giovedì 23 maggio 2013

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Giusto sessantasei anni fa, il 23 maggio 1947, l’Assemblea Costituente discuteva di quello che nel testo provvisorio redatto dalla Commissione per la Costituzione era il secondo comma dell’art. 50 (nella stesura definitiva sarebbe diventato l’art. 54), che così recitava: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino».
Superfluo dire che il comma fu soppresso, ma è interessante riandare all’argomento che in quella sede fu vincente in tal senso, e che in buona sostanza si riassume nell’intervento tenuto da Pietro Mastino: «Se è concepibile, sotto un punto di vista non solo dottrinario, il diritto alla resistenza e alla ribellione dell’individuo, è veramente audace fissare in una Costituzione, come diritto costituzionale, quello della resistenza e della ribellione collettiva. […] Concetti del genere sorsero sempre dopo periodi di rivoluzione, quando il popolo credette di potere trionfalmente affermare la propria vittoria. […] È ben naturale che oggi, dopo che l’Italia è risorta dal travaglio, dai sacrifici e dalla barbarie del periodo fascista, un concetto del genere riappaia anche nella nostra Costituzione. […] L’importante però è che noi questo concetto vogliamo affermarlo come diritto di resistenza politica. E io dico che dobbiamo affermarlo, ma sotto un’altra forma, e precisamente in quella che mi pare chiaramente espressa nell’emendamento che ho presentato, e cioè: “Ogni cittadino ha l’obbligo di difendere contro ogni violazione le libertà fondamentali, i diritti garantiti dalla Costituzione e l’ordinamento dello Stato”. Non è tanto un diritto, quanto un dovere; non è tanto un diritto accordato nell’interesse dell’individuo, quanto un dovere imposto nell’interesse della collettività. Soprattutto questo, onorevoli colleghi, porta ad una conseguenza pratica molto chiara, della quale dobbiamo sommamente preoccuparci: evitare la possibilità che sotto il pretesto della violazione delle libertà fondamentali e dei diritti garantiti dalla Costituzione si pretenda di sovvertire lo Stato, intendendo per Stato la Repubblica».
Ora, ciò che il secondo comma contemplava come diritto del cittadino non era l’insurrezione antirepubblicana, ma la resistenza all’oppressione dei pubblici poteri, laddove essi fossero responsabili del tradimento dei principi costituzionali: in altri termini, chiamava il cittadino all’esercizio attivo di una sorveglianza sul rispetto della Costituzione da parte dei rappresentanti dei poteri pubblici, ma non eludeva affatto il concetto che tale esercizio, per usare le parole di Pietro Mastino,«non [fosse] tanto un diritto accordato nell’interesse dell’individuo, quanto un dovere imposto nell’interesse della collettività». Non è difficile cogliere, dunque, ciò che parve «audace» in quel comma: vi era contemplata l’eventualità che il rispetto della Costituzione potesse venir meno da parte di chi aveva la possibilità materiale di violarne le norme o di disattenderne le indicazioni grazie al potere che gli era stato democraticamente conferito. Cosa possibile, ma difficile da mettere nero su bianco, e per ovvie implicazioni.
Le esplicitò Fracesco Colitto: «Non vi è dubbio che la norma si riferisce anzitutto al potere esecutivo. Ora certamente il cittadino ha sempre il diritto di opporsi al pubblico funzionario che, travalicando i limiti segnati dalla legge, conculchi il diritto del cittadino. […] Ma pubblici poteri sono anche il potere giudiziario ed il potere legislativo. Ora, in che cosa consiste il diritto di resistenza, allorché il pubblico potere è il potere giudiziario o quello legislativo? Il cittadino, secondo la norma di cui ci stiamo occupando, avrebbe non solo il diritto, ma addirittura il dovere di opporsi ad essi ove egli ritenesse di trovarsi di fronte ad una violazione di diritti garantiti dalla Costituzione? […] Contro la sentenza del magistrato io non vedo che i gravami tassativamente indicati dalla legge e contro la legge non so concepire resistenze di nessun genere. Per la legge non c’è, a mio modesto avviso, che l’obbedienza. […] Cosa significa che il cittadino ha il diritto di resistere alla legge? Può egli mai diventare il giudice del legislatore ed agire di conseguenza? […] Che interpretazione bisogna dare della norma, quando la si considera in relazione a quei particolari diritti, pure consacrati nella Costituzione? Si pensi al diritto al lavoro riconosciuto dalla Repubblica a tutti i cittadini; all’impegno, assunto dalla Repubblica, di assicurare alla famiglia le condizioni economiche necessarie, non solo alla sua formazione, ma al suo sviluppo; al diritto riconosciuto agli inabili al lavoro, sprovvisti dei mezzi necessari alla vita, di avere il mantenimento e l’assistenza sociale. Ora, nell’ipotesi in cui la Repubblica non abbia la possibilità di mantenere questi impegni, non abbia, cioè, la possibilità di pagare tante cambiali firmate in bianco, il cittadino avrà il diritto e il dovere, come dice la norma, di insorgere contro i pubblici poteri? Potrà insorgere contro il Parlamento, perché non fa le leggi, o contro il Governo, perché non le attua? A tutti questi interrogativi non avendo saputo trovare risposta convincente, noi abbiamo affermato, occupandoci di questo articolo, che ci sembra che esso consacri il diritto alla ribellione. Ed ecco perché ne chiediamo la soppressione. La sua applicazione pratica, nella realtà della vita, che è quella che è, e non quella che dovrebbe essere, potrebbe dar luogo a tali inconvenienti, a così strane ed impensate applicazioni, che certamente ne deriverebbe danno per la compagine sociale, che la Costituzione mira, invece, in ogni momento a salvaguardare».

La Costituzione è bella ma non sempre è applicabile, e poi  la vita è quella che è, vogliamo autorizzare il cittadino a prendersela con i poteri pubblici? Non sia mai detto. Non stupisce, dunque, giusto  sessantasei anni dopo, l’affermazione di Giuliano Pisapia («La violenza non è, non può mai essere di sinistra» –  la Repubblica, 23.5.2013): è sindaco, e a nessun sindaco piace affacciarsi al balcone e trovarci sotto una folla in subbuglio, meno che mai se il sindaco si dice di sinistra, e la folla pure. D’altronde non è il primo degli ultimi comunisti a ripudiare il subbuglio: «Oggi il massimo di radicalità si può esprimere solo con la nonviolenza – diceva Fausto Bertinotti – altrimenti […] diventa la fine della politica» (Nonviolenza, Fazi Editore 2004). Quell’«oggi»  ci aveva tanto intenerito: era una foglia di fico sulla tradizione marxista-leninista della violenza come «levatrice della storia». Poi, sentendolo dire che la nonviolenza non era solo possibile ma addirittura necessaria, perché, «se oggi dovessimo accettare la violenza, essa ammazzerebbe soprattutto noi», la foglia di fico era caduta: è che al marxismo-leninismo era diventato molto piccolo.
«I poteri pubblici violano le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione»? Che resta da fare a chi pensava di essere di sinistra, ma scopre che il diritto di resistenza all’oppressione dei pubblici poteri, per essere di sinistra, può essere solo nonviolenta, e, quando nonviolenta, è inefficace? «Cosa significa che il cittadino ha il diritto di resistere alla legge»? E a quale legge, eventualmente? E come?

La legge – la norma, la regola – ha due soli modi per venire al mondo: scendere dall’alto, in forma di precetto, o salire dal basso, in forma di convenzione. Nel primo caso, viene al mondo indicando un modello al quale è necessario adeguarsi perché espressione di un Vero, di un Giusto e di un Bello che sono superiori e antecedenti all’uomo, eterni, immutabili, indiscutibili. Nel secondo caso, invece, nasce come patto per rendere possibile la convivenza tra individui che differiscono tra loro, anche sensibilmente, per ciò che ritengono vero, giusto e bello. Nel primo caso, dunque, la legge avrà per fine una reductio ad unum: tenderà a omologare indoli, gusti e opinioni. Nel secondo caso, lascerà che gli individui conservino la loro individualità, salvo che quanto espresso da quella di ciascuno non sia di nocumento a quella altrui.
Non è difficile capire che tipo di società sia quella che si regge sulla legge come precetto, d’altronde è quella che conosciamo meglio. Solo da pochi secoli, infatti, si va facendo largo, e a fatica, l’idea che il Vero, il Giusto e il Bello altro non siano che il vero, il giusto e il bello secondo l’indole, il gusto e l’opinione di un’oligarchia, e che il modello al quale sarebbe necessario adeguarsi per rispettarli altro non è che l’espediente per consentire a chi vi appartiene di non perdere i propri privilegi. È per questo che la legge come convenzione trova enormi resistenze, né è detto che riuscirà a vincerle, perché l’interesse del più forte trova spesso un ottimo aiuto nella soggezione del più debole, premiata per millenni dalla legge come precetto.
Siamo capitati nel bel mezzo di questo scontro, noi contemporanei: da un lato, la strenua resistenza di un’oligarchia che non sembra affatto intenzionata a rinunciare ai propri privilegi, anzi, disposta in apparenza a rinunciare a tutti i propri privilegi tranne che a quello di decidere cosa sia il Vero, il Giusto e il Bello, perché in fondo è da questo privilegio che discendono tutti gli altri; dall’altro, la sempre meno timida offensiva delle moltitudini che hanno scoperto che la democrazia è stata tradita.

5 commenti:

  1. Sono contento quando leggo post così perché precisano, contestualizzano, danno ordine ai miei confusi pensieri sulla materia in oggetto.
    Nondimeno, l'apprendere che in Assemblea Costituente si erano posti certi temi (pur depennandoli), fa sobbalzare al pensiero di coloro che oggi miseramente tentano di modificare, sicuramente in peggio, la Costituzione, senza avere dalla propria una briciola della tensione intellettuale e morale che animò i Costituenti.

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  2. Finalmente anche Malvino prende atto!
    ZP

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  3. Tutto condivisibile ma a questo punto la domanda è: da chi è composta questa oligarchia? E soprattutto: i suoi componenti sono consapevoli di farne parte o è proprio perché non lo sono che l'inganno democratico si perpetua?

    6iorgio

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  4. Bel post.

    La discussione dei costituenti intorno alla possibilità di prevedere la resistenza e la ribellione, dando all'ordinamento repubblicano la completezza necessaria per affrontare reflussi fascisti, e al contempo di dargli consistenza interna, mi ricorda il teorema di Goedel in logica matematica, che afferma che all'interno di un generico sistema assiomatico non si può derivare una dimostrazione della coerenza del sistema stesso, e che esso è incompleto, cioè ammette affermazioni "giuste" ma indimostrabili (come, per me, è "giusto" che la costruzione del TAV venga interrotta, ma è un'affermazione indimostrabile (perché inascoltata) nel nostro sistema e richiede, per essere supportata, di estendere il dominio del praticabile oltre i confini previsti dal sistema).

    L'imposizione di un nuovo ordinamento, e il cambiamento della legge, prevedere sempre un atto di violenza, che sia quello di un oligarca su una moltitudine, o di una quasi-totalità ad una singola persona. I tentativi di edulcorare la pillola da parte dei filosofi del diritto mi ha sempre fatto tenerezza, ma è un atto eroico (perché inutile e fallimentare), come quello di trovare una teoria del tutto.

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  5. Molto interessante. Ci vedo solo un punto che non funziona: una frase come

    «Che resta da fare a chi pensava di essere di sinistra, ma scopre che il diritto di resistenza all’oppressione dei pubblici poteri, per essere di sinistra, può essere solo nonviolenta, e, quando nonviolenta, è inefficace?»

    implica necessariamente, a mio avviso, che non si conosca veramente la natura e il funzionamento della nonviolenza. Interpretare la nonviolenza come un "atto rinunciatario" privo di efficacia politica è un errore, perché è esattamente il contrario. E' molto complesso e impegnativo applicare appieno i principi della nonviolenza, e al contempo è estremamente efficace.

    Consiglio a tutti di studiare l'argomento, perché è veramente interessante, e apre gli occhi su tante cose. Gli scritti di Gandhi sono certamente un ottimo punto di partenza.

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