse insistito, le cose avrebbero preso
una brutta piega e lui sarebbe uscito perdente dallo scontro. Questa è la
Sicilia, l’isola del potere e della patologia del potere».
Dimostra che «la
mafia è l’essenza della Sicilia»? A me non pare affatto, d’altronde, se «essenza»
è «quanto individua e definisce la realtà di un oggetto materiale o ideale» (Devoto-Oli),
la sua
«realtà propria e immutabile» (Treccani), in tutto il libro non v’è traccia di tale relazione tra mafia e Sicilia. In quanto al termine, poi, «essenza» è usato una sola volta,
nell’avvertenza in avantesto a firma di Padovani, e senz’alcuna attinenza alla
mafia o alla Sicilia.
Nel libro ci sono altri passaggi che implichino una
relazione tra mafia e Sicilia che consenta a Ferrara di poter affermare che,
nel dire: «La mafia è l’essenza della Sicilia», ha ripetuto quel che Falcone ha detto? Tutt’altro. Ogni volta che Falcone mette in relazione una caratteristica del mafioso a un aspetto della sicilianità, tiene a sottilineare con forza che si tratta di una degenerazione che lo rende «parossismo» (cap. II), di una sua «sublimazione a livello criminale» (cap. III): altra cosa che «essenza».
E dunque? Cosa è accaduto? Nel corso di una trasmissione televisiva condotta da Mentana, Ferrara si è fatto prendere la mano e ha fatto un’affermazione che probabilmente voleva essere provocatoria, ma che di fatto era stupida e offensiva, e che successivamente avrebbe messo in bocca a Falcone, che non si era mai sognato di affermare nulla di simile. Qualche siciliano si è risentito e ha reagito con offese alle offese. Senza dissociarsi dall’affermazione
di Ferrara, Mentana si è lamentato delle offese indirizzate a Ferrara, e così se n’è procurate altre indizzate a lui. Qui s’è turbato, ha cinguettato un addio ed è volato via.
[...]
Il consigliere
del principe, il cortigiano leccaculo, la favorita, la plebe che si nutre delle
briciole che cadono dal tavolo… Tutta gente miserabile, ma che almeno ti dà
modo di sorridere, anche se amaro. Infinita tristezza, invece, pensando al cane
da guardia.
venerdì 10 maggio 2013
@nonnodipanopoli
A
quarantott’ore dal tweet col quale Enrico Mentana ha dato il suo «saluto finale
a tutti», l’account @ementana non è stato ancora disattivato. Vuol conservare
memoria della sua attività su Twitter? Potrebbe fare un copia/incolla e archiviare
tutto in una cartella. Vuol continuare a seguire i suoi 134 following? Può aprire
un altro account usando un nome di comodo per usarlo solo in lettura. No, a mio modesto avviso, il fatto che l’account
sia ancora attivo è segno che la decisione di non twittare più sia stata presa d’impulso
e che inconsciamente, almeno fino ad ora, l’addio
non sia sentito come definitivo. Con quel gesto, tuttavia, Mentana si è reso
difficile il ritorno, perché un molestatore è annichilito solo dalla perfetta
noncuranza, quando è possibile, sennò dagli strumenti che la legge offre a chi
non sappia o non voglia opporre un muro di indifferenza alle sue molestie, mentre
invece perde ogni freno quando la sua vittima gli offra prova della loro efficacia,
che qui è stata data in modo pieno. D’altronde, finché l’account è attivo,
cosa impedisce che Mentana sia fatto oggetto di altre molestie? Erano così
intollerabili da costringerlo a smettere di twittare, ma non ha mai denunciato
nessuno dei molestatori: da oggi in poi lo farebbe? «Non ho mai bannato
nessuno», ha rivelato: comincerebbe a farlo adesso? Saremmo dinanzi a patenti
incongruenze logiche che cadrebbero solo nel caso in cui l’account restasse
attivo ma Mentana avesse deciso di non visitare più la sua homepage: e allora – ancora – perché
tenerlo attivo?
A me
pare evidente che a Enrico Mentana piacesse molto twittare (1.444 tweet in meno
di un anno), ma che non avesse ben chiaro il rischio che ogni attività sul web comporta
o che in ogni caso lo sottovalutasse. «Su Twitter – osserva Massimo Mantellini –
[si] può lucchettare il profilo […] usare le liste […] leggere solo le persone
che piacciano […] bloccare gli imbecilli. Esiste perfino un tasto apposito. […]
Interessa tutto questo [a Mentana]? Ha tempo da dedicare a tutto questo? Non
so, non mi pare. Nella sua testa è probabile che Internet dovrebbe adattarsi a
lui, comprenderne ruolo ed intelligenza, sensibilità e diritti». È pretender
troppo. Come mettersi a declamare in greco le Dionisiache di Nonno di Panopoli
al mercato ittico e lamentarsi se arriva un pesce in faccia. Sia chiaro,
tirare un pesce in faccia a qualcuno è reato, sicché si può denunciare il
fatto e portare il pescivendolo in giudizio. Ma non farlo e lamentarsi quanto il mondo sia insensibile alla bellezza della poesia bizantina, se non da coglioni, è
da sprovveduti.
Nota Per correttezza ho linkato questo post a @ementana. Al momento l’account era ancora attivo, ma i following erano stati eliminati: operazione che non aveva senso in vista di una disattivazione dell’account. Bene, ora l’account è stato disattivato. Mi pare, così, ci sia conferma di quanto ho scritto: «inconsciamente, l’addio non [era] sentito come definitivo».
Nota Per correttezza ho linkato questo post a @ementana. Al momento l’account era ancora attivo, ma i following erano stati eliminati: operazione che non aveva senso in vista di una disattivazione dell’account. Bene, ora l’account è stato disattivato. Mi pare, così, ci sia conferma di quanto ho scritto: «inconsciamente, l’addio non [era] sentito come definitivo».
mercoledì 8 maggio 2013
Nessun mistero
Su
Giulio Andreotti si è detto di tutto in questi giorni, ma mi pare che con la
sua morte siano andate a ridimensionarsi notevolmente le estreme figure
retoriche che in vita l’hanno rappresentato come genio del male o grande
statista, e in mezzo, d’un tratto, s’è fatto spazio per un ritratto assai più
rispondente alla povera realtà dei fatti: era un mediocre di gran successo che
ha incarnato i peggiori vizi del paese, al mero scopo di durare, per il mero
piacere di durare. Ciò non toglie nulla alla sua grandezza, sia chiaro, ma la
ridefinisce, e per certi versi – finalmente – la depersonalizza: Giulio
Andreotti non era un mistero, tanto meno era un uomo misterioso. Forse anche i
tanti misteri, di cui per anni e anni si è ritenuto fosse depositario, altro
non erano che dettagli irrilevanti: anche se fossero liberati dalla millanteria
in cui egli li ha fatti diventare segreti di stato, quasi certamente non
spiegherebbero molto. Direi che Giulio Andreotti fu capace di entrare nelle
narrazioni di comodo che un popolo di merda veniva costruendo nel corso di
lunghi decenni per trovare consolazione alle sue impotenze e alle sue viltà, e
fu capace di entrarvi per andare a interpretare il ruolo che gli assicurasse il
dover essere necessario a spiegarle o addirittura a giustificarle. Più che
accanto a De Gasperi o a Moro, andrebbe messo accanto a Mike Bongiorno e ad
Alberto Sordi. Più che accanto a Machiavelli, sta bene accanto a Guicciardini.
Più del tragico gesuita che sa quanto il male possa tornar utile alla Provvidenza per realizzare il
bene, era il salesiano intrallazzone che sa cavar sugo dalla pietra pomice.
Non mi
pare sia stata segnalata la freddezza con la quale la sua morte è stata accolta
da Avvenire e da L’Osservatore Romano: più algidi di Wikipedia, neanche un
cenno – neppure di sponda – alle sue lunghe ed intime frequentazioni con cinque
o sei pontefici e due o tre dozzine di cardinali. Come imbarazzati a farsi
vedere ai funerali. Andreotti e il Vaticano si sono serviti a vicenda al
massimo, ma adesso è meglio dimenticare, far finta si trattasse di cortesie.
Faranno santi La Pira, De Gasperi, Moro, ma Andreotti, che fu il più servile,
risulterà in futuro come la più inservibile memoria di fedeltà agli interessi
vaticani.
Giulio
Andreotti si è andato nascondendo sempre più nell’immagine che era necessaria
ai suoi pochi complici e ai suoi tanti avversari, a quanti lo temevano e a
quanti lo ammiravano, fino a diventare vivo solo nelle tante caricature,
macabre o farsesche, che gli insufflavano vita. Il vero Giulio Andreotti era
quello che Leo Longanesi ritraeva nei primi anni ’50: «Quella di un romano non
si può mai chiamare vigliaccheria. I romani la sanno lunga sul modo di servire
i padroni e, nello stesso tempo, i propri interessi e usano della loro
apparente fierezza per far sembrare la viltà solo un adattamento. Loro si
adattano a mille situazioni diverse e, per giustificarsi, attribuiscono ogni
sbracata al loro cinismo, o meglio, alla loro indifferente superiorità
secolare, di cui perfino Mussolini ha fatto le spese. Andreotti possiede questa
specie di vigliaccheria e si adatterà, glielo dico io, quando sarà il momento
giusto; si adatterà pur di non perdere niente, pur di restare. Ma lo farà con
garbo perché è un giovanotto garbato. Non è un tipo da gesti clamorosi o
volgari. È prete». Basta intendere per «garbo» l’affabilità di chi corteggia le
altrui debolezze facendosene campione, e penso siamo alla migliore messa a
fuoco di un personaggio che non ebbe mai bisogno di essere persona. Giulio
Andreotti non conteneva alcun enigma: era anaffettività, pusillanimità,
mediocrità e vanità, ma astratte da un quadro clinico o da un romanzo di
formazione. Giulio Andreotti non si era venduto l’anima al Diavolo, se n’era
sbarazzato a gratis perché gli dava impaccio.
lunedì 6 maggio 2013
I devoti della Confindustria
Un
lettore mi segnala un dettaglio nella homepage di osservatoreromano.va che non
avevo mai notato e mi chiede un commento. Non saprei che dire, può darsi che alla
Confindustria piaccia questo nuovo papa per la sua grande attenzione alla
povertà.
giovedì 2 maggio 2013
Intollerabile
Non è una vecchia ciabatta democristiana,
Ignazio Marino, né una pantegana post comunista. Viene dalla cosiddetta società
civile, entra nel Pd da indipendente e presto ne diventa – meritatamente, a mio
modesto avviso – un autorevole esponente, raccogliendo stima, simpatia e consenso.
Serio, ma mai serioso, preparato, mai un filo di boria, mai un’ombra di
spocchia, niente a che vedere con la figura del boiardo cinico e spregiudicato,
che è tanto comune in quel partito. Persona pulita, poi, e chi ha cercato di
sporcarlo (Il Foglio, Libero e il Giornale) ne ha pagato le conseguenze in
tribunale. Laico, da sempre schierato in favore dei diritti civili, ha posizioni
schiettamente progressiste in campo bioetico. Si fa fatica a trovargli un
difetto, insomma, e tuttavia anche Ignazio Marino sembra averne uno: il paternalismo.
Già insopportabile quando si manifesta nel privato, in politica il paternalismo è un vizio intollerabile. Poggia sull’assunto che la delega di rappresentanza che l’elettore affida all’eletto implichi la concessione di una fiducia che non dovrebbe venir meno neppure al più palese tradimento che è nel mancato impegno che il candidato ha solennemente preso nel chiedere il voto. Il voto, così, non costituirebbe la sottoscrizione di un patto, ma un atto di filiazione prossimo alla professione di fede. Colgo papà in patente contraddizione coi suoi insegnamenti, ma anche se non riesco a capirne il motivo, e questo mi indurrebbe a credere che sia un volgare ipocrita, a restarne sgomento, deluso, ferito, resta il fatto che è mio padre: non può che comportarsi a questo modo se non per il mio bene, sicché sospendo ogni perplessità, non azzardo alcuna condanna, e gli rinnovo la fiducia.
Così, Ignazio Marino sembra pretendere da chi ha votato Pd, sentendosi promettere fino a due giorni dell’incarico ad Enrico Letta che col Pdl non ci sarebbe mai stato un accordo di governo, oggi si limiti al disagio. Avendo dato il voto al Pd, mica si è in diritto di disapprovarne le scelte, tutt’al più sarà che non si comprendono. Incomprensibili, dunque, ma solo perché non sempre un figlio è in grado di comprendere le decisioni prese da suo padre. Ripeto: si tratta di un atteggiamento intollerabile.
Già insopportabile quando si manifesta nel privato, in politica il paternalismo è un vizio intollerabile. Poggia sull’assunto che la delega di rappresentanza che l’elettore affida all’eletto implichi la concessione di una fiducia che non dovrebbe venir meno neppure al più palese tradimento che è nel mancato impegno che il candidato ha solennemente preso nel chiedere il voto. Il voto, così, non costituirebbe la sottoscrizione di un patto, ma un atto di filiazione prossimo alla professione di fede. Colgo papà in patente contraddizione coi suoi insegnamenti, ma anche se non riesco a capirne il motivo, e questo mi indurrebbe a credere che sia un volgare ipocrita, a restarne sgomento, deluso, ferito, resta il fatto che è mio padre: non può che comportarsi a questo modo se non per il mio bene, sicché sospendo ogni perplessità, non azzardo alcuna condanna, e gli rinnovo la fiducia.
Così, Ignazio Marino sembra pretendere da chi ha votato Pd, sentendosi promettere fino a due giorni dell’incarico ad Enrico Letta che col Pdl non ci sarebbe mai stato un accordo di governo, oggi si limiti al disagio. Avendo dato il voto al Pd, mica si è in diritto di disapprovarne le scelte, tutt’al più sarà che non si comprendono. Incomprensibili, dunque, ma solo perché non sempre un figlio è in grado di comprendere le decisioni prese da suo padre. Ripeto: si tratta di un atteggiamento intollerabile.
[...]
«La
crisi rende carnefici le vittime»
Laura Boldrini
In condizioni di forte stress, qualunque ne sia la causa, l’individuo ha risposte che spesso sono irrazionali. Quando questo si protrae nel tempo e si estende a un consistente numero di individui che appartengono ad un gruppo, le risposte irrazionali tendono a cercare, e spesso trovano, spiegazioni che le giustifichino. In pratica, l’irrazionalità pretende, e spesso ottiene, statuto di «umanità», termine ambiguo quanto mai, che qui diventa intrinsecamente pericoloso, perché inscrive la risposta irrazionale nell’ambito del «naturale», cui il senso comune allega il principio di necessità, così, quand’anche inadeguata, anche fortemente inadeguata, o addirittura svantaggiosa, perfino nociva, alla risposta irrazionale si concede indulgenza. Per meglio dire, chi ha una risposta irrazionale a un forte stress sembra agito più che agente.
Un tempo, e per il tempo che le fu concesso, la sinistra riuscì a intercettare, reclutare e disciplinare gran parte di queste risposte irrazionali, e in tal senso prestò un servizio notevole all’emancipazione dell’«umano». Si potrà obiettare, e a buon motivo, che questo servizio non fosse disinteressato, ma in fondo è il concetto stesso di emancipazione che presuppone un interesse che dal particolare riesce ad acquistare forza di universale. A un certo punto, tuttavia, la sinistra ha perso questa capacità. È stato quando il progetto di emancipazione dell’«umano» che perseguiva ha mostrato limiti insuperabili proprio nei mezzi considerati indispensabili al fine. Quanto di irrazionale era stata capace di irreggimentare si è liberato con la violenza di una disillusione. Potremmo concludere che col fallimento del suo progetto la risposta irrazionale ai forti stress si è resa di nuovo disponibile all’uso che ne era stato fatto per secoli: quanto di inadeguato e svantaggioso era da sempre evidente nei suoi effetti ha ripreso ad essere considerato incoercibile, dunque altrettanto «naturale», ma per uno statuto di «umanità» che rigettava e rigetta ogni ipotesi di emancipazione dell’«umano». Che si tratti del peccato originale o del belluino istinto alla sopraffazione del simile, la risposta irrazionale a noxae stressanti ritorna essere emendabile solo se e quando cerca e trova una sua completa lisi nella proiezione. Il nocivo che sta nella risposta irrazionale trova così una spiegazione che lo giustifica nella commiserabilità della «natura umana».
Qui, a mio modesto avviso, si appalesano le ragioni più profonde di quello che altrimenti può essere considerato solo come assurdo paradosso. Dinanzi alla risposta irrazionale a situazioni estremamente stressanti, infatti, abbiamo sostanzialmente due soli modi di trattare quanto ne consegue di nocivo, che poi sono gli stessi coi quali trattiamo le forze a noi ostili con le quali siamo in lotta per la nostra sopravvivenza: cerchiamo di piegarle a nostro giovamento, con l’ingenuo ottimismo che le reputa addomesticabili, o ci pieghiamo ad esse, col tetro pessimismo che le reputa incoercibili; e tuttavia c’è sempre una maggior mitezza di giudizio nel primo caso che nel secondo.
martedì 30 aprile 2013
Nativi americani?
Su L’Osservatore Romano di sabato 27 aprile è pubblicato un articolo a firma di Antonio
Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, nel quale si dà conto di una scoperta
fatta nel corso del restauro dell’affresco della Resurrezione, nell’Appartamento
Borgia, opera del Pinturicchio: dal lavoro di pulitura del dipinto è emerso
sullo sfondo un gruppo di sei uomini (tra il quarto e il quinto, da sinistra
verso destra, potrebbe esservene un settimo, del quale sembra apprezzarsene
parte del volto).
Due degli uomini sono visibili a figura intera, entrambi
nudi, forse in posa danzante, mentre degli altri sono visibili solo i volti, e
per due d’essi si riesce ad apprezzare anche qualche porzione dei rispettivi colli
e busti, anch’essi nudi, mentre la figura più a sinistra sembra indossare un
copricapo con una corta falda sul davanti. Sulla destra del gruppo, inoltre, sono
visibili due cavalli, uno raffigurato per più della metà anteriore del corpo e con
gli arti anteriori in posa rampante, mentre dell’altro sono visibili solo la
testa e il collo. Poco sembra possibile azzardare riguardo a questo gruppo di
figure, ma il Paolucci l’azzarda: potrebbe trattarsi di nativi americani. Il
ciclo d’affreschi dell’Appartamento Borgia, infatti, fu terminato nel 1494, due
anni dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, che nel suo
diario di bordo descrive gli indigeni del luogo.
Molte cose, tuttavia,
destituiscono di ragionevole fondamento questa ipotesi. In primo luogo, in
Spagna fu possibile leggere qualcosa del diario di bordo del primo viaggio di
Colombo non prima della seconda metà del 1493 ed è poco probabile che
informazioni sui nativi siano state telegrafate prima alla corte papalina di Alessandro VI. È possibile, a quei
tempi, che le notizie contenute in quel diario di bordo giungessero a Roma e
arrivassero all’orecchio del Pinturicchio in meno di sei o sette mesi?
Ammettiamolo pure, sta di fatto che la descrizione dei nativi americani data da
Colombo non corrisponde affatto alle figure rappresentate sullo sfondo della
Resurrezione. Per non parlare, poi, del dettaglio dei cavalli: arriveranno in
America solo diversi anni dopo.
E allora? Cosa possono rappresentare quegli
uomini nudi che sembrano danzare? Il pensiero corre ai gruppi di nudi raffigurati nella Resurrezione della carne e nei Dannati (Cappella di San Brizio) da Luca Signorelli, del quale c’è notizia di un suo viaggio a Roma nel 1493. Tenuto conto che la discesa agli inferi di Cristo è articolo di fede, non è più probabile che il Pinturicchio abbia voluto rappresentare sullo sfondo della Resurrezione gli abitanti degli inferi che danzano per l’annuncio che verrà giorno in cui anch’essi resusciteranno in carne e ossa, come è scritto in 1Pt 4, 5? Più probabile che abbia voluto raffigurare dei nativi americani, credo, di sicuro.
Nota (1.5.203) Un lettore mi fa giustamente notare che la bolla papale Inter Caetera fa ampio riferimento alla scoperta dell’America ed è del maggio 1493. Questo dà forza alla ipotesi del professor Paolucci e tuttavia la sola descrizione dei nativi americani di cui la corte di Alessandro VI poteva disporre era quella fatta da Colombo del diario di bordo del suo primo viaggio: «Eran benissimo conformati, di bella statura e vaghi di volto; avevano i capelli grossi quasi come i crini dei cavalli, corti e cadenti sino alle sopracciglia: una ciocca ne lasciavano al di dietro senza tagliarla. Non sono né bianchi né neri, bensì ve n’ha che si dipingono in nero, altri in rosso, altri col colore che rinvengono». Nulla di ciò nel gruppo dipinto dal Pinturicchio. In più, resta la già esposta questione dei cavalli.
Nota (1.5.203) Un lettore mi fa giustamente notare che la bolla papale Inter Caetera fa ampio riferimento alla scoperta dell’America ed è del maggio 1493. Questo dà forza alla ipotesi del professor Paolucci e tuttavia la sola descrizione dei nativi americani di cui la corte di Alessandro VI poteva disporre era quella fatta da Colombo del diario di bordo del suo primo viaggio: «Eran benissimo conformati, di bella statura e vaghi di volto; avevano i capelli grossi quasi come i crini dei cavalli, corti e cadenti sino alle sopracciglia: una ciocca ne lasciavano al di dietro senza tagliarla. Non sono né bianchi né neri, bensì ve n’ha che si dipingono in nero, altri in rosso, altri col colore che rinvengono». Nulla di ciò nel gruppo dipinto dal Pinturicchio. In più, resta la già esposta questione dei cavalli.
lunedì 29 aprile 2013
Atto dovuto
Non
avendo mai risparmiato critiche a Pippo Civati, mi è d’obbligo fargli i miei
complimenti per la coerenza e l’onestà intellettuale dimostrate oggi.
«Abbiamo un ministro»
Ho scritto che con Emma Bonino al Quirinale ne avremmo viste di tragiche e di comiche in casa radicale. Avrebbe rappresentato il risultato più importante della scapestrata avventura politica di Marco Pannella, ma allo stesso tempo sarebbe stato un colpo micidiale inferto al suo narcisismo. Per qualche settimana si sarebbe sentito anche lui Presidente della Repubblica, poi questa sensazione sarebbe stata quotidianamente frustrata dall’impossibilità di manovrare una sua creatura finalmente libera, necessariamente libera, dai suoi giochi. Prima o poi non sarebbe stato più in grado di sopportarlo, avrebbe cominciato a sbarellare, chissà, poteva scapparci anche un satyagraha per proporne l’impeachment.
Forse non avrebbe ottenuto neppure la tanto agognata nomina a senatore a vita: non sarebbe mancato chi avrebbe malignato che Galatea aveva voluto sdebitarsi di quanto doveva a Pigmalione, e Emma Bonino tollera tutto tranne l’imbarazzo. Per la stessa ragione sarebbero andate deluse anche le speranze di tanti disoccupati che bazzicano in Via di Torre Argentina e che dall’elezione si sarebbero aspettati di essere assunti al Quirinale almeno come corazzieri. Immaginarsi i mal di pancia. «Perché la Gasparrini sì e io no?». «Cos’ha Di Palma ch’io non ho?». «Emma, tu sai che son poeta, potresti farmi avere la Bacchelli?».
Vabbe’, è andata come è andata, e ce ne siamo perse delle belle, peccato. E tuttavia qualche soddisfazione non mancherà di darcela la nomina che Emma Bonino ha ottenuto a ministro degli Esteri. Neanche il tempo di insediarsi alla Farnesina e già s’accordano gli strumenti per l’overture di quella che si annuncia una spassosa opera buffa.
Forse non avrebbe ottenuto neppure la tanto agognata nomina a senatore a vita: non sarebbe mancato chi avrebbe malignato che Galatea aveva voluto sdebitarsi di quanto doveva a Pigmalione, e Emma Bonino tollera tutto tranne l’imbarazzo. Per la stessa ragione sarebbero andate deluse anche le speranze di tanti disoccupati che bazzicano in Via di Torre Argentina e che dall’elezione si sarebbero aspettati di essere assunti al Quirinale almeno come corazzieri. Immaginarsi i mal di pancia. «Perché la Gasparrini sì e io no?». «Cos’ha Di Palma ch’io non ho?». «Emma, tu sai che son poeta, potresti farmi avere la Bacchelli?».
Vabbe’, è andata come è andata, e ce ne siamo perse delle belle, peccato. E tuttavia qualche soddisfazione non mancherà di darcela la nomina che Emma Bonino ha ottenuto a ministro degli Esteri. Neanche il tempo di insediarsi alla Farnesina e già s’accordano gli strumenti per l’overture di quella che si annuncia una spassosa opera buffa.
In primis, c’è un problemino di non semplice soluzione. Perché Emma Bonino diventa ministro di una Repubblica che fino all’altrieri è stata definita «antidemocratica» e «criminale», e lo diventa in un governo di «buoni a nulla» e «capaci di tutto», che ha avuto per ispiratore quel Giorgio Napolitano al quale sono andati per mesi da Radio Radicale i peggiori epiteti, tanto che quello di essere stalinista era il più soffice. E dunque che ci fa, questa preziosa gemma della storia radicale, in un castone così infame?
Buttiamo al cesso l’analisi della realtà italiana fin qui difesa con le unghie e con i denti da chi la riteneva un pochino esagerata? Non se ne parla nemmeno, siamo arrivati a cucirci sul bavero la stella gialla degli ebrei ad Auschwitz. E allora l’analisi resta valida e sarà che Emma Bonino è usata dall’odiato regime partitocratico come foglia di fico? Bisognerà dirglielo, così si dimette subito. Sì, vabbe’, era per dire, come non detto. O sarà che è stata chiamata a far parte del governo Letta perché non si è data troppa importanza al fatto che è radicale ma solo per le sue rinomate doti tecniche? Potrebbe anche andar bene, ma questo significherebbe ammettere che la radicale più riuscita, il pezzo più pregiato della collezione, è tale solo perché è riuscita a tenersi in disparte di quel tanto che le era necessario per non compromettersi troppo con le pazzie di Marco Pannella e non sgualcire troppo la propria immagine. No, sarebbe la spiegazione peggiore.
Significherebbe riconoscere che fino a un certo punto Marco Pannella può pure esserti utile a far carriera, ma poi, se non vuoi fare la fine di quanti ne hanno ferito il narcisismo, devi con pazienza ritagliarti un ruolo che, da un lato, non gli faccia troppo ombra e, dall’altro, ti dia modo di apparire, se non essere, tanto devoto quanto autonomo, ma di un’autonomia che non entri mai in conflitto con l’assunto che il padrone è lui e che tutto ciò che ottieni per te è in funzione della sua gloria. Solo Emma Bonino e Massimo Bordin ci sono riusciti e non a caso sono gli unici di cui Marco Pannella è fin qui riuscito a tollerare una popolarità che è di gran lunga superiore a quella di cui gode lui.
Stavolta, però, con Emma Bonino allo zenit della sua corsa nel cielo della politica italiana e con Marco Pannella che è al nadir della sua, le cose si fanno più complicate. Se ne sono avuti sintomi eloquenti, domenica 28 aprile, in due vivaci scambi di battute che Marco Pannella ha avuto con Emma Bonino, nel corso della Direzione di Radicali Italiani, e con Massimo Bordin, durante la consueta conversazione domenicale sulle frequenze di Radio Radicale.
Nel primo caso, Marco Pannella ha lamentato l’assenza di iniziativa radicale per le elezioni comunali di Roma e ha accennato all’idea di candidare Emma Bonino al Campidoglio che gli era venuta alcune settimane prima, idea abortita per il mancato interessamento di chi si sarebbe dovuto attivare in tal senso. Un modo come un altro per lasciare intendere che quella decisione sarebbe stata nella sua piena disponibilità.
Qualcosa di analogo era già accaduto con la presentazione delle liste di Amnistia, Giustizia e Libertà alle ultime elezioni politiche: Emma Bonino aveva inizialmente espresso l’intenzione di restarne fuori, per poi cedere alle pressioni di Marco Pannella, ma dicendosi disposta a entrarvi solo se fosse stata messa in coda a tutti gli altri candidati. Stavolta è andata in modo diverso.
Chi non conosce la cattiveria e la meschinità dell’uomo avrà afferrato poco. Marco Pannella si intesta il merito della nomina di Emma Bonino: è stato l’aver rotto il cazzo a Giorgio Napolitano per mesi e mesi ad aver prodotto il miracolo. Con lo 0,19% di voti raccolti alle ultime elezioni politiche ai radicali non manca il radicamento sociale, e grazie a chi? Ma è ovvio, grazie a lui, che lotta, lotta e lotta, e in mezzo a tante sfighe raccoglie ogni tanto una botta di culo. Ecco cos’è la nomina di Emma Bonino alla Farnesina: è il distillato delle fatiche di Marco Pannella. Certo, può darsi c’entri pure il fatto che Emma Bonino abbia dei meriti, ma senza l’eroica lotta di Marco Pannella cosa avrebbe ottenuto?
Di rilievo per nulla inferiore è la questione sollevata da Massimo Bordin, anzi, direi che è questione tanto centrale da meritare da parte radicale una posizione un po’ meno pasticciata di quella approntata al momento da Marco Pannella. Ed è anche su questo punto, forse soprattutto su questo punto, che i prossimi mesi ci riserveranno un divertentissimo spettacolo di piroette e contorsionismi da parte del Gran Barnum di Via di Torre Argentina. Perché è evidente che non è affatto facile far stare nella stessa narrazione la capra della dittatura partitocratica che attua una acerrima censura nei confronti dei radicali, in primo luogo nei confronti di Marco Pannella, col cavolo di una Emma Bonino, sua costola, nominata ministro. «Un felice infortunio del regime»? Gandhi ha fatto breccia nel cuore della Corona Britannica? Reggono cazzate del genere al quadro descritto nel Libro Giallo della Peste Italiana? Bah, può darsi, in ogni caso occorre crederci e per crederci occorre aver fede.
Buttiamo al cesso l’analisi della realtà italiana fin qui difesa con le unghie e con i denti da chi la riteneva un pochino esagerata? Non se ne parla nemmeno, siamo arrivati a cucirci sul bavero la stella gialla degli ebrei ad Auschwitz. E allora l’analisi resta valida e sarà che Emma Bonino è usata dall’odiato regime partitocratico come foglia di fico? Bisognerà dirglielo, così si dimette subito. Sì, vabbe’, era per dire, come non detto. O sarà che è stata chiamata a far parte del governo Letta perché non si è data troppa importanza al fatto che è radicale ma solo per le sue rinomate doti tecniche? Potrebbe anche andar bene, ma questo significherebbe ammettere che la radicale più riuscita, il pezzo più pregiato della collezione, è tale solo perché è riuscita a tenersi in disparte di quel tanto che le era necessario per non compromettersi troppo con le pazzie di Marco Pannella e non sgualcire troppo la propria immagine. No, sarebbe la spiegazione peggiore.
Significherebbe riconoscere che fino a un certo punto Marco Pannella può pure esserti utile a far carriera, ma poi, se non vuoi fare la fine di quanti ne hanno ferito il narcisismo, devi con pazienza ritagliarti un ruolo che, da un lato, non gli faccia troppo ombra e, dall’altro, ti dia modo di apparire, se non essere, tanto devoto quanto autonomo, ma di un’autonomia che non entri mai in conflitto con l’assunto che il padrone è lui e che tutto ciò che ottieni per te è in funzione della sua gloria. Solo Emma Bonino e Massimo Bordin ci sono riusciti e non a caso sono gli unici di cui Marco Pannella è fin qui riuscito a tollerare una popolarità che è di gran lunga superiore a quella di cui gode lui.
Stavolta, però, con Emma Bonino allo zenit della sua corsa nel cielo della politica italiana e con Marco Pannella che è al nadir della sua, le cose si fanno più complicate. Se ne sono avuti sintomi eloquenti, domenica 28 aprile, in due vivaci scambi di battute che Marco Pannella ha avuto con Emma Bonino, nel corso della Direzione di Radicali Italiani, e con Massimo Bordin, durante la consueta conversazione domenicale sulle frequenze di Radio Radicale.
Nel primo caso, Marco Pannella ha lamentato l’assenza di iniziativa radicale per le elezioni comunali di Roma e ha accennato all’idea di candidare Emma Bonino al Campidoglio che gli era venuta alcune settimane prima, idea abortita per il mancato interessamento di chi si sarebbe dovuto attivare in tal senso. Un modo come un altro per lasciare intendere che quella decisione sarebbe stata nella sua piena disponibilità.
Qualcosa di analogo era già accaduto con la presentazione delle liste di Amnistia, Giustizia e Libertà alle ultime elezioni politiche: Emma Bonino aveva inizialmente espresso l’intenzione di restarne fuori, per poi cedere alle pressioni di Marco Pannella, ma dicendosi disposta a entrarvi solo se fosse stata messa in coda a tutti gli altri candidati. Stavolta è andata in modo diverso.
Chi non conosce la cattiveria e la meschinità dell’uomo avrà afferrato poco. Marco Pannella si intesta il merito della nomina di Emma Bonino: è stato l’aver rotto il cazzo a Giorgio Napolitano per mesi e mesi ad aver prodotto il miracolo. Con lo 0,19% di voti raccolti alle ultime elezioni politiche ai radicali non manca il radicamento sociale, e grazie a chi? Ma è ovvio, grazie a lui, che lotta, lotta e lotta, e in mezzo a tante sfighe raccoglie ogni tanto una botta di culo. Ecco cos’è la nomina di Emma Bonino alla Farnesina: è il distillato delle fatiche di Marco Pannella. Certo, può darsi c’entri pure il fatto che Emma Bonino abbia dei meriti, ma senza l’eroica lotta di Marco Pannella cosa avrebbe ottenuto?
Beh, stavolta Emma Bonino ha da obiettare, e lo fa nel modo che sa bene risulterà più urticante: destituisce di ogni fondamento questa versione, prende le distanze, mette le mani avanti e si prende pure la soddisfazione, in coda, di indicare nella collaborazione coi socialisti di Riccardo Nencini una linea politica che potrebbe significare la ripresa del progetto della Rosa nel Pugno, di cui Marco Pannella non vuol nemmeno sentir parlare.
Di rilievo per nulla inferiore è la questione sollevata da Massimo Bordin, anzi, direi che è questione tanto centrale da meritare da parte radicale una posizione un po’ meno pasticciata di quella approntata al momento da Marco Pannella. Ed è anche su questo punto, forse soprattutto su questo punto, che i prossimi mesi ci riserveranno un divertentissimo spettacolo di piroette e contorsionismi da parte del Gran Barnum di Via di Torre Argentina. Perché è evidente che non è affatto facile far stare nella stessa narrazione la capra della dittatura partitocratica che attua una acerrima censura nei confronti dei radicali, in primo luogo nei confronti di Marco Pannella, col cavolo di una Emma Bonino, sua costola, nominata ministro. «Un felice infortunio del regime»? Gandhi ha fatto breccia nel cuore della Corona Britannica? Reggono cazzate del genere al quadro descritto nel Libro Giallo della Peste Italiana? Bah, può darsi, in ogni caso occorre crederci e per crederci occorre aver fede.
Ma la nomina di Emma Bonino alla Farnesina solleva anche altri problemi, già tutti evidenti, seppure in trasparenza, dalla notevole disparità di pareri in seno al gruppo dirigente radicale riguardo a ciò che è in gioco con la sua assunzione di responsabilità istituzionale in un momento politico come quello attuale e nell’ambito di un governo che rappresenta un’incognita sotto vari aspetti. Occorre dare appoggio solo a lei o anche al governo? Chi è per l’una, chi è per l’altra soluzione. Ne è parte integrante o è un’infiltrata della resistenza radicale in seno al regime partitocratico? Chi pensa vada bene la prima, chi dà per buona la seconda.
Qui si ripropongono le stesse questioni poc’anzi illustrate, ma acquistano un significato che va ben oltre la costruzione dell’immagine da offrire all’esterno: qui è in discussione quanto Emma Bonino possa tornar utile alle iniziative politiche radicali nella sua azione di governo. Sì, perché
la «cosa radicale»
non galleggia in buone acque.
Qui occorre stringere i nodi. In estrema sintesi direi che la Farnesina a Emma Bonino sarà un fattore di accelerazione di quel lento processo implosivo di cui la «cosa radicale» soffre ormai da tempo.
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