martedì 21 maggio 2013

«Per ovvie ragioni di opportunità»


Tra un cattolico che obbedisce al Papa e un cattolico che obbedisce alla propria coscienza – è distinzione che s’è venuta a creare da quando il modernismo ha illuso certi cattolici che sia possibile pensare con la propria testa rimanendo cattolici – io preferisco il primo, senza alcun dubbio. È bello vederlo arrampicarsi sugli specchi per dare un senso a quell’obbedienza che non di rado è costretta a zigzagare da papato a papato, oggi a calcare l’accento sulla verità e domani sulla carità, l’altrieri sull’evangelizzazione come progetto culturale e dopodomani come testimonianza disarmata, sempre affannato ma sempre molto motivato, come uno stercorario che per nessuna ragione al mondo molla la sua pallina di merda. Il cattolico cosiddetto adulto, invece, mi fa pena. Dovrebbe sapere bene che non conta un cazzo, che al dunque è costretto a scegliere tra l’eresia o il ficcarsi la lingua in culo, e tuttavia ci prova: è convinto di poter decidere per sé, anzi, spesso pretende di spiegare al Papa come si fa il Papa. È che ha studiato, poverino, e ha maturato opinioni in campo teologico che quasi sempre hanno il verme dentro; spontaneamente – e spesso, ahilui, incoercibilmente – gli spuntano in testa progetti di ecclesiologia che fanno orripilare le gerarchie; soprattutto – ed è il peggio – ha quasi sempre la mania dell’autonomia dei cattolici in politica, che è come dire a quelli della Segreteria di Stato Vaticano: «Silete theologi in munere alieno». Più che naturale si ritrovi con le tibie rotte. Dossetti, per esempio. Se non fosse stato cattolico, avrebbe potuto con profitto applicare il metodo leninista all’azionismo, e avrebbe fatto la sua porca figura, tra Evola e Bordiga, sull’album delle nostre patrie figurine. E invece gli andò male, com’era ovvio. Con la coda tra le gambe, via, in convento. Tutto il contrario di Andreotti, che però partiva avvantaggiato dall’avere tutte le ambizioni tranne quella di millantare una coscienza tutta sua, poi maturò del tutto con la lezione di cosa accade a un De Gasperi quando si azzarda a dire no a Pio XII.

Tornando a Dossetti. È arrivato in libreria da qualche mese un delizioso libricino di Alberto Melloni (Dossetti e l’indicibile, Donzelli Editore 2013), appassionato studio di un cattolico adulto su un cattolico adulto, indagine sul numero di Cronache sociali che doveva uscire alla vigilia dell’elezioni politiche del 1948, e non uscì mai. Sarebbe stato dirompente, pare. Avrebbe posto «in maniera tagliente» – assicura Melloni – «il nodo teologico, canonico e politico dell’autonomia dei cattolici impegnati nella vita pubblica». Puf, scomparso, c’è voluto lo scavo del Melloni per riportare alla luce una decina degli articoli che avrebbero dovuto essere su quel numero. Come mai quel numero di Cronache sociali non vide mai la luce?



Melloni non sa dare una risposta, si limita a dire che  «chi oggi legga quel quaderno» non può fare a meno di avvertire l«indicibile pressione [che quegli scritti esercitavano] sul sistema ecclesiastico». Può darsi. Di fatto, in un’antologia della rivista (Cronache sociali 1947-1951, Landi Editore 1961) trovo a pag. 1073 (vol. II) una nota della curatrice, Marcella Glisenti, figlia di quel Giuseppe Glisenti che ne fu il direttore, e che proprio a quel fascicolo fa riferimento.


Così pare che l’«indicibile pressione sul sistema ecclesiastico» causò una prudentissima autocensura: timore di premere troppo, probabilmente. O paura di ritrovarsi spremuti? 



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