martedì 14 maggio 2013

[...]


Solo Napolitano poteva tenere a battesimo un governo come quello in carica, ed è per questo che chi nel Pd voleva un’alleanza con Berlusconi ha dovuto bruciare Marini e Prodi, escludendo a priori l’appoggio a Rodotà. L’idea è venuta appena il risultato elettorale ha fatto cadere il sogno di portare Bersani a Palazzo Chigi, ma forse era già in fieri da prima che si andasse al voto, da quando si era cominciato a capire che al Senato sarebbero mancati i numeri, però la speranza di rabberciare la maggioranza col voto di qualche transfuga del M5S non le dava ancora la forza che avrebbe acquistato il 26 febbraio. Lì si è deciso di darle corpo, e a qualsiasi prezzo. Il tradimento del mandato elettorale si sarebbe consumato in modo palese, la base del partito si sarebbe lacerata, l’alleanza con Sel sarebbe saltata: tutto questo si sapeva, ma lo stesso si è deciso di dar vita a un governo al quale Berlusconi avrebbe potuto staccare la spina in ogni momento, quando gli sarebbe tornato comodo, senza perdere neanche un voto. Non c’erano alternative? Più corretto dire che sono state scartate tutte: l’obiettivo era il governo che in campagna elettorale si era solennemente escluso potesse nascere. Quale logica ha sostenuto questa linea?  
Io penso che la regia dell’operazione abbia la chiara impronta di quella «destra comunista», già tutta in embrione nella «svolta di Salerno», che portò Togliatti all’alleanza con Badoglio e Casa Savoia. Il fatto che quella «svolta» rispondesse unicamente agli interessi di Stalin, e che Togliatti si sia limitato ad obbedire agli ordini partiti dal Cremlino, passa in secondo piano per Mario Pirani (la Repubblica, 14.5.2013), che pure risale a quel periodo per spiegarsi la logica che ha dato vita al governo Letta. Ora, è vero, la storia non concede controprove, ma sappiamo che Togliatti fu sempre supino ai voleri di Stalin: è azzardato immaginare che, se a Mosca fosse tornato comodo che il Pci imboccasse la via insurrezionale, Togliatti non avrebbe mai teorizzato alcuna «via italiana al socialismo», Secchia non avrebbe mai lasciato il posto ad Amendola al quarto piano del Bottegone, Napolitano e i miglioristi sarebbero stati strozzati in culla, ammesso e non concesso che avessero potuto emettere un vagito? Non ha senso discutere del passato ricorrendo ai «se», d’accordo, ma una cosa è certa: la «svolta di Salerno» fu la madre di tutti i successivi tentativi, riusciti o falliti, che il Pci mise in atto per arrivare nella mitica «stanza dei bottoni», e fu sempre evocata, in primo luogo dai suoi dirigenti, come una scelta coraggiosa di maturità politica contro ogni velleitarismo e ogni avventurismo. Non mancò mai, d’altronde, chi nella linea decisa da Togliatti nel 1944 vide la prima grande prova del suo cinismo, il primo dei tanti tradimenti che la dirigenza del Pci avrebbe consumato ai danni dei suoi militanti e dei suoi elettori. Tutto sommato, è un errore, perché già nel 1936, quando il regime fascista sembrava indistruttibile, Togliatti gli offriva collaborazione dalle pagine di Stato Operaio: «Noi tendiamo la mano ai fascisti, nostri fratelli… Siamo disposti a combattere assieme a voi e a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919». 
Anche nel comunista più ripulito persiste incoercibile la tentazione al compromesso con quello che è indicato come peggior nemico del popolo fino a quando c’è speranza di sconfiggerlo e annientarlo. Naturalmente parlo del comunista che abbia responsabilità dirigenziali e che il crollo del muro di Berlino ha impreziosito con un «post»: parlo del post comunista che sta al Quirinale o in Largo del Nazareno. Fino a quando Berlusconi è stato con un piede nella fossa, la sua demonizzazione era uno strumento eccezionale per galvanizzare militanti ed elettori, per fare incetta di voti di quanti volevano sbarazzarsi della mostruosa atipia. Poi, quando sfuma il sogno di poterlo impiccare a testa in giù, ecco l’impellente bisogno di un governo di «coesione nazionale», di una «große Koalition», lamentando «il fatto – e qui cito Napolitano – che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse», «segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche». Di colpo, l’elettore che votava Pd per mero antiberlusconismo, convinto che quello fosse il voto utile, diventa un bruto, o come minino un incolto che nulla sa della politica come arte del possibile.
«Quando si ricordano queste cose agli odierni contestatori – scrive Pirani – essi obiettano che la coerenza di quegli anni era fattibile con un partito ferreamente disciplinato ed egemonizzato dal suo capo. Ma non era così. Come i pochi superstiti di quell’epoca possono testimoniare, la lotta per affermare la linea togliattiana di unità nazionale fu asperrima nel Pci e traversò, almeno fino al 1948, la sua trasformazione in “partito nuovo”. Quella fase fu accompagnata da polemiche dure per convincere alla “linea” le organizzazioni meridionali che risentivano del plebeismo rivoltoso della base cui faceva da contrappunto il settarismo di ascendenza partigiana nel centro nord. Solo un convinto, continuo, diffuso impegno pedagogico poteva avere la meglio sulle derive di sinistra e sulle resistenze dei vecchi quadri». Tutto vero, ma Pirani sorvola sulla natura di quell’«impegno pedagogico»: in sostanza consisteva nell’educare i quadri dirigenti a mentire ai militanti e i militanti ad adeguarsi ad ogni mutamento tattico senza farsi troppe domande. 

8 commenti:

  1. Si dimentica qui di menzionare che al momento della svolta di Salerno l'Italia "liberata" era pur sempre soggetta all'occupazione alleata. In Grecia gli inglesi (edotti dall'esperienza jugoslava) non avevano esitato a intervenire militarmente contro l'insurrezione comunista: pare dunque ragionevole ritenere che anche in Italia un eventuale guerra civile avrebbe visto gli alleati schierati dalla parte della monarchia.

    RispondiElimina
  2. Senza risalire tanto indietro, Napolitano era capogruppo alla Camera quando il PCI salvava Andreotti dalla messa in stato d'accusa.

    RispondiElimina
  3. Milioni di italiani che di generazione in generazione continuano ad adeguarsi. E ora votano Pd convinti che sia un partito di sinistra. Quelli che io ormai ho cominciato a chiamare i tifosi della politica. Fanno il tifo per un partito a prescindere da idee, programmi, obiettivi e risultati.

    RispondiElimina
  4. E quindi il rigetto del Bordighismo non solo come ulteriore affermazione della subiezione a Stalin ma rifiuto snobistico del plebeismo rivoluzionario, penso io, un pò a braccio. Il punto mi pare, è che per trattare la storia del PCI e delle sue mostruose crisalidi occorra l'asepsi di un entomologo kafkiano, o San Michele con la benda agli occhi. Almeno San Giuda si è impiccato da sè stesso, con una dignità irraggiungibile dai sicofanti piddini.
    Saluti

    RispondiElimina
  5. Lettore fedele dei tuoi scritti perfetti, ti segnalo una svista in questo post:

    Secchia non avrebbe mai lasciato il posto ad Amendola al quarto piano del Bottegone, Napolitano e *gli* miglioristi

    Saluti

    RispondiElimina
  6. Grazie mille, scrivo di getto, raramente rileggo e qui l'intenzione era di scrivere "gli amendoliani, ecc.".

    RispondiElimina
  7. A proposito dell'osservazione "perché già nel 1936, ..." faccio presente che anche nel 1939 quando hitler e stalin assieme attaccavano la polonia Togliatti....
    Perché vale la pena di ricordare che gli italiani fascisti, i tedeschi nazisti e i russi comunisti furono alleati dal 30 agosto del 39 al 20 giugno del 41.

    RispondiElimina